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Chemioterapia? No, grazie: non guarisce e uccide prima
“Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale”, recita il Giuramento di Ippocrate. Quanti medici lo rispettano? E che dire degli oncologi che prescrivono la chemioterapia, così come i governi che li obbligano a seguire il protocollo anti-cancro basato su chemio e radioterapia? Poco nota al grande pubblico è la vasta ricerca condotta per 23 anni dal professor Hardin Jones, fisiologo dell’Università della California, presentata già nel 1975 a Berkeley. Oltre a denunciare l’uso di statistiche falsate, Jones prova che i malati di tumore che non si sottopongono alle terapie canoniche sopravvivono più a lungo. Il professor Jones dimostra che le donne malate di cancro alla mammella che hanno rifiutato le terapie convenzionali mostrano una sopravvivenza media di 12 anni e mezzo, quattro volte superiore a quella (di appena 3 anni) raggiunta dalle donne che accettano le cure complete. Un’altra ricerca, pubblicata su “The Lancet”, rivela che, su 188 pazienti affetti da carcinoma inoperabile ai bronchi, la vita media di quelli trattati con la chemio è stata di 75 giorni, contro i 120 dei pazienti non trattati.Se queste ricerche sono veritiere, osserva Marcello Pamio, autore di “Cancro SpA, leggere attentamente le avvertenze”, una persona malata di tumore ha statisticamente una percentuale maggiore di sopravvivenza se non segue i protocolli terapeutici ufficiali. «Con questo non si vuole assolutamente spingere le persone a non farsi gli esami», ma si vogliono fornire semplicemente «informazioni che normalmente vengono oscurate». Informazioni spesso decisive per trovare la giusta terapia. «La scelta è sempre e solo individuale: ogni persona deve assumersi la propria responsabilità, deve prendere in mano la propria vita. Dobbiamo smetterla di delegare il medico, lo specialista, il mago, il santone che sia. Nessun altro deve poter decidere al posto nostro». Tra le cose che normalmente il sistema sanitario non ci racconta, oltretutto, c’è l’auto-guarigione: un’altissima percentuale di individui è affetta (senza saperlo) da tumori “in situ”, neutralizzati e resi inoffensivi dall’organismo. Lo ha spiegato Luigi De Marchi, psicologo clinico, autore di saggi conosciuti a livello internazionale: moltissimi di noi convivono con tumori inoffensivi, “incapsulati” all’interno del corpo.Parlando con un amico anatomo-patologo del Veneto sui dubbi dell’utilità delle diagnosi e delle terapie anti-tumorali, De Marchi si sentì rispondere: «Sapessi quante volte, nelle autopsie sui cadaveri di vecchi contadini delle nostre valli più sperdute, ho trovato tumori regrediti e neutralizzati naturalmente dall’organismo: era tutta gente che era guarita da sola del suo tumore ed era poi morta per altre cause, del tutto indipendenti dalla patologia tumorale». Ma allora, si domandò De Marchi, la tanto conclamata diffusione delle patologie cancerose negli ultimi decenni è solo un’illusione ottica? E’ prodotta dalla diffusione delle diagnosi precoci di tumori che un tempo passavano inosservati e regredivano naturalmente? «E se il tanto conclamato incremento della mortalità da cancro fosse solo il risultato dell’angoscia di morte prodotta sia dalle diagnosi precoci e dal clima terrorizzante degli ospedali, sia della debilitazione e intossicazione del paziente prodotte dalle terapie invasive, traumatizzanti e tossiche della medicina ufficiale?». Dubbio atroce: l’angoscia da diagnosi infausta e l’avvelamento da chemioterapia possono sabotare la capacità di auto-guarigione?«Con quanto detto da Luigi De Marchi – confermato anche da autopsie eseguite in Svizzera su cadaveri di persone morte non per malattia – si arriva alla sconvolgente conclusione che moltissime persone hanno (o avevano) uno o più tumori, ma non sanno (o sapevano) di averli», continua Pamio sul sito di “Arianna”, editrice specializzata in informazione alternativa, anche medica. Dall’indagine autoptica elvetica, eseguita su migliaia di persone decedute in incidenti stradali, è risultato qualcosa di sconvolgente: il 38% delle donne tra i 40 e 50 anni presentava un tumore al seno, il 48% degli uomini sopra i 50 anni aveva un tumore alla prostata, e il 100% delle donne e uomini sopra i 50 anni presentava un tumore alla tiroide. Attenzione: tutti tumori “in situ”, cioè incapsulati dal corpo e resi innocui. «Nel corso della vita è infatti “normale” sviluppare tumori: la stessa medicina sa bene che sono migliaia le cellule tumorali prodotte ogni giorno dall’organismo. Vengono distrutte o fagocitate dal sistema immunitario, se l’organismo funziona correttamente». Molti tumori regrediscono o rimangono incistati per lungo tempo, quando la forza risanatrice di ognuno è libera di agire. E se invece l’organismo viene gravemente debilitato da farmaci invasivi?Il più pericoloso è proprio la chemioterapia, il cui principio terapeutico è brutalmente semplice: si usano sostanze chimiche altamente tossiche per uccidere le cellule cancerose.Tuttavia, «non essendo in grado di distinguere le cellule sane da quelle neoplastiche (impazzite)», cioè i tessuti tumorali da quelli sani, «questa feroce azione mortale colpisce e distrugge l’intero organismo vivente». In altre parole, «si sono dimenticati di dirci che queste sostanze di sintesi sono dei veri e propri veleni». Racconta una paziente: «Il fluido altamente tossico veniva iniettato nelle mie vene. L’infermiera che svolgeva tale mansione indossava guanti protettivi perché se soltanto una gocciolina del liquido fosse venuta a contatto con la sua pelle l’avrebbe bruciata». Corollario: giorni interi in preda al vomito, perdita dei capelli, debilitazione catastrofica. «Ero una morta che camminava». Un malato di tumore viene avvertito che la chemio gli provocherà (forse) nausea, vomito e perdita dei capelli, ma siccome la chemio è l’unica cura ufficiale riconosciuta «si devono stringere i denti e firmare il consenso informato, cioè si sgrava l’azienda ospedaliera da qualsiasi responsabilità».In Italia, l’Istituto Superiore di Sanità ha stampato un fascicolo dal titolo “Esposizione professionale a chemioterapici antiblastici” per tutti gli addetti ai lavori, infermieri e medici che maneggiano fisicamente le fiale per la chemio. Sfogliando l’elenco dei veleni che compongono il cocktail letale, c’è de restare secchi. Ad esempio, gli “antraciclinici” sono “potenzialmente mutageni e cancerogeni” e possono produrre “cardiomiopatia cronica”, mortale nel 50% dei casi. Altra sostanza, la “procarbazina”: anch’essa cancerogena e mutagena, è anche teratogena (malformazione nei feti) e il suo impiego è associato a un rischio del 5-10% di leucemia acuta, che aumenta per i soggetti trattati anche con radioterapia. Un altro documento, sempre del ministero della sanità (commissione oncologica nazionale), avverte i sanitari del pericolo dell’esposizione ai veleni chemioterapici: «Si parla espressamente dei rischi per operatori e pazienti». Testualmente: «Nonostante numerosi chemioterapici antiblastici siano stati riconosciuti dalla Iarc (International Agency for Research on Cancer) e da altre autorevoli agenzie internazionali come sostanze sicuramente cancerogene o probabilmente cancerogene per l’uomo, a queste sostanze non si applicano le norme del Titolo VII del D.lgs n. 626/94 “Protezione da agenti cancerogeni”».«Infatti, trattandosi di farmaci – continua il documento ministeriale – non sono sottoposti alle disposizioni previste dalla Direttiva 67/548/Cee e quindi non è loro attribuibile la menzione di R45 “Può provocare il cancro” o la menzione R49 “Può provocare il cancro per inalazione”». Quindi queste sostanze, nonostante provochino il cancro, non possono essere etichettate come cancerogene (R45 e R49) semplicemente perché sono considerate “farmaci”. L’agenzia, scrive Pamio, è arrivata a queste definizioni prevalentemente attraverso la valutazione del rischio “secondo tumore”, che nei pazienti trattati con chemioterapici antiblastici può aumentare con l’aumento della sopravvivenza. «Infatti, nei pazienti trattati per neoplasia è stato documentato lo sviluppo di tumori secondari non correlati con la patologia primitiva». Massima allerta anche alla voce “smaltimento”: «Tutti i materiali residui dalle operazioni di manipolazione dei chemioterapici antiblastici (mezzi protettivi, telini assorbenti, bacinelle, garze, cotone, fiale, flaconi, siringhe, deflussori, raccordi) devono essere considerati rifiuti speciali ospedalieri». Vanno bruciati in inceneritore, a 1000 gradi, e non senza rischi: «La termossidazione, pur distruggendo la molecola principale della sostanza, può comunque dare origine a derivati di combustione che conservano attività mutagena».È pertanto preferibile «effettuare un trattamento di inattivazione chimica (ipoclorito di sodio) prima di inviare il prodotto ad incenerimento», conclude il ministero, secondo cui sono un pericolo anche le urine dei pazienti sottoposti al trattamento: «Dovrebbero essere inattivate prima dello smaltimento, in quanto contengono elevate concentrazioni di principio attivo». Nemmeno si trattasse di scorie nucleari: ma che razza di sostanze chimiche sono mai queste? «L’amara conclusione, che si evince dall’Istituto Superiore di Sanità, è che l’oncologia moderna per curare il cancro utilizza delle sostanze chimiche che sono cancerogene (provocano il cancro), mutagene (provocano mutazioni genetiche) e teratogene (provocano malformazioni nei discendenti)», scrive Pamio. «C’è qualcosa che non torna: perché ad una persona sofferente dal punto di vista fisico, psichico e morale, debilitata e sconvolta dalla malattia, vengono iniettate sostanze così tossiche?».Parlano chiaro i bugiardini dei farmaci velenosi, come le “mostarde azotate”. Incredibile ma vero, scrive sempre il ministero, queste sostanze-killer «furono prodotte per la prima volta negli anni ’20 e ’30 come potenziali armi chimiche». Particolarmente imbarazzante, oggi, il bilancio dell’oncologia dopo quarant’anni di inutile accanimento chemioterapico: oltre a non guarire dal tumore, i pazienti vengono intossicati e subiscono la proliferazione di tumori secondari, provocata proprio da componenti per “armi di distruzione di massa”, loro somministrate per via endovenosa. E’ il business del secolo, accusano i critici: non è un caso che Big Pharma si premuri di gettare discredito sulle terapie alternative, ormai sempre più diffuse viste le elevate possibilità di guarigione che sembrano offrire, senza peraltro compromettere l’organismo. Chemioterapia? No, grazie. «Per “curare” il tumore oggi vengono utilizzati degli “agenti vescicanti”, prodotti militari usati nelle guerre chimiche», conclude Marcello Pamio. «Anche se la ”guerra al cancro” viene portata avanti con ogni mezzo dall’establishment, ritengo che ci sia un limite a tutto».“Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale”, recita il Giuramento di Ippocrate. Quanti medici lo rispettano? E che dire degli oncologi che prescrivono la chemioterapia, così come i governi che li obbligano a seguire il protocollo anti-cancro basato su chemio e radioterapia? Poco nota al grande pubblico è la vasta ricerca condotta per 23 anni dal professor Hardin Jones, fisiologo dell’Università della California, presentata già nel 1975 a Berkeley. Oltre a denunciare l’uso di statistiche falsate, Jones prova che i malati di tumore che non si sottopongono alle terapie canoniche sopravvivono più a lungo. Il professor Jones dimostra che le donne malate di cancro alla mammella che hanno rifiutato le terapie convenzionali mostrano una sopravvivenza media di 12 anni e mezzo, quattro volte superiore a quella (di appena 3 anni) raggiunta dalle donne che accettano le cure complete. Un’altra ricerca, pubblicata su “The Lancet”, rivela che, su 188 pazienti affetti da carcinoma inoperabile ai bronchi, la vita media di quelli trattati con la chemio è stata di 75 giorni, contro i 120 dei pazienti non trattati.
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Gallino: con l’euro ci stanno facendo tornare al medioevo
«Una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa». Luciano Gallino, noto sociologo, parla così della sua ultima fatica “Il denaro, il debito e la doppia crisi” (Einaudi editore). Un testo, dedicato ai nipoti, che analizza l’attuale fase socio-economica: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tentativo di salvarsi, ogni speranza di realizzare una società migliore dall’attuale può essere abbandonata», si legge nella prefazione al libro. Il suo giudizio è netto, crudo e decisamente pessimista. A partire dagli anni Ottanta avremmo visto scomparire due pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella, appunto, del pensiero critico. Al loro posto ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la vincitrice assoluta della nostra era. Qual è la doppia crisi che va spiegata ai nipoti? «La crisi del capitalismo e del sistema ecologico. Due crisi strettamente legate tra loro».È possibile che il capitalismo attuale sia in una stagnazione senza fine, dichiara Gallino a Giacomo Russo Spena in un’intervista pubblicata da “Micromega”. Difficile che il sistema riprenda una marcia espansiva come se nulla fosse successo in questi anni: «Con la finanziarizzazione dell’economia, il capitalismo ha tramutato in merce un’entità immaginaria, ovvero il futuro. A tale desolante quadro, si collega la distruzione del nostro sistema ecologico». Ovvero: «Per ottemperare alla crisi, il capitalismo ha reagito devastando ambiente e consumando maggiori risorse, mentre nel mondo le materie prime sono in via di esaurimento. Ciò ha causato distruzioni all’ecosistema e danni climatici come il surriscaldamento del pianeta». I progressi intrapresi con il Protocollo di Kyoto? «I paesi sono lontani dal mantenere gli obiettivi prefissati, i risultati sotto gli occhi di tutti: l’innalzamento delle temperature, “bombe” d’acqua, alluvioni».Gallino narra la storia di una sconfitta politica. Al posto del pensiero critico ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale: la lotta di classe l’avrebbero vinta i ricchi. Ma come siamo arrivati a questo punto? «Dagli anni ’80 il pensiero neoliberale ha scatenato un’offensiva che ha messo sotto attacco le idee e le politiche di uguaglianza. Un apparato di super-ricchi e potenti ha imposto il proprio dominio su finanza, società e media. Nessun esponente politico ne è rimasto escluso, anche dopo il 2007 quando tale pensiero è entrato totalmente in crisi». In gioco, aggiunge il sociologo, non c’è soltanto la demolizione del welfare, ma «la ristrutturazione dell’intera società secondo il modello della cultura politica neoliberale, o meglio della sua variante, soprattutto se pensiamo al piano tedesco: l’ordoliberalismo», regolato da una ferra disciplina sociale a vantaggio dei più ricchi.A proposito delle ricette economiche adottate per affrontare la crisi, nel libro scrive che siamo dinanzi a casi conclamati di stupidità. «I governi dei paesi europei hanno sposato i paradigmi dell’economia neoliberale e perseguito il dogma dell’austerity non avanzando una sola spiegazione decente delle cause della crisi mondiale: i modelli intrapresi sono lontani anni luce della realtà dell’economia. Hanno utilizzato modelli vecchi e superati». Un esempio italiano? «Nella nuova riforma sul lavoro, il Jobs Act, non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. È una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse – poi riviste – della metà anni ’90». Un’altra follia, continua Gallino, è l’aver avallato l’idea che una crescita senza limiti dell’economia capitalistica sia possibile. «In questa lunga discesa verso la recessione, gli esecutivi di Berlusconi, Monti, Letta e ora Renzi saranno ricordati come quelli con la maggiore incapacità di governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi».Con il terremoto finanziario ha “perso” l’idea di uguaglianza. Un dato su tutti: il 28% è il numero dei bambini che vivono sotto la soglia di povertà in Europa. Sempre il 28, scrive Russo Speana, è la crescita del fatturato delle aziende del lusso tra il 2010 e il 2013. Anni di crisi, quindi, ma non per tutti? «Nei maggiori paesi Ocse, nel periodo 1976-2006, la quota salari sul Pil è scesa in media di 10 punti, i quali sono passati alla quota profitti dando origine a diseguaglianze di reddito e ricchezza mai viste dopo il Medioevo. Inoltre, va evidenziato che l’enorme diseguaglianza non è la causa ma l’effetto delle politiche di austerity adottate dai governi per combattere la crisi. Due facce di unico processo: la redistribuzione dal basso verso l’alto con i più poveri che sono stati impoveriti dai più ricchi». Vie d’uscita? Una sola, ovvero «il superamento del pensiero neoliberale sotto i vari aspetti a cominciare da quello economico».Nulla che sia all’orizzonte, però. Anche se, recentemente, si stanno sviluppando «esempi di resistenza» e “pensatoi” di studiosi che riflettono su ipotesi di discontinuità. Ma, appunto, «siamo lontani da un effettivo cambiamento dello status quo». In realtà, servirebbe «un segnale di rottura anche nella scuole e nell’università che, negli ultimi decenni, hanno subito un attacco da parte dei governi a colpi di riforme orientate a espellere il pensiero critico dai luoghi della formazione: l’intero sistema doveva essere ristrutturato come un’impresa che crea e accumula “capitale umano”». La crisi del capitalismo ha portato anche ad una crisi della democrazia? «Sicuramente, basta pensare all’attuale architettura dell’Unione Europea e alla sovranità perduta: il trasferimento di poteri da Roma a Bruxelles è andato oltre a quel che era previsto dal trattato di Maastricht. Temo che il sogno europeista si sia infranto sugli scogli dell’euro».La moneta unica, aggiunge lo studioso, «si è rivelata una camicia di forza e non ha minimamente contribuito a ridurre gli scarti tra un’economia e l’altra in termini di ricerca e sviluppo, investimenti, innovazione di prodotto e di processi, dotazione di infrastrutture ed istruzione professionale». Gallino si dichiara apertamente no-euro: «Decisamente sì, lo sono da anni». E spiega: «Ci vuole un intervento radicale», anche se sa benissimo che l’uscita dalla moneta unica è «complessa e difficile», quindi «va pensata gradualmente e concordata con Bruxelles». Pensa anche alla rottura dell’Unione Europea? Questo no: «Uscire dall’Europa sarebbe, per l’Italia, un disastro economico per via dei cambi che si scatenerebbero contro di noi». Gallino è «favorevole ad una graduale uscita dall’euro, rimanendo però nell’Unione Europea». Sottolienea come sia «tecnicamente possibile», e si impegna a dimostrarlo in un “paper” che presenterà a breve.Russo Spena si domanda se «una sinistra degna di questo nome» non dovrebbe fare proprio il tema della lotta alla diseguaglianza sociale. Già, ma quale sinistra? «Dove sta a sinistra una formazione di qualche solidità e ampiezza che ne abbia fatto la propria bandiera?». Anche in Italia «ci sono dei segmenti», però «sono ininfluenti, soprattutto di fronte a quel che dovrebbe essere il domani di una sinistra in grado di rappresentare una valida opzione politica. Purtroppo, da noi, la sinistra non esiste», chiarisce Gallino. E Syriza, Podemos, il Sinn Fein e le altre forze della sinistra europea? Nient’altro che «segnali di incoraggiamento», verso i quali Gallino resta cauto: «Bisogna capire quanto dureranno questi fenomeni e se riusciranno realmente ad incidere a Bruxelles e contro le politiche d’austerity. Tifo per loro senza illusioni». Poco allegro, dunque, l’orizzonte per i giovani. «Cambiare in modo radicale le strategie di produzione e consumo è una necessità vitale per l’intera umanità». Un messaggio ai ragazzi? «Se volete avere qualche speranza… studiate, studiate, studiate».«Una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa». Luciano Gallino, noto sociologo, parla così della sua ultima fatica “Il denaro, il debito e la doppia crisi” (Einaudi editore). Un testo, dedicato ai nipoti, che analizza l’attuale fase socio-economica: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tentativo di salvarsi, ogni speranza di realizzare una società migliore dall’attuale può essere abbandonata», si legge nella prefazione al libro. Il suo giudizio è netto, crudo e decisamente pessimista. A partire dagli anni Ottanta avremmo visto scomparire due pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella, appunto, del pensiero critico. Al loro posto ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la vincitrice assoluta della nostra era. Qual è la doppia crisi che va spiegata ai nipoti? «La crisi del capitalismo e del sistema ecologico. Due crisi strettamente legate tra loro».
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Pasolini, spentosi stanotte nel suo letto a 93 anni
A novantatré anni il poeta si è spento serenamente nella sua amata Torre di Chia a Soriano nel Cimino (Vt). L’intellettuale che più di ogni altro ha saputo interpretare gli ultimi cinquant’anni della società italiana lascia incompiuta la sua ultima opera letteraria,“Innocenza di Stato”, che già si annuncia come il caso letterario dell’anno. Cordoglio tra tutte le forze politiche e istituzionali del paese che ne rimarcano l’alto valore civile e morale. Il presidente della Repubblica si dichiara addolorato per una perdita irreparabile per la nazione tutta. I presidenti di Camera e Senato ne ricordano il contributo fondamentale per la riforma del sistema scolastico e universitario, quando fu nominato ministro della pubblica istruzione nell’eccezionale e breve governo Berlinguer del 1980. Da tutto il mondo giungono messaggi di ringraziamento per la sua produzione letteraria e cinematografica. Ancora vive sono le immagini del trionfo del suo trentaseiesimo e ultimo film “Il pane dei vinti”, Palma d’Oro a Cannes nel 2002.Da “Ragazzi di vita” a “L’uomo di cartone”, da “Petrolio” a “Servizi e sevizie di Stato”, i romanzi dello scrittore friulano hanno segnato la coscienza di almeno tre generazioni di scrittori, tanto da far nascere intorno alla sua figura due scuole di pensiero contrapposte come il filopasolinismo e l’antipasolinismo. Testimone della vita politica italiana del Novecento, lascia una corposa produzione di saggi e articoli di assoluto rilievo per capacità di analisi e disvelamento critico delle dinamiche del potere e delle sue degenerazioni. Letteralmente sopravvissuto a due attentati alla sua vita, il primo all’idroscalo di Ostia nel ’75, del quale porta i segni sul suo corpo rimasto gravemente offeso con la perdita di un occhio e della funzionalità di una gamba; il secondo a Milano nell’86, quando un fanatico ultracattolico spara diversi colpi di pistola ferendolo gravemente, non ha mai smesso di denunciare la collusione tra poteri forti e forze occulte, anche internazionali, al fine di formare e controllare i governi centristi dell’epoca. Al punto che Pasolini annuncia con ampio anticipo il prossimo avvento del golpe continuo. Cioè la nuova alleanza tra potere finanziario e industria della comunicazione che prenderà da lì ad alcuni anni l’intera classe politica in ostaggio.Proprio la sua ferma opposizione al lessico massmediologico televisivo degli ultimi due decenni ha dato l’impulso decisivo al Parlamento italiano per elaborare e approvare una legge, cosiddetta “salvacoscienze”, tra le più avanzate d’Occidente, che di fatto ha impedito l’ascesa al governo del paese dei tycoons televisivi. Difatti nelle tematiche affrontate nei suoi film degli anni Ottanta e Novanta, tra i quali non possiamo non menzionare “La nuova rabbia“(1984), “’Ottantanove, la fine delle virtù” (1991), “L’Arca dei sogni”(1997), Pasolini sancisce il tramonto della spinta utopistica necessaria alla nascita della società nuova che, sconfitta proprio nella elaborazione condivisa di un nuovo patto sociale autenticamente democratico, viene soggiogata definitivamente dal maglio vendicativo dell’“eterno” fascismo italiano.Qui, sul terreno della visione e comprensione della Società intesa come Ente morale fondamentale, rimangono memorabili le sue polemiche con la quasi totalità degli intellettuali di allora che egli dichiara essere “complici del sottopotere familistico e oscurantista espresso dal dominio onnivoro del partitismo”. La sua strenua resistenza, fisica, morale e intellettuale è stata determinante per l’avanzare del processo di quella che Pasolini definisce debordianamente “la realizzazione filosofica della Politica” alla quale stiamo finalmente assistendo con l’esperienza in corso dell’attuale governo Agamben.Crediamo che il popolo italiano abbia un alto debito di riconoscenza verso questo intellettuale, la presenza del quale ha permesso di cambiare il corso della storia del nostro paese, che senza la sua voce sarebbe certamente regredito sul piano della crescita civile, del valore artistico e della dignità morale. Assecondando le ultime volontà del poeta, le esequie si terranno in forma strettamente privata.(Andrea Panzironi, “Eulogia per Pasolini, morto serenamente nel suo letto questa notte”, pubblicato su “Il Foglio” e ripreso da “Come Don Chisciotte” il 2 novembre 2015. Panzironi è un tassista romano, spiega il giornale: suona il clarinetto, ama il jazz e ammira due categorie, musicisti e acrobati. «Si definisce taxi-writer, e sa scrivere»).A novantatré anni il poeta si è spento serenamente nella sua amata Torre di Chia a Soriano nel Cimino (Vt). L’intellettuale che più di ogni altro ha saputo interpretare gli ultimi cinquant’anni della società italiana lascia incompiuta la sua ultima opera letteraria,“Innocenza di Stato”, che già si annuncia come il caso letterario dell’anno. Cordoglio tra tutte le forze politiche e istituzionali del paese che ne rimarcano l’alto valore civile e morale. Il presidente della Repubblica si dichiara addolorato per una perdita irreparabile per la nazione tutta. I presidenti di Camera e Senato ne ricordano il contributo fondamentale per la riforma del sistema scolastico e universitario, quando fu nominato ministro della pubblica istruzione nell’eccezionale e breve governo Berlinguer del 1980. Da tutto il mondo giungono messaggi di ringraziamento per la sua produzione letteraria e cinematografica. Ancora vive sono le immagini del trionfo del suo trentaseiesimo e ultimo film “Il pane dei vinti”, Palma d’Oro a Cannes nel 2002.
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Marino piange, ma dov’era quando il Pd smontava l’Italia?
Pugnalato da 26 congiurati agli ordini di “un solo mandante”, Matteo Renzi. L’enfasi di Ignazio Marino che manifesta orripilato stupore per la sua vile defenestrazione assume toni di carattere lunare: a quale partito credeva di essere iscritto, l’ex sindaco della capitale? Dov’era, il senatore Marino, quando il Pd di Bersani votava senza fiatare la riforma Fornero e l’affondamento dell’Italia ad opera della Troika, per mano di Mario Monti? Fiscal Compact, pareggio di bilancio in Costituzione: Marino dov’era? A Palazzo Madama. Ma forse già pensava a come “cambiare Roma”, novello Che Guevara ma di stretta osservanza europeista e ordoliberista, allineato al mainstream del pensiero unico per il quale la sciagura del paese non è l’Eurozona, come ormai tutti gli economisti riconoscono, ma ovviamente il debito pubblico, che in Italia fa rima con corruzione, mafia ed evasione fiscale, e fino a ieri anche col bieco Cavaliere (caduto in quale, infatti, i problemi del paese si sono tutti magicamente risolti: ripresa alle stelle, disoccupazione a zero, felicità di massa che invade le strade).La Marino-story tiene banco sui giornali e nei talk-show dove si parla di scontrini e Mafia Capitale, congiure del silenzio, il gelo del premier-padrone e la freddezza del Vaticano. La finanza locale perde i pezzi, sotto la scure della legge di stabilità, ma il sindaco-contro pensava comunque di “cambiare Roma” anche senza soldi, il denaro che lo Stato – in avanzo primario per ordine di Bruxelles – rifiuta di trasferire per i servizi, perché il welfare deve dimagrire, la spesa pubblica si deve tagliare, i buchi nelle strade possono diventare crateri senza che nessuno protesti davvero, nessuno indichi la radice del male, la fonte originaria del problema. Anche a questo può servire la Marino-story, condita con sushi e sashimi, traditori e lealisti, rinnegati e irriducibili. Uno come Marco Travaglio, ben lungi dall’avventurarsi in analisi storico-politiche, si limita a una constatazione notarile: il Pd ha impedito a Marino di dimettersi dopo lo scandalo Mafia Capitale e ora l’ha messo in croce per l’inezia di quattro scontrini al ristorante. Dov’è la coerenza? Conclusione: in questa farsa, dove nessuno esce a testa alta, al Nazzareno tocca la parte peggiore.Ma questi sono solo gli spiccioli. Dal 2011, l’anno di Monti, sono fallite centinaia di migliaia di imprese, mille al giorno solo nel 2012 secondo Unioncamere. Pil in picchiata e record storico di senza lavoro, disoccupazione giovanile mai vista prima nella storia della repubblica. Non è stato un incidente, riassume l’economista Nino Galloni: fu la Germania, in cambio della rinuncia al marco e dell’adesione all’euro, a pretendere dalla Francia (dal cui consenso dipendeva la riunificazione tedesca) che la concorrenza industriale del sistema-Italia venisse sabotata e liquidata. Così l’Italia è stata puntualmente declassata e deindustrializzata, con la complicità di Confindustria (meno lavoro, quindi compressione dei salari, fino all’attuale Jobs Act) e il supporto decisivo del centrosinistra privatizzatore (Prodi, Andreatta, D’Alema, Amato). E’ stato proprio il centrosinistra, sindacati compresi, a convincere il paese ad affrontare “sacrifici”, secondo lo schema della “svalutazione interna”, non potendosi più svalutare la moneta. Ignazio Marino, l’aspirante salvatore della capitale, è stato una delle tante comparse del film. Ora parla di tradimento, pensando al suo piccolo scranno in Campidoglio, senza accorgersi che i traditi sono gli italiani, a cui un’intera classe politica – oggi guidata dal Pd – ha semplicemente portato via il paese, svenduto pezzo su pezzo, secondo il piano prestabilito all’estero, molto lontano da Roma.Pugnalato da 26 congiurati agli ordini di “un solo mandante”, Matteo Renzi. L’enfasi di Ignazio Marino che manifesta orripilato stupore per la sua vile defenestrazione assume toni di carattere lunare: a quale partito credeva di essere iscritto, l’ex sindaco della capitale? Dov’era, il senatore Marino, quando il Pd di Bersani votava senza fiatare la riforma Fornero e l’affondamento dell’Italia ad opera della Troika, per mano di Mario Monti? Fiscal Compact, pareggio di bilancio in Costituzione: Marino dov’era? A Palazzo Madama. Ma forse già pensava a come “cambiare Roma”, novello Che Guevara ma di stretta osservanza europeista e ordoliberista, allineato al mainstream del pensiero unico per il quale la sciagura del paese non è l’Eurozona, come ormai tutti gli economisti riconoscono, ma ovviamente il debito pubblico, che in Italia fa rima con corruzione, mafia ed evasione fiscale, e fino a ieri anche col bieco Cavaliere (caduto in quale, infatti, i problemi del paese si sono tutti magicamente risolti: ripresa alle stelle, disoccupazione a zero, felicità di massa che invade le strade).
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Quando eravamo ricchi, con la lira e l’inflazione a mille
«Negli anni Ottanta, gli anni in cui l’Italia navigava nell’oro, quando eravamo il quarto paese più ricco del mondo, il tasso d’inflazione si aggirava mediamente attorno al 15% e raggiungeva picchi di oltre il 21%». Le famiglie spendevano e il risparmio medio dei nuclei familiare durante il periodo d’inflazione più alta superava il 25%: «Eravamo il primo paese al mondo per risparmio privato e le famiglie avevano ampia libertà di spesa», ricorda Vincenzo Bellisario. Oggi l’inflazione si aggira attorno allo 0%, e l’economia è alla canna del gas: «Le famiglie devono risparmiare su tutto, hanno scarsa libertà economica, abbiamo raggiunto e superato i livelli di consumo da fame del periodo della “grande depressione” e, nonostante ciò, la media attuale di risparmio privato è del 4% circa. E tutto va male». Secondo Bellisario, esponente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi per contribuire alla democratizzazione della politica italiana contro lo strapotere dell’élite economica, «lo spettro dell’inflazione è una grande truffa, così come lo è stata e lo è purtroppo ancora oggi quella del debito pubblico, che altro non è se non l’indicatore che misura la ricchezza finanziaria del cittadini».«Più lo Stato spende, più la popolazione si arricchisce», riassume Bellisario. Questo può provocare il “rischio” inflazione, cioè troppi soldi, a fronte di pochi prodotti? L’inflazione può essere facilmente contenuta, in tre modi: lo Stato spende di meno nel comparto pubblico, oppure spende di più per aumentare la produttività nel settore privato (l’inflazione non è mai un problema finché la produzione non si riduce in maniera troppo corposa), o ancora, lo Stato introduce una tassa temporanea, in modo da togliere di mezzo gli eventuali soldi in eccesso. «L’inflazione in realtà è un falso problema», insiste Bellisario. Idem il debito pubblico, agitato come spauracchio: come se lo Stato fosse una normale famiglia, nei guai con la banca (il che, nell’Eurozona, è esattamente la realtà: il governo può solo finanziarsi tassando a morte i cittadini e prendendo a prestito gli euro, a caro prezzo, mettendo all’asta i titoli di Stato). Come se ne esce? In un solo modo: recuperando la sovranità monetaria, come sottolinea l’economista Nino Galloni, altro esponente del Movimento Roosevelt.Sulla mistificazione che vela la vera natura del debito pubblico, Bellisario lancia una provocazione: chiamiamolo “ricchezza nazionale”, così almeno la gente capisce di cosa di tratta veramente. «Invito tutti voi alla massima attenzione su questa precisa e personale proposta di modifica del termine “debito pubblico” in “ricchezza pubblica” o, molto più semplicemente, in “ricchezza dei cittadini”», scrive Bellisario sul blog del movimento. «Detto questo, immaginate che da domani tutti i vari Tg, le varie rubriche di approfondimento, giornali, Internet e quant’altro annunciassero che la “ricchezza dei cittadini” (quindi non più il “debito pubblico”, parola che spaventa la gente) è aumentata nell’ultimo anno di 100 miliardi di euro. Ecco, provate ad immaginare questo». Sarebbe una rivoluzione, ovviamente. Ma non partirà mai, almeno fino a quando l’oligarchia finanziaria centralizzata a Bruxelles continuerà a colonizzare partiti e fabbricare leader obbedienti.Sotto il regime dell’euro, è praticamente impossibile raggiungere la piena occupazione, che in teoria sarebbe la ragione sociale dello Stato democratico. Serve un “futuro Nuovo Stato”, come lo chiama Bellisario: uno Stato «sovrano, con moneta sovrana e banca al 100% pubblica e direttamente sotto il controllo politico». Primo passo: «Inserire in Costituzione il principio della “piena occupazione”. E abrogare, nell’immediato, il “pareggio di bilancio”», che non è solo un obbrobrio, ma anche un delitto: «Se c’è crisi, se c’è disoccupazione – dice Galloni – puntare al pareggio di bilancio è un crimine». Uno Stato sovrano, dotato cioè di pieno potere di spesa, non avrebbe alcun problema ad «assumere immediatamente (senza se e senza ma) tutte le persone che attualmente collaborano precariamente per conto dello Stato in ogni settore della pubblica amministrazione». E inoltre «istituirebbe bandi di concorso in ogni settore per il numero che ritiene giusto, per far sì che ogni comparto possa operare a pieno organico e nella maniera più efficiente e rapida possibile». Nulla di tutto ciò è all’orizzonte, naturalmente. «Stiamo morendo di fisco», disse a Torino già nel 2012 il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi: «Gli imprenditori sono disposti a rinunciare a tutti gli incentivi in cambio di una riduzione della pressione fiscale a carico di imprese e famiglie».L’eventuale futuro “Nuovo Stato” italiano, auspicato dal Movimento Roosevelt, baserebbe le sue entrate fiscali su due sole aliquote, il 20% per i redditi fino ai 100.000 euro e il 23% per i redditi superiori. Altre eventuali tasse solo per «tutti coloro che investono nei beni di lusso, che creano principalmente benessere personale e non collettivo». Motivo: «Tassandola, si incoraggia la persona benestante a spendere e investire di più nei cosiddetti beni quotidiani, in modo da far girare meglio l’economia reale. Questo inciderebbe positivamente sulla costruzione di nuovi posti di lavoro». A questo punto, aggiunge Bellisario, è giusto ricordare cosa rappresentano le tasse in un paese libero, cioè sovrano, «concetto spiegato in maniera impeccabile dalla Mosler Economic, o Modern Money Theory, portata in Italia dal giornalista Paolo Barnard grazie al suo lavoro, che ho sempre senza mezzi termini definito “ai limiti dell’umano”».Se uno Stato è libero di emettere moneta in quantità teoricamente illimitata per il benessere della comunità nazionale, non rinuncia in ogni caso al prelievo fiscale. Perché le tasse, all’interno di un “contesto sovrano”, vengono utilizzate per quattro precisi scopi. Primo: tenere a freno la ricchezza dei privati e quindi il loro strapotere. Secondo: evitare l’eccesso di inflazione. Terzo: scoraggiare o incoraggiare comportamenti (si tassa l’alcool, il fumo o l’inquinamento, mentre ad esempio si detassano le beneficenze, le ristrutturazioni). Quarto: imporre ai cittadini l’uso della moneta sovrana dello Stato dove si vive. Tutrto questo, ovviamente, in un paese libero. Non nell’Eurozona, dove lo Stato è ridotto a super-tassare per sovravvivere. Scavandosi la fossa, come diceva – in tempi non sospetti – un certo Winston Churchill: «Una nazione che si tassa nella speranza di diventare prospera è come un uomo in piedi in un secchio che cerca di sollevarsi tirando il manico».«Negli anni Ottanta, gli anni in cui l’Italia navigava nell’oro, quando eravamo il quarto paese più ricco del mondo, il tasso d’inflazione si aggirava mediamente attorno al 15% e raggiungeva picchi di oltre il 21%». Le famiglie spendevano e il risparmio medio dei nuclei familiare durante il periodo d’inflazione più alta superava il 25%: «Eravamo il primo paese al mondo per risparmio privato e le famiglie avevano ampia libertà di spesa», ricorda Vincenzo Bellisario. Oggi l’inflazione si aggira attorno allo 0%, e l’economia è alla canna del gas: «Le famiglie devono risparmiare su tutto, hanno scarsa libertà economica, abbiamo raggiunto e superato i livelli di consumo da fame del periodo della “grande depressione” e, nonostante ciò, la media attuale di risparmio privato è del 4% circa. E tutto va male». Secondo Bellisario, esponente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi per contribuire alla democratizzazione della politica italiana contro lo strapotere dell’élite economica, «lo spettro dell’inflazione è una grande truffa, così come lo è stata e lo è purtroppo ancora oggi quella del debito pubblico, che altro non è se non l’indicatore che misura la ricchezza finanziaria del cittadini».
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Marijuana libera, e il Colorado incassa 175 milioni in tasse
Torna il dibattito sulla legalizzazione della marijuana: la crescita dell’anti-proibizionismo è una tendenza globale che ha già condotto a decisioni in questo senso in Uruguay e in alcuni Stati americani e città europee. «I risultati di un secolo di proibizionismo sono disastrosi», riconosce Paolo Bartolini: l’azione di contrasto dell’offerta «ha ottenuto il solo effetto di concentrarla in pochissime, potentissime, ferocissime mani». Zero risultati anche nel contrasto della domanda, che ha continuato a crescere ovunque. «In compenso, questo immenso buco nell’acqua ha costi giganteschi: finanziari, sociali, civili, criminali ed etici». Il motivo lo chiariscono gli economisti, tutti largamente anti-proibizionisti: «Rendere illegale una merce che è consumata da milioni di persone ha il solo effetto di aumentarne il prezzo e creare mafie potentissime in grado col tempo di comprarsi banche, grandi e piccole imprese, patrimoni immobiliari, media, fette crescenti di partiti, parlamenti e governi». Enormi masse di denaro “nero” «rappresentano una minaccia mortale per la democrazia e il sistema di mercato».La lotta alla droga, inoltre, assorbe ingenti risorse di polizia, giudiziarie, carcerarie. «Tanto per dare una idea, il problema del sovraffollamento da terzo mondo delle nostre carceri verrebbe praticamente di colpo risolto dalla legalizzazione», scrive Bartolini su “Micromega”. «Gli immensi ritardi della nostra giustizia penale si ridimensionerebbero». Per non parlare della finanza pubblica: le stime sui mancati introiti fiscali della tassazione di un commercio tanto imponente parlano di miliardi. Altrove, poi, il narcotraffico è un fattore permanente di destabilizzazione: «Nel 2006 il presidente messicano Calderòn decise di usare l’esercito dichiarando “guerra alla droga”. Da allora tale guerra ha prodotto la sbalorditiva cifra di 60.000 morti, che arrivano a 100.000 se si contano gli scomparsi. Ci sono paesi interi la cui economia è stata distrutta dalla transizione dell’agricoltura alla produzione di droghe, come l’Afghanistan, ormai avviato a divenire la prima monocoltura di papavero da oppio del pianeta».I sostenitori del proibizionismo non negano questo disastro, continua Bartolini, ma dicono che è il minore dei mali possibili. Motivazione etica: uno Stato non può legalizzare cose che fanno male. «Questo argomento – ribatte Bartolini – assume un sapore tragicomico in una società devastata da dipendenze di ogni genere, cominciando con quella dallo shopping e continuando con videogiochi, videopoker, slot, calcio, tv, sesso, pornografia, alcol, sigarette, tanto per menzionare qualcuna delle più comuni. E ovviamente una alluvione di droghe chimiche legali, elegantemente definite psico-farmaci». Infatti, «esistono una quantità di cose che sono legali, possono fare malissimo e sono persino pubblicizzate». E allora, perché pigliarsela solo con alcune droghe? «Il proibizionismo è in ritirata perché non esiste una risposta a questa domanda». O meglio, «non ne esiste una nobile», dal momento che «sono legali le droghe prodotte dalle case farmaceutiche e sono illegali quelle prodotte da contadini del terzo mondo o autoprodotte».Inoltre, l’anti-proibizionismo riduce le dipendenze: «Il calo costante e spettacolare del consumo di tabacco negli ultimi decenni in tutto l’Occidente dimostra che le campagne informative funzionano». Se una sostanza viene percepita come realmente pericolosa, il suo consumo diminuisce. Campagne come quelle anti-fumo «costano una frazione insignificante del costo di quell’immenso apparato messo su per la guerra alla droga». Secondo la polizia doganale americana, il 2014 ha registrato per la prima volta un calo delle importazioni di marijuana dal Messico (- 24%), che erano invece costantemente cresciute per 50 anni. Un primo successo del proibizionismo? Al contrario: «Sono le prime conseguenze di un anno abbondante di legalizzazione in due Stati americani, Colorado e Washington. Semplicemente, la vendita legale di marijuana ha rubato il mercato ai cartelli dei narcos». Inoltre, la marijuana legale è di migliore qualità, priva di tagli, senza gli additivi della marijuana illegale (ammoniaca, fibra di vetro e lana di roccia, che simulano i cristallini tipici della marijuana). Tutto questo lascia prevedere una diminuzione nel lungo periodo dei costi sanitari connessi all’uso di additivi dannosi per la salute.Quanto ai rischi paventati dai proibizionisti – aumento dei crimini, del consumo e degli incidenti stradali – non ve ne è alcuna traccia nelle statistiche, osserva ancora Bertani: in Messico molti vedono la legalizzazione negli Usa come l’unica salvezza dal definitivo disfacimento del paese, devastato dai cartelli. Infine, non proprio un dettaglio: il Colorado prevede un gettito fiscale di 175 milioni di dollari nei prossimi due anni che consentirà una sostanziosa riduzione della pressione fiscale. E le previsioni dello Stato di Washington sono intorno ai 600 milioni di dollari nei prossimi cinque anni. «Tutti soldi che verranno trasferiti dalle tasche dei narcos messicani a quelle dei due Stati americani», conclude Bartolini. Ecco perché «il proibizionismo è un lusso che non possiamo più permetterci». Marijuana libera significa due cose: più soldi pubblici e meno mafia. «Le mafie si occupano anche di altre cose oltre alla droga, ma questa rimane il loro core business. La legalizzazione delle droghe le indebolirebbe molto. La platea proibizionista è ampia e variegata. Ma la prima fila, quella dei sostenitori più accesi, è occupata dalle mafie».Torna il dibattito sulla legalizzazione della marijuana: la crescita dell’anti-proibizionismo è una tendenza globale che ha già condotto a decisioni in questo senso in Uruguay e in alcuni Stati americani e città europee. «I risultati di un secolo di proibizionismo sono disastrosi», riconosce Paolo Bartolini: l’azione di contrasto dell’offerta «ha ottenuto il solo effetto di concentrarla in pochissime, potentissime, ferocissime mani». Zero risultati anche nel contrasto della domanda, che ha continuato a crescere ovunque. «In compenso, questo immenso buco nell’acqua ha costi giganteschi: finanziari, sociali, civili, criminali ed etici». Il motivo lo chiariscono gli economisti, tutti largamente anti-proibizionisti: «Rendere illegale una merce che è consumata da milioni di persone ha il solo effetto di aumentarne il prezzo e creare mafie potentissime in grado col tempo di comprarsi banche, grandi e piccole imprese, patrimoni immobiliari, media, fette crescenti di partiti, parlamenti e governi». Enormi masse di denaro “nero” «rappresentano una minaccia mortale per la democrazia e il sistema di mercato».
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Il web abbatterà il capitalismo: è la fiaba di Paul Mason
«E’ arrivato un nuovo profeta che promette un postcapitalismo meraviglioso, umano, collaborativo, intellettuale, gratuito». E’ Paul Mason, oracolo di un postcapitalismo che «ci porterà gioia, felicità, condivisione libera e liberazione dalla fatica». Basta «confidare nella potenza rivoluzionaria e salvifica delle nuove tecnologie», ovvero «credere che il web sia la nuova fabbrica», e che quindi «il suo proletariato digitale, diverso da quello industriale perché più informato e più connesso, possa abbattere questo capitalismo». Tutto bello e affascinante, scrive Lelio Demichelis. Peccato però che se il vecchio proletariato aveva «una propria coscienza di classe capace di fare contrasto al capitalismo», prima di sciogliersi in esso e condividerne l’egemonia, «questo proletariato digitale è nato invece già antropologicamente capitalista», vuole essere integrato (connesso) nel sistema, e «pur essendo forse ancora classe in sé (mai così tanti lavoratori precari, della falsa conoscenza, della sharing economy, taylorizzati e fordizzati in rete o uberizzati ovunque)» non sarà mai “classe per sé”, «perché incapace di una coscienza comune e di una progettualità politica alternativa», convinto com’è che «non ci sono alternative».Ciascun componente di questo metaforico proletariato digitale «è stato ormai separato, isolato dagli altri e messo in competizione con gli altri», scrive Demichelis su “Micromega”. «Difficile immaginare la realizzazione di un postcapitalismo se ormai l’essenza della stessa società è il capitalismo più la tecnica». Quale alternativa, dunque, «se ogni giorno il sistema ci educa ad essere capitalisti, se la rete stessa è oggi diventata puro capitalismo (in versione non 2.0 ma 0.0)»? Eppure oggi circola questa nuova versione aggiornata – da Paul Mason, autore di quel “Postcapitalismo” che sta occupando le pagine di media pronti a dare voce ai tecno-entusiasti – della vecchia favola del postcapitalismo che verrà. Mason propone «un mondo senza mercato, i banchieri centrali eletti democraticamente, il potere nelle mani della società civile, un reddito di cittadinanza, l’azzeramento (o quasi) del tempo di lavoro, la produzione di macchine, beni e servizi a costi marginali nulli». Si torna al tempo in cui il web, agli inizi, «già dimostrava la sua sconfinata potenza nel produrre retoriche per sé e per la sua accettazione di massa», una macchina «capace di generare uno sconfinato e inarrestabile storytelling» in grado di «abbattere ogni pensiero critico, ogni analisi razionale, ogni anticonformismo tecnologico».Leggere Mason, continua Demichelis, fa l’effetto di un tempo che si è bloccato alle promesse della new economy degli anni ’90 del secolo scorso (che favoleggiava di fine dei fastidiosi cicli economici, prometteva la liberazione dalla fatica e un lavoro immateriale e intellettuale per tutti), alla fine del lavoro (1995) e all’era dell’accesso (2000) di Jeremy Rifkin, alla wikinomics di Don Tapscott e Anthony Williams (2007), al punkcapitalismo di Matt Mason (2009), passando per l’Howard Rheingold della rete che ci rende intelligenti (2012), al Rifkin (ancora) della società a costo marginale zero (2014), ovvero all’Internet delle cose, all’ascesa del “commons collaborativo” e quindi dell’eclissi del capitalismo. Senza dimenticare Toni Negri e Michael Hardt del Comune (2010), «per non citare che alcuni dei componenti di questo variegato mondo di profeti, di guru del post, abili nell’immaginare il nuovo regno di Dio-tecnica in terra, ma incapaci di fare preliminarmente una doverosa e foucaultiana archeologia dei poteri e dei saperi dominanti nelle società tecno-capitaliste».La loro soluzione per arrivare al postcapitalismo – più tecnologia, quindi condivisione e libera circolazione delle idee – è in contraddizione con la natura stessa della tecnologia, «ormai strettamente integrata al capitalismo (sono una cosa sola)», visto che proprio la tecnologia permette al capitalismo «di sopravvivere alle sue contraddizioni», mentre il capitalismo non è che «la benzina che permette alle nuove tecnologie di essere ciò che sono». Paradossale, aggiunge Demichelis, è dunque immaginare che quella tecnologia che sostiene il capitalismo e che lo ha reso globale (“totalitaria” la sua evangelizzazione) e che si serve del capitalismo per accrescersi, possa giocare contro se stessa liberandosi dal capitalismo che la sostiene. «Curioso: le ideologie o le religioni secolari del ‘900, che credevamo morte, sono in realtà più vive che mai e producono incessantemente nuove favole collettive, nuovi tecno-fideismi e tecno-integralismi che si offrono per dare un senso a un mondo apparentemente senza senso perché liquido, in realtà pesantissimo di connessioni obbligatorie, di incessanti pedagogie di adattamento non solo al mercato quanto alle nuove tecnologie». Come le nuove tecnologie di vent’anni fa «ci affascinano e ci promettono molto, e continuamente cediamo alla loro richiesta di fede». Illusioni: «Sanno di non avere mantenuto le promesse (meno lavoro, meno fatica, più libertà) e provano a rinnovare la promessa, chiedendoci di recitare nuovamente il loro Credo».Giornalista economico di simpatie laburiste, in questo “Postcapitalism” (che uscirà in Italia nei prossimi mesi), Mason scrive che il capitalismo finanziario di questi ultimi anni – erede di quello industriale e mercantile – avrebbe i giorni contati: la rivoluzione informatica determinerebbe una modifica sostanziale dei modi di produzione e di consumo, mettendo in discussione il sistema basato sulla legge della domanda e dell’offerta, della proprietà e dello scambio e inaugurando una nuova economia basata su tempo libero, attività in rete e gratuità. «La tecnologia ha creato una nuova via d’uscita», scrive Mason. «Quello che resta della vecchia sinistra – e di tutte le forze che ne sono state influenzate – si trova di fronte a una scelta: imboccare questa strada o morire». Il capitalismo «non sarà abolito con una marcia a tappe forzate», bensì «grazie alla creazione di qualcosa di più dinamico, che inizialmente prenderà forma all’interno del vecchio sistema, passando quasi inosservato, ma che alla fine aprirà una breccia, ricostruendo l’economia intorno a nuovi valori e comportamenti. Lo chiameremo postcapitalismo».Questo processo sarebbe già iniziato, grazie a tre grandi cambiamenti: nuove tecnologie, informazione dal basso, produzione condivisa. Le nuove tecnologie «hanno ridotto il bisogno di lavoro, rendendo meno netto il confine tra lavoro e tempo libero e meno stringente il rapporto tra lavoro e salario». Vero, ma questo non ha liberato il lavoro, semmai lo ha reso indistinguibile dalla vita (quindi siamo meno liberi), ha moltiplicato ritmi e intensità del lavorare e ha favorito forme di lavoro e di sfruttamento (quasi) senza retribuzione. Inoltre, annota Demichelis, «cancellando la distinzione tra vita e lavoro», le nuove tecnologie hanno prodotto «una società a mobilitazione tecno-economica totale e permanente». E l’informazione? «Sta erodendo la capacità del mercato di determinare i prezzi in modo corretto. I mercati si basano sulla scarsità, mentre l’informazione è abbondante. Il meccanismo di difesa del sistema è formare monopoli – le grandi multinazionali tecnologiche di oggi – su una scala che non ha precedenti negli ultimi duecento anni. Ma questo non può durare, perché contrasta con il bisogno fondamentale dell’umanità di usare le idee liberamente».Assolutamente falso, protesta Demichelis: «Il mercato sa benissimo come determinare i prezzi in modo corretto (per i propri profitti), grazie a delocalizzazioni, precarizzazione, sfruttamento, espropriazione della conoscenza altrui e condivisa, taylorismo digitale e rete», e quindi «usa proprio le nuove tecnologie per farlo». Altrettanto sbagliato è «credere che l’informazione e la conoscenza siano abbondanti (siamo piuttosto in una società della semplificazione, non della conoscenza)». Di fatto, «la conoscenza e l’informazione sono sempre meno libere e sempre più controllate dai motori di ricerca, oltre ad essere fonte (Big Data) di alti profitti per pochi, mentre monopoli sempre più grandi sono sempre più grandi proprio perché noi permettiamo loro di esserlo sempre di più, e perché è nella natura di un capitalismo non controllato». Quanto alla «crescita spontanea della produzione condivisa», con «beni, servizi e organizzazioni che non rispondono più ai principi del mercato e della gerarchia manageriale», Demichelis ribatte: «Anche questo è falso, ormai il mercato è ovunque e in ogni relazione umana (il neoliberismo vive in ognuno di noi come una consolidata disciplina dentro una consolidata biopolitica), il lavoro è sempre più merce e sempre più sfruttato – a meno di considerare produzione condivisa la sharing economy, l’uberizzazione del lavoro, il dover essere imprenditori di se stessi».«Quasi inosservati, nelle nicchie e negli angoli più nascosti del sistema di mercato – aggiunge Mason – interi settori economici stanno cominciando a prendere un’altra strada. Monete parallele, banche del tempo, cooperative e spazi autogestiti sono spuntati come funghi». Favole, replica Demichelis: in verità, da anni, le migliori reatà restano ai margini, senza riuscire a scalfire la potenza di fuoco del tecno-capitalismo. E intanto «i beni comuni vengono aggirati dalle logiche di mercato (come in Italia per l’acqua, nonostante il referendum) e la sharing economy è comunque sotto forma di impresa e agisce secondo il mercato, socializzandolo». Secondo Mason, «Marx immaginava qualcosa di molto simile all’economia dell’informazione in cui viviamo oggi, e aggiunge che la sua venuta farà saltare in aria il capitalismo». Ma in realtà “l’intelletto generale” di Marx «non è qualcosa di simile all’economia dell’informazione», e soprattutto «non farà saltare in aria il capitalismo proprio perché l’economia dell’informazione e della conoscenza è basata anch’essa sulla suddivisione/individualizzazione del lavoro e poi sulla sua integrazione/totalizzazione in qualcosa che è sempre e comunque alienato dal lavoratore stesso», sia esso «uberizzato o lavoratore della conoscenza e dell’informazione».Ci vuole ben altro, per uscire dal tecno-capitalismo: per Demichelis, «occorre una destrutturazione di tutti i meccanismi eteronomi e anti-democratici di messa al lavoro degli uomini (mercato e tecnica)», nonché «una liberazione dai vincoli di connessione (di rete e mercato) e di alienazione», e poi «un anticonformismo digitale, una laicizzazione della società contro l’integralismo religioso del tecno-capitalismo, una separazione netta (ma decisa dagli uomini, non dalle macchine, posto che la loro logica è quella dell’uso esaustivo del tempo e della produttività da accrescere sempre e comunque), tra tempi di vita e tempi di lavoro». Soprattutto, conclude l’analista di “Micromega”, è indispensabile «una riconsiderazione radicale (un rovesciamento) dei rapporti tra economia (che deve tornare ad essere un mezzo) e società (che deve tornare ad essere il fine)». Viceversa, contrariamente al Mason-pensiero, non esiste uscita di sicurezza dal tecno-capitalismo globalizzato che sta destabilizzando il mondo e minando la società occidentale.«E’ arrivato un nuovo profeta che promette un postcapitalismo meraviglioso, umano, collaborativo, intellettuale, gratuito». E’ Paul Mason, oracolo di un postcapitalismo che «ci porterà gioia, felicità, condivisione libera e liberazione dalla fatica». Basta «confidare nella potenza rivoluzionaria e salvifica delle nuove tecnologie», ovvero «credere che il web sia la nuova fabbrica», e che quindi «il suo proletariato digitale, diverso da quello industriale perché più informato e più connesso, possa abbattere questo capitalismo». Tutto bello e affascinante, scrive Lelio Demichelis. Peccato però che se il vecchio proletariato aveva «una propria coscienza di classe capace di fare contrasto al capitalismo», prima di sciogliersi in esso e condividerne l’egemonia, «questo proletariato digitale è nato invece già antropologicamente capitalista», vuole essere integrato (connesso) nel sistema, e «pur essendo forse ancora classe in sé (mai così tanti lavoratori precari, della falsa conoscenza, della sharing economy, taylorizzati e fordizzati in rete o uberizzati ovunque)» non sarà mai “classe per sé”, «perché incapace di una coscienza comune e di una progettualità politica alternativa», convinto com’è che «non ci sono alternative».
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Mitterrand: basta deficit, troppi soldi (e potere) ai cittadini
Perché ancora oggi ci sono persone senza cibo o acqua mentre altre vivono nell’abbondanza? Perché ancora oggi ci sono persone senza un lavoro e altre che ne hanno svariati? Perché ancora oggi ci sono persone senza casa e altre che ne hanno svariate? Perché ancora oggi ci sono persone senza soldi e altre con tanti soldi? Se davvero esiste una soluzione ai problemi della gente, perché nessuno la metta in pratica? Perché tutti si occupano sempre degli effetti dei problemi, trascurando le cause? Perché nessuno ci spiega qual è la causa? Perché se qualcuno conosce la causa, nessuno mette in campo la soluzione? Qual è la soluzione? Quotidianamente guardiamo, ascoltiamo e leggiamo del problema dei soldi che non ci sono, della disoccupazione che aumenta, dell’economia che non va bene perché i soldi non ci sono, degli imprenditori e dello Stato che non possono assumere perché non ci sono i soldi; del fatto che il debito pubblico aumenta perché l’economia non va bene perché mancano i soldi e quindi bisogna tagliare le spese ed aumentare le tasse in modo da abbassare i decifit annuali e il debito pubblico.Spesso addirittura ci dicono che dobbiamo fare il surplus di bilancio: che in sostanza significa che lo Stato incassa più di quando spende, perché se abbassiamo il debito i “mercati” (che semplicemente sono dei privati da alcuni anni abilitati a prestarci i soldi – incredibile, ma vero…) ci guarderanno con occhio differente e le agenzie di rating americane che controllano la vita dei singoli Stati in giro per il mondo (la vita di tutti noi), saranno più felici e non ci declasseranno. Ma chi sono i proprietari di questi maledetti soldi? Ci sono persone che essendo promotrici di queste “politiche criminali” finalizzate all’arricchimento dei singoli a discapito di tutti gli altri, conoscono ovviamente anche la risoluzione dei nostri problemi: risoluzione/soluzione che potrebbe essere applicata nel giro di pochi mesi e servirebbe a mettere al sicuro miliardi di vite attualmente letteralmente abbandonate a se stesse o in estremo pericolo).Oggi gli Stati si dividono in due categorie: quelli che possiedono una moneta sovrana e quelli che non hanno moneta sovrana. Le monete sovrane, per essere considerate veramente tali, devono seguire tre criteri fondamentali: devono essere di proprietà dello Stato che le emette, non devono essere convertibili in nessun materiale concreto tipo oro o argento e devono essere fluttuanti, il che significa che non possono essere cambiate a un tasso fisso con altre monete, quindi vengono lasciate fluttuare sui mercati, che decidono di volta in volta i tassi di cambio. Il dollaro, la sterlina e lo yen, ad esempio, sono monete sovrane perché rispettano questi tre criteri. Le monete non sovrane, invece, sono monete che non hanno nessuna proprietà. Gli Stati a moneta sovrana spendono inventando la moneta e accreditano i conti correnti di coloro che vendono loro beni o servizi. Gli Stati a moneta sovrana, quindi, creano ricchezza quando spendono e tolgono ricchezza ai cittadini quando tassano. Da ciò si deduce che, se tutti gli Stati a moneta sovrana spendono più di quanto tassano, questo arricchisce la società.Negli Stati a moneta sovrana il debito pubblico non è il debito dei cittadini ma la loro ricchezza. Quindi, se uno Stato a moneta sovrana decide di eliminare o pareggiare il debito, esso cesserà l’arricchimento dei cittadini. Immaginiamo che oggi nasce lo Stato X, che abbiamo un debito zero e che il Governo appena eletto dal popolo il primo anno decide di costruire 10 caserme, 100 scuole, 1000 ospedali, 10.000 Università, 100.000 strade eccetera… quindi, cosa fa il governo? Semplicemente inventa la moneta, accredita i conti corrente delle persone che lavorano per la costruzione di queste opere, quindi spende e distribuisce ricchezza. Immaginiamo che il primo anno il governo spende 100 monete per costruire questi beni e tassa il popolo per 70 monete, quindi chiude il bilancio annuale con un debito di 30 monete. Cosa succede a fine anno? Semplicemente il governo ha arricchito il popolo di 30 monete perché ha creato un debito di 30 monete. Quindi: se il governo che possiede moneta sovrana crea debito, genera ricchezza e fa sì che le persone possano avere monete per fare la spesa, comprare casa, fare un viaggio, acquistare una macchina, eccetera.Immaginiamo invece la situazione opposta. Il governo decide di costruire altri beni, quindi paga le aziende private che gli forniscono questi beni e, naturalmente, assume ancora altro personale. Questa volta, però, il governo inventa e spende ancora 100 monete per pagare gli stipendi di coloro che gli forniscono questi beni e servizi ma tassa il popolo per 160 monete, quindi chiude il bilancio annuale in attivo, non fa alcun debito ed anzi: pareggia il debito che aveva accumulato nei primi due anni (il governo, in sostanza, in 3 anni di lavoro ha speso 300 monete ed ha incassato 300 monete). Cosa succede? Semplice: succede che i cittadini dello Stato X non avranno in tasca più nessuna moneta, quindi nessuno potrà più spendere finché il governo non deciderà di fare debito chiudendo il bilancio in passivo generando ricchezza. Il debito è la nostra ricchezza, e se i governi che possiedono moneta sovrana decidono di abbassare il debito anche di un solo punto, questo sottrae ricchezza ai popoli: azzerarlo, come sicuramente avrete compreso, è impossibile.Questo ragionamento, naturalmente, vale solo per gli Stati che possiedono la cosiddetta moneta sovrana: cioè tutti gli Stati proprietari della propria moneta (proprio come lo era l’Italia qualche anno fa: adesso, grazie all’euro, abbiamo perso la nostra sovranità e non possiamo più stampare, non possiamo più creare moneta, non possiamo più avere una vera politica, non possiamo più fare scelte autonome. Dice Paul Krugman, Premio Nobel per l’Economia: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera, con tutti i danni che ciò implica». L’unica alternativa che oggi tutti i paesi che non possiedono una moneta sovrana hanno a disposizione per cercare di sopravvivere è quella di chiedere la moneta ai mercati dei capitali privati che successivamente strangolano e distruggono questi paesi con gli interessi.L’altra possibilità che questi paesi hanno per sopravvivere, naturalmente, è quella di licenziare, non assumere, assumere attraverso contratti precari che costano poco, chiedere la moneta al popolo attraverso le tasse che aumentano quotidianamente, privatizzare, liberalizzare, svendere, innalzare l’età pensionabile, tagliare gli stipendi, tagliare le pensioni, tagliare i fondi alla cultura, alla ricerca, alla scuola, alle università, alla sanità, ai servizi sociali e locali e chi più ne ha più ne metta: ecco spiegata la quotidianità di tantissimi paesi ed il meccanismo all’interno della quale attualmente si trova anche il nostro paese. La moneta in generale, comunque, non è mai di proprietà dei cittadini privati o delle banche: essi possono solo usarla, prendendola in prestito dalle banche o guadagnandola attraverso il lavoro. I soldi sono un mezzo che lo Stato spende per primo e solo successivamente tutti i cittadini ne usufruiscono, spendendoli a loro volta.Hanno tolto ad alcuni Stati la possibilità di stampare moneta e hanno fatto credere ad altri che possono ancora stampare, che il debito sovrano di un paese è un vero debito per il preciso fine descritto in maniera impeccabile dall’economista Joseph Halevi: «Quello che è in gioco è la totale privatizzazione della finanza pubblica e dunque la distruzione degli Stati». Come ci spiega il “Rapporto Grandi Disuguaglianze Crescono” di Oxfam, presentato nel gennaio 2015: «La ricchezza detenuta da meno dell’1% della popolazione mondiale supererà nel 2016 quella del restante 99%.» François Mitterand, parlando con Halevi a proposito del tema inflazione, deflazione, disoccupazione, precarietà e naturalmente del tema della piena occupazione, affermava: «La gente deve togliersi di mezzo. La piena occupazione darebbe troppo potere al popolo. La deflazione, la disoccupazione e i lavori precari, invece, glielo sottraggono».Ok, ma quanto e fino a quando può spendere uno Stato? Randall Wray, tra i più importanti e accreditati economisti e monetaristi del mondo: «Se capiamo come funzionano i sistemi monetari, se comprendiamo che il denaro è solo impulsi elettronici o carta straccia inventata dal Tesoro e dalla Bc, allora possiamo dire che il governo a moneta sovrana può inventarsi tutti gli impulsi elettronici che vuole, con essi può pagare tutti gli stipendi che vuole, comprare tutto ciò che vuole. Possiamo avere la piena occupazione, il business può vendergli tutto ciò che deve vendere se il governo vuole comprarglielo. Può il governo permettersi queste spese? Certo, perché il governo non esaurirà mai gli impulsi elettronici, dunque non farà mai bancarotta; preme un bottone e gli stipendi appaiono sui computer delle banche. L’unico limite è l’inflazione, ma se il governo spende per aumentare la produttività nel settore privato, allora l’inflazione non è più un problema».Per quale motivo, se è così semplice raggiungere l’obiettivo della piena occupazione, esso non sia mai stato perseguito? Ancora Wray: «Non è successo perché innanzi tutto ci sono un sacco di politici ed economisti che non capiscono nulla dei sistemi monetari, cioè non sanno capire che il denaro è solo impulsi elettronici e carta straccia. Poi ci sono molti individui nelle posizioni chiave del potere che sono opposti ideologicamente a questa idea, cioè vogliono la disoccupazione, gli piace, gli dà schiere di lavoratori a stipendi sempre più ridotti e possono competere sui mercati esteri sempre meglio. Ma soprattutto questo, si faccia attenzione: se i cittadini, che formano gli Stati ed eleggono i governi, si rendessero conto che i governi possono spendere quanto vogliono senza limiti di debito, allora il settore pubblico acquisirebbe una percentuale della ricchezza nazionale troppo grossa».Eccesso di inflazione? Lo Stato introduce una tassa temporanea, in modo da togliere di mezzo gli eventuali soldi in eccesso e la situazione è risolta. In conclusione: se il settore pubblico acquisisse una percentuale della ricchezza troppo grossa, i privati non avrebbero più ragione d’esistere, avrebbero un ruolo troppo marginale, un ruolo di scarsa importanza, pochi soldi, troppo poco potere, sarebbero dei normali lavoratori: non sarebbero più intoccabili e onnipotenti come lo sono diventati oggi. Questo è il motivo per cui ci lasciano vivere nell’attuale mondo che funziona al contrario e con la quotidiana paura del debito e dell’inflazione che ci viene quotidianamente “imposta” da tutti i loro amici inseriti nell’informazione ufficiale.(Vincenzo Bellisario, estratti da “Riepilogo generale finalizzato alla comprensione dei meccanismi monetari ed economici in favore della piena occupazione applicabili in Italia e nel mondo”, intervento pubblicato sul sito del Movimento Roosevelt il 18 ottobre 2015).Perché ancora oggi ci sono persone senza cibo o acqua mentre altre vivono nell’abbondanza? Perché ancora oggi ci sono persone senza un lavoro e altre che ne hanno svariati? Perché ancora oggi ci sono persone senza casa e altre che ne hanno svariate? Perché ancora oggi ci sono persone senza soldi e altre con tanti soldi? Se davvero esiste una soluzione ai problemi della gente, perché nessuno la metta in pratica? Perché tutti si occupano sempre degli effetti dei problemi, trascurando le cause? Perché nessuno ci spiega qual è la causa? Perché se qualcuno conosce la causa, nessuno mette in campo la soluzione? Qual è la soluzione? Quotidianamente guardiamo, ascoltiamo e leggiamo del problema dei soldi che non ci sono, della disoccupazione che aumenta, dell’economia che non va bene perché i soldi non ci sono, degli imprenditori e dello Stato che non possono assumere perché non ci sono i soldi; del fatto che il debito pubblico aumenta perché l’economia non va bene perché mancano i soldi e quindi bisogna tagliare le spese ed aumentare le tasse in modo da abbassare i decifit annuali e il debito pubblico.
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Finalmente in galera chi non vuole vaccinare i propri figli
L’Emilia Romagna è una terra ricca e fortunata. E tra le grandi fortune c’è quella di avere un assessore alla salute semplicemente illuminato e illuminante. Si tratta di tale Sergio Venturi. Anzi, del dottor Sergio Venturi, laureato in medicina e burocrate di lungo corso. Terrorizzato come è giusto che sia dal drastico calo delle vaccinazioni (poliomielite, malattia inesistente in Italia dal 1982, precipitata da una percentuale di copertura del 96,10% al 94,8%; difterite, di cui abbiamo avuto in Italia 5 casi tra il 1990 e il 2000 e poi più nulla, dal 96% al 94,72%; pertosse dal 95,78% al 94,44%, epatite B dal 95,78% al 94,49%) e dalle notizie della strage che sta facendo una malattia terribile come la pertosse, il dottor Venturi ha detto basta. Così in un articolo della giornalista Eleonora Capelli, superesperta dell’argomento tanto da aver scoperto l’esistenza della polioMELITE, probabilmente l’infiammazione cronica di molte mele, lo statista scienziato annuncia la sua intenzione di denunciare alla Procura della Repubblica quei genitori che non vaccinano i figli. Ecco: finalmente quei delinquenti faranno la fine che meritano.Intanto, qualcuno, magari informato in modo diverso di quanto non sia l’assessore Venturi, potrebbe proporre il carcere per chi fabbrica vaccini contaminati da pezzi piccini piccini di metallo; per chi mette in commercio i vaccini senza denunciarne tutti i componenti; per chi mette in circolazione vaccini senza aver fatto la sperimentazione che biologia comanda; per chi dà il permesso di commercializzazione senza aver completato tutti i controlli del caso; per i funzionari degli enti di controllo che hanno in mano documentazione imbarazzante sui vaccini e insabbiano il caso; per chi somministra quella roba inquinata; per chi vaccina senza aver valutato in modo esaustivo se il soggetto sia già immune dalla/e patologia/e; per chi pratica vaccinazioni in modo illegale (ad esempio, un’esavalente al posto della tetravalente); per chi, pur obbligato, non denuncia gli effetti deleteri delle vaccinazioni; per chi dà informazioni false o incomplete (esempio: illudendo il soggetto di essere protetto contro una malattia e non contro un solo ceppo della malattia o non dicendo che nessun vaccino è attivo su ogni soggetto); per chi vaccina soggetti che per età non potranno mai essere immunizzati in quel modo; per chi fa terrorismo distorcendo i dati reali (per esempio “morire DI morbillo” invece di “morire CON il morbillo”, e la pertosse non fa differenza) o favoleggiando di epidemie del tutto inesistenti (per esempio, fantasiose epidemie di meningite).Naturalmente potrei continuare con un elenco di situazioni che non vengono considerate reato semplicemente perché c’è chi lucra, e nemmeno poco, sulle vaccinazioni, e chi lucra sta, divano o sgabello che sia, nel salottino di chi conta. E, invece, si tratta di reati gravissimi e, mi si permetta, pure schifosi. Come ho sempre affermato, io non ho alcuna intenzione di condannare i vaccini in quanto tali. L’ho sempre affermato: l’idea è geniale, ma, come per ogni farmaco, bisogna farne un uso onesto e intelligente, due aggettivi che sono in qualche modo sinonimi. L’abuso è illegittimo, eticamente scorretto e non troppo di rado criminale. Insomma, sì ai vaccini a patto che questi siano prodotti come Dio comanda, vale a dire privi di qualunque componente che possa anche lontanamente danneggiare il soggetto, e vanno praticati solo a ragion veduta, con le modalità corrette e solo dopo che il ricevente è stato controllato in modo accurato.Noi non abbiamo bisogno di geni come l’assessore Venturi, di enti di controllo che tutto fanno tranne controllare, di giornalisti analfabeti, di trasmissioni radio vergognose come quelle che ci propina la Rai o quella recentissima di “Radio 24”, dove la nostra ministra della salute, candidamente priva di qualunque cultura specifica , spara sciocchezze mortificanti o dove una signora “scienziata” dice, in sintesi, che le persone non devono essere informate perché della loro salute si occupano geni come lei e tanto basti. Ciò di cui abbiamo bisogno è chiarezza e, se chi fa palate di quattrini con i vaccini dovrà rinunciare a qualche lusso, devo dire che non me ne importa un fico secco. Intanto, qualcuno provveda a praticare le cure del caso all’assessore Venturi che, se ne avrà la voglia e il coraggio, potrà confrontarsi con me e rispondere alle mie domande non a chiacchiere ma a fatti, il che significa con dati suoi e non quelli di chi ha tutto l’interesse a diffondere fandonie. La stessa cosa vale per i fari di scienza che illuminano le trasmissioni radio e Tv di regime.(Stefano Montanari, “Finalmente in galera chi non vaccina i figli”, dal blog di Montanari del 14 ottobre 2015. Laureato in farmacia con una tesi in microchimica, il dottor Montanari si occupa di ricerca applicata al campo della medicina. Autore di diversi brevetti – cardiochirurgia e chirurgia vascolare, pneumologia ed elettrofisiologia – ha diretto un progetto realizzare una valvola cardiaca biologica. Con la moglie Antonietta Gatti conduce ricerche sui biomateriali e dal 2004 dirige il laboratorio Nanodiagnostics di Modena, specializzato in nanopatologie, fonti inquinanti e polveri sottili).L’Emilia Romagna è una terra ricca e fortunata. E tra le grandi fortune c’è quella di avere un assessore alla salute semplicemente illuminato e illuminante. Si tratta di tale Sergio Venturi. Anzi, del dottor Sergio Venturi, laureato in medicina e burocrate di lungo corso. Terrorizzato come è giusto che sia dal drastico calo delle vaccinazioni (poliomielite, malattia inesistente in Italia dal 1982, precipitata da una percentuale di copertura del 96,10% al 94,8%; difterite, di cui abbiamo avuto in Italia 5 casi tra il 1990 e il 2000 e poi più nulla, dal 96% al 94,72%; pertosse dal 95,78% al 94,44%, epatite B dal 95,78% al 94,49%) e dalle notizie della strage che sta facendo una malattia terribile come la pertosse, il dottor Venturi ha detto basta. Così in un articolo della giornalista Eleonora Capelli, superesperta dell’argomento tanto da aver scoperto l’esistenza della poliomelite, probabilmente l’infiammazione cronica di molte mele, lo statista scienziato annuncia la sua intenzione di denunciare alla Procura della Repubblica quei genitori che non vaccinano i figli. Ecco: finalmente quei delinquenti faranno la fine che meritano.
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Levy: persino Gandhi capirebbe la violenza dei palestinesi
Attraverso la nebbia del senso di superiorità, della propaganda dei media, dell’istigazione, della disattenzione, del lavaggio del cervello e della vittimizzazione degli ultimi giorni, ritorna pienamente d’attualità la semplice domanda: chi ha ragione? Nell’arsenale propagandistico israeliano non ci sono argomenti giustificati accettabili per una persona onesta. Persino il Mahatma Gandhi capirebbe le ragioni di questo scoppio di violenza palestinese. Persino quelli che rifiutano la violenza, che la vedono come immorale ed inutile, non possono fare a meno di capire come mai scoppia periodicamente. La domanda è perché non scoppi ancora più spesso. Dalla domanda su chi ha iniziato tutto ciò a quella su chi è da condannare, il dito è giustamente puntato contro Israele, solo contro Israele. Non è che i palestinesi siano incolpevoli, ma la responsabilità principale ricade sulle spalle di Israele. Finché Israele non si libererà di questa colpa, non avrà ragioni per fare uno straccio di richiesta ai palestinesi. Ogni altra cosa è falsa propaganda.Come ha scritto recentemente l’attivista palestinese di lunga data Hanan Ashrawi, i palestinesi solo l’unico popolo sulla terra a cui si chiede di garantire la sicurezza dell’occupante, mentre Israele è l’unico paese al mondo che pretende protezione alle sue vittime. E come possiamo rispondere? Come ha chiesto il presidente Mahmoud Abbas in un’intervista ad “Haaretz”: «Come vi aspettate che la piazza palestinese reagisse dopo che l’adolescente Mohammed Abu Khdeir è stato bruciato vivo [nel luglio 2014, dopo l’uccisione di tre giovani israeliani], l’incendio della casa dei Dawabsheh [nell’agosto 2015, in cui è morto carbonizzato un bambino di 18 mesi e, dopo qualche settimana, sono deceduti i suoi genitori], le aggressioni dei coloni e gli attacchi contro le proprietà [palestinesi] sotto gli occhi dei soldati?». E cos’abbiamo da rispondere?Ai cento anni di spoliazione ed ai 50 anni di oppressione possiamo aggiungere gli ultimi anni, segnati dall’intollerabile arroganza israeliana che ci sta esplodendo ancora una volta in faccia. Sono stati gli anni in cui Israele ha pensato di poter fare qualunque cosa senza pagarne il prezzo. Ha pensato che il ministro della difesa [Moshe Ya’alon, del Likud, il partito di Netanyahu] potesse vantarsi di conoscere l’identità degli assassini dei Dawabsheh senza arrestarli, e i palestinesi si sarebbero controllati. Ha pensato che quasi ogni settimana un ragazzo o adolescente potesse essere ucciso dai soldati e i palestinesi sarebbero rimasti tranquilli. Ha pensato che i soldati israeliani potessero irrompere nelle case dei palestinesi ogni notte e terrorizzare, umiliare ed arrestare la gente. Che a centinaia potessero essere arrestati senza un’accusa. Che lo Shin Bet, il sevizio di sicurezza, potesse continuare a torturare i sospetti con metodi satanici.Ha pensato che i prigionieri che fanno lo sciopero della fame e che sono stati liberati potessero essere riarrestati, spesso senza alcuna ragione. Che Israele potesse distruggere Gaza una volta ogni due o tre anni e che Gaza si sarebbe arresa e la Cisgiordania sarebbe rimasta tranquilla. Che l’opinione pubblica israeliana avrebbe applaudito tutto ciò, nella migliore delle ipotesi con sorrisi e nella peggiore con la richiesta di più sangue palestinese, con una sete che è difficile da comprendere. E i palestinesi lo avrebbero perdonato. Tutto ciò potrebbe continuare ancora per molti anni. Perché? Perchè Israele è più forte che mai e l’Occidente è indifferente e gli consente di scatenarsi come non mai. I palestinesi, nel contempo, sono deboli, divisi, isolati e colpiti come non mai dai tempi della Nakba. Così tutto ciò potrebbe continuare perché Israele lo può fare – e il popolo [israeliano] lo vuole. Nessuno potrà fermare ciò, se non l’opinione pubblica internazionale, che Israele rifiuta in quanto anti-ebraica.E non abbiamo detto niente in merito all’occupazione in quanto tale e l’incapacità di porvi termine. Siamo stanchi. Non abbiamo detto una parola sull’ingiustizia del 1948, che avrebbe dovuto finire allora e non continuata con ancor maggiore forza nel 1967, e continuata senza che se ne veda la fine. Non abbiamo parlato delle leggi internazionali, del diritto naturale e l’etica umana, che non può assolutamente accettare niente di simile. Quando giovani uccidono coloni, lanciano bottiglie molotov contro i soldati e scagliano pietre contro gli israeliani, questo è il contesto. Ci vuole una buona dose di ottusità, ignoranza, nazionalismo e arroganza – o di tutto ciò insieme – per ignorare tutto ciò.(Gideon Levy, “Perfino Gandhi capirebbe la violenza palestinese”, articolo pubblicato sul quotidiano israeliano “Haaretz” il 9 ottobre 2015 e tradotto da “Come Don Chisciotte”).Attraverso la nebbia del senso di superiorità, della propaganda dei media, dell’istigazione, della disattenzione, del lavaggio del cervello e della vittimizzazione degli ultimi giorni, ritorna pienamente d’attualità la semplice domanda: chi ha ragione? Nell’arsenale propagandistico israeliano non ci sono argomenti giustificati accettabili per una persona onesta. Persino il Mahatma Gandhi capirebbe le ragioni di questo scoppio di violenza palestinese. Persino quelli che rifiutano la violenza, che la vedono come immorale ed inutile, non possono fare a meno di capire come mai scoppia periodicamente. La domanda è perché non scoppi ancora più spesso. Dalla domanda su chi ha iniziato tutto ciò a quella su chi è da condannare, il dito è giustamente puntato contro Israele, solo contro Israele. Non è che i palestinesi siano incolpevoli, ma la responsabilità principale ricade sulle spalle di Israele. Finché Israele non si libererà di questa colpa, non avrà ragioni per fare uno straccio di richiesta ai palestinesi. Ogni altra cosa è falsa propaganda.
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Svetlana Alexievic, Premio Nobel alla Banalità Letteraria
I conflitti tra gli agenti strategici sono una caratteristica fondamentale delle società umane. Sono gli esiti di questi scontri a determinare i differenziali di potere tra i gruppi che si disputano il dominio nelle organizzazioni umane, all’interno di ogni sfera societaria. Da tali scontri nascono le stratificazioni in verticale dei ruoli e delle funzioni degli individui e dei raggruppamenti collettivi (la scala dei rapporti di forza interni tra drappelli che si contendono la supremazia nazionale, anche attraverso la sottomissione dei settori più deboli e numerosi come quelli detti popolari) e le segmentazioni in orizzontale (la scala dei rapporti di forza esterni tra formazioni che gareggiano per il primato globale o per uno più localizzato). Ovviamente, una lotta di potere in una nazione dominante o con una sensibile proiezione regionale (come gli Usa o la Russia), benché scaturente in un contesto apparentemente limitato, produce degli scossoni su pezzi importanti della scacchiera planetaria, dove si allungano le sue influenze.Se tali diatribe scoppiano in un contesto periferico gli effetti generati SONO sono più contenuti, anche se non inessenziali per gli equilibri internazionali. Spesso il peso specifico di uno Stato dipende, oltre che dalla sua forza intrinseca, anche dalla posizione che si trova ad occupare nell’orizzonte storico degli eventi, cioè della fase geopolitica in corso. Se un paese è in grado di approfittare di questa rendita posizionale può anche modificare i suoi destini ma deve avere una classe dirigente all’altezza del compito. Dunque, questa legge ferrea del conflitto strategico tra gruppi decisori, quasi sempre coperto alla vista da istituzioni dissimulanti la partecipazione pubblica o il coinvolgimento della società civile, opera ovunque e con gli stessi mezzi (sotterfugi, inganni, complotti, screditamenti, ammazzamenti ecc. ecc.) per l’unico fine del comando sugli apparati decisionali, politici ed economici (con predilezione per quelli deputati all’ordine e alla “coercizione”).Tuttavia, esiste una grande narrazione, molto in voga nell’area democratica occidentale, che fa coincidere l’impiego di tali mezzi spregiudicati e violenti esclusivamente con le usanze di luoghi ameni e barbarici, dove emergono dittatori senza scrupoli e tiranni assetati di sangue. Forse, in alcuni di questi territori si va un po’ più per le spicce, in mancanza di sistemi non così perfezionati di nascondimento e mistificazione della realtà profonda del potere, ma i combattimenti per l’egemonia condividono la medesima “natura”, da Washinton a Mosca, da Parigi a Pechino. Con uno sguardo analitico serio si può andare oltre l’epidermide sociale, dove regnano schede elettorali e diritti umanitari, e accedere all’intimità del potere dove trame e strategie la fanno da padrone. Al mondo libero piace far credere il contrario, affinché la pagliuzza negli occhi del nemico attiri l’attenzione più della trave nei suoi. Oggi, per esempio, è stato conferito il Nobel per la letteratura ad una donzella bielorussa che ha conquistato popolarità raccontando simili favole per deficienti. Costei ha descritto la Russia come l’impero del male e Putin come un sanguinario. Tanto è bastato ai giudici svedesi per premiarla. Hannah Arendt, che un Nobel lo avrebbe meritato, purtroppo non aveva capito nulla. Non è il male ad essere banale, è il banale ad essere un male. Eccone un’altra prova provata.(Gianni Petrosillo, “Premio Nobel alla Banalità Letteraria”, dal blog “Vox Populi” dell’8 ottobre 2015).I conflitti tra gli agenti strategici sono una caratteristica fondamentale delle società umane. Sono gli esiti di questi scontri a determinare i differenziali di potere tra i gruppi che si disputano il dominio nelle organizzazioni umane, all’interno di ogni sfera societaria. Da tali scontri nascono le stratificazioni in verticale dei ruoli e delle funzioni degli individui e dei raggruppamenti collettivi (la scala dei rapporti di forza interni tra drappelli che si contendono la supremazia nazionale, anche attraverso la sottomissione dei settori più deboli e numerosi come quelli detti popolari) e le segmentazioni in orizzontale (la scala dei rapporti di forza esterni tra formazioni che gareggiano per il primato globale o per uno più localizzato). Ovviamente, una lotta di potere in una nazione dominante o con una sensibile proiezione regionale (come gli Usa o la Russia), benché scaturente in un contesto apparentemente limitato, produce degli scossoni su pezzi importanti della scacchiera planetaria, dove si allungano le sue influenze.
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Gender a scuola, i bambini e l’orco. Ma la famiglia dov’è?
Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender».A livello teorico, tutto nasce dagli studi di Margareth Mead, che dimostrano che i ruoli possono benissimo ribaltarsi, come in certe società tribali dell’Oceania: le donne a caccia, gli uomini a casa a farsi belli. Succede anche da noi, scrive Franceschetti nel suo blog: c’è l’amico Maurizio, «che fa il supermacho superscopatore, ma in privato mi confessa che gli piacciono le gonne e i vestiti femminili e quando è solo si veste con le scarpe coi tacchi della moglie». E all’opposto c’è l’amica Ambra, a cui domandi “cosa facciamo stasera?” e ti risponde “andiamo a tirare col fucile”, e al poligono «fa cento colpi e cento centri, una cosa mai vista in vita mia». Autore di clamorose denunce sul “lato oscuro del potere” (gli omcidi rituali, il Mostro di Firenze, la misteriosa setta criminale denominata Ordine della Rosa Rossa), l’ex avvocato Franceschetti, autore di un recentissimo libro, “Le Religioni”, che indaga sulla comune matrice spirituale delle grandi confessioni religiose del pianeta, si è anche distinto per i ripetuti allarmi lanciati in favore dei minori: ne spariscono troppi, anche in Italia. Centinaia, ogni anno. Dove finiscono? Nel traffico di organi e nelle reti potentissime dei pedofili d’alto bordo.Di fronte alle istanze “Gender”, Franceschetti riconosce che «la rigida divisione tra sessi che per secoli ha dominato la società ha portato, e porta tuttora, a degli squilibri». Una donna in carriera è considerata “poco femminile” e temuta dagli uomini, mentre un uomo “casalingo” «è visto con sospetto, come un parassita nullafacente». L’uomo che va con molte donne «è guardato con ammirazione», mentre la donna che ha molti uomini «è quasi sempre una troia». La divisione in sessi? Ha penalizzato chiunque, uomo o donna, rifiutasse gli obblighi sociali. «Non parliamo poi delle problematiche che sorgono se una persona vuole cambiare sesso, o se durante il matrimonio scopre di avere tendenze omosessuali». La teoria Gender vuole sicuramente «porre rimedio a questo stato di cose, introducendo una nuova mentalità, rispettosa delle differenze individuali, per educare la popolazione a una nuova concezione della sessualità e delle differenze di genere». E fin qui, tutto bene. Si prefigura «un meraviglioso mondo, dove l’uomo che voglia andare in giro con i tacchi a spillo e il rossetto venga rispettato, così come una donna che si metta a ruttare e fare a braccio di ferro bestemmiando al bar».Idem per i piccoli: «Nessun trauma arrivi a un bambino che sia allevato da due papà o due mamme, perchè la salute psichica del bambino si misurerà in funzione dell’affetto e degli insegnamenti che riceve, e non dal fatto che abbia necessariamente un padre maschio e una mamma femmina». Ma le ricadute pratiche? Utile leggere il dossier “Standard per l’educazione sessuale in Europa”, commissionato dall’Oms, per capire cosa si vuole fare nelle scuole. Rispetto, equilibrio, attenzione: un documento “amorevole”. Ma «il bello viene da pagina 37 in poi, dove ci sono le direttive sintetiche che gli insegnanti di educazione sessuale dovrebbero applicare sui bambini di varie fasce di età». Sono 144 disposizioni: «Il problema sorge per solo una ventina di direttive in tutto, sparse qua e là quasi innocentemente», specie quelle rivolte ai bambini dai 9 ai 12 anni. L’educatore deve «mettere il bambino in grado di decidere se avere esperienze sessuali o no, effettuare una scelta del contraccettivo e utilizzarlo correttamente, esprimere amicizia e amore in modi diversi, distinguere tra la sessualità nella vita reale e quella rappresentata dai media». E deve «aiutare il bambino a sviluppare l’accettazione della sessualità (baciarsi, toccarsi, accarezzarsi)», nonché «trasmettere informazioni su masturbazione, piacere e orgasmo».Amarcord inevitabile: «Il pensiero corre ai miei professori del liceo», dice Franceschetti. «Quello di matematica che toccava sempre i seni alle ragazze, tranquillo dell’impunità del preside, tanto che quando fu denunciato da una ragazza fu la ragazza a dover cambiare istituto, non il professore». O quello di storia e filosofia, che sprecava intere lezioni «coi suoi racconti tesi a dimostrare che il sesso è peccato». Già alle elementari fioccavano ceffoni: rudi maestre, anziché «improvvisati educatori sessuali protetti dallo scudo delle direttive europee». L’idea Gender? «Meravigliosa e auspicabile se fossimo in un mondo ideale, e se chi la dovesse applicare fosse un essere umano ideale». Ovvero: un educatore «equilibrato, centrato, e amorevole», capace di «saper amare davvero l’altro e il prossimo e saperlo rispettare», dopo «essersi confrontato con la propria parte omosessuale ed essersi interrogato, ove tale parte sussista, su come viverla».L’insegnante-modello, inoltre, dovrebbe essere «monogamo per scelta, convinto che la fedeltà sia un dono, non un obbligo», dunque «una persona sessualmente attiva», che desidera altri partner ma si trattiene, e inoltre è «disposta ad accettare la poligamia del proprio». Di fronte al tradimento subito, massima comprensione: «Caro/a, ho scoperto che mi tradisci; è evidente che ho sbagliato in qualcosa». E poi dev’essere «uno che, scoperta l’omosessualità del figlio, anziché preoccuparsi, veda questo come un’opportunità di crescere insieme e apprendere di più dalla vita e da se stessi». E ancora, scoprendo l’omosessualità del partner, gli dovrebbe dire: «Ti amo, e per rispetto vorrei che tu vivessi appieno questa tua esperienza, finché non deciderai in che ruolo collocare il nostro rapporto». Tutto bene, «se esistesse un essere umano che ha raggiunto un tale grado di consapevolezza». Quanti ne conosciamo, nella vita quotidiana? Ovviamente, «questo ritratto di essere umano quasi perfetto è praticamente introvabile».La realtà, infatti, è desolatamente opposta: «Dal punto di vista sessuale, la maggior parte delle persone non solo non è affatto equilibrata, ma ha quelle che in psicologia sono considerate devianze o problemi: eiaculazione precoce, impotenza, anorgasmia, sadomasochismo, feticismo». E poi le “stranezze”, «come l’eccitarsi solo in determinate condizioni ambientali», magari con l’impiego di “oggetti particolari”, «per non parlare della percentuale, altissima, di coloro che hanno delle vere e proprie perversioni criminali». Morale: «Il problema dell’ideologia Gender è, molto semplicemente, che non esiste un numero sufficiente di educatori che abbia l’equilibrio tale da poter insegnare ai bambini il rispetto di genere (altrui e proprio) per il semplice motivo che ancora non hanno raggiunto tale equilibrio in loro stessi». Che medico sei, se non sai nemmeno curare te stesso?Sicché, le «demenziali 20 regole» indicate da Franceschetti «porteranno a una conseguenza inevitabile nelle scuole: abusi, facilitazioni della pedofilia e traumi vari ai bambini». Quindi, anche se «l’obiettivo teorico della riforma è lodevole e teoricamente condivisibile», visto che propone che i bambini devono essere educati al rispetto di genere, di fatto «la riforma conseguirà (volutamente, è il caso di dirlo) l’obiettivo opposto: aumenterà gli abusi sui minori nel lungo termine, e nel breve termine creerà la falsa contrapposizione tra progressisti e conservatori omofobi». Una riforma di questo tipo, «in mano a insegnanti e politici inconsapevoli e non in grado di gestire una problematica come quella del genere», secondo Franceschetti produrrà scontri, tensioni e cause legali: «Cattolici contro omosessuali, omosessuali contro eterosessuali, politici contro politici, genitori contro insegnanti, magistrati contro cittadini». Tutto questo, «in un clima in cui a risentirne e a restarne traumatizzati saranno soprattutto i bambini».Tradotto: anche questa del Gender «si inquadra in quel contesto di riforme volute dal Parlamento Europeo in tutti i campi (economico, politico, finanziario, sociale, scolastico) per distruggere i fondamenti della società e ricostruirne una nuova, basata sul Nwo, creando caos sociale ad ogni livello». Nuovo ordine mondiale? «La tecnica è nota», insiste Franceschetti: «Si parte da una premessa giusta (educare al rispetto delle diversità) e si fa una legge in parte giusta (educare i bambini alla sessualità) con qualche appiglio per ribaltare completamente il risultato e creare più caos di quanto già non ce ne sia (dando mano libera ai pedofili e ai pervertiti di poter agire liberamente nelle scuole)». E i primi frutti dell’introduzione dell’ideologia Gender si vedono già: «Alcuni sindaci hanno ritirato alcuni libri ispirati all’ideologia Gender dalle scuole. Una maestra è stata denunciata da un rappresentante dell’Arcigay e linciata mediaticamente, su tutti i giornali, per aver detto a scuola che l’omosessualità è una malattia (salvo poi essere scagionata dagli allievi, che hanno detto “ma no, veramente ha detto tutt’altro”)».Stefania Giannini, ministro dell’istruzione, minaccia denunce contro chi sostiene che la riforma Renzi della “buona scuola” obblighi a educare sessualmente i giovani secondo le teorie Gender: la riforma imporrebbe solo di “educare al rispetto della diversità”. «Ogni tanto sui giornali escono notizie di genitori preoccupati per i vibratori a scuola. Una preside ha inviato una lettera al ministero per denunciare l’introduzione della teoria Gender nelle scuola, e il ministero ha mandato gli ispettori (sic!) ritenendo inaccettabile il comportamento della preside». E ancora: «In una scuola sono state denunciate delle suore che, stando ai giornali, avevano fatto educazione alla masturbazione a bambini di 10 anni». In alcuni Comuni già si raccolgono firme “contro”. Ma attezione: «La maggior parte delle notizie sono false e volutamente distorte, per poter essere interpretate come uno preferisce. Come è falso che questa teoria sia “imposta” dall’Ue», che in realtà «impone solo, con vari regolamenti, direttive e indicazioni, di abolire le differenze di genere tra uomo e donna in tutti gli ambiti, il che è sacrosanto».Le teorie Gender a scuola sono già applicate in diversi paesi europei, «ma la situazione è di estremo caos». La confusione impazza, anche nel privato: «Solo per fare un esempio personale – racconta Franceschetti – ho postato sulla mia pagina Facebook un video dell’avvocato Amato, di tendenza dichiaratamente cattolica. Una ragazza omosessuale mi ha ritirato l’amicizia sentendosi profondamente ferita dal video (sue parole testuali). Un altro mi ha dato del fascista, dicendo in aggiunta che probabilmente poi di nascosto vado a trans». Tutto questo, «a riprova che non si può discutere serenamente di Gender senza creare conflitti: se sei contro questa nuova tendenza, sei omofobo e retrogrado; se sei a favore, sei un pedofilo o un frocio». Dobbiamo quindi preoccuparci, gridare allo scandalo e arroccarci sulle vecchie posizioni, o sposare le teorie Gender? «Nulla di tutto ciò. C’è invece la possibilità di trasformare la questione Gender in un’occasione favorevole per la crescita dei nostri figli e di noi stessi». E come? Mobilitando – per la prima volta, in molti casi – la cara, vecchia famiglia, troppo spesso assente, o peggio.«Lo sfascio del sistema in cui viviamo è inevitabile, e questa ideologia porterà, col tempo, allo sfascio della famiglia tradizionale e dei valori tradizionali», insiste Franceschetti. «I bambini saranno spesso abusati e traumatizzati. Ma purtroppo, occorre dirlo, i bambini sono da sempre stati abusati e traumatizzati perché – in questo ha ragione l’ideologia Gender – l’imposizione rigida dei ruoli ha provocato da sempre una serie di problemi psicologici». Il bambino è inoltre traumatizzato su vari fronti, non solo quello sessuale, e peraltro in tutte le epoche, «perché la maggior parte dei genitori riversa inevitabilmente i propri disturbi personali sul bambino stesso, che fin da piccolo è costretto a subire limitazioni prive di senso, ad essere sgridato senza criterio, talvolta picchiato, costretto a subire le urla dei genitori tra di loro, gli abbandoni, la violenza verbale e fisica che a volte sussiste nella coppia». Basta rileggere gli studi di Alice Miller: “Il dramma del bambino dotato”, “Il bambino inascoltato”, “La fiducia tradita”, “La chiave abbandonata”.Niente di nuovo sotto il sole: i bambini «saranno “solo” costretti a un ulteriore abuso, oltre a quelli che quotidianamente subiscono dagli ignari genitori», spesso convinti di essere impeccabili. «Questa situazione di caos e ulteriore abuso, però, potrà avere effetti positivi qualora le famiglie si riappropriassero del proprio ruolo, senza delegare alla scuola l’educazione dei bambini», sostiene Franceschetti. «Se fino ad oggi, a casa, di sesso non se ne parlava, o se ne parlava male», a questo punto «per arginare l’effetto traumatico della riforma Gender l’unica possibilità è che i genitori si sforzino sempre di più di dialogare con i figli, di accettare davvero le diversità e di spiegare loro che se l’insegnante si masturba in classe è solo un pervertito, non un educatore». E a fronte di un insegnante che vorrà “far provare nuove esperienze” al bambino di 9-12 anni, come da protocollo, «gli si spieghi che forse, a quell’età, tali esperienze potrebbero provocargli un trauma: sarà meglio rimandarle magari a quando sarà adulto e in grado di decidere da solo quali esperienze diverse provare».E di fronte a un insegnante che magari «esalterà l’omosessualità dicendo che è normale, invitando i bambini di 9 anni a farne esperienza», il genitore dirà: «Sì tesoro, in effetti è normale, ma statisticamente l’80% delle persone è ancora eterosessuale, quindi direi che potrai fare queste prove più in là, magari dopo i vent’anni». Così, «invece di portarli al doposcuola, forse sarà la volta buona che un genitore anaffettivo trovi una buona scusa per portare i figli con sé e passarci più tempo insieme», conclude Franceschetti. In pratica, proprio perché la riforma Gender è arrivata nel momento in cui l’istituzione familiare «si era deresponsabilizzata dal suo ruolo educativo», forse «è proprio questo il momento buono affinché l’educazione sessuale dei figli venga riportata nel luogo principale dove dovrebbe essere effettuata: la famiglia».Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender».