Archivio del Tag ‘Matteo Renzi’
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Un Macron italiano: i poteri forti vogliono sostituire Renzi
Girano voci, riprese da giornali come il “Foglio”, su chi potrebbe essere il Macron italiano in un prossimo futuro. I nomi più gettonati sono tre: lo scontatissimo Mario Draghi, il ministro dell’interno Marco Minniti e l’editore Urbano Cairo. «Dire Macron – sottolinea Aldo Giannuli – significa dire una cosa: un nuovo partito “liquido” (anzi gassoso) che si presenti come “né di destra né di sinistra”, ma “della nazione”, raccolto intorno ad un personaggio con simpatie trasversali e che si presenti in rottura delle tradizioni politiche precedenti». Di solito, aggiunge il politologo dell’ateneo milanese, «questi discorsi preparano un partito di destra», sostanzialmente «tutto interno al sistema neoliberista», non nuovo ma «solo ben truccato». Ma chi potrebbe interpretare questo ruolo? E con quali probabilità di successo? Soprattutto: che impatto ha già, sul sistema, il semplice fatto che se ne parli? Per Giannuli, in pole position è saldamente il supremo tecnocrate della Bce, che Gioele Magaldi (nel libro “Massoni”, del 2014) presenta come autorevole leader della supermassoneria internazionale reazionaria, espressione dell’élite neo-feudale che, con l’ideologia del rigore, ha azzerato gli storici diritti sociali conquistati negli anni ‘70.Minniti? «Sembra solo una boutade», scrive Giannuli nel suo blog. «Anche se Macron non era esattamente vergine di impegno politico, essendo stato più volte ministro, Minniti è una vecchia stella del varietà che calca le scene da un quarto di secolo: a spacciarlo per nuovo non riuscirebbe nemmeno Paolo Rossi in preda al brandy». E poi il ministro dell’interno «non ha nemmeno “le phisique du role”: dote essenziale di questi nuovi politici è di essere giovani e bellocci». La vera novità sarebbe invece Cairo, che non è giovanissimo ma «ha un esercito mediatico dietro le spalle, una immagine di successo». Inoltre «non si è mai compromesso né a destra né a sinistra (o meglio: né con Berlusconi né con Renzi) e potrebbe andar bene per tutte le stagioni». Ma sia Draghi che Cairo, aggiunge Giannuli, non è detto che ci stiano: il primo potrebbe puntare verso il Fmi o altro incarico finanziario di livello mondiale, il secondo «potrebbe avere la tentazione di essere un nuovo Murdoch e consolidare a livello europeo il suo ruolo di grande tycoon: e fare il presidente del Consiglio in Italia, con i tempi che arrivano, non è che sia una prospettiva così eccitante».Possibilità di successo della manovra? «Intanto dobbiamo vedere quanto dura la popolarità del Macron originale, cosa della quale è lecito dubitare», continua Giannuli. «Ma poi, sono anni che dura questa infatuazione esterofila degli italiani che di volta in volta hanno cercato il Blair italiano, il Sarkozy italiano, lo Zapatero italiano, persino lo Tsipras italiano (e qualcuno ci ha addirittura intestato la sua lista elettorale), ma la cosa non ha mai prodotto particolari risultati, proprio per il carattere artificiale ed effimero del tentativo». Copione che non cambierà nemmeno stavolta: probabilmente sforneranno «un prodotto vendibile fra gli elettori italioti», la platea del “Partito della Nazione” già ventilato da Renzi. Piuttosto, Giannuli si concentra sul motivo di queste voci insistenti: può significare che «i poteri forti e le centrali di sistema non si fidino più di Renzi e diano per spacciato Berlusconi che, con i suoi 80 suonati, non ha più prospettive neanche di medio periodo». Si cerca «qualcosa di apparentemente nuovo, che rompa anche con l’ombra delle tradizionali famiglie politiche», considerando che «i partiti della Seconda Repubblica furono pallide imitazioni di quelli della Prima».La vera novità, ragiona Giannuli, «è la liquidazione dei partiti come forme di partecipazione organizzata stabilmente sul territorio, sostituiti dal ruolo di personalità apparentemente carismatiche». Ma oggi nessuno degli aspiranti a questo ruolo sarebbe pronto per le prossime elezioni, per cui «la prossima legislatura sarà solo un intermezzo per permettere la costituzione dei nuovi soggetti e sgombrare il terreno da quelli attuali». Tutto questo, conclude Giannuli, «ha come suo avversario dichiarato il M5S (il “populismo” italiano)». Ma la manovra di riassetto dei poteri forti «probabilmente si avventerà prima di tutto sulla Lega, la cui presenza è di forte disturbo ad una operazione del genere». In altre parole, queste «sono le doglie del parto della Terza Repubblica». E nessuno (a parte Salvini con i suoi slogan) si prenota per l’unica vera battaglia utile: affrontare di petto la distorsione dell’assetto Ue, con Bruxelles che impone agli Stati i suoi diktat, suggeriti dall’élite finanziaria. Lo stesso Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, sta pensando a un nuovo soggetto politico, il Partito Democratico Progressista, guidato da un economista come Nino Galloni. «La prima cosa da fare? Eliminare il pareggio di bilancio dalla Costituzione, andare a Bruxelles e dire, a muso duro: o riscriviamo i trattati europei, o l’Italia abbandona l’Ue».Girano voci, riprese da giornali come il “Foglio”, su chi potrebbe essere il Macron italiano in un prossimo futuro. I nomi più gettonati sono tre: lo scontatissimo Mario Draghi, il ministro dell’interno Marco Minniti e l’editore Urbano Cairo. «Dire Macron – sottolinea Aldo Giannuli – significa dire una cosa: un nuovo partito “liquido” (anzi gassoso) che si presenti come “né di destra né di sinistra”, ma “della nazione”, raccolto intorno ad un personaggio con simpatie trasversali e che si presenti in rottura delle tradizioni politiche precedenti». Di solito, aggiunge il politologo dell’ateneo milanese, «questi discorsi preparano un partito di destra», sostanzialmente «tutto interno al sistema neoliberista», non nuovo ma «solo ben truccato». Ma chi potrebbe interpretare questo ruolo? E con quali probabilità di successo? Soprattutto: che impatto ha già, sul sistema, il semplice fatto che se ne parli? Per Giannuli, in pole position è saldamente il supremo tecnocrate della Bce, che Gioele Magaldi (nel libro “Massoni”, del 2014) presenta come autorevole leader della supermassoneria internazionale reazionaria, espressione dell’élite neo-feudale che, con l’ideologia del rigore, ha azzerato gli storici diritti sociali conquistati negli anni ‘70.
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Magaldi: piango, per questa miserabile politica italiana
Legge elettorale col sistema tedesco? C’è un’invasione di personaggi e culture politiche tedesche: l’Italia sembra tornata a prima della Seconda Guerra Mondiale, quando l’influenza tedesca è stata sinistramente egemone. Oggi, al posto del truculento argomentare di Hitler abbiamo questa apparente pacioccona, questa ragazzotta tedesca ormai invecchiata, che però mette insieme il cinismo di alcuni ambienti dell’ex Germania Est con il peggio delle tendenze imperialiste di lungo corso della Germania, che precedono anche Hitler e la stagione del nazismo. Dopo aver mutuato l’austerità e avere introiettato tutte le “frescacce” che ci sono state propinate, in termini di dottrine economiche disutili per il popolo italiano e per l’Europa, utili solo per una Germania fattasi tramite di poteri sovranazionali, adesso ci viene proposta anche una legge elettorale simile a quella tedesca, proporzionale, con sbarramento al 5%. Quindi non sarebbe un proporzionale vero, che fotografi le articolazioni politiche come fu nella nostra Prima Repubblica, con partiti dignitosissimi con una storia culturale e ideologica importante, magari sotto il 5% ma che fecero cose anche egregie.No, viene proposto questo perché, evidentemente, è un sistema che – come qualcuno ha già detto – in Germania ha prodotto “grosse coalizioni” quasi sempre, mettendo in difficoltà il singolo partito o una colazione netta di governo. Dunque non produce vere alternanze, ingessa il sistema politico e forse è proprio questo il punto: qualcuno pensa che questo ingessamento sia necessario per neutralizzare il Movimento 5 Stelle. D’altra parte, si osserva che lo stesso Grillo, insieme a qualcuno dei pentastellati, potrebbe auspicare questo sistema, perché favorirebbe il nuovo abbraccio tra Berlusconi, Renzi e tutti quanti. Ma stanno già tremando, i “tutti quanti”: perché i vari Alfano e gli pseudo-progressisti di D’Alema, Bersani e Speranza sanno che non arrivano al 5% e quindi dovrebbero trovare prima un modo di ricevere una qualche elemosina dai rispettivi partiti di cui sono satelliti. Grillo sarebbe favorevole perché così, da quell’abbraccio, lui prenderebbe il via, poi, per una stagione in cui trionferebbe, dopo aver visto l’ennesima coalizione degli “impuri” e dei “corrotti”.Io piango, su questa miseria. Piango e rido insieme, come avrebbe detto Giordano Bruno: non saprei se divertirmi o disgustarmi, perché questo è un altro atto di una stagione veramente miserabile della politica italiana, che non ragiona in termini di regole del gioco lungimiranti per tutti, per il bene comune, ma fa calcoli di bottega, di corto respiro. Quindi credo che sia sempre più necessaria l’entrata in campo del “partito che non c’è”, di cui si parlerà il 10 giugno con tanti amici, a partire da quelli di “Pandora.Tv” e Giulietto Chiesa. Parlo del Partito Democratico Progressista. Anche perché, intanto, siamo ancora e sempre alle prese con una serie di saltimbanchi della politica italiana, che anche in questa occasione della legge elettorale non hanno mancato di evidenziare la propria mediocrità e la propria pochezza. Io vedrei con favore, in teoria, qualunque governo che fosse una soluzione di continuità rispetto al recente passato, che ha visto centrodestra, centrosinistra e “grossa coalizione” governare, tutti, male. Discorso di metodo, fatto anche per Roma: nella capitale, centrodestra e centrosinistra avevano mal governato e quindi era giusto dire “avanti la Raggi”. Più saggio e lungimirante sarebbe stato che il gruppo Raggi mettesse al primo posto il benessere di Roma, accettando la nostra proposta di collaborare con Nino Galloni e altre figure del Movimento Roosevelt. Risultato? Il “nuovo che avanza” non governa meglio del “vecchio” che sta là a gufare.E se Roma non è ben governata, il rischio c’è anche per l’Italia, sebbene in uno scenario che non mi sembra imminente: perché questa legge elettorale con lo sbarramento al 5%, che magari ha anche l’appoggio mefistofelico di Grillo e di alcuni pentastellati, non è fatta per far vincere, ora, il Movimento 5 Stelle; è per farlo vincere non domani, ma dopodomani. Però il punto è: su quale programma il Movimento 5 Stelle vuole governare l’Italia? Io ancora non l’ho capito. Forse non è pronto. Da un lato non lo sarà mai, se non si dà una ristrutturazione ideologica. E dall’altro potrebbe esserlo molto presto, se non si pone più soltanto il problema di raccogliere il consenso, ma anche di governare, sia le città che il paese. E non vale l’esempio della Appendino che governerebbe bene Torino, perché quella città si governa bene da sé: è amministrata abbastanza bene da molti anni, a prescindere da chi siede sulla poltrona di primo cittadino. Intendiamoci: ad oggi, il Movimento 5 Stelle ha tutto il diritto di chiedere per sé il governo del paese, per dimostrare di poter fare meglio degli altri, ma non si è ancora strutturato con un programma adeguato allo scopo. Per questo immagino sia ormai davvero inevitabile pensare al “partito che non c’è”.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli il 29 maggio 2017 nella diretta radiofonica “Massoneria on Air” su “Colors Radio”. Non è la prima volta che Magaldi accenna all’ipotetico Partito Democratico Progressista, che imposterebbe una politica di completa rottura col passato, partendo da un punto fondamentale: dire “no” a questa Ue, al Fiscal Compact, al pareggio di bilancio nella Costituzione).Legge elettorale col sistema tedesco? C’è un’invasione di personaggi e culture politiche tedesche: l’Italia sembra tornata a prima della Seconda Guerra Mondiale, quando l’influenza tedesca è stata sinistramente egemone. Oggi, al posto del truculento argomentare di Hitler abbiamo questa apparente pacioccona, questa ragazzotta tedesca ormai invecchiata, che però mette insieme il cinismo di alcuni ambienti dell’ex Germania Est con il peggio delle tendenze imperialiste di lungo corso della Germania, che precedono anche Hitler e la stagione del nazismo. Dopo aver mutuato l’austerità e avere introiettato tutte le “frescacce” che ci sono state propinate, in termini di dottrine economiche disutili per il popolo italiano e per l’Europa, utili solo per una Germania fattasi tramite di poteri sovranazionali, adesso ci viene proposta anche una legge elettorale simile a quella tedesca, proporzionale, con sbarramento al 5%. Quindi non sarebbe un proporzionale vero, che fotografi le articolazioni politiche come fu nella nostra Prima Repubblica, con partiti dignitosissimi con una storia culturale e ideologica importante, magari sotto il 5% ma che fecero cose anche egregie.
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Massoneria? Un mistero solo per le facce di bronzo della Tv
La massoneria è un potere forte, anzi fortissimo: peccato che sui giornali e nei talkshow televisivi si preferisca il pettegolezzo sulla piccola massoneria nostrana, ignorando deliberatamente l’unica fonte che, in Italia, ha messo nero su bianco nomi e cognomi della supermassoneria internazionale, quella che conta. Supermassoneria conservatrice, alla quale appartiene lo stesso neopresidente francese Emmanuel Macron: e alla medesima porta «hanno ripetutamente bussato sia Matteo Renzi che l’ex direttore del “Corriere”, Ferruccio De Bortoli, lo stesso che ora (nel libro “Poteri forti”) polemizza con Renzi evocando l’ombra della massoneria toscana su Maria Elena Boschi e Banca Etruria». Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere), dalle pagine web di “Affari Italiani” si rivolge direttamente «ai vari Lilli Gruber, Giovanni Floris, Luca Telese, Corrado Formigli, Enrico Mentana, Gianluigi Paragone, Bruno Vespa». Giornalisti e frontman che, «con rara faccia di bronzo, in questi anni hanno parlato di qualsiasi tematica attinente da vicino o da lontano la massoneria e il potere, ma si sono scientificamente cimentati nella censura e nella rimozione del libro “Massoni”, nonostante la grande diffusione del volume in Italia e all’estero».La polemica tra De Bortoli, Boschi e Renzi su Banca Etruria «è una vicenda piena di ipocrisia, doppi e tripli sensi, surrealtà e vecchi rancori», afferma Magaldi. La Boschi? «Ha fatto bene a interessarsi del possibile salvataggio di Banca Etruria, essendo una parlamentare del territorio dove la banca operava». Semmai, «ha fatto male a negare di averlo fatto: una brutta abitudine, quella di negare l’evidenza, che l’accomuna spesso allo stesso Renzi». Quanto alla telefonata tra i due Renzi, padre e figlio, intercettata dagli inquirenti e poi pubblicata dal “Fatto Quotidiano”, per Magaldi si tratta di «una pantomima», nella quale il figlio tratta il padre, Tiziano, «apparentemente in modo rude e con tono inquisitorio». Secondo Magaldi «si tratta di un’operazione preventiva, per poter un giorno utilizzare questa scenetta quale dimostrazione dell’assoluta estraneità di Matteo ai maneggi e alle relazioni “pericolose” del padre». Peccato, però, che il sistema di potere di cui Renzi junior ha beneficiato nella prima parte della sua ascesa, aggiunge Magaldi, si sia fondato «anche su tutta una serie di rapporti con personaggi toscani (alcuni massoni e altri no) collegati agli interessi imprenditoriali ed economici di Renzi senior, all’interno di un più complessivo groviglio di legami tra politica, istituzioni e cenacoli privati alla ricerca di profitti, tra Firenze e territori contigui».Massoneria e banche? Senz’altro: si tratta di un rapporto «storicamente evidente». Vale anche per Banca Etruria, «benemerita banca dedita al credito popolare», fondata da massoni e a lungo «ottimamente gestita dal “fratello” massone Elio Faralli», prima che subentrassero quelli che Stefano Bisi, gran maestro del Grande Oriente d’Italia, chiama “bischeri”, massoni e non. «Ma in tutta questa vicenda – insiste Magaldi su “Affari Italiani” – il personaggio più in malafede appare proprio Ferruccio De Bortoli». Un giornalista che, sempre secondo Magaldi, «durante tutta la sua carriera ha sempre cercato di essere ammesso ai salotti più esclusivi dell’aristocrazia massonica euro-atlantica». Solo che «non c’è mai riuscito», come del resto lo stesso Renzi, «da anni aspirante apprendista massone presso superlogge sovranazionali, visto che le amicizie massoniche di medio-basso calibro del padre Tiziano potevano essere buone per arrivare a governare la Provincia e il Comune di Firenze, ma non erano e non sono certo sufficienti a puntellare e a consolidare la traiettoria nazionale e internazionale delle ambizioni renziane».Sia De Bortoli che Renzi, aggiunge Magaldi, hanno spesso sfiorato l’accesso al “salotto buono”: «In tempi diversi, tra diverse Ur-Lodges presso cui hanno “bussato” (mediante intermediari), si sono trovati entrambi a un soffio dall’essere accolti dalla superloggia moderata “Atlantis-Aletheia”», una “officina” internazionale di cui fa peraltro fa parte «il massone Emmanuel Macron, neoeletto presidente francese». Incongruenza tutta italiana: «Trovo davvero ipocrita che De Bortoli si metta a cianciare in stile genericamente antimassonico di rapporti tra “massoneria e banche”, riguardo alla vicenda Etruria, ma si sia sempre guardato bene (al pari di quasi tutto il sistema giornalistico italiano) dall’evocare la questione della responsabilità che hanno avuto massoni neoaristocratici come Mario Draghi e Anna Maria Tarantola (all’epoca ai vertici di Bankitalia) nella pessima gestione del Monte dei Paschi di Siena, con riferimento sia all’acquisizione di Banca Antonveneta che ad altre non meno scabrose questioni». Non solo: «Trovo gravissimo – aggiunge Magaldi – che in contesti come la trasmissione “Otto e Mezzo” condotta da Lilli Gruber, così come in altri talk-show televisivi italiani, venga data occasione a De Bortoli e ad altri di pontificare genericamente di legami tra massoneria e banche, massoneria e affari, massoneria e poteri opachi o poteri forti, senza che nessuno si sia mai preso la briga di citare e discutere le precise informazioni e le puntualissime narrazioni (con nomi, cognomi, sigle, date e circostanze) degli intrecci tra la “libera muratoria” e il potere contenute nel libro “Massoni. Società a responsabilità illimitata”», edito già a fine 2014.Lilli Gruber – ed altri suoi colleghi del piccolo schermo – invitano “cani e porci”, «inesperti di questioni latomistiche o carichi di veleni antimassonici per qualche mancata affiliazione», a parlare di massoneria e potere in televisione, presentando «miriadi di libri privi di reale interesse per la pubblica opinione», ma al tempo stesso «evitano come la peste», anzi «censurano da anni» le straordinarie rivelazioni del libro “Massoni”, appena sbarcato anche in Spagna e Sud America, e di cui sta per uscire il sequel, significativamente intitolato “Globalizzazione e massoneria”. Perché dunque rifiutarsi di far approdare nel mainstream una precisa lettura del legame tra massoneria e potere, in primis in ambito finanziario? Forse perché quegli stessi media mainstream, «da qualche decennio, e non solo i Italia, sono in buona parte caduti nelle mani di ambigui segmenti massonici “contro-iniziatici”, traditori dei valori progressisti di libertà, uguaglianza e fratellanza che contraddistinguono da secoli l’autentica “libera muratoria”». Meglio allora evitare che il pubblico televisivo condivida “la scoperta delle Ur-Lodges”, cioè le 36 superlogge mondiali che rappresentano il “back office” del vero potere. Inclusa la “Atlantis Aletheia”, quella di Macron: la superloggia che, secondo Magaldi, si sarebbe rifiutata finora di accogliere i “bussanti” De Bortoli e Renzi.La massoneria è un potere forte, anzi fortissimo: peccato che sui giornali e nei talkshow televisivi si preferisca il pettegolezzo sulla piccola massoneria nostrana, ignorando deliberatamente l’unica fonte che, in Italia, ha messo nero su bianco nomi e cognomi della supermassoneria internazionale, quella che conta. Supermassoneria conservatrice, alla quale appartiene lo stesso neopresidente francese Emmanuel Macron: e alla medesima porta «hanno ripetutamente bussato sia Matteo Renzi che l’ex direttore del “Corriere”, Ferruccio De Bortoli, lo stesso che ora (nel libro “Poteri forti”) polemizza con Renzi evocando l’ombra della massoneria toscana su Maria Elena Boschi e Banca Etruria». Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere), dalle pagine web di “Affari Italiani” si rivolge direttamente «ai vari Lilli Gruber, Giovanni Floris, Luca Telese, Corrado Formigli, Enrico Mentana, Gianluigi Paragone, Bruno Vespa». Giornalisti e frontman che, «con rara faccia di bronzo, in questi anni hanno parlato di qualsiasi tematica attinente da vicino o da lontano la massoneria e il potere, ma si sono scientificamente cimentati nella censura e nella rimozione del libro “Massoni”, nonostante la grande diffusione del volume in Italia e all’estero».
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Magaldi: ipocrita De Bortoli, bussò alla super-massoneria
«Ferruccio De Bortoli dimostra ancora una volta una grande ipocrisia: conosce benissimo i mondi massonici, sia quelli caserecci che quelli sovranazionali. Lui stesso, come Renzi, ha cercato più volte, senza riuscirci, di essere ammesso ai salotti massonici di alto profilo». Parola di Gioele Magaldi, gran maestro del Grande Oriente Democratico nonché presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), che rivela l’esistenza di 36 Ur-Lodges, superlogge internazionali, che funzionano da “back-office” del vero potere. «Sia chiaro, non è affatto un disonore cercare di essere accolti in quei circoli», premette Magaldi, intervistato da Gianluca Fabi ai microfoni di “Radio Cusano Campus”. Il problema, semmai è la mancanza di franchezza: nel suo libro “Poteri forti, o quasi”, l’ex direttore del “Corriere della Sera” e del “Sole 24 Ore” parla di massoneria e banche, da Mps a Banca Etruria, da cui la polemica su Maria Elena Boschi, che avrebbe interessato Unicredit per tentare di salvare la banca toscana di cui il padre era vicepresidente. «Giusto parlare di conflitto d’interessi quando si compie qualcosa di sbagliato, non quando si cerca di tutelare risparmiatori e posti di lavoro», taglia corto Magaldi, che rimprovera a De Bortoli di “fare le pulci” ai toscani senza però rivelare nulla sui suoi rapporti con la vera massoneria di potere, il mondo delle Ur-Lodges.Massoneria e banche? Mps, per esempio: «Tra massoni veri e presunti», dichiara Magaldi, «gli unici due che avrebbero dovuto essere ben vigilati sono due massoni di altissimo grado: Mario Draghi, all’epoca governatore di Bankitalia, e Anna Maria Tarantola», poi ministro del governo Monti, «allora a capo della vigilanza di Bankitalia, che non vigilò affatto sulle operazioni Antonveneta e Mps». Esponenti entrambi non della piccola massoneria nazionale, «provinciale», ma del vero circuito del grande potere, quello delle superlogge. La massoneria oggi chiamata in causa perché ne parla De Bortoli? «Qui entriamo nel paradosso, nella surrealtà», continua Magaldi, ricordando che a suo tempo il direttore del “Corriere” parlò di “odore stantio di massoneria” per descrivere i rapporti intorno a Renzi. Errore ottico: «Non era importante indagare tra i rapporti caserecci e di piccolo calibro del padre di Renzi in Toscana, ma andavano cercate altre aree: Renzi si muoveva a New York e bussava alle porte di ben altri templi». Lo stesso Magaldi ne parlò apertamente a “Linkiesta” già nel settembre 2014: «Nessuno ha notato la coincidenza tra la pubblicazione dell’editoriale di De Bortoli e la contemporanea presenza di Matteo Renzi alla sede newyorkese del Council on Foreign Relations».Il potente Cfr, “santuario” dell’élite atlantica, è definito «solidissimo sodalizio paramassonico istituito nel 1921, mentre nel 1920 era stato fondato il suo omologo britannico, il Royal Institute of International Affairs o Chatham House». Entrambe queste associazioni paramassoniche, rivela Magaldi, furono create su iniziativa della Ur-Lodge “Leviathan”, espressione dei circuiti supermassonici reazionari. Entrambe, sia il Cfr che il Riia, «continuano ad essere controllate e gestite da massoni, con la presenza ancillare e subalterna di paramassoni servizievoli, ossia di membri “profani” del jet-set politico, economico-finanziario, mediatico, diplomatico, militare e culturale internazionale, i quali ancora non hanno avuto un’iniziazione massonica presso il circuito elitario ed ambitissmo delle Ur-Lodges, ma aspirano ad averla». In gergo si chiamano “bussanti”: ruolo che, secondo Magaldi, accomuna Renzi e De Bortoli, entrambi lasciati – per ora – fuori dalla porta. Naturalmente De Bortoli non ne fa cenno, però torna a evocare il tema della massoneria “casereccia” anche in televisione, da Lilli Gruber, per poi essere richiamato alla franchezza da Massimo Cacciari, che gli risponde: ma vogliamo parlare allora dei reticolati massonici francesi e internazionali che hanno costruito in modo artificiale l’operazione Macron?Il neo-inquilino dell’Eliseo, che ha voluto celebrare la vittoria elettorale «ai piedi della piramide del Louvre fatta erigere dal massone Mitterrand», è senz’altro figlio di un’operazione massonica raffinata, conferma Magaldi: si tratta però di capire di quale segno sia, anche se la storia del suo mentore, il supermassone reazionario Jacques Attali, tra gli architetti dell’oligarchia Ue, si è finora mosso in una direzione non certo progressista. Che Macron sia massone, comunque, non è un segreto (né un problema) per nessuno, in Francia, dove la massoneria – dai tempi di Napoleone, che importò da Charleston il Rito Scozzese e dall’Egitto la simbologia delle piramidi – si confronta apertamente con la politica: «I candidati alle presidenziali vanno tranquillamente a fare audizioni nella sede del Grande Oriente di Francia, e una volta eletti – quando non sono massoni – tributano il loro omaggio ai vertici delle comunioni massoniche francesi, talvolta dichiarando di essersi consultati con loro anche per decisioni importanti dal punto di vista geopolitico, strategico, economico». Il tutto, alla luce del sole: «Negli Usa, nel Regno Unito e in altre democrazie occidentali, il discorso pubblico sulla massoneria è molto più sereno e pacato». Il problema, ribadisce Magaldi, è l’Italia: «Da noi c’è questo verminaio, perché l’opinione pubblica di massoneria non sa nulla, i giornalisti ancor meno, e gli intellettuali, gli editori, i direttori di giornali – che invece ne sanno – fanno finta di non sapere».«Ferruccio De Bortoli dimostra ancora una volta una grande ipocrisia: conosce benissimo i mondi massonici, sia quelli caserecci che quelli sovranazionali. Lui stesso, come Renzi, ha cercato più volte, senza riuscirci, di essere ammesso ai salotti massonici di alto profilo». Parola di Gioele Magaldi, gran maestro del Grande Oriente Democratico nonché presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), che rivela l’esistenza di 36 Ur-Lodges, superlogge internazionali, che funzionano da “back-office” del vero potere. «Sia chiaro, non è affatto un disonore cercare di essere accolti in quei circoli», premette Magaldi, intervistato da Gianluca Fabi ai microfoni di “Radio Cusano Campus”. Il problema, semmai è la mancanza di franchezza: nel suo libro “Poteri forti, o quasi”, l’ex direttore del “Corriere della Sera” e del “Sole 24 Ore” parla di massoneria e banche, da Mps a Banca Etruria, da cui la polemica su Maria Elena Boschi, che avrebbe interessato Unicredit per tentare di salvare la banca toscana di cui il padre era vicepresidente. «Giusto parlare di conflitto d’interessi quando si compie qualcosa di sbagliato, non quando si cerca di tutelare risparmiatori e posti di lavoro», taglia corto Magaldi, che rimprovera a De Bortoli di “fare le pulci” ai toscani senza però rivelare nulla sui suoi rapporti con la vera massoneria di potere, il mondo delle Ur-Lodges.
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Euro e vaccini: e io che credevo alla serietà dei 5 Stelle…
Se vanno avanti così i 5 Stelle non vinceranno mai le elezioni (con margini sufficienti per andare al governo, intendo) perchè non hanno più il coraggio delle proprie idee. Prendiamo ad esempio la posizione ambigua, e sostanzialmente contraddittoria, che hanno assunto di recente riguardo al problema dei vaccini. Ospite della Gruber un paio di settimane fa, Alessandro Di Battista si è sentito fare una domanda-trabocchetto da una giornalista di “Sky-Tv”: «Lei vaccinerà suo figlio [che sta per nascere, ndr]?». «Certamente», ha risposto Di Battista senza esitazioni, e dimenticandosi di aggiungere una qualunque obiezione rispetto all’obbligatorietà dei vaccini. In altre parole, Di Battista ha voluto far passare il messaggio che “per i 5 Stelle i vaccini, così come sono somministrati oggi, non rappresentano un problema”. Peggio di lui ha fatto Luigi Di Maio, che pochi giorni dopo ad Harvard ha dichiarato: «I vaccini in Italia sono obbligatori per legge. Noi non abbiamo nessuna intenzione di eliminare questa obbligatorietà. Per noi sono fondamentali, e vogliamo promuovere il più possibile la cultura dell’informazione». Ma scusa un attimo, caro Di Maio, che cosa ce ne facciamo noi dell’“informazione”, se poi tanto i vaccini restano obbligatori?Questa lampante contraddizione nasconde una evidente paura che ha assalito i 5 Stelle da quando è esplosa la polemica sui vaccini. Messi sotto attacco da ogni angolo (compreso il “New York Times”, che non è poco), e accusati di essere anti-vax in modo categorico, i 5 Stelle non hanno trovato di meglio che fare una violenta retromarcia, per andare a nascondersi dietro ad una posizione palesemente allineata con il pensiero mainstream. La stessa cosa è successa con l’euro. Inizialmente i 5 Stelle denunciavano apertamente la moneta unica come evidente strumento per tenere in schiavitù le diverse economie nazionali, ma da un po’ di tempo a questa parte le loro posizioni si sono progressivamente annacquate, al punto da non essere più distinguibili dal pensiero mainstream. Il problema dei 5 Stelle è molto chiaro: quando sentono di poter diventare vulnerabili su un certo argomento, o fanno una netta marcia indietro (come nel caso dei vaccini) oppure annacquano talmente le loro posizioni (come nel caso dell’euro) da finire per assomigliare a tutti gli altri.Ma a questo punto a cosa servono i 5 Stelle? Se da partito di rottura stanno diventando lentamente allineati con gli altri su tutte le questioni più importanti, tanto vale votare Berlusconi oppure Matteo Renzi, no? Purtroppo i 5 Stelle seguono questa strategia convinti di poter conquistare più voti “fra gli indecisi”, ovvero fra coloro che sarebbero magari disponibili a votare per loro, ma che ne temono alcune posizioni troppo estreme. Ma in realtà avviene l’esatto contrario: l’indeciso rimane comunque indeciso (a causa delle posizioni poco chiare dei 5 Stelle), mentre chi prima li appoggiava apertamente rischia di sentirsi tradito dai loro voltafaccia, e di disamorarsi di questo movimento. Prendiamo ancora l’esempio dei vaccini: quante madri credono di aver conquistato, dicendo che «l’obbligo delle vaccinazioni non verrà messo in discussione»? Pochissime, in realtà, perchè comunque le madri che già sono favorevoli all’obbligo sono certamente persone che non votano 5 Stelle. E quante invece ne avranno perse? Moltissime, a mio parere, e cioè tutte quelle madri che speravano in una rimozione dell’obbligo vaccinale, proprio per poter decidere in piena libertà sul futuro e sulla salute dei propri figli.Quando ci si trova di fronte ad argomenti controversi non bisogna arretrare “per paura del nemico”, ma bisogna andargli incontro sostenendo con coraggio le proprie idee, in modo documentato ed informato. Io voglio poter votare per un movimento che sostiene apertamente e coraggiosamente quello che è giusto, documentando e argomentando in modo adeguato le proprie posizioni. Non me ne faccio nulla invece di un movimento che ha paura di tutto e di tutti, nascondendosi dietro ad un filo d’erba ogni volta che rischia di essere attaccato. Altrimenti, davvero, evviva la Democrazia Cristiana.(Massimo Mazzucco, “I 5 Stelle stanno perdendo la loro qualità migliore: la coerenza”, dal blog “Luogo Comune” del 9 maggio 2017).Se vanno avanti così i 5 Stelle non vinceranno mai le elezioni (con margini sufficienti per andare al governo, intendo) perchè non hanno più il coraggio delle proprie idee. Prendiamo ad esempio la posizione ambigua, e sostanzialmente contraddittoria, che hanno assunto di recente riguardo al problema dei vaccini. Ospite della Gruber un paio di settimane fa, Alessandro Di Battista si è sentito fare una domanda-trabocchetto da una giornalista di “Sky-Tv”: «Lei vaccinerà suo figlio [che sta per nascere, ndr]?». «Certamente», ha risposto Di Battista senza esitazioni, e dimenticandosi di aggiungere una qualunque obiezione rispetto all’obbligatorietà dei vaccini. In altre parole, Di Battista ha voluto far passare il messaggio che “per i 5 Stelle i vaccini, così come sono somministrati oggi, non rappresentano un problema”. Peggio di lui ha fatto Luigi Di Maio, che pochi giorni dopo ad Harvard ha dichiarato: «I vaccini in Italia sono obbligatori per legge. Noi non abbiamo nessuna intenzione di eliminare questa obbligatorietà. Per noi sono fondamentali, e vogliamo promuovere il più possibile la cultura dell’informazione». Ma scusa un attimo, caro Di Maio, che cosa ce ne facciamo noi dell’“informazione”, se poi tanto i vaccini restano obbligatori?
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Cambiano solo i burattini eletti, non il potere che li crea
Finalmente è finita anche questa farsa che ha tenuto in ansia i media ed i social. Ha vinto Macron. Ha perso la Le Pen. E chi se ne frega. E’ un mese che non si parla d’altro, come se importasse qualcosa, come se cambiasse qualcosa, oltre alle apparenze. Ancora troppo pochi si rendono conto del discorso più profondo: tutta questa bagarre, in realtà, è perchè i popoli diano il loro gioioso assenso alla piramide di fantocci che si occuperà esclusivamente di fare quello che gli viene detto di fare da livelli superiori. In barba a desideri e speranze del popolo. Quello che cambia, come diciamo da sempre, è solo il tipo di sentimenti che vengono cavalcati: da una parte gli egoismi, dall’altra le speranze. Questa la differenza tra Trump e Obama, Le Pen e Macron, Berlusconi e Prodi, Renzi e Salvini, ecc. Che in fondo rispecchia semplicemente la differenza tra Ratzinger e Bergoglio, o meglio, tra Gesuiti ed Opus Dei. Da una parte lo sfruttamento degli egoismi, dall’altra la manipolazione dei buoni sentimenti. Questa la sola vera differenza tra le due principali piramidi di potere del mondo.Ad esempio: cosa cambia ad un bimbo mediorientale, se la bomba che gli cade in testa arriva dall’affabile Obama o dall’impresentabile Trump? Niente. Zero. Zilch. Nada. Nella questione Macron/Le Pen possiamo quindi dire: “rien”. Negli ultimi anni il divide et impera principale che è stato fomentato nelle teste degli europei è “Europa sì, Europa no”. Eppure sarebbe tanto bello poter parlare di un’Europa che andrebbe costruita bene, di una democrazia, di un’economia più equa, ma non è di questo che vogliono farci parlare. Vogliono che ci dividiamo e che scegliamo il “meno peggio” a seconda del nostro orientamento politico/etico. Ma non esiste un meno peggio: esistono marionette manovrate con la mano sinistra, e marionette manovrate con la mano destra. Le differenze? Quando non sono puro maquillage, alla fine si riducono ad argomenti di terz’ordine, quelli che servono per far contenta una parte del proprio elettorato, quella più superficiale.La Le Pen è anti-Europa esattamente come Tsipras: solo chiacchiere. Altrimenti non sarebbe stata ad un passo dalla presidenza francese. In questo articolo, Thierry Meyssan parla del ruolo dell’Opus Dei nella costruzione della Ue attraverso il riciclaggio/sdoganamento degli ex fascisti e nazisti col beneplacito di De Gaulle. Quindi, se avessero eletto la La Pen, avrebbe fatto la fine di Tsipras, ovvero, non sarebbe cambiato nulla. E Macron? Beh, lui viene dalla Banca Rotschild. Una garanzia di assoluta continuità. Dunque non cambia nulla. E quindi? Se è tutta una presa in giro, che possiamo fare? Ovvio: le cose da cui ci vogliono realmente distogliere: la coltivazione e l’utilizzo delle parti migliori di noi. Cerchiamo di smettere di abboccare sempre all’amo.Occupiamoci di cose serie, su cui possiamo avere un impatto concreto: dal sorriso al vicino di casa, alla salvaguardia delle cose che ci sono vicine, dalla diffusione di concetti e forme-pensiero migliori, alla telefonata a quella zia sola e un po’acida, che proprio non vorremmo chiamare. Invece di sentirci a posto perchè abbiamo votato per un Nobel per la Pace che poi bombarda milioni di persone, aumentiamo per come possiamo il livello generale di pace, creandola prima in noi stessi, e poi cercando di contagiare il prossimo. Nel frattempo, ovviamente, occhi sempre più aperti per evitare di cadere in binari di pensiero che sono stati creati apposta per portarci sulla strada sbagliata. E’ finita l’era della delega. Mettiamocelo in testa e nel cuore.(Enrico Carotenuto, “Elezioni francesi: non cambia nulla, proprio come la Le Pen”, da “Coscienze in Rete” dell’8 maggio 2017).Finalmente è finita anche questa farsa che ha tenuto in ansia i media ed i social. Ha vinto Macron. Ha perso la Le Pen. E chi se ne frega. E’ un mese che non si parla d’altro, come se importasse qualcosa, come se cambiasse qualcosa, oltre alle apparenze. Ancora troppo pochi si rendono conto del discorso più profondo: tutta questa bagarre, in realtà, è perchè i popoli diano il loro gioioso assenso alla piramide di fantocci che si occuperà esclusivamente di fare quello che gli viene detto di fare da livelli superiori. In barba a desideri e speranze del popolo. Quello che cambia, come diciamo da sempre, è solo il tipo di sentimenti che vengono cavalcati: da una parte gli egoismi, dall’altra le speranze. Questa la differenza tra Trump e Obama, Le Pen e Macron, Berlusconi e Prodi, Renzi e Salvini, ecc. Che in fondo rispecchia semplicemente la differenza tra Ratzinger e Bergoglio, o meglio, tra Gesuiti ed Opus Dei. Da una parte lo sfruttamento degli egoismi, dall’altra la manipolazione dei buoni sentimenti. Questa la sola vera differenza tra le due principali piramidi di potere del mondo.
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Cremaschi: stanno svendendo l’Italia al miglior offerente
Se l’amministratore di un’impresa privata decidesse di regalare beni aziendali e poi regalasse soldi a chi accettasse di appropriarsene, questo amministratore difficilmente riuscirebbe ad evitare il confronto col codice civile e penale. Invece i nostri governanti, amministratori dei beni di tutti, così si comportano con le nostre proprietà e con quelle altrui che finanziano. Per lo Stato, nell’economia debbono valere regole di svantaggio rispetto a qualsiasi grande azienda privata, così vuole l’Unione Europea e così i governanti che ad essa ubbidiscono. Ovviamente con la massima soddisfazione degli imprenditori privati, che si vedono regalate le aziende e che quando le mandano in malora possono fuggire e scaricare di nuovo tutto sullo Stato. Con quanti nostri soldi lo Stato italiano ha finanziato le privatizzazioni? Decine e decine, forse centinaia sono i miliardi spesi per privatizzare il patrimonio produttivo pubblico, nel nome della riduzione di un debito che non si è mai realizzata e di un maggiore efficienza mai ottenuta. Quanti miliardi sono stati regalati a imprenditori e multinazionali che poi hanno sfasciato le aziende?Questa cifra non viene mai fornita ad una opinione pubblica martellata dalla campagna a favore delle svendite. Svendite come quella delle acciaierie di Piombino, che dopo una lunga trafila di fallimenti imprenditoriali, da Lucchini ai magnati russi, sono state regalate ad un imprenditore algerino che non si è mai fatto vedere. Quella che oggi è l’Ilva è stata regalata alla famiglia Riva dal governo e dall’Iri di Prodi. I Riva hanno accumulato per anni miliardi, poi sono crollati sotto il peso della crisi e dei danni ambientali. Lo Stato da allora finanzia l’azienda a fondo perduto, in attesa di svenderla a qualche multinazionale che saccheggerà ciò che è rimasto, farà un’ecatombe di licenziamenti e lascerà tutti i danni ambientali a carico della comunità e della spesa pubblica. Mentre fallivano in Ilva, i Riva venivano chiamati da Berlusconi a salvare l’Alitalia, assieme a Colaninno, Marcegaglia, Montezemolo e tanti altri bei nomi, tutti coordinati da Passera allora a capo di Banca Intesa. Tutta la crema della imprenditorialità e della finanza italiana ha mostrato il suo reale valore nella gestione della compagnia aerea. E il fallimento è stato totale, come quello del quotidiano che ufficialmente la rappresenta, il “Sole 24 Ore”.Le poche grandi privatizzazioni che, per ora, non sono fallite hanno consegnato le eccellenze del sistema produttivo italiano, dalla Telecom all’Ansaldo, alle multinazionali. Multinazionali a cui si affidano le aziende private medie, non appena i loro vecchi titolari pensino al futuro, Luxottica insegna. La Fiat della famiglia Agnelli è un’azienda americana con sede legale in Olanda, mentre l’Olivetti non esiste più, è stata sacrificata da De Benedetti per realizzare l’Omnitel, che oggi appartiene alla Vodafone. Le banche, che in gran parte erano pubbliche, o sono già in possesso o sono in attesa di un compratore estero, partner si dice nel mondo bene. Quel sistema industriale e finanziario che era stato in grado di collocare il nostro paese tra quelli più sviluppati, e che si reggeva proprio per il peso ed il ruolo del sistema pubblico, è stato smantellato e svenduto pezzo dopo pezzo. E dopo il fallimento indecoroso della classe imprenditoriale italiana, quel sistema è ora terreno di caccia per tutti i venditori di Colosseo che parlino inglese.Il vice di Renzi, Martina, ha sfacciatamente confessato che il governo non può nazionalizzare Alitalia, altrimenti dovrebbe fare altrettanto con tutte le aziende che dovessero chiudere. Che evidentemente sono tante per l’ingenuo ministro, che smentisce in tal modo l’ottimismo ufficiale del palazzo. Così, grazie alla fermezza autolesionista del governo, Lufthansa può far sapere di non essere interessata alla nostra compagnia aerea: deve solo aspettare la catastrofe finale dell’azienda e poi raccoglierne gratis i cocci. Lo stesso faranno le multinazionali dell’acciaio interessate all’Ilva: anch’esse devono solo attendere il disastro. Le privatizzazioni sono solo svendita di beni di tutti, una svendita pagata coi soldi di tutti. Non c’è nulla di più falso e in malafede che affermare che lo Stato non può più spendere i soldi dei cittadini per finanziare aziende in crisi. Perché la realtà dimostra che regalare le aziende pubbliche ai privati alla fine costa molto di più. Costa di più sul piano produttivo perché le aziende vanno peggio. Costa di più sul piano sociale per i nuovi disoccupati che si aggiungono ai tanti altri già esistenti. E costa di più perché il conto, per la spesa pubblica che deve riparare ai guasti del privato, è più alto oggi di quando le aziende erano in mano pubblica. Se l’amministratore di un condominio ruba si caccia lui, ma non si butta giù la casa. Le privatizzazioni han buttato giù la casa.Gli articoli 41e 42 della nostra Costituzione hanno definito i vincoli a cui sono sottoposte la proprietà e l’iniziativa privata e gli spazi riservato all’intervento pubblico. Decenni di politiche liberiste sotto dettatura della Unione Europea hanno rovesciato nel loro opposto questi e tanti altri articoli della nostra Carta. Il privato deve avere tutto e il pubblico lo deve finanziare a fondo perduto. Si regalano 20 miliardi alle banche perché i loro futuri acquirenti non trovino troppe sofferenze, se ne sono versati altri 60 in sede europea per lo stesso scopo. Gentiloni promette a Trump di pagare la bolletta Nato, ma salvare Alitalia, Ilva, Piombino non si può, lì o ci pensa il mercato o si chiude. L’ideologia liberista è già insopportabile in sé, quando poi diventa la giustificazione per lo spreco dei soldi pubblici e per la distruzione del patrimonio industriale diventa un costo insostenibile. Dobbiamo ringraziare i lavoratori Alitalia che con il loro No hanno respinto l’ennesimo regalo ai privati, questa volta concesso agli sceicchi di Etihad, che non sono certo privi di mezzi propri. La nazionalizzazione di Alitalia, dell’Ilva, delle altre aziende strategiche in crisi è la sola via realistica per sottrarsi ai danni dell’incapacità imprenditoriale nazionale e della rapina multinazionale. Il resto è solo servilismo verso i poteri e gli interessi che vogliono il nostro paese in vendita. Low cost.(Giorgio Cremaschi, “Nazionalizzare o svendere, l’economia italiana in mano ai migliori offerenti”, dall’“Huffington Post” del 28 aprile 2017).Se l’amministratore di un’impresa privata decidesse di regalare beni aziendali e poi regalasse soldi a chi accettasse di appropriarsene, questo amministratore difficilmente riuscirebbe ad evitare il confronto col codice civile e penale. Invece i nostri governanti, amministratori dei beni di tutti, così si comportano con le nostre proprietà e con quelle altrui che finanziano. Per lo Stato, nell’economia debbono valere regole di svantaggio rispetto a qualsiasi grande azienda privata, così vuole l’Unione Europea e così i governanti che ad essa ubbidiscono. Ovviamente con la massima soddisfazione degli imprenditori privati, che si vedono regalate le aziende e che quando le mandano in malora possono fuggire e scaricare di nuovo tutto sullo Stato. Con quanti nostri soldi lo Stato italiano ha finanziato le privatizzazioni? Decine e decine, forse centinaia sono i miliardi spesi per privatizzare il patrimonio produttivo pubblico, nel nome della riduzione di un debito che non si è mai realizzata e di un maggiore efficienza mai ottenuta. Quanti miliardi sono stati regalati a imprenditori e multinazionali che poi hanno sfasciato le aziende?
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Ma il Renzi francese finirà tra i fischi, come quello italiano
Durante la campagna elettorale francese e nelle ore successive alla vittoria di Emmanuel Macron, i media nostrani hanno tessuto paragoni, molto innocenti, tra il candidato di “En Marche!” e l’ex-premier Matteo Renzi. Utilizziamo l’aggettivo “innocente” perché, ovviamente, ci si è guardati dall’evidenziare le incredibili analogie tra le carriere di due 39enni che, con stucchevole celerità, hanno scalato (o addirittura fondato) un partito, per poi essere catapultati nella stanza dei bottoni saltando a piè pari il classico cursus honorum della politica. Entrambi sponsorizzati da una grande banca d’affari (la Rothschild per Macron e la Jp Morgan per Renzi), entrambi aiutati da scandali giudiziari (il Penelopegate che affossa Fillon e “l’affare stadio” che spiana la strada di Renzi verso il Comune di Firenze), entrambi benedetti da Washington e dal “luogotenente” Angela Merkel, entrambi incensati dal milieu intellettuale-mediatico, entrambi aiutati dalla “fortuna” nella loro conquista del potere (la scissione tra socialisti e “France Insoumise” nel caso Macron, la defenestrazione tutta extra-parlamentare di Enrico Letta nel caso di Renzi).No, non era interesse dei media soffermarsi su questi curiosi, ma scomodi, particolari: la loro volontà era piuttosto quella di evidenziare come entrambi incarnino il rinnovamento, la modernità, l’europeismo, l’apertura agli ideali liberali. Soprattutto, si è tentato in Italia di sfruttare la vittoria di Emmanuel Macron per rilanciare Renzi, quasi che l’ex-premier potesse ricevere in dono dal nuovo inquilino dell’Eliseo una seconda vita politica. “L’Espresso” di Carlo De Debenetti è arrivato addirittura a scrivere, lo scorso 5 aprile: «La nuova sfida di Renzi: diventare Macron. L’ex premier guarda al candidato centrista francese. Perché una sua vittoria avrebbe effetti anche in Italia. E gli lancerebbe la volata verso la riconquista di partito e governo». Viviamo, si sa, un’epoca in cui cadono le illusioni sulla democraticità delle nostre istituzioni, un’epoca di massiccia e costante guerra psicologica, un’epoca in cui la razionalità è una merce sempre più rara. Sono tempi in cui si potrebbe leggere sul giornale: “La nuova sfida della frittata: diventare uovo”.Già. Non c’è alcun dubbio che la narrazione dei media su Macron e Renzi sia deliberatamente invertita dal punto di vista cronologico. Non è l’ex-premier italiano che può diventare Macron (perché il momento magico che quest’ultimo ora vive, Renzi lo ebbe nella lontana primavera del 2014), quanto piuttosto è il nuovo presidente francese ad essere probabilmente ossessionato dal triste epilogo dell’ex-presidente del Consiglio. L’Italia, infatti, si colloca rispetto alla Francia un passo in avanti in termini di crisi economica/politica: l’esperienza del giovane “rottamatore” appartiene non al nostro presente, ma al nostro passato, ed è stata brutalmente archiviata il 4 dicembre scorso con la bocciatura del referendum costituzionale. Sono bastati mille giorni (Job Acts, privatizzazioni, inasprimenti fiscali, immigrazione incontrollata, disoccupazione a due cifre, stagnazione economica) perché l’indice di gradimento di Renzi scivolasse sotto il 30% e gli italiani decidessero di sbarazzarsi di lui, ricordando l’infausta promessa “se perdo il referendum, lascio la politica”.Constata l’identità tra l’agenda di Renzi e quella di Macron, è facile prevedere che lo stesso tempo sia sufficiente per annichilire politicamente l’ex-Rothschild: data la maggiore dose di “mercato” che Macron deve introdurre in Francia, l’assenza di un saldo partito di riferimento e la bellicosità della società francese, è addirittura ipotizzabile che l’enfant prodige della politica francese entri in crisi addirittura nel secondo anno di presidenza. Il “Financial Times” a suo tempo descrisse Renzi come “the last hope for the italian élite”: noi possiamo senza alcun indugio descrivere Macron come “l’ultima speranza dell’establishment francese”. Dopo il quinquennio dell’ex-Rothschild, non ci sarà più nessuna presidenza socialista, né centrista, né repubblicana: sarà l’ora delle forze anti-sistema, che si chiamino Front National o con un altro nome, che a guidarle sia ancora Marine Le Pen od un’altra figura. Il pendolo ha ripreso il suo viaggio verso la dissoluzione economica dell’Unione Europea e, in ordine cronologico, sono tre le prossime tappe salienti: il precipitare della situazione italiana, complice anche la prossima instabilità politica; una nuova recessione globale che cova sotto le ceneri; il rialzo dei tassi da parte dalla Fed e/o della Bce. Come direbbero in Francia: nous avons perdu une bataille, on gagnera la guerre!(Federico Dezzani, estratto dal post “La Francia ha scelto il suo Matteo Renzi, e già sappiamo che fine farà”, dal blog di Dezzani dell’8 maggio 2017).Durante la campagna elettorale francese e nelle ore successive alla vittoria di Emmanuel Macron, i media nostrani hanno tessuto paragoni, molto innocenti, tra il candidato di “En Marche!” e l’ex-premier Matteo Renzi. Utilizziamo l’aggettivo “innocente” perché, ovviamente, ci si è guardati dall’evidenziare le incredibili analogie tra le carriere di due 39enni che, con stucchevole celerità, hanno scalato (o addirittura fondato) un partito, per poi essere catapultati nella stanza dei bottoni saltando a piè pari il classico cursus honorum della politica. Entrambi sponsorizzati da una grande banca d’affari (la Rothschild per Macron e la Jp Morgan per Renzi), entrambi aiutati da scandali giudiziari (il Penelopegate che affossa Fillon e “l’affare stadio” che spiana la strada di Renzi verso il Comune di Firenze), entrambi benedetti da Washington e dal “luogotenente” Angela Merkel, entrambi incensati dal milieu intellettuale-mediatico, entrambi aiutati dalla “fortuna” nella loro conquista del potere (la scissione tra socialisti e “France Insoumise” nel caso Macron, la defenestrazione tutta extra-parlamentare di Enrico Letta nel caso di Renzi).
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Magaldi: il supermassone Macron è un bambino nato morto
«Se avesse vinto Marine Le Pen, forse il ripensamento sull’Europa sarebbe stato più rapido. Così invece, per scuotersi, bisognerà soffrire la continuazione della stagnazione, per la Francia e per l’Europa. Vale quello che dissi tanti anni fa per Berlusconi: lasciatelo governare, e si capirà che è un cattivo statista». Gioele Magaldi non ha dubbi: Emmanuel Macron riuscirà nella “missione impossibile” di far rimpiangere addirittura Hollande, passato alla storia come il meno stimato di tutti i presidenti francesi: «Macron è il prodotto “surgelato”, preconfezionato e perfetto per non cambiare nulla, cioè per riproporre quella stessa subalternità politica, istituzionale e sostanziale nell’adesione a un certo paradigma economico che hanno avuto Sarkozy e Hollande». Lo strano entusiasmo manifestato anche dal mainstream italiano per il neo-inquilino dell’Eliseo, paragonato a Renzi all’insegna del “nuovo”? Ma no: «Renzi e Macron sono vecchi: sono personaggi vecchi, anche se appaiono giovani grazie ai loro modi pieni di ritmo». E attenzione, non hanno un gran futuro davanti: «Così come Renzi non inganna più nessuno – la sua vittoria nel Pd è un po’ il canto del cigno – così Macron è un bambino nato morto, politicamente».All’indomani del voto francese, in collegamento con David Gramiccioli di “Colors Radio”, si esprime senza mezzi termini il massone progressista Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata”. Emmanuel Macron, insiste Magaldi, rappresenta «la perfetta continuità rispetto a quello che è stato il mediocre Hollande», ma forse il successore «ha capacità anche minori di Hollande, che era un oscuro burocrate di partito ma almeno aveva una sua “praticaccia”: Macron invece non ha altrettanta esprienza». Già banchiere Rothschild, ha fatto il consulente e poi il ministro proprio di Hollande. In più è il pupillo del supermassone reazionario Jacques Attali. Non a caso, aggiunge Magaldi, lo stesso Macron vanta precise ascendenze massoniche, «nella Ur-Lodge “Fraternitè Verte” dove lo ha portato lo stesso Hollande, e nell’ambigua superloggia “Atlantis Aletheia”, dove hanno convissuto moderati, sedicenti progressisti e reali conservatori; un circuito che fu importante, a suo tempo, nel traghettare la dittatura dei colonnelli in Grecia verso il ritorno alla democrazia».Il suo mentore Attali? «Un raffinato massone, un intellettuale di spessore», ma che purtroppo «operando sul versante del sedicente centro-sinistra ha compartecipato alla costruzione di quest’Europa matrigna, tecnocratica e oligarchica». Un’operazioni cosmetica, quella che ha portato Macron all’Eliseo. E, nonostante i lodevoli sforzi per rendere più laica la sua piattaforma, Marine Le Pen non poteva vincere: «Con un’avversaria così, impossibilitata a diventare maggioritaria, vincerà sempre l’altro, il candidato della continuità con questa gestione pessima dell’Europa». Magaldi poi sorride, di fronte a «tutta questa empatia sbandierata da Gentiloni e Renzi per Macron», e spiega: «Sarebbe come esultare se in Germania vincesse Schulz sulla Merkel – due che sono come i ladri di Pisa, litigano di giorno ma poi, la notte, vanno a rubare insieme». Stessi programmi, identico paradigma per l’Europa. «Macron riprodurrà quello stile renziano, fatto di velleitari distinguo rispetto all’austerity, apparenti “abbaiamenti” per chiedere lo 0,1% in più di spesa pubblica. E Macron non avrà nemmeno bisogno di abbaiare molto, perché alla Francia è stato sempre concesso tutto: in questa gestione dell’Europa, alla Francia la mancia è sempre stata assicurata, senza che nemmeno la chiedesse».Completamente da bocciare, quindi, ogni investimento di credito nei confronti di Macron. Se non altro, «il nuovo quinquennio servirà a smascherare definitivamente tutti questi impostori, che prendono sul serio l’idea renziana-macroniana dei piccoli aggiustamenti, riverniciata di gioventù e ottimismo, come se i piccoli aggiustamenti bastassero davvero a correggere il percorso europeo». Per Magaldi, in questa Europa, «il dramma è che al vertice di governi e istituzioni ci sono solo dei pesci lessi, che stanno lì e amministrano un copione scritto da altri, e lo fanno in modo grigio». Che fare? «Più che indignarsi, c’è da rimboccarsi le maniche e costruire coalizioni realmente progressiste, sia in Francia che in Italia che altrove, uscendo da questa ormai insopportabile narrazione “destra, centro, sinistra” che ha perso di senso, mentre ha sempre più senso la divaricazione tra chi vuole conservare l’attuale paradigma politico-economico e chi vuole progredire su un’altra via».Di una cosa, Magaldi è assolutamente certo: Renzi e Macron «vengono entrambi da una tarda interpretazione della cosiddetta “terza via” enunciata a suo tempo da Anthony Giddens», il sociologo che ispirò Bill Clinton e Tony Blair negli anni ‘90. Ovvero: «L’idea che la sinistra – laburista, democratica, post-socialista – nel nuovo millennio non dovesse proporre paradigmi alternativi a quello del neoliberismo ormai imperante, da Thathcher e Reagan in poi, con tutto il lavorio supermassonico di corredo». Quella sinistra doveva azzerare i diritti, e l’ha fatto: rigore nei bilanci pubblici, svalutazione della sfera pubblica, deregulation senza contrappesi. «Alla sinistra spettava il ruolo di dare una spruzzata di benevolenza sociale e di solidarietà più sbandierata che praticata. Quindi: smantellamento sistematico del welfare system, e una serie di iniziative economico-finanziarie non troppo dissimili da quelle predicate, con più asprezza, dai teorici fanatici del neoliberismo». Questa è stata la “terza via”. «E chi oggi in Italia contesta Renzi da posizioni di “sedicente sinistra”? Massimo D’Alema, che da presidente del Consiglio è stato uno degli interpreti “all’amatriciana” di quella strada. Così è stato Bersani, che oggi si presenta come contestatore. E così è Renzi, a distanza di vent’anni».«Se avesse vinto Marine Le Pen, forse il ripensamento sull’Europa sarebbe stato più rapido. Così invece, per scuotersi, bisognerà soffrire la continuazione della stagnazione, per la Francia e per l’Europa. Vale quello che dissi tanti anni fa per Berlusconi: lasciatelo governare, e si capirà che è un cattivo statista». Gioele Magaldi non ha dubbi: Emmanuel Macron riuscirà nella “missione impossibile” di far rimpiangere addirittura Hollande, passato alla storia come il meno stimato di tutti i presidenti francesi: «Macron è il prodotto “surgelato”, preconfezionato e perfetto per non cambiare nulla, cioè per riproporre quella stessa subalternità politica, istituzionale e sostanziale nell’adesione a un certo paradigma economico che hanno avuto Sarkozy e Hollande». Lo strano entusiasmo manifestato anche dal mainstream italiano per il neo-inquilino dell’Eliseo, paragonato a Renzi all’insegna del “nuovo”? Ma no: «Renzi e Macron sono vecchi: sono personaggi vecchi, anche se appaiono giovani grazie ai loro modi pieni di ritmo». E attenzione, non hanno un gran futuro davanti: «Così come Renzi non inganna più nessuno – la sua vittoria nel Pd è un po’ il canto del cigno – così Macron è un bambino nato morto, politicamente».
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Attali, cioè Macron: salvare la Francia a spese dell’Italia
Ho riletto recentemente un libro importantissimo, il saggio “Come finirà” di Jacques Attali: ebreo, estremamente influente, consigliere di svariati presidenti francesi senza distinzione partitica e soprattutto vero mentore di Emmanuel Macron, molto probabilmente il prossimo presidente d’oltralpe. Oggi molti in Italia pensano erroneamente che avere un giovane come presidente in Francia sia una buona notizia. Nulla di più errato, sarà il perfetto contrario per gli interessi italici. Visto che quanto verrà fatto da Macron ricalcherà le idee di Attali ben spiegate nel saggio in oggetto, vale la pena di spiegarvi quale può essere la strategia eurofrancese del nuovo presidente in relazione all’Italia. Notasi: il saggio citato è del 2010, ossia antecedente a tutti gli eventi più scottanti che hanno riguardato l’Italia, di fatto anticipati in modo addirittura imbarazzante. In breve, i concetti fondamentali che emergono dallo splendido saggio sopra citato sono, secondo chi, scrive quattro. Primo: la storia insegna che gli Stati perdono la loro autonomia venendo fin anche smembrati principalmente a causa dell’eccesso di debito (normalmente in presenza di un debito eccessivo si diventa un protettorato alla mercè di chi detiene le tue obbligazioni).Secondo: appunto, la crisi del 2008 secondo l’autore non fu una semplice recessione ricorrente ma una vera crisi sistemica del modello capitalistico occidentale del primo mondo, a causa principalmente di un accumulo eccessivo di debito con corrispondente enorme creazione di credito bancario, per sostenere i consumi altrimenti asfittici. Terzo: l’Italia – secondo Attali – era messa particolarmente male a causa dell’enorme debito pubblico, con inevitabili crisi prospettiche; nonostante questo, lo stesso autore ammette che l’uscita dall’euro sarebbe stata utile all’Italia, ma questo avrebbe disintegrato l’Ue e quindi gli interessi di Francia e Germania soprattutto a causa delle conseguenze del subprime, positivissime per Roma in rapporto alle altre capitali ex-coloniali europee (le cui banche erano tecnicamente fallite e infatti vennero salvate in larga parte dallo Stato). Alcuni esempi di banche fallite in Europa, dove lo Stato dovette intervenire con la segregazione dei debiti in “bad banks” o ricapitalizzazioni: Ubs, Ing, Ikb, WestLb, Dexia, Lloyds, Rbs, Northern Rock, Hsh Nordbank, Santander, Bank of Ireland, Commerzbank, Deutsche Postbank, ecc.Il punto 4, l’ultimo, lo spiegherò di seguito. Prima una contestualizzazione importante, taciuta (ad arte) da Attali che – non dimentichiamolo mai – resta profondamente francese: nel 2009 l’Italia presentava il sistema bancario più sano dell’Occidente grazie ad una relativa arretratezza che aveva evitato agli istituti nazionali – a pena di rendimenti passati più bassi delle controparti estere – di prendere rischi che non si comprendevano. Ad esempio i debiti subprime nei portafogli delle banche italiane erano relativamente ridotti, idem i crediti concessi alla Grecia. E senza dimenticare che gli immobili in Italia salirono sì ad inizio millennio, ma non raggiunsero mai i livelli folli di Irlanda, Spagna e finanche Olanda. Ossia i debiti inesigibili italiani, a fronte di una economia che tutto sommato teneva, erano perfettamente sotto controllo. L’unica banca italiana che soffriva era Unicredit, a causa delle sue partecipate tedesche e austriache. Ma tale istituto venne di fatto salvato da Gheddafi, sempre vicino all’Italia nel momento del bisogno (sua madre era italiana). Molto probabilmente tale intervento a salvataggio di Unicredit rappresentò il giusto motivo per toglierlo di mezzo.Ora il punto 4: i paesi fortemente indebitati e in crisi del 2009 – Italia esclusa, come abbiamo visto – rappresentavano il primo mondo; in tale contesto non potevano crollare e, come sempre capita quando si parla di potenze coloniali, fu necessario fare in modo che il debole pagasse per te (…). Da qui la decisione dei grandi europei di imputare colpe tutto sommato inesistenti all’Italia, con il fine di impossessarsi dei suoi attivi, per salvarsi loro stessi. Forse ora si capisce la reiterata richiesta a Berlusconi di fare arrivare la Troika in Italia. Il Cavaliere giustamente rifiutò e sappiamo come è andata a finire. Poi l’austerità imposta dall’Eu franco-tedesca via Mario Monti e continuata con Letta e Renzi (tutti e tre cooptati dall’Eu francotedesca, il primo al limite del criminale per le conseguenze dei suoi provvedimenti) ha fatto il resto, indebolendo le imprese nazionali e quindi creando i famosi crediti inesigibili “Npl”, che vediamo oggi su tutti i giornali (dopo 6 anni di recessione imposta dall’austerità è un miracolo non essere ancora falliti). Ora, Attali scrisse in tempi non sospetti nel suo saggio che l’Italia non poteva ne può uscire dall’euro, altrimenti salta l’Ue e dunque prima di tutto la Francia, oberata da privilegi statali enormi. Dunque, Macron cosa farà quando sarà alla presidenza francese? Semplice, seguirà le ricette economiche di Attali. Ossia per salvare la Francia supporterà il più possibile l’austerità a danno dell’Italia, che dovrà accettare la Troika. Ossia spogliarsi dei propri beni anche con tassazione enorme verso i propri concittadini.Vedremo se a causa di ciò il Belpaese diventerà semplicemente povero o verrà anche fatto a pezzetti. Per inciso, di uscire dall’euro manco a parlarne (ed ora con Trump “normalizzato” anche l’ultima speranza è morta). Ah, dimenticavo: in questi casi la storia insegna che il sangue per le strade è immancabile. E se pensate che – come “sempre” è accaduto – “qualcuno” difenderà il Belpaese da tale ignobile fine, temo vi sbagliate: guardate solo chi è stato insignito della Legion D’Onore francese tra i notabili italiani per capire che una buona parte dell’intellighenzia italica tiferà estero, sono certo che per riffa o per raffa tutti sono stipendiati da fuori Italia. Ne cito solo alcuni: Carlo De Benedetti, Gilberto Benetton, Anna Maria Tarantola, Claudio Scajola, Enrico Letta (proposto per quest’anno), il generale degli alpini Massimo Panizzi (quello che dovrebbe presidiare il confine alpino con i vicini d’oltralpe). Poi l’immancabile Romano Prodi e anche Giorgio Napolitano. Eccetera. Fortunatamente ci sono anche soggetti veramente onorevoli che la Legion d’Onore l’hanno rifiutata: su tutti il generale Tricarico, che la rispedì al mittente in protesta per il di fatto attacco agli interessi italiani di Sarkozy in Libia del 2011 (tutti in piedi a salutare con orgoglio tale valoroso rappresentanze della nazione, uno dei pochissimi). Auguroni davvero.(Mitt Dolcino, “Il mentore di Macron, Attali, ha previsto il fallimento dell’Italia, per salvare l’Eu. Pessime notizie per il futuro”, da “Scenari Economici” del 26 aprile 2017).Ho riletto recentemente un libro importantissimo, il saggio “Come finirà” di Jacques Attali: ebreo, estremamente influente, consigliere di svariati presidenti francesi senza distinzione partitica e soprattutto vero mentore di Emmanuel Macron, molto probabilmente il prossimo presidente d’oltralpe. Oggi molti in Italia pensano erroneamente che avere un giovane come presidente in Francia sia una buona notizia. Nulla di più errato, sarà il perfetto contrario per gli interessi italici. Visto che quanto verrà fatto da Macron ricalcherà le idee di Attali ben spiegate nel saggio in oggetto, vale la pena di spiegarvi quale può essere la strategia eurofrancese del nuovo presidente in relazione all’Italia. Notasi: il saggio citato è del 2010, ossia antecedente a tutti gli eventi più scottanti che hanno riguardato l’Italia, di fatto anticipati in modo addirittura imbarazzante. In breve, i concetti fondamentali che emergono dallo splendido saggio sopra citato sono, secondo chi, scrive quattro. Primo: la storia insegna che gli Stati perdono la loro autonomia venendo fin anche smembrati principalmente a causa dell’eccesso di debito (normalmente in presenza di un debito eccessivo si diventa un protettorato alla mercè di chi detiene le tue obbligazioni).
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Carpeoro: ucciso il socialismo, era l’antidoto all’orrore Ue
Hanno ucciso Olof Palme, il migliore dei leader, per assassinare il socialismo in Europa, intimidire e poi togliere di mezzo personaggi come Schmidt e Mitterrand (e volendo, lo stesso Craxi). Obiettivo: far stravincere l’oligarchia finanziaria e mettere in piedi l’attuale obbrobrio chiamato Unione Europea. Faceva paura, il premier svedese? Eccome: acerrimo avversario di ogni totalitarismo, in Svezia aveva varato un’economia mista, con quote di controllo allo Stato, nelle aziende, e quote di partecipazione assegnate ai lavoratori. Pragmatismo, coraggio. E soprattutto idee: «E’ di quelle che ha paura, il potere. Per questo ha trasformato la parola “ideologia” in una specie di insulto. Ma l’ideologia è il futuro, il progetto. E senza idee, non puoi fare nessun progetto». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo e romanziere, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, intervenuto in un recente convegno a Roma. L’occasione per una riflessione anche storica sull’eredità del socialismo: se la nostra società occidentale è ridotta così, alla solitudine dell’homo homini lupus, è perché è stato scientificamente, chirurgicamente asportato il virus benefico del socialismo. Anche con il terrorismo, e non da oggi.Alla tragedia del leader socialdemocratico svedese, ucciso a Stoccolma nel 1986 da un killer mai identificato, Carpeoro ha dedicato lunghe pagine del suo lavoro sui legami occulti tra massoneria, servizi segreti e terroristi (il sistema della “sovragestione”). Ed è tornato sul tema a margine del simposio “Le forme della democrazia”, promosso dal Movimento Roosevelt, fondato da Gioele Magaldi. Cos’è stato, il socialismo? Cos’è oggi, e cosa potrebbe essere domani? «Non è stato un pensiero statico, ha avuto un’evoluzione storica, politica», e ora è stato letteralmente rimosso. «Da dov’era partito, il socialismo? Da molto lontano», esordisce Carpeoro: da un periodo di grande riflessione spirituale. «Senza scomodare i Rosacroce», già nel ‘600 si trovano svariate opere proto-socialiste: “Utopia” di Tommaso Moro, “La città del sole” di Tommaso Campanella, “La nuova Atlantide” di Francesco Bacone. Fino ad arrivare a opere meno conosciute, come quelle di Johann Valentin Andreae, presunto autore dei manifesti rosacrociani dell’epoca, che chiude la sua esistenza scrivendo “Christianopolis”, dove racconta il naufragio in un’isola (Caphar Salama) che viene governata in maniera socialista.«Perché la chiamo socialista? Perché una serie di capisaldi di queste opere caratterizzeranno la fase che Marx, con intento quasi spregiatorio, chiamerà “socialismo utopistico”». Ma la parola “utopia”, ricorda Carpeoro, non esisteva nemmeno, prima di Tommaso Moro. «L’ha inventata lui. E’ un neologismo di origine greca, significa “non luogo”. Lo stesso Marx, dunque, citando il “socialismo utopistico”, si richiama a Tommaso Moro». E come nasce, il socialismo utopistico? Ha varie declinazioni: è anarchica quella di Pierre-Joseph Proudhon, quasi mistica quella di Henri de Saint-Simon. Ci sono interpretazioni più pragmatiche, e c’è una declinazione, «forse la più illuminata», che è quella di Auguste Blanqui. «Ma in tutte queste declinazioni ci sono i capisaldi di quello che, secondo gli utopisti del ‘600, doveva essere lo Stato perfetto, la comunità perfetta, con l’abolizione della proprietà privata». In sostanza, «si cominciava a riconoscere il diritto delle persone a vivere secondo dignità e aspettative». Perché questi diritti vengano finalmente riconosciuti in modo istituzionale ci vorrà Eleanor Roosevelt, con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo alle Nazioni Unite nel 1948. «Ma queste idee erano state in qualche modo anticipate già quattro secoli prima». Giustizia e libertà. Tradotto: una società che riconosca il giusto a ognuno, dando a ciascuno la possibilità di scegliere. «Sembra una cosa semplice, no? Eppure, noi ancora non l’abbiamo creata, una società così».Nella sua storia, aggiunge Carpeoro, il movimento socialista si è continuamente frammentato. Lo dimostra la stessa storia del Psi italiano, fondato a Genova nel 1892 da Filippo Turati, «che sarà forse il socialista più coerente», fedele all’impostazione iniziale del progetto ottocentesco, rivoluzionario. Obiettivo: la “guerra” alla società classista del sistema capitalistico, che sottomette e sfrutta contadini e operai. Due mosse: prima la rivoluzione, per abbattere il sistema padronale, e poi l’abolizione delle classi sociali. Come? “Socializzando” i mezzi di produzione, l’economia, le industrie, e distribuendo le terre ai contadini. Poi irrompe Marx, che «istituzionalizza questa sorta di diagnosi», e pensa a come realizzare il disegno rivoluzionario e la fase successiva. «Marx chiama tutto questo “socialismo scientifico”, da contrapporre a quello che lui, disprezzandolo un po’, chiamava “socialismo utopistico”». Ma l’obiettivo, aggiunge Carpeoro, non era forse arrivare comunque all’utopia? «L’eliminazione delle classi cos’è, se non la realizzazione di “Utopia”, della “Nuova Atlantide”, della “Città del Sole”?». In ogni caso, poteva il “fiume” socialista restare interamente ancorato a questo schema? No, ovviamente. E così cominciano le divisioni.«La prima scissione, nel mondo socialista, è quella degli anarchici», ricorda Carpeoro. «Per loro non esiste la fase intermedia, si annulla tutto: nella loro visione, la dissoluzione dello Stato capitalistico è una fase contestuale all’impulso rivoluzionario». Poco dopo, vanno per la loro strada anche i comunisti: «Hanno una visione schematica, per la quale bisogna arrivare con quei passaggi, alla soluzione», che è sempre rivoluzionaria. Rimane il nucleo socialista, che – in Italia come in Europa – si divide a sua volta: nascono i “riformisti”, che restano anti-capitalisti e combattono per la giustizia sociale, ma rinunciano alla rivoluzione come mezzo per ottenerla. Poi ci sono quelli che, successivamente, si chiameranno “socialdemocratici”, come Leonida Bissolati, «i quali aboliscono anche il passaggio finale, l’abbattimento del capitalismo», e quando poi si radicheranno anche nel Pci prenderanno il nome di “miglioristi”. Secondo loro è irrealistica la rinuncia al sistema liberale. Semmai, il capitalismo va corretto con continue migliorie, per guarirne le distorsioni. Nell’800 c’era stato anche il filone dei “socialisti libertari”, che «declineranno il socialismo esclusivamente all’interno dei diritti civili e delle libertà, senza più occuparsi di strategie di governo».Il socialismo libertario, spiega Carperoro, era ciò che era rimasto di un’ulteriore scissione, quella di Mazzini: litigando con Garibaldi, l’ideologo del Risorgimento si era portato via «quel nucleo che poi diventerà l’area laica», repubblicani e Partito d’Azione). Ma, superata la tragedia della Prima Guerra Mondiale – intervisti, neutralisti – e poi il blackout planetario del nazifascismo, nel dopoguerra «dagli anni ‘70 in poi, l’unica direttiva che lentamente si afferma, nel socialismo, è quella socialdemocratica», alimentata anche dalla guerra fredda: nel fatidico 1956 il leader sovietico Khrushev alimenta grandi speranze con la denuncia dei crimini di Stalin, ma nello stesso anno non riesce a evitare la sanguinosa repressione della rivolta popolare scoppiata in Unghieria, replicata nel ‘68 con il soffocamento della “Primavera di Praga”. «In realtà – prosegue Carpeoro – si avvia quella che nel ‘70 si chiamerà “terza via”, cioè la possibilità di trovare una composizione della società, correggendone le deviazioni, verso una maggiore giustizia sociale: cosa che la socialdemocrazia europea considerava assolutamente irrinunciabile».E questa linea, particolarmente efficace perché moderata nelle forme quanto incisiva nei contenuti, «trova un eroe assolutamente straordinario», anche se è «un personaggio di cui non parla mai nessuno». Straordinario «da tutti i punti di vista (anche dal mio, perché era massone come me)», ammette Carpeoro, parlando di Olof Palme. «E’ stato uno dei personaggi più fulgidi del ‘900. Vi invito a leggere i suoi scritti, e soprattutto a rimetterlo sulle bandiere». Il leader svedese, intanto, «è la prima vittima di una congiura contro il socialismo». Attenzione: «Nell’arco di vent’anni, i grandi leader socialisti europei vengono tutti cancellati, in circostanze ambigue. Olof Palme viene ucciso mentre è presidente del Consiglio, in Svezia. E non è che ne sia parlato molto in Europa. Ancora oggi si parla di Che Guevara, non di Olof Palme. Ma è un eroe». E viene ucciso da killer rispetto ai quali «emergono connessioni con ambienti dell’estrema destra e anche, purtroppo, della massoneria: in un telegramma piuttosto equivoco, alla vigilia dell’attentato, Licio Gelli scrive a un parlamentare americano, Philip Guarino, che nel giro di pochi giorni “la palma svedese” sarebbe “caduta”, come la Svezia pullulasse di palme».Lo stesso Craxi, ricorda Carperoro, vinse lo storico congresso del Psi al Midas, da cui nacque la sua leadership, «con un programma che al 50% era quello di Olof Palme, che era il padre nobile di tutti questi socialisti europei». Poi ovviamente «ognuno è libero di considerare i seguaci degni o non degni, ma resta il fatto che Palme aveva dato un programma socialista all’Europa». Dopo il drammatico “avvertimento” rappresentato dall’omicidio di Stoccolma, nessuno dei seguaci di Palme gli sopravviverà – politicamente, quantomeno. «Craxi, in circostanze che non riesco a considerare nitide (e con tutti i suoi errori, certo) viene comunque rimosso dalla vita politica italiana. Poi viene rimosso Mitterrand, in Francia. E viene rimosso Schmidt in Germania, con uno scandaletto. E pensate che, dopo tutte queste concatenazioni nel giro di pochi anni, poi la si faccia casualmente, l’Europa unita, nel modo in cui è stata fatta?». Per Carpeoro, c’è poco da cianciare di complottismo: «Sono stati eliminati i vertici di un movimento politico che aveva un capofila importante».Palme, già attivissimo come leader del suo partito, ha poi svolto due mandati come presidente del Consiglio, in Svezia, «e il secondo l’ha fatto coram populo». Disse: «Io non sono contro il capitalismo, voglio solo tagliargli le unghie ogni tanto». E’ questo il ruolo del socialismo, sottolinea Carpeoro: «Per questo il socialismo è necessario, è indispensabile a questa società. Anche perché, senza socialismo (come, del resto, senza liberismo) questa società non può camminare. Deve avere due ruote, un polo conservatore e un polo progressista. E possibilmente, questi due poli devono essere talmente di qualità che il fatto che si possano alternare al potere deve dipendere solo dalle condizioni del momento». Il liberismo sfrenato? «Non ha fatto male, all’America, appena è stato introdotto da Reagan. Poi però ci si doveva fermare. Se qualcuno ti progetta un regime oligarchico ultraliberista e senza regole per vent’anni, ti vuoi meravigliare se poi il risultato sono le banche che saltano, i soldi che non viaggiano, l’economia che non gira? E’ una forma di staticità della società, e la società non può essere statica».Di fronte alla drastica possibilità di nazionalizzare le aziende, Olof Palme adottò una soluzione intermedia, ispirata alla teoria dell’economista Rudolf Meidner: una quota ai lavoratori, una quota di controllo allo Stato e una quota al privato. «Non per tutto: solo per le aziende in difficoltà. E ha funzionato, in Svezia. Il problema è che poi Palme l’hanno ammazzato». E in Italia? «Se avessero adottato lo schema Meidner, anche da noi, forse molte aziende in difficoltà sarebbero sopravvissute, e i sacrifici richiesti alle nostre maestranze sarebbero stati vissuti in maniera diversa». Non c’è bisogno di tornare all’antico, all’assistenzialismo dell’Iri, basterebbe la leva dei benefici fiscali, alla portata di uno Stato che possedesse quote di aziende. Perché nonè successo? «Perché noi non abbiamo avuto il coraggio di fare quello che Palme ha osato fare, in Svezia, dal ‘69 in poi». Rimettere mano, oggi, alla “contaminazione” socialista? Assolutamente sì, come stimolo ideologico: «Progetto e ideologia sono la stessa cosa: non puoi fare un progetto se non hai un’ideologia. E l’aver trasformato l’ideologia in un insulto è la riprova che a questo sistema, le cose che hanno idee, fanno paura. Il potere le teme, vuole cose senza idee. Vogliono un encefalogramma piatto come quello di Renzi, dove non ci sono onde».Hanno ucciso Olof Palme, il migliore dei leader, per assassinare il socialismo in Europa, intimidire e poi togliere di mezzo personaggi come Schmidt e Mitterrand (e volendo, lo stesso Craxi). Obiettivo: far stravincere l’oligarchia finanziaria e mettere in piedi l’attuale obbrobrio chiamato Unione Europea. Faceva paura, il premier svedese? Eccome: acerrimo avversario di ogni totalitarismo, in Svezia aveva varato un’economia mista, con quote di controllo allo Stato, nelle aziende, e quote di partecipazione assegnate ai lavoratori. Pragmatismo, coraggio. E soprattutto idee: «E’ di quelle che ha paura, il potere. Per questo ha trasformato la parola “ideologia” in una specie di insulto. Ma l’ideologia è il futuro, il progetto. E senza idee, non puoi fare nessun progetto». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo e romanziere, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, intervenuto in un recente convegno a Roma. L’occasione per una riflessione anche storica sull’eredità del socialismo: se la nostra società occidentale è ridotta così, alla solitudine dell’homo homini lupus, è perché è stato scientificamente, chirurgicamente asportato il virus benefico del socialismo. Anche con il terrorismo, e non da oggi.
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Harry Potter all’Eliseo: partiti (e cittadini) non servono più
Nei salotti mainstream campeggia la figura del nuovo Harry Potter francese sbucato dal nulla, il maghetto dei miracoli elettorali scaturito come un sortilegio con un’unica missione, sbarrare la strada dell’Eliseo a Marine Le Pen per tamponare la falla apertasi nell’euro-sistema dopo la defezione della Gran Bretagna. Umoristi e politologi si cimentano in suggestivi paragoni tra Macron e Renzi, l’uno “senza partito” e l’altro con al seguito il riottoso Pd, come se in Europa i partiti dell’establishment avessero prodotto un leader degno di tale nome, negli ultimi trent’anni. Partiti – tutti – fanatizzati (fronte destro) o infiltrati (fronte sinistro) dall’unico vero potere rimasto in campo, quello – non elettivo, non democratico, non responsabile – del Big Business, multinazionali finanziarizzate, cupole bancarie, retrobottega supermassonici internazionali alle prese, dagli anni ‘80, con le ininterrotte alchimie globaliste, fondate su rivoluzioni invisibili ma inarrestabili: lavoro e consumi, stili di vita, nuove tecnologie e colossali speculazioni, manipolazioni mediatiche e terremoti geopolitici regolarmente pilotati, fino all’abominio (indicibile) dell’auto-terrorismo funzionale alla “guerra infinita” con la sua filiera dell’orrore, dai super-armamenti al subdolo super-spionaggio di massa inflitto agli ignari cittadini, tra email e smartphone.E’ la fotografia – inquietante – che ormai scattano, sul fronte web, gli analisti più critici e pessimisti, allarmati da quello che appare uno scenario quotidiano di guerra, alimentato da crisi continue (economiche, finanziarie, climatiche, demografiche) e devastazioni sempre più dirompenti, di cui l’esodo biblico dei migranti sembra solo la vetta di un iceberg che persino gli osservatori meglio documentati faticano a misurare per intero, data la sua imponderabile vastità, in continua evoluzione. Un terremoto costante, senza più argini da parte di alcuna istituzione: il diritto internazionale sembra un residuato archeologico, smarrito nel feroce caos quotidiano, tra proiezioni, statistiche e “fake news” televisive, dove nessuno sembra in grado allungare davvero lo sguardo nemmeno sul semestre seguente, nell’unica certezza che il potere – quello dei veri decisori – sia lontanissimo, irraggiungibile e neppure coeso, ma dilaniato al suo interno da scontri durissimi. Guerre segrete senza quartiere, di cui al pubblico, qualche volta, può arrivare soltanto l’eco. Nonostante questo, si recita – ancora – lo spettacolo delle elezioni, la democrazia rappresentativa, che sa ancora generare fenomeni di auto-ipnosi fino alla tifoseria, dalla Brexit al referendum italiano, dal voto per la Casa Bianca a quello per la presidenza francese.I soliti esperti si affrettano a dichiarare chiusa la partita, in Francia, con la scontata vittoria di Macron, mentre altri osservatori – come il direttore di “Limes”, Lucio Caracciolo – preferiscono la prudenza: messi insieme, i due candidati antisistema (Le Pen e Mélenchon) sono il “primo partito” francese, e non è detto che i grandi sconfitti del primo turno riescano a far convergere i loro voti sul “maghetto” dei Rothschild. Che cosa poi riuscirebbe davvero a fare la Le Pen, se eletta, non è dato immaginarlo. Se non altro, il suo Front National è un super-partito a tutto tondo, tradizionale, fatto di sezioni e votazioni congressuali. Un “luogo della democrazia” dove il consenso cresce per gradi, confrontando opzioni e programmi. Cioè esattamente quello che è andato scomparendo altrove, dall’ectoplasma post-politico del Pd renziano fino all’estremo esperimento “apartitico” di Macron, che celebra l’estinzione definitiva dell’entità-partito come ponte, teorico e pratico, tra il cittadino e l’istituzione. Sembra il compimento del Vangelo di Lewis Powell, 1971: svuotare la democrazia per demolire la sinistra dei diritti sociali, da cui l’azione della Trilaterale e i cantori della “crisi della democrazia”. Un piano inclinato, inesorabile: la Guerra del Golfo, e l’11 Settembre, il Medio Oriente trasformato in inferno per profughi. Fino alla follia della guerra con la Russia, subita da un’Europa letteralmente frastornata, messa in croce dall’Eurozona.Rassegnatevi: i partiti non servono, non serviranno più. E’ il messaggio che proviene dal mezzo successo francese di Macron. Mettetevi l’anima in pace: è finita per sempre l’epoca delle assemblee, dei delegati. E’ già nella spazzatura della storia, insieme ai sindacati. E in Italia, la presunta alternativa in campo – il Movimento 5 Stelle – è guidato da un leader che licenzia chiunque non gli piaccia. Non è mai stato celebrato un solo congresso. Le periodiche votazioni, che pure avvengono, si svolgono online. E chi partecipa può scegliere solo in base a un menù predefinito, a monte, da un vertice-fantasma che nessuno ha eletto. L’avatar Macron è il futuro che ci aspetta? Certamente sì, scommettono i più esasperati, se i cittadini non si decidono a riappropriarsi della loro sovranità essenziale, fondata sulla partecipazione. Gli strumenti di ieri sono tutti caduti, archiviati, rottamati. Per contro, cresce la frustrazione degli esclusi, che sospettano di essere ormai la grande maggioranza. Un vastissimo popolo, ancora immobile. Strattonato dalle crisi a testata multipla – lavoro, sicurezza – e intimidito ogni giorno da notizie spaventose, attentati, previsioni angoscianti. La scomparsa del futuro è ormai spacciata per normalità. Il calcio tiene ancora banco, più che mai. E nelle tabaccherie furoreggia il Superenalotto. C’è chi sostiene che i grandi decisori siano inquieti, che temano la rabbia dei delusi, elettoralmente espressa dai cosiddetti populismi. Ma basta fare un giro su Facebook, su WhatsApp, per scoprire che non ci sono rivoluzioni culturali in vista.Nei salotti mainstream campeggia la figura del nuovo Harry Potter francese sbucato dal nulla, il maghetto dei miracoli elettorali scaturito come un sortilegio con un’unica missione, sbarrare la strada dell’Eliseo a Marine Le Pen per tamponare la falla apertasi nell’euro-sistema dopo la defezione della Gran Bretagna. Umoristi e politologi si cimentano in suggestivi paragoni tra Macron e Renzi, l’uno “senza partito” e l’altro con al seguito il riottoso Pd, come se in Europa i partiti dell’establishment avessero prodotto un leader degno di tale nome, negli ultimi trent’anni. Partiti – tutti – fanatizzati (fronte destro) o infiltrati (fronte sinistro) dall’unico vero potere rimasto in campo, quello – non elettivo, non democratico, non responsabile – del Big Business, multinazionali finanziarizzate, cupole bancarie, retrobottega supermassonici internazionali alle prese, dagli anni ‘80, con le ininterrotte alchimie globaliste, fondate su rivoluzioni invisibili ma inarrestabili: lavoro e consumi, stili di vita, nuove tecnologie e colossali speculazioni, manipolazioni mediatiche e terremoti geopolitici regolarmente pilotati, fino all’abominio (indicibile) dell’auto-terrorismo, funzionale alla “guerra infinita” con la sua filiera dell’orrore, dai super-armamenti al subdolo super-spionaggio di massa inflitto agli ignari cittadini, tra email e smartphone.