Archivio del Tag ‘Michele Sindona’
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Sangue sul Chianti: anatomia di un’Italia in emergenza
“Scarabeo”, “La loggia degli innocenti”, “Le rose nere di Firenze”: quello che non ha potuto dire apertamente, come investigatore, il commissario Michele Giuttari lo ha scritto – usando nomi di fantasia – nei suoi fortunatissimi romanzi polizieschi. Lo afferma l’avvocato Paolo Franceschetti, indagatore dell’ombra: quella da cui nascono alcuni fra i più atroci incubi italiani, tra cui i cosiddetti omicidi rituali. Spaventosi gialli in parte ancora irrisolti, come quelli attribuiti alla banda chiamata Mostro di Firenze. A un passo dalla svolta definitiva arrivò proprio lui, Giuttari, insieme al procuratore perugino Giuliano Mignini, quando i Compagni di Merende allusero al “dottore di Perugia” come possibile mandante: le acque del Lago Trasimeno restituirono un corpo, frettolosamente attribuito a quel giovane medico. Non annegato, si seppe poi, ma strangolato. Una volta riesumato e messo a confronto con le foto del cadavere ripescato, si scoprì che si trattava di due persone diverse. Il morto del lago (mai scoperto chi fosse) doveva solo servire a convincere tutti che il povero medico fosse davvero caduto in acqua, trovandovi la morte.Il colpo di genio? Far rilevare le impronte digitali alla salma, nel dubbio che fosse stato proprio lui – il dottore – a sfidare il pool di Firenze, spedendo ai magistrati alcuni macabri frammenti dei cadaveri straziati delle coppiette uccise. Bingo: quando il super-detective corse a frugare nell’archivio super-blindato dei reperti, scoprì che era stato appena saccheggiato. Le lettere-chiave, sparite. Altro avvertimento: nel cortile della questura, le gomme dell’auto del commissario erano state tagliate. Poco dopo, Michele Giuttari lasciò la polizia. E insieme al magistrato di Perugia, fu perseguitato con accuse giudiziarie pretestuose (poi sgonfiatesi, ma solo dopo aver allontanato lui e il giudice dal vero Mostro di Firenze). Oggi, Michele Giuttari è un autore di bestseller tradotti e venduti in tutto il mondo, in oltre cento paesi diversi. Un prodigioso macinatore di trame mozzafiato e di parole asciutte, esatte, precise come le indagini che ne avevano fatto un campione della polizia italiana.Un implacabile cacciatore di mafiosi, Giuttari. Criminali di primo livello, come i killer di Cosa Nostra che avevano fatto scoppiare le bombe stragistiche di Milano, Firenze e Roma, all’inzio degli anni ‘90, quando l’Italia – caduto il Muro di Berlino – “doveva” finire in pasto ai poteri finanziari che controllano l’Ue, e andare incontro alla buia morsa dell’austerity. Poteri che utilizzarono largamente tutto il marcio su cui aveva galleggiato la mitica Prima Repubblica, prospera e corrotta. Analisti e politologi, negli ultimi anni, hanno ricostruito il quadro: la demolizione dei vecchi partiti, ormai inutili e spesso impresentabili, non sarebbe mai potuta avvenire se la magistratura di Milano non si fosse “accorta”, di colpo, del dilagare del pubblico malaffare. Gli inafferrabili mafiosi? I capi storici sarebbero stati arrestati, anche quelli, ma solo dopo aver “sistemato” Falcone e Borsellino, che si erano spinti oltre, seguendo la pista dei soldi che probabilmente collegava Brooklyn e Bruxelles, magari passando anche per il vecchio Ior e gli affari di Calvi e Sindona, altri due personaggi (di taglia ben diversa) messi a tacere a tempo debito.Oggi è di moda parlare di Deep State: il punto di saldatura tra super-tecnocrati “collaborazionisti”, colletti bianchi della nuova mafia e mercenari dell’establishment al soldo di un potere apolide, quello del denaro, insieme a precisi segmenti dell’apparato statale, le “barbe finte”, gli 007 senza bandiera incaricati delle operazioni più inconfessabili. Un sottobosco che, pian piano, emerge anche dalle pagine di “Sangue sul Chianti”, ultima fatica letteraria di Michele Giuttari, che opera sul campo attraverso il suo alter ego cartaceo, il commissario Ferrara. Non un giallo politico, beninteso: trattasi di noir puro, composto – con un’orchestrazione perfetta, cronometrica e implacabile – per la gioia degli amanti di questo genere narrativo che, secondo la francese Fred Vargas, viene ormai utilizzato sempre più spesso, dagli scrittori, per “rifugiarsi” nel pretesto di una trama poliziesca. Un luogo protetto, da cui dire la loro su come va il mondo, per davvero, anche portando allo scoperto i fili invisibili che legano un assassino ai suoi insospettabili, illustri mandanti.E così, anche “Sangue sul Chianti” – un libro che letteralmente si lascia divorare, alla velocità della luce – mette in scena un teatro d’ombre in cui finiscono per muoversi affaristi di provincia e piccoli drogati, brutali spacciatori stranieri ma anche clan mafiosi con libero accesso a paradisi fiscali. Tutti retroscena perfettamente noti ai soliti apparati, quelli d’intelligence, che – lungi dall’intervenire – sfruttano la situazione: e se proprio si mette male, se cioè spunta qualche “sbirro” troppo sveglio, sono anche pronti a far scorrere il sangue, sul Chianti e non solo, magari per occultare tracce che renderebbero evidente la reale natura del gioco, non presentabile al cittadino comune che si ciba di cronaca, magari nera. Ed è quella, infatti, a dominare il libro, che sa offrire benissimo la percezione della crescente insicurezza sociale, nella Firenze del 2005, mentre l’Italia sta scivolando giorno per giorno verso l’inesorabile crisi economica che, di lì a non molto, la porterà a genuflettersi davanti alle nuove, o forse antiche divinità bancarie dell’Unione Europea.Nel fondamentale memoir “Confesso che ho indagato”, titolo che rifà il verso alla strepitosa autobiografia di Pablo Neruda, Giuttari insiste su un punto cardine: guai a delegare alla sola tecnologia il compito di risolvere le indagini, perché niente potrà mai sostituire il lampo dell’intelligenza (non artificiale) che nasce dalla sensibilità – umanissima – del poliziotto che scava nel buio, nel dolore dei parenti delle vittime e tra le pieghe della scena del crimine, attingendo anche al talento naturale da cui nascono le migliori intuizioni. Certo, occorre essere maestri nell’arte dell’interrogatorio, prima che intervenga – in modo magari maldestro e ingombrante – il protagonismo della magistratura inquirente (non altrettanto dotata, nella specialità in cui eccellono gli “sbirri” purosangue, che sanno fiutare la preda). Così, anche stavolta, gli appassionati del legal thriller e del poliziesco classico troveranno pane per i loro denti, osservando in azione gli uomini del commissario Ferrara: riconosceranno il piglio inconfondibile di indagini condotte a misura d’uomo, inclusi gli inevitabili errori, lontanissimo dagli effetti speciali di tante, recenti polizie televisive.Puntare l’uomo, marcarlo stretto, indovinargli l’anima: sapendo che la possibile cantonata è sempre dietro l’angolo, e che l’assassino potrebbe anche essere la persona di cui, da sempre, ti fidi di più. “Sangue sul Chianti” mostra, in modo esemplare, di che pasta erano fatti gli investigatori italiani della vecchia guardia, come i segugi che – in Sicilia – finirono spesso nel tragico cimitero dell’antimafia, durissima trincea dalla quale proveniva lo stesso Giuttari, messinese d’origine. Il suo ultimo noir punta in alto: lo sporco si annida proprio lassù, nel vertice della piramide, in tutte le sue declinazioni (pubbliche e private). Brillano diamanti e sfavilla il lusso, nel paradiso dorato del “Chiantishire”, che d’un tratto può colorarsi di rosso come il Sangiovese. Ma il male ha sempre bisogno di collaborazione, anche da parte della gente minuta: le debolezze umane sono in agguato ovunque, a poco prezzo. E fanno parte, anche loro, di una trama formidabile, che tiene insieme cacciatori e lepri, vivi e morti, guardie e ladri. Il piccolo delinquente, l’uomo comune che cede alla tentazione solo per una volta, nella vita. E il più pericoloso criminale tuttora a piede libero: il potere.Sbaglierebbe, chi vedesse nell’autore Michele Giuttari una specie di anarchico travestito da ex poliziotto: la severità del suo sguardo politico è la stessa di chi ha creduto, in modo incrollabile, nelle istituzioni di un’Italia risorta dalle macerie dell’ultima guerra mondiale. In tutt’altra maniera, ne dà prova anche uno scrittore come Giuseppe Genna nel thriller “Nel nome di Ishmael”, che lambisce il dramma della sparizione dei bambini: lo fa in una pagina memorabile, dedicata al “sacrificio” di Enrico Mattei come eroico edificatore civile dell’Italia democratica del dopoguerra. Se oggi – 2021, anno secondo dell’Era Covid – il paese è diventato letteralmente irriconoscibile, in fondo anche le pagine di “Sangue sul Chianti” sembrano suggerire che forse non tutto è perduto, se a far tardi la notte (anche rischiando la pelle) ci sono uomini come quelli della Squadra Mobile del commissario Ferrara.(Il libro: Michele Giuttari, “Sangue sul Chianti”, Fratelli Frilli Editore, 467 pagine, euro 18,90).“Scarabeo”, “La loggia degli innocenti”, “Le rose nere di Firenze”: quello che non ha potuto dire apertamente, come investigatore, il commissario Michele Giuttari lo ha scritto – usando nomi di fantasia – nei suoi fortunatissimi romanzi polizieschi. Lo afferma l’avvocato Paolo Franceschetti, indagatore dell’ombra: quella da cui nascono alcuni fra i più atroci incubi italiani, tra cui i cosiddetti omicidi rituali. Spaventosi gialli in parte ancora irrisolti, come quelli attribuiti alla banda chiamata Mostro di Firenze. A un passo dalla svolta definitiva arrivò proprio lui, Giuttari, insieme al procuratore perugino Giuliano Mignini, quando i Compagni di Merende allusero al “dottore di Perugia” come possibile mandante: le acque del Lago Trasimeno restituirono un corpo, frettolosamente attribuito a quel giovane medico. Non annegato, si seppe poi, ma strangolato. Una volta riesumato e messo a confronto con le foto del cadavere ripescato, si scoprì che si trattava di due persone diverse. Il morto del lago (mai scoperto chi fosse) doveva solo servire a convincere tutti che il povero medico fosse davvero caduto in acqua, trovandovi la morte.
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Paltrinieri: l’Italia risorga, sarà lei a battere il Deep State
«Altro che paese a rischio, l’Italia è una corazzata. Come ben detto da Banca d’Italia, fra denaro, titoli e asset fisici, il popolo italiano (non le banche) detiene 10.000 miliardi di euro di risparmi, 4 volte tanto il famigerato debito pubblico. Gli altri paesi sono messi al contrario: debito pubblico più basso ma cittadini super-indebitati. Quindi, per distruggerla bisogna portarla a uno stato di impoverimento pari a quello in cui, durante il regime fascista, la gente andava a donare le fedi per la patria. E l’unica maniera per contrastare questo disegno è rifondare tutto sulla base dell’unico collante esistente, lo spirito cattolico». Non usa mezze misure, Flavio Robert Paltrinieri, italoamericano, una vita da imprenditore e a capo di diverse società nel mondo e anche parte della task-force internazionale che vuole far rinascere la Democrazia Cristiana come una nuova Dc. E ci rivela la malattia e la cura, ovvero il disegno in atto da parte del cosiddetto Deep State e la maniera per smontarlo. Soprattutto, ci rivela che non sono gli Usa il simbolo del mondo libero che va distrutto, ma l’Italia. Ma cos’è, esattamente, il Deep State? E quando è iniziato lo strapotere della finanza internazionale?
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Mafia, Wall Street e traditori: così è stata svenduta l’Italia
Falcone e Borsellino? Eliminati per un motivo più che strategico. Braccando la mafia, erano risaliti – tramite la pista massonica – ai legami finanziari tra l’élite Usa e la manovalanza italiana della grande operazione che si stava preparando, e che avrebbe devastato la storia del nostro paese: la svendita dell’Italia all’élite finanziaria globalista, che si servì di collaborazionisti di primissimo piano. Obiettivo: mettere le mani sullo Stato, razziando risorse e togliendo servizi vitali ai cittadini. All’indomani della catastrofe di Genova, coi riflettori puntati sullo strano caso delle autostrade “regalate” ai Benetton (e ai loro potenti soci d’oltreoceano), è illuminante rileggere oggi la paziente ricostruzione realizzata già nel 2007 da Antonella Randazzo. Mentre i giudici di Mani Pulite davano agli italiani l’illusione di un cambiamento nel segno della trasparenza, mettendo fine alla corruzione della Prima Repubblica, la finanza aglosassone convocava a bordo del Britannia gli uomini-chiave della futura Italia, assoldati per sabotare il proprio paese. Sarebbero stati agevolati dalla super-speculazione di George Soros sulla lira, che tolse all’Italia il 30% del suo valore, favorendone la svendita a prezzi stracciati. Da allora, un copione invariabile: aziende pubbliche rilevate da imprenditori italiani finanziati dalle stesse banche anglosassoni che avevano progettato il “golpe”. Il grande complotto contro l’Italia che – per primo – proprio Giovanni Falcone aveva fiutato.Era il 1992, all’improvviso un’intera classe politica dirigente crollava sotto i colpi delle indagini giudiziarie. Da oltre quarant’anni era stata al potere. Gli italiani avevano sospettato a lungo che il sistema politico si basasse sulla corruzione e sul clientelismo. Ma nulla aveva potuto scalfirlo. Né le denunce, né le proteste popolari (talvolta represse nel sangue), né i casi di connivenza con la mafia, che di tanto in tanto salivano alla cronaca. Ma ecco che, improvvisamente, il sistema crollava. Cos’era successo da fare in modo che gli italiani potessero avere, inaspettatamente, la soddisfazione di constatare che i loro sospetti sulla corruzione del sistema politico erano reali? Mentre l’attenzione degli italiani era puntata sullo scandalo delle tangenti, il governo italiano stava prendendo decisioni importantissime per il futuro del paese. Con l’uragano di Tangentopoli gli italiani credettero che potesse iniziare un periodo migliore per l’Italia. Ma in segreto, il governo stava attuando politiche che avrebbero peggiorato il futuro del paese. Numerose aziende saranno svendute, persino la Banca d’Italia sarà messa in vendita. La svendita venne chiamata “privatizzazione”.Il 1992 fu un anno di allarme e di segretezza. L’allora ministro degli interni Vincenzo Scotti, il 16 marzo, lanciò un allarme a tutti i prefetti, temendo una serie di attacchi contro la democrazia italiana. Gli attacchi previsti da Scotti erano eventi come l’uccisione di politici o il rapimento del presidente della Repubblica. Gli attacchi ci furono, e andarono a buon fine, ma non si trattò degli eventi previsti dal ministro degli interni. L’attacco alla democrazia fu assai più nascosto e destabilizzante. Nel maggio del 1992, Giovanni Falcone venne ucciso dalla mafia. Egli stava indagando sui flussi di denaro sporco, e la pista stava portando a risultati che potevano collegare la mafia ad importanti circuiti finanziari internazionali. Falcone aveva anche scoperto che alcuni personaggi prestigiosi di Palermo erano affiliati ad alcune logge massoniche di rito scozzese, a cui appartenevano anche diversi mafiosi, ad esempio Giovanni Lo Cascio. La pista delle logge correva parallela a quella dei circuiti finanziari, e avrebbe portato a risultati certi, se Falcone non fosse stato ucciso.Su Falcone erano state diffuse calunnie che cercavano di capovolgere la realtà di un magistrato integro. La gente intuiva che le istituzioni non lo avevano protetto. Ciò emerse anche durante il suo funerale, quando gli agenti di polizia si posizionarono davanti alle bare, impedendo a chiunque di avvicinarsi. Qualcuno gridò: «Vergognatevi, dovete vergognarvi, dovete andare via, non vi avvicinate a queste bare, questi non sono vostri, questi sono i nostri morti, solo noi abbiamo il diritto di piangerli, voi avete solo il dovere di vergognarvi». Che la mafia stesse utilizzando metodi per colpire il paese intero, in modo da spaventarlo e fargli accettare passivamente il “nuovo corso” degli eventi, lo si vedrà anche dagli attentati del 1993. Gli attentati del 1993 ebbero caratteristiche assai simili agli attentati terroristici degli anni della “strategia della tensione”, e sicuramente avevano lo scopo di spaventare il paese, per indebolirlo. Il 4 maggio 1993, un’autobomba esplode in via Fauro a Roma, nel quartiere Parioli. Il 27 maggio un’altra autobomba esplode in via dei Georgofili a Firenze, cinque persone perdono la vita. La notte tra il 27 e il 28 luglio, ancora un’autobomba esplode in via Palestro a Milano, uccidendo cinque persone.I responsabili non furono mai identificati, e si disse che la mafia volesse “colpire le opere d’arte nazionali”, ma non era mai accaduto nulla di simile. I familiari delle vittime e il giudice Giuseppe Soresina saranno concordi nel ritenere che quegli attentati non erano stati compiuti soltanto dalla mafia, ma anche da altri personaggi dalle «menti più fini dei mafiosi» (da “reti-invisibili.net”). Falcone era un vero avversario della mafia. Le sue indagini passarono a Borsellino, che venne assassinato due mesi dopo. La loro morte ha decretato il trionfo di un sistema mafioso e criminale, che avrebbe messo le mani sull’economia italiana, e costretto il paese alla completa sottomissione politica e finanziaria. Mentre il ministro Scotti faceva una dichiarazione che suonava quasi come una minaccia («la mafia punterà su obiettivi sempre più eccellenti e la lotta si farà sempre più cruenta, la mafia vuole destabilizzare lo Stato e piegarlo ai propri voleri»), Borsellino lamentava regole e leggi che non permettevano una vera lotta contro la mafia. Egli osservava: «Non si può affrontare la potenza mafiosa quando le si fa un regalo come quello che le è stato fatto con i nuovi strumenti processuali adatti a un paese che non è l’Italia e certamente non la Sicilia. Il nuovo codice, nel suo aspetto dibattimentale, è uno strumento spuntato nelle mani di chi lo deve usare. Ogni volta, ad esempio, si deve ricominciare da capo e dimostrare che Cosa Nostra esiste» (“La Repubblica” , 27 maggio 1992).I metodi statali di sabotaggio della lotta contro la mafia sono stati denunciati da numerosi esponenti della magistratura. Ad esempio, il 27 maggio 1992, il presidente del tribunale di Caltanissetta Placido Dall’Orto, che doveva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci, si trovò in gravi difficoltà: «Qui è molto peggio di Fort Apache, siamo allo sbando. In una situazione come la nostra la lotta alla mafia è solo una vuota parola, lo abbiamo detto tante volte al Csm» (“La Repubblica”, 28 maggio 1992). Anche il pubblico ministero di Palermo, Roberto Scarpinato, nel giugno del 1992 disse: «Su un piatto della bilancia c’è la vita, sull’altro piatto ci deve essere qualcosa che valga il rischio della vita, non vedo in questo pacchetto un impegno straordinario da parte dello Stato, ad esempio non vedo nulla di straordinario sulla caccia e la cattura dei grandi latitanti» (“La Repubblica”, 10 giugno 1992). Nello stesso anno, il senatore Maurizio Calvi raccontò che Falcone gli confessò di non fidarsi del comando dei carabinieri di Palermo, della questura di Palermo e nemmeno della prefettura di Palermo (“La Repubblica”, 23 giugno 1992).Che gli assassini di Capaci non fossero tutti italiani, molti lo sospettavano. Il ministro Martelli, durante una visita in Sudamerica, dichiarò: «Cerco legami tra l’assassinio di Falcone e la mafia americana o la mafia colombiana» (“La Repubblica”, 23 giugno 1992). Lo stesso presidente del Consiglio, Amato, durante una visita a Monaco, disse: «Falcone è stato ucciso a Palermo, ma probabilmente l’omicidio è stato deciso altrove». Probabilmente, le tecniche d’indagine di Falcone non piacevano ai personaggi con cui il governo italiano ebbe a che fare quell’anno. Quel considerare la lotta alla mafia soprattutto un dovere morale e culturale, quel coinvolgere le persone nel candore dell’onestà e dell’assenza di compromessi, gli erano valsi la persecuzione e i metodi di calunnia tipici dei servizi segreti inglesi e statunitensi. Tali metodi mirano ad isolare e a criminalizzare, cercando di fare apparire il contrario di ciò che è. Cercarono di far apparire Falcone un complice della mafia. Antonino Caponnetto dichiarò al giornale “La Repubblica”, il 25 giugno 1992: «Non si può negare che c’è stata una campagna (contro Falcone), cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato. Non c’è nulla di più pericoloso per un magistrato che lotta contro la mafia che l’essere isolato».L’omicidio di due simboli dello Stato così importanti come Falcone e Borsellino significava qualcosa di nuovo. Erano state toccate le corde dell’élite di potere internazionale, e questi omicidi brutali lo testimoniavano. Ciò è stato intuito anche da Charles Rose, procuratore distrettuale di New York, che notò la particolarità degli attentati: «Neppure i boss più feroci di Cosa Nostra hanno mai voluto colpire personalità dello Stato così visibili come era Giovanni, perché essi sanno benissimo quali rischi comporta attaccare frontalmente lo Stato. Quell’attentato terroristico è un gesto di paura… Credo che una mafia che si mette a sparare ai simboli come fanno i terroristi… è condannata a perdere il bene più prezioso per ogni organizzazione criminale di quel tipo, cioè la complicità attiva o passiva della popolazione entro la quale si muove» (“La Repubblica”, 27 maggio 1992). Infatti, quell’anno gli italiani capirono che c’era qualcosa di nuovo, e scesero in piazza contro la mafia. Si formarono due fronti: la gente comune contro la mafia, e le istituzioni, che si stavano sottomettendo all’élite che coordina le mafie internazionali. Quell’anno l’élite anglo-americana non voleva soltanto impedire la lotta efficace contro la mafia, ma voleva rendere l’Italia un paese completamente soggiogato ad un sistema mafioso e criminale, che avrebbe dominato attraverso il potere finanziario.Come segnalò il presidente del Senato Giovanni Spadolini, c’era in atto un’operazione su larga scala per distruggere la democrazia italiana: «Il fine della criminalità mafiosa sembra essere identico a quello del terrorismo nella fase più acuta della stagione degli anni di piombo: travolgere lo Stato democratico nel nostro paese. L’obiettivo è sempre lo stesso: delegittimare lo Stato, rompere il circuito di fiducia tra cittadini e potere democratico…se poi noi scorgiamo – e ne abbiamo il diritto – qualche collegamento internazionale intorno alla sfida mafia più terrorismo, allora ci domandiamo: ma forse si rinnovano gli scenari di dodici-undici anni fa? Le minacce dei centri di cospirazione affaristico-politica come la P2 sono permanenti nella vita democratica italiana. E c’è un filone piduista che sopravvive, non sappiamo con quanti altri. Mafia e P2 sono congiunte fin dalle origini, fin dalla vicenda Sindona» (“La Repubblica”, 11 agosto 1992). Anche Tina Anselmi aveva capito i legami fra mafia e finanza internazionale: «Bisogna stare attenti, molto attenti… Ho parlato del vecchio “piano di rinascita democratica” di Gelli e confermo che leggerlo oggi fa sobbalzare. E’ in piena attuazione… Chi ha grandi mezzi e tanti soldi fa sempre politica e la fa a livello nazionale ed internazionale».«Ho parlato in questi giorni con un importante uomo politico italiano che vive nel mondo delle banche. Sa cosa mi ha detto? Che la mafia è stata più veloce degli industriali e che sta già investendo centinaia di miliardi, frutto dei guadagni fatti con la droga, nei paesi dell’est… Stanno già comprando giornali e televisioni private, industrie e alberghi… Quegli investimenti si trasformeranno anche in precise e specifiche azioni politiche che ci riguardano, ci riguardano tutti. Dopo le stragi di Palermo la polizia americana è venuta ad indagare in Sicilia anche per questo, sanno di questi investimenti colossali, fatti regolarmente attraverso le banche» (“L’Unità”, 12 agosto 1992). Anni dopo, l’ex ministro Scotti confesserà a Cirino Pomicino: «Tutto nacque da una comunicazione riservata fattami dal capo della polizia Parisi che, sulla base di un lavoro di intelligence svolto dal Sisde e supportato da informazioni confidenziali, parlava di riunioni internazionali nelle quali sarebbero state decise azioni destabilizzanti sia con attentati mafiosi sia con indagini giudiziarie nei confronti dei leader dei partiti di governo».Una delle riunioni di cui parlava Scotti si svolse il 2 giugno del 1992, sul panfilo Britannia, in navigazione lungo le coste siciliane. Sul panfilo c’erano alcuni appartenenti all’élite di potere anglo-americana, come i reali britannici e i grandi banchieri delle banche a cui si rivolgerà il governo italiano durante la fase delle privatizzazioni (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers). In quella riunione si decise di acquistare le aziende italiane e la Banca d’Italia, e come far crollare il vecchio sistema politico per insediarne un altro, completamente manovrato dai nuovi padroni. A quella riunione parteciparono anche diversi italiani, come Mario Draghi, allora direttore delegato del ministero del Tesoro, il dirigente dell’Eni Beniamino Andreatta e il dirigente dell’Iri Riccardo Galli. Gli intrighi decisi sul Britannia avrebbero permesso agli anglo-americani di mettere le mani sul 48% delle aziende italiane, fra le quali c’erano la Buitoni, la Locatelli, la Negroni, la Ferrarelle, la Perugina e la Galbani. La stampa martellava su Mani Pulite, facendo intendere che da quell’evento sarebbero derivati grandi cambiamenti.Nel giugno 1992 si insediò il governo di Giuliano Amato. Si trattava di un personaggio in armonia con gli speculatori che ambivano ad appropriarsi dell’Italia. Infatti Amato, per iniziare le privatizzazioni, si affrettò a consultare il centro del potere finanziario internazionale: le tre grandi banche di Wall Street, Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers. Appena salito al potere, Amato trasformò gli enti statali in società per azioni, valendosi del decreto Legge 386/1991, in modo tale che l’élite finanziaria li potesse controllare, e in seguito rilevare. L’inizio fu concertato dal Fondo Monetario Internazionale, che come aveva fatto in altri paesi, voleva privatizzare selvaggiamente e svalutare la nostra moneta, per agevolare il dominio economico-finanziario dell’élite. L’incarico di far crollare l’economia italiana venne dato a George Soros, un cittadino americano che tramite informazioni ricevute dai Rothschild, con la complicità di alcune autorità italiane, riuscì a far crollare la nostra moneta e le azioni di molte aziende italiane. Soros ebbe l’incarico, da parte dei banchieri anglo-americani, di attuare una serie di speculazioni, efficaci grazie alle informazioni che egli riceveva dall’élite finanziaria. Egli fece attacchi speculativi degli “hedge funds” per far crollare la lira. A causa di questi attacchi, il 5 novembre del 1993 la lira perse il 30% del suo valore, e anche negli anni successivi subì svalutazioni.Le reti della Banca Rothschild, attraverso il direttore Richard Katz, misero le mani sull’Eni, che venne svenduta. Il gruppo Rothschild ebbe un ruolo preminente anche sulle altre privatizzazioni, compresa quella della Banca d’Italia. C’erano stretti legami fra il Quantum Fund di George Soros e i Rothschild. Ma anche numerosi altri membri dell’élite finanziaria anglo-americana, come Alfred Hartmann e Georges C. Karlweis, furono coinvolti nei processi di privatizzazione delle aziende e della Banca d’Italia. La Rothschild Italia Spa, filiale di Milano della Rothschild & Sons di Londra, venne creata nel 1989, sotto la direzione di Richard Katz. Quest’ultimo diventò direttore del Quantum Fund di Soros nel periodo delle speculazioni a danno della lira. Soros era stato incaricato dai Rothschild di attuare una serie di speculazioni contro la sterlina, il marco e la lira, per destabilizzare il Sistema Monetario Europeo. Sempre per conto degli stessi committenti, egli fece diverse speculazioni contro le monete di alcuni paesi asiatici, come l’Indonesia e la Malesia. Dopo la distruzione finanziaria dell’Europa e dell’Asia, Soros venne incaricato di creare una rete per la diffusione degli stupefacenti in Europa.In seguito, i Rothschild, fedeli al loro modo di fare, cercarono di far cadere la responsabilità del crollo economico italiano su qualcun altro. Attraverso una serie di articoli pubblicati sul “Financial Times”, accusarono la Germania, sostenendo che la Bundesbank aveva attuato operazioni di aggiotaggio contro la lira. L’accusa non reggeva, perché i vantaggi del crollo della lira e della svendita delle imprese italiane andarono agli anglo-americani. La privatizzazione è stata un saccheggio, che ancora continua. Spiega Paolo Raimondi, del Movimento Solidarietà: «Abbiamo avuto anni di privatizzazione, saccheggio dell’economia produttiva e l’esplosione della bolla della finanza derivata. Questa stessa strategia di destabilizzazione riparte oggi, quando l’Europa continentale viene nuovamente attratta, anche se non come promotrice e con prospettive ancora da definire, nel grande progetto di infrastrutture di base del Ponte di Sviluppo Eurasiatico» (da “Solidarietà”, febbraio 1996).Qualche anno dopo la magistratura italiana procederà contro Soros, ma senza alcun successo. Nell’ottobre del 1995, il presidente del Movimento Internazionale per i Diritti Civili-Solidarietà, Paolo Raimondi, presentò un esposto alla magistratura per aprire un’inchiesta sulle attività speculative di Soros & Co, che avevano colpito la lira. L’attacco speculativo aveva permesso a Soros di impossessarsi di 15.000 miliardi di lire. Per contrastare l’attacco, l’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, bruciò inutilmente 48 miliardi di dollari. Su Soros indagarono le procure della Repubblica di Roma e di Napoli, che fecero luce anche sulle attività della Banca d’Italia nel periodo del crollo della lira. Soros venne accusato di aggiotaggio e insider trading, avendo utilizzato informazioni riservate che gli permettevano di speculare con sicurezza e di anticipare movimenti su titoli, cambi e valori delle monete.Spiegano il presidente e il segretario generale del Movimento Internazionale per i Diritti Civili – Solidarietà, durante l’esposto contro Soros: «È stata annotata nel 1991 l’esistenza di un contatto molto stretto e particolare del signor Soros con Gerald Carrigan, presidente della Federal Reserve Bank di New York, che fa parte dell’apparato della banca centrale americana, luogo di massima circolazione di informazioni economiche riservate, il quale, stranamente, una volta dimessosi da questo posto, venne poi immediatamente assunto a tempo pieno dalla finanziaria Goldman Sachs & co. come presidente dei consiglieri internazionali. La Goldman Sachs è uno dei centri della grande speculazione sui derivati e sulle monete a livello mondiale. La Goldman Sachs è anche coinvolta in modo diretto nella politica delle privatizzazioni in Italia. In Italia inoltre, il signor Soros conta sulla strettissima collaborazione del signor Isidoro Albertini, ex presidente degli agenti di cambio della Borsa di Milano e attuale presidente della Albertini e co. Sim di Milano, una delle ditte guida nel settore speculativo dei derivati. Albertini è membro del consiglio di amministrazione del Quantum Fund di Soros».«L’attacco speculativo contro la lira del settembre 1992 era stato preceduto e preparato dal famoso incontro del 2 giugno 1992 sullo yacht Britannia della regina Elisabetta II d’Inghilterra, dove i massimi rappresentanti della finanza internazionale, soprattutto britannica, impegnati nella grande speculazione dei derivati, come la S. G. Warburg, la Barings e simili, si incontrarono con la controparte italiana guidata da Mario Draghi, direttore generale del ministero del Tesoro, e dal futuro ministro Beniamino Andreatta, per pianificare la privatizzazione dell’industria di Stato italiana. A seguito dell’attacco speculativo contro la lira e della sua immediata svalutazione del 30%, codesta privatizzazione sarebbe stata fatta a prezzi stracciati, a beneficio della grande finanza internazionale e a discapito degli interessi dello stato italiano e dell’economia nazionale e dell’occupazione. Stranamente, gli stessi partecipanti all’incontro del Britannia avevano già ottenuto l’autorizzazione da parte di uomini di governo come Mario Draghi, di studiare e programmare le privatizzazioni stesse. Qui ci si riferisce per esempio alla Warburg, alla Morgan Stanley, solo per fare due tra gli esempi più noti. L’agenzia stampa “Eir” (Executive Intelligence Review) ha denunciato pubblicamente questa sordida operazione alla fine del 1992 provocando una serie di interpellanze parlamentari e di discussioni politiche che hanno avuto il merito di mettere in discussione l’intero procedimento, alquanto singolare, di privatizzazione» (dall’esposto della magistratura contro George Soros presentato dal Movimento Solidarietà al procuratore della Repubblica di Milano il 27 ottobre 1995).I complici italiani furono il ministro del Tesoro Piero Barucci, l’allora direttore di Bankitalia Lamberto Dini e l’allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Altre responsabilità vanno all’allora capo del governo Giuliano Amato e al direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Alcune autorità italiane (come Dini) fecero il doppio gioco: denunciavano i pericoli ma in segreto appoggiavano gli speculatori. Amato aveva costretto i sindacati ad accettare un accordo salariale non conveniente ai lavoratori, per la «necessità di rimanere nel Sistema Monetario Europeo», pur sapendo che l’Italia ne sarebbe uscita a causa delle imminenti speculazioni. Gli attacchi all’economia italiana andarono avanti per tutti gli anni Novanta, fino a quando il sistema economico-finanziario italiano non cadde sotto il completo controllo dell’élite. Nel gennaio del 1996, nel rapporto semestrale sulla politica informativa e della sicurezza, il presidente del Consiglio Lamberto Dini disse: «I mercati valutari e le Borse delle principali piazze mondiali continuano a registrare correnti speculative ai danni della nostra moneta, originate, specie in passaggi delicati della vita politico-istituzionale, dalla diffusione incontrollata di notizie infondate riguardanti la compagine governativa e da anticipazioni di dati oggetto delle periodiche comunicazioni sui prezzi al consumo… è possibile attendersi la reiterazione di manovre speculative fraudolente, considerato il persistere di una fase congiunturale interna e le scadenze dell’unificazione monetaria» (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica, Rivista N. 4, gennaio-aprile 1996).Il giorno dopo, il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, riferiva che l’Italia non poteva far nulla contro le correnti speculative sui mercati dei cambi, perché «se le banche di emissione tentano di far cambiare direzione o di fermare il vento (delle operazioni finanziarie) non ce la fanno per la dimensione delle masse in movimento sui mercati rispetto alla loro capacità di fuoco». Le nostre autorità denunciavano il potere dell’élite internazionale, ma gettavano la spugna, ritenendo inevitabili quegli eventi. Era in gioco il futuro economico-finanziario del paese, ma nessuna autorità italiana pensava di poter fare qualcosa contro gli attacchi destabilizzanti dell’élite anglo-americana. Il Movimento Solidarietà fu l’unico a denunciare quello che stava effettivamente accadendo, additando i veri responsabili del crollo dell’economia italiana. Il 28 giugno 1993, il Movimento Solidarietà svolse una conferenza a Milano, in cui rese nota a tutti la riunione sul Britannia e quello che ne era derivato (“Solidarietà”, ottobre 1993). Il 6 novembre 1993, l’allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, scrisse una lettera al procuratore capo della Repubblica di Roma, Vittorio Mele, per avviare «le procedure relative al delitto previsto all’art. 501 del codice penale (“Rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio”), considerato nell’ipotesi delle aggravanti in esso contenute».Anche a Ciampi era evidente il reato di aggiotaggio da parte di Soros, che aveva operato contro la lira e i titoli quotati in Borsa delle nostre aziende. Anche negli anni successivi avvennero altre privatizzazioni, senza regole precise e a prezzi di favore. Che stesse cambiando qualcosa, gli italiani lo capivano dal cambio di nome delle aziende, la Sip era diventata Telecom Italia e le Ferrovie dello Stato erano diventate Trenitalia. Il decreto legislativo 79/99 avrebbe permesso la privatizzazione delle aziende energetiche. Nel settore del gas e dell’elettricità apparvero numerose aziende private, oggi circa 300. Dal 24 febbraio del 1998, anche le Poste Italiane diventarono una Spa. In seguito alla privatizzazione delle Poste, i costi postali sono aumentati a dismisura e i lavoratori postali vengono assunti con contratti precari. Oltre 400 uffici postali sono stati chiusi, e quelli rimasti aperti appaiono come luoghi di vendita più che di servizio. Le nostre autorità giustificavano la svendita delle privatizzazioni dicendo che si doveva «risanare il bilancio pubblico», ma non specificavano che si trattava di pagare altro denaro alle banche, in cambio di banconote che valevano come la carta straccia. A guadagnare sarebbero state soltanto le banche e i pochi imprenditori già ricchi (Benetton, Tronchetti Provera, Pirelli, Colaninno, Gnutti e pochi altri).Si diceva che le privatizzazioni avrebbero migliorato la gestione delle aziende, ma in realtà, in tutti i casi, si sono verificati disastri di vario genere, e il rimedio è stato pagato dai cittadini italiani. Le nostre aziende sono state svendute ad imprenditori che quasi sempre agivano per conto dell’élite finanziaria, da cui ricevevano le somme per l’acquisto. La privatizzazione della Telecom avvenne nell’ottobre del 1997. Fu venduta a 11,82 miliardi di euro, ma alla fine si incassarono soltanto 7,5 miliardi. La società fu rilevata da un gruppo di imprenditori e banche, e al ministero del Tesoro rimase una quota del 3,5%. Il piano per il controllo di Telecom aveva la regia nascosta della Merril Lynch, del gruppo bancario americano Donaldson Lufkin & Jenrette e della Chase Manhattan Bank. Alla fine del 1998, il titolo aveva perso il 20% (4,33 euro). Le banche dell’élite, la Chase Manhattan e la Lehman Brothers, si fecero avanti per attuare un’Opa. Attraverso Colaninno, che ricevette finanziamenti dalla Chase Manhattan, l’Olivetti diventò proprietaria di Telecom. L’Olivetti era controllata dalla Bell, una società con sede a Lussemburgo, a sua volta controllata dalla Hopa di Emilio Gnutti e Roberto Colaninno. Il titolo, che durante l’Opa era stato fatto salire a 20 euro, nel giro un anno si dimezzò. Dopo pochi anni finirà sotto i tre euro.Nel 2001 la Telecom si trovava in gravi difficoltà, le azioni continuavano a scendere. La Bell di Gnutti e la Unipol di Consorte decisero di vendere a Tronchetti Provera buona parte loro quota azionaria in Olivetti. Il presidente di Pirelli, finanziato dalla Jp Morgan, ottenne il controllo su Telecom, attraverso la finanziaria Olimpia, creata con la famiglia Benetton (sostenuta da Banca Intesa e Unicredit). Dopo dieci anni dalla privatizzazione della Telecom, il bilancio è disastroso sotto tutti i punti di vista: oltre 20.000 persone sono state licenziate, i titoli azionari hanno fatto perdere molto denaro ai risparmiatori, i costi per gli utenti sono aumentati e la società è in perdita. La privatizzazione, oltre che un saccheggio, veniva ad essere anche un modo per truffare i piccoli azionisti. La Telecom, come molte altre società, ha posto la sua sede in paesi esteri, per non pagare le tasse allo Stato italiano. Oltre a perdere le aziende, gli italiani sono stati privati anche degli introiti fiscali di quelle aziende. La Bell, società che controllava la Telecom Italia, aveva sede in Lussemburgo, e aveva all’interno società con sede alle isole Cayman, che, com’è noto, sono un paradiso fiscale.Gli speculatori finanziari basano la loro attività sull’esistenza di questi paradisi fiscali, dove non è possibile ottenere informazioni nemmeno alle autorità giudiziarie. I paradisi fiscali hanno permesso agli speculatori di distruggere le economie di interi paesi, eppure i media non parlano mai di questo gravissimo problema. Mettere un’azienda importante come quella telefonica in mani private significa anche non tutelare la privacy dei cittadini, che infatti è stata più volte calpestata, com’è emerso negli ultimi anni. Anche per le altre privatizzazioni – Autostrade, Poste Italiane, Trenitalia – si sono verificate le medesime devastazioni: licenziamenti, truffe a danno dei risparmiatori, degrado del servizio, spreco di denaro pubblico, cattiva amministrazione e problemi di vario genere. La famiglia Benetton è diventata azionista di maggioranza delle Autostrade. Il contratto di privatizzazione delle Autostrade dava vantaggi soltanto agli acquirenti, facendo rimanere l’onere della manutenzione sulle spalle dei contribuenti. I Benetton hanno incassato un bel po’ di denaro grazie alla fusione di Autostrade con il gruppo spagnolo Abertis. La fusione è avvenuta con la complicità del governo Prodi, che in seguito ad un vertice con Zapatero, ha deciso di autorizzarla. Antonio Di Pietro, ministro delle infrastrutture, si era opposto, ma ha alla fine si è piegato alle proteste dell’Unione Europea e alla politica del presidente del Consiglio.Nonostante i disastri delle privatizzazioni, le nostre autorità governative non hanno alcuna intenzione di rinazionalizzare le imprese allo sfacelo, anzi, sono disposte ad utilizzare denaro pubblico per riparare ai danni causati dai privati. La società Trenitalia è stata portata sull’orlo del fallimento. In pochi anni il servizio è diventato sempre più scadente, i treni sono sempre più sporchi, il costo dei biglietti continua a salire e risultano numerosi disservizi. A causa dei tagli al personale (ad esempio, non c’è più il secondo conducente), si sono verificati diversi incidenti (anche mortali). Nel 2006, l’amministratore delegato di Trenitalia, Mauro Moretti, si è presentato ad una audizione alla commissione lavori pubblici del Senato, per battere cassa, confessando un buco di un miliardo e settecento milioni di euro, che avrebbe potuto portare la società al fallimento. Nell’ottobre del 2006, il ministro dei trasporti, Alessandro Bianchi, approvò il piano di ricapitalizzazione proposto da Trenitalia. Altro denaro pubblico ad un’azienda privatizzata ridotta allo sfacelo.Dietro tutto questo c’era l’élite economico finanziaria (Morgan, Schiff, Harriman, Kahn, Warburg, Rockfeller, Rothschild) che ha agito preparando un progetto di devastazione dell’economia italiana, e lo ha attuato valendosi di politici, di finanzieri e di imprenditori. Nascondersi è facile in un sistema in cui le banche o le società possono assumere il controllo di altre società o banche. Questo significa che è sempre difficile capire veramente chi controlla le società privatizzate. E’ simile al gioco delle scatole cinesi, come spiega Giuseppe Turani: «Colaninno & soci controllano al 51% la Hopa, che controlla il 56,6% della Bell, che controlla il 13,9% della Olivetti, che controlla il 70% della Tecnost, che controlla il 52% della Telecom» (“La Repubblica”, 5 settembre 1999). Numerose aziende di imprenditori italiani sono state distrutte dal sistema dei mercati finanziari, ad esempio la Cirio e la Parmalat. Queste aziende hanno truffato i risparmiatori vendendo obbligazioni societarie (bond) con un alto margine di rischio. La Parmalat emise bond per un valore di 7 miliardi di euro, e allo stesso tempo attuò operazioni finanziarie speculative e si indebitò. Per non far scendere il valore delle azioni (e per venderne altre) truccava i bilanci.Le banche nazionali e internazionali sostenevano la situazione perché per loro vantaggiosa, e l’agenzia di rating “Standard & Poor’s” si è decisa a declassare la Parmalat soltanto quando la truffa era ormai nota a tutti. I risparmiatori truffati hanno avviato una procedura giudiziaria contro Calisto Tanzi, Fausto Tonna, Coloniale Spa (società della famiglia Tanzi), Citigroup Inc. (società finanziaria americana), Buconero Llc (società che faceva capo a Citigroup), Zini & Associates (una compagnia finanziaria americana), Deloitte Touche Tohmatsu (organizzazione che forniva consulenza e servizi professionali), Deloitte & Touche Spa (società di revisione contabile), Grant Thornton International (società di consulenza finanziaria) e Grant Thornton Spa (società incaricata della revisione contabile del sottogruppo Parmalat Spa). La Cirio era gestita dalla Cragnotti & Partners. I “Partners” non erano altro che una serie di banche nazionali e internazionali. La Cirio emise bond per circa 1.125 milioni di euro. Molte di queste obbligazioni venivano utilizzate dalle banche per spillare denaro ai piccoli risparmiatori. Tutto questo avveniva in perfetta armonia col sistema finanziario, che non offre garanzie di onestà e di trasparenza.Grazie alle privatizzazioni, un gruppo ristretto di ricchi italiani ha acquisito somme enormi, e ha permesso all’élite economico-finanziaria anglo-americana di esercitare un pesante controllo, sui cittadini, sulla politica e sul paese intero. Agli italiani venne dato il contentino di Mani Pulite, che si risolse con numerose assoluzioni e qualche condanna a pochi anni di carcere. A causa delle privatizzazioni e del controllo da parte della Banca Centrale Europea, il paese è più povero e deve pagare somme molto alte per il debito. Ogni anno viene varata la finanziaria, allo scopo di pagare le banche e di partecipare al finanziamento delle loro guerre. Mentre la povertà aumenta, come la disoccupazione, il lavoro precario, il degrado e il potere della mafia. Il nostro paese è oggi controllato da un gruppo di persone, che impongono, attraverso istituti propagandati come “autorevoli” (Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea), di tagliare la spesa pubblica, di privatizzare quello che ancora rimane e di attuare politiche non convenienti alla popolazione italiana. I nostri governi operano nell’interesse di questa élite, e non in quello del paese.(Antonella Randazzo, “Come è stata svenduta l’Italia”, da “Disinformazione.it del 12 marzo 2007. La Randazzo ha scritto libri come “Roma Predona. Il colonialismo italiano in Africa”, edito da Kaos nel 2006, “La Nuova Democrazia. Illusioni di civiltà nell’era dell’egemonia Usa” edito nel 2007 da Zambon e “Dittature. La storia occulta”, pubblicata da “Il Nuovo Mondo”, nel 2007).Falcone e Borsellino? Eliminati per un motivo più che strategico. Braccando la mafia, erano risaliti – tramite la pista massonica – ai legami finanziari tra l’élite Usa e la manovalanza italiana della grande operazione che si stava preparando, e che avrebbe devastato la storia del nostro paese: la svendita dell’Italia all’élite finanziaria globalista, che si servì di collaborazionisti di primissimo piano. Obiettivo: mettere le mani sullo Stato, razziando risorse e togliendo servizi vitali ai cittadini. All’indomani della catastrofe di Genova, coi riflettori puntati sullo strano caso delle autostrade “regalate” ai Benetton (e ai loro potenti soci d’oltreoceano), è illuminante rileggere oggi la paziente ricostruzione realizzata già nel 2007 da Antonella Randazzo. Mentre i giudici di Mani Pulite davano agli italiani l’illusione di un cambiamento nel segno della trasparenza, mettendo fine alla corruzione della Prima Repubblica, la finanza anglosassone convocava a bordo del Britannia gli uomini-chiave della futura Italia, assoldati per sabotare il proprio paese. Sarebbero stati agevolati dalla super-speculazione di George Soros sulla lira, che tolse all’Italia il 30% del suo valore, favorendone la svendita a prezzi stracciati. Da allora, un copione invariabile: aziende pubbliche rilevate da imprenditori italiani finanziati dalle stesse banche anglosassoni che avevano progettato il “golpe”. Il grande complotto contro l’Italia che – per primo – proprio Giovanni Falcone aveva fiutato.
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Fango, la “sovragestione” all’opera: è il turno dei 5 Stelle
«Tranquilli: prima delle elezioni salterà fuori una grana, per azzoppare i 5 Stelle». Detto fatto: a tre settimane dal voto esplode il caso dei parlamentari “furbetti” che avrebbero evitato di versare al fondo-aziende una parte dello stipendio. Giusto in tempo per consentire a Renzi (da che pulpito) di qualificare Di Maio come “il capo degli impresentabili”, mentre la crepa nel muro grillino diventa un Vajont, con l’oscuro e quasi onnipotente David Borrelli, braccio destro di Casaleggio, che divorzia precipitosamente dal movimento. Bufera su cui i media banchettano, mettendo alla berlina i presunti moralizzatori. La “Stampa” descrive Borrelli come «l’anello di congiunzione» tra Gianroberto Casaleggio e il mondo delle Pmi venete. «È membro del pensatoio di Confapri, l’associazione delle piccole imprese fondata dal futuro assessore di Roma Max Colomban e da Arturo Artom, due nomi chiave nel mondo imprenditoriale della galassia dei Casaleggio», scrive il quotidiano torinese. «Nel 2014 viene accusato di stalking dall’ex senatrice Paola De Pin, che parla di sue pressioni a favore delle imprese venete. Due anni dopo l’ex collaboratore del M5S Caris Vanghetti dimostra, intrecciando i dati, che molti soldi del fondo per la microimpresa finiscono alle aziende associate della Confapri. Una vera e propria lobby grillina. Nel frattempo Borrelli diventa europarlamentare e la sua società raddoppia il fatturato».Gianfranco Carpeoro, autore di saggi su massoneria e terrorismo nonché sui legami tra Vaticano e logge all’origine del fascismo, è l’autore della “profezia” sui fatali travagli pre-elettorali dei 5 Stelle. Inevitabile: se sbandieri il monopolio politico dell’onestà, il sistema ti punirà severamente, con la classica legge del contrappasso. Trovare una “mela marcia” sarà l’ultimo dei problemi: dai parlamentari “infedeli” all’infido Borrelli, per anni seduto nel vertice-ombra del movimento che ha raccontano agli italiani che “uno vale uno” (purché non osi pensare in proprio, ad alta voce). Legge del taglione e contrappasso dantesco: puro dolore, per i pentastellati, vedere Renzi – Mister Etruria – pascolare da un telegiornale all’altro calpestando il mito grillino dell’onestà. «Ma in politica l’onestà non è nemmeno un valore», sostiene Carpeoro: «Al massimo è una conseguenza». Di cosa? «Della capacità, innanzitutto». Luoghi comuni? «Un politico ladro, ma capace, fa sicuramente meno danni, alla comunità, di un onestissimo cretino». Cosa ci siamo persi? «L’estetica», risponde Carpeoro. «E’ l’estetica a produrre l’etica: l’emozione contagiosa della bellezza. Il desiderio di giustizia, che poi è inevitabile, viene di conseguenza. E intendiamoci: la base dei grillini è diversissima da quella degli altri partiti. E’ fatta di gente che sogna un mondo migliore, per davvero».Il problema? Forse, un mondo migliore non ha bisogno di rabbia, ma di idee coerenti. Per esempio: cos’è più importante, la (presunta) scarsa trasparenza di Borrelli o il suo ruolo, emerso alla luce del sole, quando – da leader del gruppo grillino a Strasburgo – cercò di traghettare i 5 Stelle verso l’Alde, cioè la roccaforte politica della peggior eurocrazia che, a parole, in Italia, i 5 Stelle avevano sempre giurato di combattere? Nel suo saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, Carpeoro formula il concetto di “sovragestione”: manipolazione perenne, da parte del potere, delle sue pedine. Un potere che fabbrica candidati e, all’occorrenza, persino movimenti e partiti. Il collante? «Sempre lo stesso: l’odio, per il nemico di turno». Ieri Andreotti e Craxi, poi Berlusconi, poi Renzi. «E’ crollata, la mafia, dopo l’arresto di Riina e Provenzano? Nemmeno per idea: in una notte Cosa Nostra li ha sostituiti». Narrazioni, date in pasto al popolo: Gelli, Sindona. «Sono caduti, uno dopo l’altro. Ma è cambiato qualcosa, per noi?». Macché: la “sovragestione” ci ha proprosto altri personaggi da detestare, e noi abbiamo obbedito. Siamo tutti parte del problema, insiste Carpeoro: «Abbiamo gettato nella spazzatura le ideologie, che invece sono il futuro: rappresentano il progetto, l’immagine di come vorremmo che fosse la società domani».Inutile stupirsi, se oggi la “sovragestione” fa cadere qualcuno dal piedistallo. Solo ieri erano girate notizie sull’affare-Milan per “avvertire” Berlusconi, che infatti si è affrettato a rassicurare i boss europei: non toccherà il dogma del rigore Ue. Adesso tocca ai grillini? Logico: il Movimento 5 Stelle è anch’esso una creatura dei “sovragestori”, sostiene Carpeoro, che considera Di Maio «il peggior candidato possibile, non a caso (il meno preparato)» e gli imputa la vicinanza di un personaggio più che ingombrante: il politologo statunitense Michael Ledeen, espressione della supermassoneria più reazionaria nonché del B’nai B’rith, potentissima élite massonica ebraica, emanazione del Mossad. «Per mesi, Di Maio è entrato e uscito, quasi ogni settimana, dall’ambasciata americana di via Veneto», dice Carpeoro. «E i vari tour condotti nei santuari del potere atlantico, da Washington a Londra, glieli ha organizzati Ledeen». Oggi, guardacaso, Di Maio pesca dal cilindro un economista neoliberista, Lorenzo Fioramonti, per il quale il pericolo mortale per l’Italia non è l’austerity imposta dalla “sovragestione”, ma il debito pubblico. Siamo alle solite? Certo, ma con una differenza rispetto a ieri: i grillini sono una comunità organizzata, milioni di elettori. E se un giorno rompessero le righe, adottando idee utili per uscire dal tunnel in cui l’Italia è intrappolata?L’importante è non lasciarsi ipnotizzare dalle risse da saloon con cui si sta tentando di riempire il vuoto cosmico delle elezioni più inutili della storia. Laura Boldrini, vero e proprio ectoplasma politico, è riuscita a sopravvivere – sui media – solo grazie al teppismo del web, inventandosi la crociata orwelliana sulle fake news, su cui vigilierà il Ministero della Verità, la polizia di Minniti. Giorni di isteria collettiva – nel derby tra “fascisti” e “antifascisti” – per speculare elettoralmente sul sangue sparso da un folle a Macerata. L’Italia è praticamente senza governo. Da 25 anni il paese è privo di leadership, in balia della concorrenza tedesca e francese. La crisi economica non ha precedenti, dal dopoguerra, ma la campagna elettorale non va oltre la farsa: tutti i partiti sanno che nessuno vincerà. E nessuno, in ogni caso, ha in programma di ribaltare il paradigma che vede l’Italia subire i diktat di Bruxelles. Per Demopolis, solo 6 cittadini andranno alle urne, 17 milioni di italiani diserteranno i seggi (tra i giovani, uno su due). Siamo prossimi alla paralisi, nell’illusione di combattere il “cattivo” di turno. «Non sono le persone a fare progetti di potere: è il potere a fare progetti sulle persone», sostiene Carpeoro. Il problema non è “chi”, ma “cosa”. Questo sistema è da buttare, da rifondare. La medicina è una sola: la sovranità della democrazia. Ma invece di reclamarla, ci siamo sfogati a sparare contro sagome di cartone. Mario Monti arrivò a Palazzo Chigi tra gli applausi. Finalmente uno onesto, dissero. Peccato fosse il boia.«Tranquilli: prima delle elezioni salterà fuori una grana, per azzoppare i 5 Stelle». Detto fatto: a tre settimane dal voto esplode il caso dei parlamentari “furbetti” che avrebbero evitato di versare al fondo-aziende una parte dello stipendio. Giusto in tempo per consentire a Renzi (da che pulpito) di qualificare Di Maio come “il capo degli impresentabili”, mentre la crepa nel muro grillino diventa un Vajont, con l’oscuro e quasi onnipotente David Borrelli, braccio destro di Casaleggio, che divorzia precipitosamente dal movimento. Bufera su cui i media banchettano, mettendo alla berlina i presunti moralizzatori. La “Stampa” descrive Borrelli come «l’anello di congiunzione» tra Gianroberto Casaleggio e il mondo delle Pmi venete. «È membro del pensatoio di Confapri, l’associazione delle piccole imprese fondata dal futuro assessore di Roma Max Colomban e da Arturo Artom, due nomi chiave nel mondo imprenditoriale della galassia dei Casaleggio», scrive il quotidiano torinese. «Nel 2014 viene accusato di stalking dall’ex senatrice Paola De Pin, che parla di sue pressioni a favore delle imprese venete. Due anni dopo l’ex collaboratore del M5S Caris Vanghetti dimostra, intrecciando i dati, che molti soldi del fondo per la microimpresa finiscono alle aziende associate della Confapri. Una vera e propria lobby grillina. Nel frattempo Borrelli diventa europarlamentare e la sua società raddoppia il fatturato».
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Il coraggio di Imposimato, in quest’Italia senza giustizia
«Un paese si salva dalla rovina solo se tutti i cittadini vivono in una condizione di dignità». E’ il testamento spirituale di Ferdinando Imposimato, alto magistrato e uomo libero, senza paura di affrontare il vero potere: nell’Italia politica delle anime morte ha attaccato il decreto Lorenzin sui vaccini, ha denunciato il ruolo della mafia nella rete ferroviaria Tav e ha accusato la cupola Gladio-Bilderberg per il caso Moro, evento simbolo della strategia della tensione che manipolò le Brigate Rosse per azzoppare il paese. E’ arrivato a minacciare di trascinare gli Stati Uniti al Tribunale dell’Aja, per aver deliberatamente ignorato i preparativi terroristici del maxi-attentato dell’11 Settembre, che poi ha proiettato la “guerra americana” in mezzo mondo. Già presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione, Imposimato – spentosi a Roma il 2 gennaio all’età di 81 anni – non amava i giri di parole. «Ormai sappiamo tutto della strategia del terrore», disse, presentando il recente saggio “La repubblica delle stragi impunite”. Quella strategia «fu attuata dalla struttura Gladio (Stay Behind) in supporto ai servizi segreti (non deviati) italiani. Serviva a scoraggiare l’instaurarsi di governi di sinistra ed era orchestrata dalla Cia».
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Carpeoro: tutto resti com’è. Così l’Isis obbedisce al potere
Poteri forti? Grazie anche a cittadini deboli, sempre disposti a credere all’Uomo Nero, il nemico da odiare comodamente, cui attribuire ogni male. Nel suo saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’avvocato Gianfranco Carpeoro inserisce un passaggio di Francesco Saba Sardi, “L’istituzione dell’ostilità”, che chiarisce il concetto: il gioco al massacro continuerà all’infinito, fino a quando le vittime non capiranno che il nemico di turno è solo un trucco del potere. «Il politico, il massone, il mafioso, il gesuita: in Italia non ci siamo fatti mancare niente. Gelli e Sindona, Craxi, Andreotti. Caduti i quali, è cambiato qualcosa?». Ecco il punto: «Non cambiare mai niente, nella sostanza. A questo serve l’odio del nemico. E attenzione: «Il lasciare tutto com’è è esattamente l’obiettivo di questo potere, che oggi ricorre in modo sistematico al terrorismo targato Isis». Tema che Carpeoro ha affrontato in un recente convegno, in Veneto, sul dominio occulto dell’élite paramassonica. Una situazione che si annuncia molto critica ormai anche per l’Italia: «L’ultimo report dei nostri servizi segreti parla di qualcosa come 5.000 “foreign fighters” provenienti dalla Siria, via Albania: sono perfettamente addestrati e si teme invadano la penisola per attuare attentati».Per capire il neo-terrorismo, ragiona Carpeoro, basta analizzarne il movente: «Ha un progetto politico, l’Isis?». Non se ne vede traccia: il cosiddetto Califfato Islamico è una barzelletta. «Ha una base etnica, lo Stato Islamico? Neppure: all’Islam aderiscono arabi sunniti, persiani sciiti, bosniaci ariani». E inoltre: «Provengono da un retroterra di profonde sofferenze, i miliziani jihadisti “foreign fighters”». Macché: «Il più delle volte sono figli di famiglie borghesi». Sono anche loro – più che mai – terroristi, certamente. «Ma non hanno niente in comune con un certo Pietro Micca, che nel 1706 fa saltare in aria mezza Torino per opporsi all’assedio francese». Carpeoro traccia una linea rossa che, attraverso svariate geografie, collega i “terrorismi” del passato, lontano e prossimo: da Pietro Micca ai palestinesi dell’Olp, passando per l’Ira irlandese, la Raf tedesca, le Brigate Rosse. «Ovviamente non posso approvare la violenza come metodo di lotta, ma almeno in quei casi si può leggere una coerenza, una proiezione di futuro: la liberazione di territori, la lotta politica per trasformare il governo del paese. I tedeschi della Baader-Meinhof combattevano a modo loro contro il governo di Bonn, inquinato dalla presenza di ex nazisti. Gli irlandesi volevano cacciare gli inglesi dalla loro terra. Le stesse Br aspiravano a una svolta rivoluzionaria in Italia». E l’Isis? Dov’è il suo progetto?Le cose si sono completamente ribaltate, sottolinea Carpeoro, «da quando il potere è finito nelle mani di un’élite oligarchica», che oggi «ha capito che non ha più nessuna chance democratica: non potrebbe in nessun modo godere del consenso popolare, della stima dei cittadini». E allora, per ottenere la loro obbedienza, «impugna l’arma della paura, attraverso il terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, cioè attribuito agli islamici in modo fraudolento, ma in realtà concepito e diretto da menti massoniche occidentali, gestito da settori dei servizi segreti e affidato a sciagurata manovalanza che si dichiara islamista, pilotata e manipolata in modo da danneggiare innanzitutto l’Islam, che con il terrorismo non c’entra niente». E’ un massone (o meglio, un super-massone) lo stesso presunto capo dell’Isis, il sedicente “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi, fotografato in Siria in compagnia del senatore John McCain dopo esser stato improvvisamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca. Dopo Osama Bin Laden, Al-Baghdadi è l’ultima reincarnazione dell’Uomo Nero, il nemico brutto e cattivo. «Che effetto fa, allora, scoprire che quel tizio è stato iniziato alla stessa superloggia in cui sedevano sia George W. Bush che il capo di Al-Qaeda, Bin Laden?».Il primo a fare il nome di quell’organizzazione-ombra (Hathor Pentalpha, si chiama) è stato Gioele Magaldi nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, pubblicato a fine 2014). Sta per uscire il “sequel”, con nuovi dettagli destinati ad aggravare ulteriormente la posizione della “loggia del sangue e della vendetta” fondata da Bush senior all’inizio degli anni ‘80, dopo la bruciante sconfitta subita da Reagan alle primarie repubblicane. Al club aderiranno l’intero gruppo neocon statunitense ma anche politici europei, come l’inglese Tony Blair (quello delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam), il francese Nicolas Sarkozy (il killer politico di Gheddafi) e il turco Recep Tayyip Erdogan, invischiato fino al collo nell’invasione della Siria da parte dell’Isis. Ma nell’album di famiglia della “Hathor” non ci sono soltanto le peggiori menti dell’Occidente: accanto ai Bush e a Blair, a Sarkozy e a Erdogan «bisogna aggiungere prima Bin Laden, poi Al-Baghdadi». E’ indispensabile, per capire con chi abbiamo davvero a che fare: l’Uomo Nero è in azione, ma non è una scheggia impazzita come i suoi kamikaze. Sta obbedendo a ordini, a istruzioni precise, che partono dai piani più alti del potere mondiale, occidentale.Un potere che, oggi, non si fa scrupolo di sparare nel mucchio: «E’ il caso dei camion lanciati sulla folla a fare strage: un metodo semplice, economico e con pochi rischi, tranne che per l’attentatore». I terrorismi di ieri sparavano su obiettivi strategici: industriali, banchieri, politici. Oggi, invece, le vittime siamo noi. «Erano terroristi la cui azione – non approvabile, per carità – nasceva comunque da infinite sofferenze, come nel caso dei palestinesi». All’epoca dell’arresto di Renato Curcio, le stesse Br non avevano ancora ucciso nessuno: «Fu Curcio a fare fuoco, sul carabiniere che aveva ucciso sua moglie, Mara Cagol, colpendola alla schiena mentre stava scappando: può un carabiniere sparare alla schiena di qualcuno?», si domanda Carpeoro. Poi, certo, la storia del “vecchio” terrorismo è a doppio fondo, piena di infiltrazioni, in tutti sensi: terroristi “in buona fede” e terroristi “gestiti” dall’intelligence, 007 complici della strategia della tensione e agenti invece onesti, fedeli alle istituzioni. Un caos sanguinoso, infernale, con code processuali infinite, misteri irrisolti e vittime eccellenti – una su tutte, da noi: Aldo Moro.«Alla base, però, c’erano posizioni nette: da una parte una visione eversiva e rivoluzionaria, o irredentista, dall’altra lo Stato». Adesso, invece, a pilotare l’eversione è direttamente il lato oscuro del potere: non ha neppure “cavalcato” il furore dell’Isis, l’ha proprio progettato a tavolino, sfruttando la disperazione di paesi arabi a cui l’Occidente infligge sterminate sofferenze, attraverso la complitcità di dittature filo-occidentali. Questo “funziona” per ottenere la necessaria manovalanza, ma non certo per provocare una sollevazione politica delle popolazioni musulmane, che dell’Isis hanno orrore. «Ieri, i terroristi volevano cambiare tutto. I terroristi di oggi, invece, rispondono agli ordini di chi è deciso a non cambiare niente, dell’attuale sistema: pochissimi hanno in mano tutto, e così deve restare». Rimarremo al buio per sempre? «Oso sperare – azzarda Carpeoro – che magari, nel giro di due o tre generazioni, questa situazione cambierà». Smascherare i mandanti, liberare le nostre società dal ricatto della paura – perfettamente consonante con il ricatto economico dell’austerity, il rigore imposto per via finanziaria dall’élite privatizzatrice che, in Europa, a partire dall’omicidio di Olof Palme, ha stroncato il seme del socialismo democratico. Smontare il teatro del terrore? «A una condizione: che si smetta di dare la caccia all’Uomo Nero. E’ lì apposta per distrarci, per farci odiare qualcuno. E’ lo schema della magia, dell’illusionismo: il potere non fa altro che darci in pasto il cattivo di turno, da detestare. Se invece smettessimo di odiare, una buona volta, avremmo fatto un passo avanti enorme».Poteri forti? Grazie anche a cittadini deboli, sempre disposti a credere all’Uomo Nero, il nemico da odiare comodamente, cui attribuire ogni male. Nel suo saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’avvocato Gianfranco Carpeoro inserisce un passaggio di Francesco Saba Sardi, “L’istituzione dell’ostilità”, che chiarisce il concetto: il gioco al massacro continuerà all’infinito, fino a quando le vittime non capiranno che il nemico di turno è solo un trucco del potere. «Il politico, il massone, il mafioso, il gesuita: in Italia non ci siamo fatti mancare niente. Gelli e Sindona, Craxi, Andreotti. Caduti i quali, è cambiato qualcosa?». Ecco il punto: «Non cambiare mai niente, nella sostanza. A questo serve l’odio del nemico. E attenzione: «Il lasciare tutto com’è è esattamente l’obiettivo di questo potere, che oggi ricorre in modo sistematico al terrorismo targato Isis». Tema che Carpeoro ha affrontato in un recente convegno, in Veneto (video su YouTube), sul dominio occulto dell’élite paramassonica. Una situazione che si annuncia molto critica ormai anche per l’Italia: «L’ultimo report dei nostri servizi segreti parla di qualcosa come 5.000 “foreign fighters” provenienti dalla Siria, via Albania: sono perfettamente addestrati e si teme invadano la penisola per attuare attentati».
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Chi ha ucciso Olof Palme? Un atto di guerra, contro tutti noi
«Informa il nostro amico che la palma svedese verrà abbattuta». Curioso: in Svezia non crescono palmizi. Di che “palma” si trattasse, il mondo lo scoprì tre giorni dopo, il 27 febbraio 1986, quando un killer freddò il premier svedese Olof Palme, considerato il padre spirituale del welfare europeo, il sistema di diritti estesi su cui la sinistra moderata e riformista ha costruito il benessere dell’Europa nel dopoguerra, cioè quel sistema contro cui si batte, strenuamente, l’Unione Europea del rigore e dell’austerity. Ma attenzione: se non bastano la super-tassazione e l’euro, i tagli alla spesa e il pareggio di bilancio, può intervenire anche il terrorismo: Charlie Hebdo, Bruxelles, Bataclan, Nizza, Berlino. E’ la tesi dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, studioso di simbologia, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. L’accusa: l’élite mondialista reazionaria si avvale di settori dei servizi segreti per fabbricare una nuova strategia della tensione, impiegando manovalanza presentata oggi come islamista. Obiettivo: seminare il caos, la paura, perché nulla cambi e il sistema resti com’è, fondato sul dominio della finanza a spese della democrazia.Ieri, prima di Al-Qaeda e dell’Isis, c’erano altre sigle in circolazione: Gladio, Stay Behind. Accusate di aver organizzato attentati come quello costato la vita all’uomo simbolo dell’Europa democratica e ostile alla guerra, Olof Palme. «Tell our friend the Swedish palm will be felled». Firmato: Licio Gelli. Messaggio ricevuto il 25 febbraio 1986 da Philip Guarino, esponente repubblicano Usa vicinissimo a George Bush senior e stretto collaboratore di Michael Ledeen, «storico e giornalista le cui vicende sono torbidamente intrecciate con l’intelligence americana», scrive Carpeoro. «Legatissimo alla Cia e appartenente alle logge massoniche di stretta emanazione Nato», negli anni ‘80 Ledeen è stato consulente strategico per i servizi statunitensi sotto Reagan e Bush. «Su posizioni neoconservatrici e reazionarie da sempre», Ledeen è stato consulente del Sismi quando il servizio era diretto dal generale Giuseppe Santovito, affiliato alla P2.Fu sponsor di Craxi e consulente di Cossiga, «per tutelare la Gladio», anche come “esperto” durante il sequestro Moro. Il faccendiere Francesco Pazienza ne indicò il ruolo anche nel depistaggio delle indagini sull’attentato a Wojtyla: fu lui, disse Pazienza, a “inventare” la fantomatica “pista bulgara”. Il nome di Ledeen, sostiene Carpeoro, è collegabile – tramite Licio Gelli – anche al giallo, tuttora irrisolto, della morte di Olof Palme, che segnò l’inizio della fine della grande stagione del benessere europeo. Nel profetico romanzo “Nel nome di Ishmael”, lo scrittore italiano Giuseppe Genna include l’assassinio di Palme tra gli oscuri misfatti della “Rete Ishmael”, dove gli omicidi eccellenti vengono sempre fatti precedere dalla raccapricciante uccisione – rituale – di un bambino, a scopro propriziatorio. E’ un mondo, quello di “Ishmael”, che ricorda sinistramente quello degli attentati di oggi, intrisi di simbologie: la data-cardine dell’epopea dei Templari ricorre nella strage del Bataclan, come il 14 luglio – la Presa della Bastiglia, cara alla massoneria illuminista – nella mattanza di Nizza.Olof Palme viene “abbattuto” il 27 febbraio: nell’anno 380 coincide con l’Editto di Tessalonica, in cui l’Impero Romano proclama religione di Stato il cristianesimo, gettando così le basi per un altro “impero”, il più longevo della storia. E sempre il 27 febbraio, ma del 1933, i nazisti incendiano il Reichstag per dare inizio al Terzo Reich. E se l’esoterismo (deviato) ha a che fare con Palme, vale ricordare che ancora un 27 febbraio, quello del 1593, viene incarcerato Giordano Bruno. Un caso, quella data, per la fine di Olof Palme? Era pur sempre il capo della P2 l’italiano Licio Gelli che, dal Sudamerica, recapitò quell’enigmatico messaggio a Washington, all’indirizzo di Guarino, sua vecchia conoscenza: «Alcuni anni prima – scrive Enrico Fedrighini sul “Fatto Quotidiano” – avevano entrambi sottoscritto un affidavit a favore di un finanziere, Michele Sindona». Era pericoloso, Olof Palme? Assolutamente sì: lo dice l’elenco dei suoi potentissimi nemici. Al premier svedese guardavano le sinistre europee: dopo aver «spogliato la monarchia svedese degli ultimi poteri formali di cui godeva», Palme aveva varato clamorose riforme sociali che avevano portato a un aumento del potere dei sindacati all’interno delle aziende, ricorda “Il Post”. «Ma fu grazie alla politica estera che Palme divenne famoso in tutto il mondo». Si scagliò contro la guerra Usa in Vietnam, «paragonando i massicci bombardamenti sul Vietnam del Nord ai massacri dei nazisti», dichiarazione che «spinse il governo degli Stati Uniti a ritirare il suo ambasciatore in Svezia».Olof Palme, continua il “Post”, fu ugualmente critico nei confronti dell’Unione Sovietica: attaccò la repressione della Primavera di Praga nel 1968 e poi l’invasione dell’Afghanistan nel 1979. Criticò il regime di Augusto Pinochet in Cile, l’apartheid in Sudafrica, la dittatura di Francisco Franco in Spagna, la corsa agli armamenti nucleari e le disuguaglianze globali. L’Onu aveva affidato a Olof Palme il delicato incarico di arbitrato internazionale fra Iraq e Iran, in guerra da sei anni. «Una guerra sanguinosa, sporca, un crocevia di traffico d’armi e operazioni coperte: l’Iran stava ricevendo segretamente forniture di armi attraverso una rete formata da pezzi dell’apparato politico-militare Usa; i proventi servivano anche a finanziare l’opposizione dei Contras in Nicaragua», ricorda Fedrighini sul “Fatto”. Palme scoprì «qualcosa di ancora più grave, di più spaventoso». Ovvero: la rete che forniva armi all’Iran sembrava agire con strutture operative ramificate all’interno di diversi paesi dell’Europa occidentale, anche nella civilissima Scandinavia. Scoperte che Palme avrebbe fatto il giorno stesso della sua morte, a colloquio con l’ambasciatore iracheno.La sera andò al cinema, con la moglie, dopo aver licenziato la scorta. Fu colpito mentre si allontanava a piedi dopo la proiezione. Dal buio sbucò «un uomo con un soprabito scuro», armato di Smith & Wesson 357 Magnum. Due colpi, alla schiena. Le indagini delle autorità svedesi non portarono a nulla. Lo scrittore svedese Stieg Larsson, autore di “Uomini che odiano le donne”, aveva condotto indagini riservate sul caso, accumulando 15 scatoloni di dossier, inutilmente consegnati alla polizia e alla Säpo, il servizio segreto reale, «nella vana speranza che facessero luce sulla tragedia», scrive “Repubblica”. «Larsson lanciò un’accusa precisa: i colpevoli erano i servizi segreti del Sudafrica razzista. Ma non fu ascoltato». Lo ha rivelato lo “Svenska Dagbladet”, il primo quotidiano svedese, poco dopo la morte del romanziere, deceduto nel 2004 per un infarto. Secondo l’avvocato Paolo Franceschetti, anche Stieg Larsson «è stato probabilmente giustiziato». Lo suggeriscono troppe “coincidenze”, a partire dalla data della morte, 9.11.2004, il cui «valore numerico-rituale» è 8, cioè “giustizia”. Lo scrittore «muore come il personaggio del suo terzo libro, “La ragazza che giocava con il fuoco”: muore cioè di infarto, nella redazione del suo giornale».Per Franceschetti, sono circostanze che richiamano «la legge del contrappasso, utilizzata dall’organizzazione che si chiama Rosa Rossa», e che – sempre secondo Franceschetti – adotta, per le sue esecuzioni “eccellenti”, proprio la procedura in base alla quale Dante Alighieri organizza l’Inferno nella Divina Commedia: punizioni simboliche, commisurate alle azioni compiute durante la vita. Nulla che, in ogni caso, abbia potuto contribuire a far luce sull’omicidio Palme, per il quale venne condannato in primo grado nel 1988 un pregiudicato, Christer Patterson, prosciolto poi in appello del 1989 per mancanza di prove. Ma anche Patterson, come Stieg Larsson, non sopravivisse: «Il 15 settembre 2004, Patterson contatta Marten Palme», il figlio dello statista ucciso. «Desidera incontrarlo, ha qualcosa di importante da confidargli sulla morte del padre», racconta sempre Fedrighini sul “Fatto”. «Il giorno dopo, Patterson viene ricoverato in coma al Karolinska University Hospital con gravi ematomi alla testa. Muore il 29 settembre per emorragia cerebrale, senza mai aver ripreso conoscenza».Chi tocca muore: non era rimasta senza spiacevoli conseguenze neppure la divulgazione, nell’aprile 1990, ad opera del quotidiano svedese “Dagens Nyheter”, del telegramma inviato da Licio Gelli a Guarino nel 1986, tre giorni prima dell’omicidio Palme. Contattando i colleghi svedesi, ricorda Fedrighini, un giornalista del Tg1, Ennio Remondino, rintracciò e intervistò le fonti, due agenti della Cia, che confermarono la notizia del telegramma, «rivelando anche l’esistenza di una struttura segreta operante in diversi paesi dell’Europa occidentale, denominata Stay Behind (nella versione italiana, Gladio), coinvolta da decenni in traffici d’armi ed azioni finalizzate a “stabilizzare per destabilizzare”». L’intervista con uno dei due, Dick Brenneke, venne trasmessa dal Tg1 nell’estate del 1990, provocando «la reazione furibonda di Cossiga, il licenziamento in tronco del direttore del Tg1 Nuccio Fava e il trasferimento di Remondino all’estero come inviato sui principali fronti di guerra».Dopo oltre un quarto di secolo, il buio è sempre fitto: «L’arma del delitto non è mai stata trovata, e l’omicidio di Olof Palme è un caso ancora aperto». Per Gianfranco Carpeoro, il killer politico di Palme è già noto, si chiama “sovragestione” ed è tuttora in azione, in Europa, fra attentati e stragi. Carpeoro si sofferma in particolare sul possibile ruolo di Michael Ledeen, deus ex machina di tante operazioni coperte che hanno segnato la nostra storia recente, al punto che a metà degli anni ‘80 l’ammiraglio Fulvio Martini, allora capo del Sismi, lo fece allontanare dall’Italia come “persona non grata”. «Ledeen è membro dell’American Enterprise Institute», organismo che, «dopo l’11 Settembre, si è reso leader di un’enorme operazione di lobbismo per dirigere la politica estera Usa verso l’attuale e rovinosa “guerra al terrorismo globale”, sponsorizzando intensamente l’invasione dell’Afghanistan, l’occupazione dell’Iraq, e tentando ripetutamente di provocare l’aggressione dell’Iran». Fonti americane lo segnalano oggi nel team-ombra di Trump, impegnato a sabotare gli accordi sul nucleare con Teheran.Consulente di vari ministri israeliani, continua Carpeoro, «Ledeen è stato anche tra i capi del Jewish Institute for National Security Affairs (Jinsa), al cupola semi-segreta collegata al B’nai Brith, la superloggia massonica ebraica che sovragestisce le relazioni inconfessabili tra l’esercito israeliano, alcuni settori del Pentagono e l’apparato militare industriale americano». Ledeen, continua Carpeoro, riuscì anche a sabotare i rapporti fra Italia e Usa durante il sequestro dell’Achille Lauro, traducendo in diretta – in modo infedele – le parole che Ronald Reagan rivolse a Bettino Craxi. Il suo nome, poi, riaffiora durante lo scandalo Nigergate: come svelato dai giornalisti italiani Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo, Ledeen avrebbe scelto il Sismi «per trasmettere alla Cia falsi documenti a riprova dell’importazione di uranio dal Niger da parte dell’Iraq di Saddam Hussein», poi utilizzati da Bush come “prova” dell’armamento “nucleare” di Saddam, alibi perfetto per scatenare la Seconda Guerra del Golfo, l’invasione dell’Iraq e l’uccisione dello stesso Saddam, in possesso di segreti troppo scomodi per la Casa Bianca.Nel film “L’avvocato del diavolo”, Al Pacino (il diavolo) rimprovera il suo allievo, Keanu Reeves: «Sei troppo appariscente», gli dice: «Guarda me, invece: nessuno mi nota, nessuno mi vede arrivare». A pochissimi, in Italia, il nome Michel Ledeen dice qualcosa, nonostante abbia avuto un ruolo in moltissime pagine della nostra storia, fino a Di Pietro (in contatto con Ledeen all’epoca di Mani Pulite) e ora «con Beppe Grillo» e con lo stesso Matteo Renzi, «attraverso Marco Carrai». Per Gioele Magaldi, Ledeen milita nella Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, fondata dal clan Bush, con al seguito personaggi come Blair, Sarkozy, Erdogan. La “Hathor” avrebbe avuto un ruolo nell’11 Settembre, nella creazione di Al-Qaeda e poi in quella dell’Isis, avendo affiliato lo stesso Abu Bakr Al-Baghdadi. Nuovo ordine mondiale, da mantenere ad ogni costo scatenando il caos attraverso la guerra e il terrorismo? Carpeoro la chiama, semplicemente, “sovragestione”. Spiga che le sue “menti” si richiamano alla teoria della “sinarchia” del marchese Alexandre Saint-Yves d’Alveydre: l’élite illuminata ha il diritto divino di imporsi sul popolo, anche con la violenza, uccidendo i paladini dei diritti democratici. Come sarebbe, oggi, l’Europa, con uomini come Olof Palme? Quattro anni prima di essere trucidato, Palme aveva varato il rivoluzionario Piano Meidner: un nuovo modello di partecipazione, che coinvolgeva i lavoratori nella gestione delle imprese, condividendone anche gli utili. Olof Palme “doveva” morire. E con lui, noi europei.«Informa il nostro amico che la palma svedese verrà abbattuta». Curioso: in Svezia non crescono palmizi. Di che “palma” si trattasse, il mondo lo scoprì tre giorni dopo, il 27 febbraio 1986, quando un killer freddò il premier svedese Olof Palme, considerato il padre spirituale del welfare europeo, il sistema di diritti estesi su cui la sinistra moderata e riformista ha costruito il benessere dell’Europa nel dopoguerra, cioè quel sistema contro cui si batte, strenuamente, l’Unione Europea del rigore e dell’austerity. Ma attenzione: se non bastano la super-tassazione e l’euro, i tagli alla spesa e il pareggio di bilancio, può intervenire anche il terrorismo: Charlie Hebdo, Bruxelles, Bataclan, Nizza, Berlino. E’ la tesi dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, studioso di simbologia, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. L’accusa: l’élite mondialista reazionaria si avvale di settori dei servizi segreti per fabbricare una nuova strategia della tensione, impiegando manovalanza presentata oggi come islamista. Obiettivo: seminare il caos, la paura, perché nulla cambi e il sistema resti com’è, fondato sul dominio della finanza a spese della democrazia.
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Carpeoro: a colpire Palermo non sarà la mafia, ma l’Isis-P1
Se smarrisci la tua missione, poi ti riduci a essere un mero strumento di potere. Fino a mettere in atto il terrorismo, oggi travestito da “fondamentalismo islamico”. Ma, al di là degli esecutori, gli organizzatori risiedono nell’intelligence. Che a sua volta risponde a personaggi del massimo potere, interamente massonico. E’ la tesi del recentissimo libro “Dalla massoneria al terrorismo”, nel quale Gianfranco Carpeoro – già gran maestro della loggia “Serenissima”, del rito scozzese, nonché studioso di Giordano Bruno e grande esperto di simbologia – affronta il tema cruciale dell’attualità di oggi: la politica di rigore dell’élite finanziaria, imposta anche “con le cattive”, cioè gli attentati, per rispondere a una logica di puro dominio e sottomissione di Stati e popoli. Charlie Hebdo, Batalclan, Bruxelles, Nizza. Le stesse “firme”, leggibili da chi conosce il linguaggio esoterico, consentono di risalire ai veri mandanti. Che, secondo Carpeoro, oggi colpiscono con crescente ferocia perché stanno iniziando ad avere paura di perdere il loro potere, da quando settori dell’élite – lo si vede negli Usa, con l’appoggio alla candidatura Sanders – si sono sfilati dal super-vertice globalizzatore, in preda al delirio di onnipotenza e ormai pronto a tutto: forse anche a colpire l’Italia, a Palermo.Tempo fa, Carpeoro aveva avvertito del possibile pericolo per il nostro paese, legato a una data particolare, il 10 agosto: «Dovete sapere che Federico II ebbe un ruolo di protettore dell’Islam, visto che fu protagonista dell’unica crociata che finì con degli accordi riguardanti la restituzione pacifica di Gerusalemme ai cristiani», racconta Carpeoro a Marcus Mason, che l’ha intervistato per il blog “Lo Sciacallo”. L’imperatore-esoterista, però, subito dopo la pace per Gersusalemme avviò una persecuzione violentissima contro gli islamici siciliani, sterminandoli: «Questa persecuzione culminò il 10 agosto del 1222, quando catturò i capi, lo sceicco e i due figli, decapitandoli in piazza a Palermo». L’autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” conferma i suoi timori: «Prima o poi, qualcosa combineranno». Lo dice la logica, se si interpreta in chiave simbolica il corredo di informazioni attorno agli attentati in Francia e in Belgio, a partire dal massacro di Nizza il 14 luglio, data “sacra” per la massoneria progressista, vero “bersaglio” (tra gli altri) degli organizzatori dell’attentato. Poi la strage del Bataclan attuata il 13 novembre, giorno in cui i Templari messi al bando nel 1308 riuscirono a lasciare Parigi riparando in Scozia, dove contribuirono a fondare la massoneria moderna. E il doppio attacco a Bruxelles contro aeroporto e metropolitana, come a sottolineare il motto “così in cielo, come in terra”.Quanto a Charlie Hebdo, parla la cronaca: indagini “seppellite” dal governo Hollande con l’imposizione del segreto militare dopo la scoperta, da parte della magistratura, della strana triangolazione che collegava il commando “jihadista” ai servizi segreti parigini, attraverso il trafficante belga che fornì loro le armi. Meccanismo che Carpeoro, nel suo libro, chiama “sovragestione”: esponenti del massimo potere utilizzano settori dell’intelligence per reclutare, all’occorrenza, anche dei kamikaze, a volte completamente all’oscuro del piano, a differenza di quanto avviene nella mafia, dove almeno è possibile risalire ai mandanti, una volta catturati i killer. «E’ Cosa Nostra che ha copiato il metodo. Se uno si va a studiare come agiva Cosa Nostra, può notare che gli anelli superiori li conoscevano. La caratteristica di questo protocollo dell’intelligence, invece, è quella che gli anelli bassi non conoscono nemmeno l’esistenza degli anelli superiori. Questi bombaroli si fanno esplodere senza conoscere i vertici che dirigono questo tipo di operazioni. Molti sono convinti di agire come autonomi».“Sovragestione” non è sempre sinonimo di terrorismo: si tratta di una modalità di potere che collega elementi in apparenza lontani. Come Enrico Cuccia, ad esempio, a torto ritenuto «portabandiera della finanza laica», quando invece era di fede templarista: «Mediobanca era organizzata in capitoli templari e il Consiglio d’amministrazione era composto da 13 membri», racconta Carpeoro allo “Sciacallo”. Il gran capo «presenziava alle riunioni secondo una ritualità templare. Io sono in possesso della lettera che Cuccia scrisse a Romiti quando quest’ultimo fu inquisito, e vi posso assicurare che è una lettera templare al 100%». Il suo braccio destro, Raffaele Mattioli, contribuì alla ricostruzione dell’abbazia di Chiaravalle, alle porte di Milano, e chiese di esservi sepolto, «unico laico in un cimitero di frati». Nella lapide «è sdraiato con le mani incrociate, vestito da templare, con tanto di squadra e compasso». Templari, come quelli a cui ammiccherebbero gli “architetti” della strage del Bataclan? Cristiani “eretici”, nella doppia veste di monaci e guerrieri – allora, certo. Ma oggi?«La gente dà poco peso ai simboli e ai miti», premette Carpeoro nell’intervista. «Nel medioevo spesso venivano raffigurati dei draghi: ciò non significa che bisogna credere ai draghi, ma ai dinosauri sì. Questo significa che le leggende e i miti hanno le loro radici da un archetipo, e l’archetipo è una storia vera, reale. Il ricercatore saggio sa decifrare questi simboli fino a coglierne il vero significato, senza fermarsi a un’analisi superficiale». Il suo libro parte dalla spiegazione di questi simboli, dei riti, e poi si snoda indagando la parabola di potere del network massonico, di cui Carpeoro non fa più parte. «La massoneria e la Chiesa cattolica raggiungono insieme l’apogeo: l’apogeo della Chiesa viene raggiunto nel medioevo con la costruzione delle grandi cattedrali, tramite la manovalanza dei massoni». Poi, le due entità parallele si ritrovano su fronti opposti, perché «la Chiesa diventa potere: cessa di essere conoscenza e potere, abbracciando unicamente il secondo». Lo dimostra la stessa soppressione dell’ordine dei Templari. «D’altro canto, la massoneria comincia a mettere in discussione i dogmi, rendendo per questo fragile la costruzione della Chiesa cattolica, che in quegli anni si fondava sul dogma».Quello che ai più sfugge spesso – ma ora, libri come quello di Carpeoro contribuiscono a recuperare il gap di informazione – è il nesso profondissimo che lega il vertice del massimo potere ai simulacri della simbologia esoterica medievale. Dinamiche sempre parallele, che coinvolgono sia il mondo massonico che quello cattolico, ad esempio attraverso l’Opus Dei. «Lo scontro nacque perché la massoneria decise di prendere le difese dello gnosticismo: da quel momento la Chiesa comincia a scomunicare. E la massoneria diventa anticlericale, sbagliando, nella stessa misura in cui la Chiesa si proclamava antimassonica». Poi, però, ci fu una storica saldatura, a cominciare dal livello finanziario, come dimostrano le vicende di Calvi, Sindona e Gelli – su quest’ultimo, Carpeoro si sofferma a lungo, rivelando il ruolo della P2 nei tentativi di golpe di Italia, “sovragestiti” da una struttura-ombra che l’autore chiama P1. Grande burattinaio, un super-massone come il politologo statunitense Michael Ledeen, prima legato a Craxi e poi al suo demolitore, Di Pietro (oggi, si dice, a Matteo Renzi ma anche al grillino Luigi Di Maio). Già ai tempi di Craxi, ricorda Carpeoro, la “sovragestione” affondò le mani nella strategia della tensione, fino al caso Moro, nel quale Ledeen fu direttamente coinvolto, introdotto al Viminale come super-consulente di Cossiga.Terrorismo e mondo arabo, già allora. Nel mirino, Craxi: amico dei palestinesi (che cercò di finanziare, anche attraverso Gelli) e poi di Moro, che tentò di salvare. Tutto inutile, la “sovragestione” aveva deciso altrimenti: Bettino in esilio ad Hammamet, Moro ucciso. E oggi? L’Italia gode ancora di una «protezione speciale da parte dell’Islam», dice Carpeoro. C’è chi ricorda del Conto Protezione, istituito in Svizzera da Craxi per sostenere Arafat. «Perciò l’Italia ha un po’ di benemerenza nei confronti degli islamici. E’ vero che esiste la sovragestione, ma anche questa non può non tener conto che gli italiani non sono odiati dagli arabi. Non come i francesi». Certo, «abbiamo la macchia della Libia, ma è pur vero che è una macchia sbiadita, a differenza del colonialismo francese e di quello che hanno fatto poi gli americani: pensate che Sarkozy ha voluto la morte di Gheddafi perché erano soci e aveva paura che questi potesse parlare». Quindi, «escluso il Vaticano, dove l’Isis ha minacciato di colpire, a meno di clamorosi scenari politici, se l’Italia non parteciperà ai giochi francesi e americani difficilmente verrà colpita». Se invece gli strateghi della “sovragestione” sceglieranno di devastare il nostro paese, Carpeoro scommette che gli stragisti vorranno «invocare una motivazione strumentalmente forte, come i fatti di Palermo del 1222», il fatidico 10 agosto.(Il libro: Gianfranco Carpeoro, “Dalla massoneria al terrorismo”, sottotitolo “Come alcune logge massoniche sono divenute deviate e come con i servizi segreti vogliono controllare il mondo”, Uno Editori, 189 pagine, 13 euro).Se smarrisci la tua missione, poi ti riduci a essere un mero strumento di potere. Fino a mettere in atto il terrorismo, oggi travestito da “fondamentalismo islamico”. Ma, al di là degli esecutori, gli organizzatori risiedono nell’intelligence. Che a sua volta risponde a personaggi del massimo potere, interamente massonico. E’ la tesi del recentissimo libro “Dalla massoneria al terrorismo”, nel quale Gianfranco Carpeoro – già gran maestro della loggia “Serenissima”, del rito scozzese, nonché studioso di Giordano Bruno e grande esperto di simbologia – affronta il tema cruciale dell’attualità di oggi: la politica di rigore dell’élite finanziaria, imposta anche “con le cattive”, cioè gli attentati, per rispondere a una logica di puro dominio e sottomissione di Stati e popoli. Charlie Hebdo, Batalclan, Bruxelles, Nizza. Le stesse “firme”, leggibili da chi conosce il linguaggio esoterico, consentono di risalire ai veri mandanti. Che, secondo Carpeoro, oggi colpiscono con crescente ferocia perché stanno iniziando ad avere paura di perdere il loro potere, da quando settori dell’élite – lo si vede negli Usa, con l’appoggio alla candidatura Sanders – si sono sfilati dal super-vertice globalizzatore, in preda al delirio di onnipotenza e ormai pronto a tutto: forse anche a colpire l’Italia, a Palermo.
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Carpeoro: siate consapevoli, e aprirete una falla nel sistema
Qual è lo schema della manipolazione? E’ anch’esso uno schema rituale. Io ho sempre pensato che il potere, quello che Saba Sardi chiama “dominio”, agisca sulle persone in cinque fasi, che sono quasi un rito. Queste cinque fasi sono sempre le stesse, e si chiamano: astrazione, estrazione, ostruzione, istruzione, distruzione. Sono azioni, per questo hanno tutte la stessa desinenza. Perché astrazione? Perché bisogna creare il vuoto. E quindi, il primo schema della manipolazione è quello di togliere l’individuo da una realtà che può capire, può farlo pensare, può renderlo autonomo nei confronti del pensiero. Quindi la prima cosa che devo fare è: fargli il vuoto intorno, e possibilmente anche il vuoto dentro. E questo lo faccio astraendolo dalla realtà, cioè facendo delle operazioni di astrazione. Fatto questo, poi c’è l’estrazione: dopo che l’ho messo in un mondo finto, di plastica, devo comunque estrarlo da un contesto dove lui possa tornare; devo creargli una finta casa: dopo che gli tolto la casa vera, devo costruirgliene attorno una finta, datta di fondali cinematografici, di effetti speciali. E questa è l’estrazione.Questa casa, che gli ho costruito attorno, piena di cose posticce, poi devo rendergliela unica e invalicabile: e quindi devo fare un’operazione di ostruzione, cioè devo rendere impossibile tornare indietro. Poi devo trasformare questa persona, adattarla al meccanismo-ingranaggio generale che ho creato, e questa operazione si chiama istruzione. E poi, dopo, c’è la fase finale, che si chiama distruzione, e si può considerare a livello individuale ma anche non individuale. Un grande iniziato, che si chiamava Isaac Newton, fece 5 pagine di previsioni, tra l’altro ripubblicate recentemente dalla fondazione a lui dedicata, che ha pubblicato tutto i suoi atti inediti in un sito Internet. Newton era anche un matematico, scopritore del cosiddetto calcolo infinitesimale. Facendo conteggi, Isaac Newton ha collocato la possibilità della fine del mondo nel 2060: quanto è lontano il 2060? Una stima del ministero americano dell’ambiente, basata sull’elevazione dell’area priva di ossigeno degli oceani – si chiama “area della morte”, è la fase più profonda e completamente priva di ossigeno, di luce, di possibilità di vita – rivela che questa fascia, nell’ultimo secolo, si è elevata del 400%. Provate a pensare a cosa succede se muoiono completamente gli oceani. E, se questo work in progress va avanti così, questa stima degli americani porta all’incirca al 2060. Il che vuol dire che Newton con la matematica ci sapeva fare.Tutte le operazioni dei millenni di vita dell’uomo che conosciamo sono dominati dal pensiero magico. Della nostra avventura conosciuta, rispetto ai 22 milioni di anni di storia scientifica della vita e dell’universo, quanti anni conosciamo, analiticamente? Cinquemila? Settemila? Diecimila? Nella storia generale dell’universo, i diecimila anni di cammino dell’uomo che conosciamo cosa sono? Un pulviscolo. Noi, siccome abbiamo l’epos, li dilatiamo, pensiamo che chissà che storia sia. Ma non è mica tutta questa grande storia. Né sarebbe un esempio di vita lunga di una civiltà, se morisse dopo diecimila anni (credo che la dominazione dei dinosauri sulla Terra sua mille volte tanto, centomila volte tanto). Queste migliaia di anni che conosciamo, della nostra vita, sono anni di implemento delle conseguenze del pensiero magico. Gradualmente, abbiamo trasferito tutte le nostre risorse, tutto il nostro cammino evolutivo e tutta la nostra creatività dalla possibilità di un pensiero simbolico alla scelta del pensiero magico. Se una persona è malata di cancro, tra un medico e una cartomante preferisce il medico. Ma se non è ancora malata di cancro, sceglie la cartomante. Il nostro problema è che, quando eravamo sani, abbiamo scelto la magia. Adesso che malati lo siamo, chissà, forse… Però è molto difficile.Gesù Cristo nel Vangelo dice che bisogna scegliere la via stretta, ma noi non scegliamo sepre la via stretta. E’ talmente difficile imparare a considerare le nostre possibilità di espansione individuale come collegate alle nostre capacità, alla nostra vita, alle opportunità reali che abbiamo, che gli ultimi anni che stiamo vivendo sono il record dei superenalotti, delle lotterie. Non siamo più abituati a mettere in concatenazione la nostra felicità – il nostro lavoro, la nostra creatività – al merito. Se uno pensa ad arricchirsi, questo è il prodotto di un pensiero magico: perché, prima di pensare a come arricchirsi, dovrebbe valutare perché arricchirsi. Non siamo più abituati a collegare nemmeno l’arricchimento al merito, ad un valore, a una differenza: basta andare dal tabaccaio. Noi oggi abbiamo queste altre ritualità. Abbiamo distaccato, trasformato il sacro.Noi oggi siamo schiavi di idoli diversi. Sempre di idolatria si tratta, ma abbiamo sostituito il sacro come ricerca con il sacro come autoasserzione. Abbiamo cioè trasformato il sacro in qualcosa che si definisce da sé, non in qualcosa che definiamo noi. E questa operazione di idolatria è abilmente descritta nella Bibbia quando gli ebrei si ritrovano ad adorare il Vitello d’Oro, mentre Mosè gli porta giù dalla montagna delle leggi. La differenza è tra adorare il Vitello d’Oro e proseguire in un percorso per cui il tuo capo spirituale ti porta giù delle leggi. Sapete, le leggi non sono una cosa qualunque: sono lì per regolare la nostra vita. Certo, non sempre ci sono delle buone leggi: è per questo che Mosè se le fa dare da Dio. Non voglio entrare nella polemica su Jahvè-Dio sollevata da Biglino, col quale peraltro sono in buonissimi rapporti. Qui interpreto Dio come simbolo: una entità suprema che dà la legge, sottolinea quanto sia importante, una legge. E quando Mosè scende con le leggi, quelli sono già passati al Vitello d’Oro. Questo non descrive forse il pensiero magico e il pensiero simbolico? Non me la sono inventata io, questa scelta tra il Magus e il Magister: nell’antichità, la troviate enne volte. Si è trasferita in tutto. Si è trasferita nella nostra vita sociale.Noi oggi continuiamo a inseguire un politico che ci risolva dei problemi, che ci attribuisca dei diritti. Ma io non voglio un politico che mi risolva i problemi. Voglio un politico che metta me in condizione di risolverli. Non è pensiero magico? Qui c’è una politica che vi ha tolto i vostri diritti, cioè la possibilità di risolvere da voi i vostri problemi. E qualunque tipo di politico viene e dice: non ti preoccupare, te li risolvo io. Nessuno ti dice: non ti preoccupare, perché creeremo condizioni perché te li risolva tu. E’ lì che poi falliscono le democrazie. Perché uno non mi può spacciare una democrazia sostitutiva per una democrazia rappresentativa. Sono due cose diverse. Qui, le nostre vite sono state delegate per procura notarile, irevocabile. Ma io non voglio delegare la mia vita, io voglio avere da te il diritto di farmela da solo, la mia vita. E questo diritto tu non me lo dai. E sembra quasi che sia giusto, scontato, che tu non me lo dia. Nessuno si chiede: ma perché nessun politico mi dice come sarò in condizione, io, di fare le cose? Sulla base di una nostra pigrizia, di una nostra graduale astrazione dalla vita concreta e dalle regole democratiche, ci danno ormai per scontato che i problemi ce li deve risolvere qualcun altro. In pari con un’altra cosa: che la colpa è sempre di qualcun altro.E’ in parallelo: da un lato ti dicono che i problemi te li risolvono loro, dall’altro ti spiegano che, comunque, la colpa è sempre di tizio – Gelli, Sindona, Craxi, Totò Riina, è sempre colpa degli altri. Dobbiamo entrare nella logica che il cambiamento è nostro: siamo noi che dobbiamo diventare dei soggetti rivoluzionari. Il che non significa che non saremo più propensi a sacralizzare, ritualizzare e simboleggiare delle cose; significa che, quando lo facciamo, lo dobbiamo fare consapevolmente. Il margine è tutto lì, tra consapevolezza e inconsapevolezza. In quante ore della nostra giornata facciamo cose di cui siamo pienamente consapevoli? Numeriamo le azioni di una nostra giornata, e verifichiamo alla fine che conto ne esce. Secondo me si farebbero delle belle scoperte, ma questa non è una funzione che Facebook ha previsto; quindi non ve ne accorgerete mai, perché un diario non lo tenete più. Immaginate che su Facebook ci sia una funzione “verifica consapevolezza” – ma Facebook quella funzione non la metterà mai, perché fa parte dell’altro meccanismo, dell’altro versante. E se scopriste che il 90% della vostra vita è fatto di atti inconsapevoli? La consapevolezza comporta automaticamente una falla nel sistema di potere. Questo è un potere che vive sull’inconsapevolezza. E’ questa è l’unica vera rivoluzione, l’unica chiave rivoluzionaria della nostra vita.(Gianfranco Carpeoro, estratto della conferenza “Riti, rituali e quotidianità, il vero e il falso”, tenuta a Curtarolo, Padova, il 17 maggio 2016).Qual è lo schema della manipolazione? E’ anch’esso uno schema rituale. Io ho sempre pensato che il potere, quello che Saba Sardi chiama “dominio”, agisca sulle persone in cinque fasi, che sono quasi un rito. Queste cinque fasi sono sempre le stesse, e si chiamano: astrazione, estrazione, ostruzione, istruzione, distruzione. Sono azioni, per questo hanno tutte la stessa desinenza. Perché astrazione? Perché bisogna creare il vuoto. E quindi, il primo schema della manipolazione è quello di togliere l’individuo da una realtà che può capire, può farlo pensare, può renderlo autonomo nei confronti del pensiero. Quindi la prima cosa che devo fare è: fargli il vuoto intorno, e possibilmente anche il vuoto dentro. E questo lo faccio astraendolo dalla realtà, cioè facendo delle operazioni di astrazione. Fatto questo, poi c’è l’estrazione: dopo che l’ho messo in un mondo finto, di plastica, devo comunque estrarlo da un contesto dove lui possa tornare; devo creargli una finta casa: dopo che gli tolto la casa vera, devo costruirgliene attorno una finta, fatta di fondali cinematografici, di effetti speciali. E questa è l’estrazione.
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Malori, incidenti, suicidi: sono tutti morti al momento giusto
La storia del nostro paese abbonda di morti improvvide quanto provvidenziali. Qualche anno fa il figlio di Vito Ciancimino espresse il sospetto che il padre fosse stato assassinato: il vecchio aveva detto “Parlerò se Andreotti sarà condannato” e, due giorni dopo la condanna in primo grado di Andreotti, moriva. Una morte tempestiva. Di morti “just in time” è costellata tutta la nostra storia nazionale e, tanto per cominciare, opportuna fu la morte del comandante generale dei carabinieri Hazon (bombardamento) a due settimane dal 25 luglio 1943. Il 24 agosto, Ettore Muti era falciato da una raffica, durante un improbabile tentativo di fuga e, il 14 settembre, il generale Ugo Cavallero si suicidava con un colpo alla tempia destra, pur essendo mancino (nella fretta…). Questo genere di decessi di solito avviene a grappoli, in due o tre per volta, come i cardinali, secondo il noto detto popolare.Non sempre, però, le scomparse opportune avvengono a breve distanza. Si pensi al bandito Salvatore Giuliano (5 luglio 1950) preceduto da Salvatore Ferreri (26 giugno 1947) e seguito da Gaspare Pisciotta (9 febbraio 1954): tutti caduti – chi per piombo, chi per “caffè corretto” – quando sembrava stessero diventando troppo loquaci sullo stesso tema. E poi il colonnello Renzo Rocca, “suicidatosi” il 27 giugno 1968, a venti giorni dalla costituzione della commissione di inchiesta sul caso Sifar, davanti alla quale morirà di infarto il generale Giorgio (25 giugno 1968), mentre stava deponendo. In attesa di testimoniare (sulla cellula nera di Padova) era il portiere Alberto Muraro, ma due giorni prima (13 settembre 1969) cadde nella buca dell’ascensore e morì. E poi altri noti e meno noti: Armando Calzolari, Dante Baldari, Vittorio Ambrosini, Luigi Calabresi, Gianni Nardi, Bruno Rieffeser, Giancarlo Esposti per limitarci alla strategia della tensione.E poi, altri “gruppi collegati”: come Mino Pecorelli, Antonio Varisco e Giorgio Ambrosoli, o i fratelli Bisaglia e Ugo Niutta o, ancora Roberto Calvi e Graziella Corrocher; o Giovanni Casillo e Vincenza Matarazzo: impossibile fare l’elenco completo. Registriamo una preoccupante monotonia: infarti, fughe stroncate, incidenti d’auto e suicidi coprono circa il 75% dei casi. Rari i botti di fantasia, come quello che fece saltare in aria Vincenzo Casillo nei pressi della sede del Sismi. Almeno, una cosa un po’ originale. C’è sempre una occasione vicina a rendere quella morte auspicabile: una deposizione in tribunale, la minaccia di una conferenza stampa (come non ricordare Luigi Tenco?), più raramente qualche particolare scadenza politica.Mi è capitato di lavorare su una morte tempestiva, quella di Junio Valerio Borghese: che delusione! C’era tutto per pensare al solito lutto provvidenziale: a luglio Andreotti aveva fatto predisporre dal Sid il “malloppo” per la riapertura dell’inchiesta sul tentato golpe dell’8 dicembre 1970; ma, occorrendo “alleggerirlo” prima di darlo alla magistratura, dispose un rinvio al 15 settembre. Borghese spirava il 24 agosto 1974; da tre settimane aveva iniziato a dettare un memoriale convocando, per settembre, gli ex capi della X Mas, per spiegare come era andata “la notte della Madonna”. Più tempestivo di così il suo decesso non poteva essere. C’erano anche i casi collegati: il 12 novembre il tenente colonnello Giuseppe Condò – che teneva i contatti fra Sid, Borghese e Sogno – moriva di infarto a 42 anni. “Esperti” della materia, come Ambrogio Viviani, Demetrio Cogliandro o Mino Pecorelli, parlarono di “felice coincidenza” o simili. Vi dico: c’era tutto.Poi, interpellando diversi medici (tossicologi compresi), scoprii che i sintomi descritti dai testi (compresi gli amici convinti della tesi omicida) erano perfettamente compatibili con una pancreatite acuta, all’epoca difficilmente diagnosticabile, per cui spesso i medici pensavano a casi di suggestione ipocondriaca. E le pillole di acqua e zucchero, prescrittegli dal primo medico che lo visitò, ne sono una conferma indiretta. Il decorso clinico era da manuale e compatibile con l’anamnesi del paziente. Per di più: difficilmente quei sintomi (come ad esempio l’“addome a barca”) possono mascherare altre patologie, ed è escluso che possa essere provocata tossicologicamente. La vita a volte è crudele: un così bel caso di morte ad horas sprecato! Una coincidenza vera. Un caso sfortunato.(Aldo Giannuli, “Le morti opportune nella storia d’Italia”, dal blog di Giannuli del 23 agosto 2015).La storia del nostro paese abbonda di morti improvvide quanto provvidenziali. Qualche anno fa il figlio di Vito Ciancimino espresse il sospetto che il padre fosse stato assassinato: il vecchio aveva detto “Parlerò se Andreotti sarà condannato” e, due giorni dopo la condanna in primo grado di Andreotti, moriva. Una morte tempestiva. Di morti “just in time” è costellata tutta la nostra storia nazionale e, tanto per cominciare, opportuna fu la morte del comandante generale dei carabinieri Hazon (bombardamento) a due settimane dal 25 luglio 1943. Il 24 agosto, Ettore Muti era falciato da una raffica, durante un improbabile tentativo di fuga e, il 14 settembre, il generale Ugo Cavallero si suicidava con un colpo alla tempia destra, pur essendo mancino (nella fretta…). Questo genere di decessi di solito avviene a grappoli, in due o tre per volta, come i cardinali, secondo il noto detto popolare.
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Banda d’Italia, “vigila” sulle banche obbedendo ai banchieri
E’ un riflesso condizionato: se uno dice Banca d’Italia a me vengono subito in mente Paolo Baffi, Mario Sarcinelli e Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona che pagò con la vita la sua dedizione al Paese, al bene comune, all’onestà e alla verità. Poi, certo, ci sono altri grandi, grandissimi economisti che hanno ricoperto il ruolo di governatore prima di Baffi o che gli sono succeduti, come Carlo Azeglio Ciampi. Ma a me, in quegli anni in cui ero ragazzo, il senso “forte” dell’istituzione Banca d’Italia lo hanno trasmesso quei tre uomini con il loro esempio. Ecco perché ho trovato particolarmente dolorosa la lettura di “La Banda d’Italia” (Chiarelettere), il libro-inchiesta di Elio Lannutti su un’istituzione che da diversi anni ormai sembra essersi trasformata nel contrario di ciò che era. Lettura dolorosa ma rivelatrice di un inganno fattosi sistema attraverso la collusione con i controllati, favorita anche dal meccanismo delle porte girevoli che consentono passaggi “arditi”, come quelli dei molti ispettori e funzionari divenuti dirigenti bancari, per non parlare delle nomine ai più alti livelli dell’istituto centrale concertate con gli azionisti, cioè le banche.Quello che Lannutti mette in luce con la forza dei dati e di quasi trent’anni di battaglie a fianco dei correntisti e dei risparmiatori è un sistema autoreferenziale e omertoso dove la vigilanza viene usata come una clava contro i piccoli per costringerli a consegnarsi ai grandi. Una vigilanza che, contrariamente a quanto accadeva ai tempi di Carli e di Baffi, si guarda bene dal vigilare. O, se vigila, viene annichilita come accaduto non molti anni fa nell’era di Antonio Fazio, l’ultimo governatore “a vita”. O ancora “silenziata”, come dice Lannutti a proposito di Mario Draghi e dell’acquisizione di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi di Siena: «La Banca d’Italia guidata da Mario Draghi nel 2007 sapeva che Antonveneta era un cattivo affare, ma non trasmise le sue informazioni al Monte dei Paschi che la strapagò per 9 miliardi». A luglio il Tesoro diverrà azionista dell’istituto senese – terzo gruppo bancario italiano, tecnicamente “fallito” varie volte in questi anni grazie anche a quell’acquisizione – perché i bilanci sono ancora in perdita e dunque Siena non ha potuto pagare gli interessi sui cosiddetti Monti-bond, i prestiti miliardari gentilmente offerti dallo Stato a spese dei contribuenti.L’elenco dei disastri è lungo ed è costato miliardi ai risparmiatori, ma chi pensa che questo sia l’unico prezzo pagato è un illuso: il costo sistemico è enorme perché le banche italiane sono tre volte più care delle concorrenti europee, ma la Banca d’Italia non se ne preoccupa. Anzi, fornisce dati che sottostimano i costi effettivi delle banche misurati non solo dall’Adusbef, l’associazione degli utenti bancari di cui Lannutti è presidente, ma anche dall’Università Bocconi e da altre prestigiose istituzioni. Peggio ancora: “La Banda d’Italia” denuncia responsabilità precise di Via Nazionale nel mancato contrasto all’usura e sulla pratica dell’anatocismo (cioè il pagamento di interessi sugli interessi) e aggiunge il carico pesante dei privilegi della casta di Via Nazionale che gode non solo di stipendi al di fuori di ogni logica (il governatore della Banca d’Italia, ormai quasi privo di poteri, guadagna molto di più del presidente della Bce e di quello della Fed), ma anche di benefit più consoni a sceicchi che a funzionari pubblici, come l’uso della carta di credito per spese personali fino a 10mila euro al mese e case di lusso a prezzi calmierati. Per non parlare della banca interna riservata ai dipendenti.Quando è iniziata la mutazione genetica della più prestigiosa e antica istituzione italiana? Secondo Lannutti lo spartiacque è stato il 2003, il non accorgersi di quanto stava accadendo a Parmalat con oltre 3 miliardi di Riba (ricevute bancarie) falsificate. Da lì in poi è effettivamente accaduto di tutto: banche di provincia come la Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani balzate improvvisamente ai primi posti della graduatoria nazionale, baci in fronte al governatore, un utilizzo sempre più improprio di due beni preziosi quali l’autonomia e la discrezionalità e l’emergere di un madornale conflitto d’interessi essendo il controllore posseduto per oltre il 90% da banche e assicurazioni su cui esercita poteri di vigilanza e che, tra molti favori e regalie, hanno beneficiato anche della super-rivalutazione delle quote disposta dall’ex ministro del Tesoro Fabrizio Saccomanni, già direttore generale di Bankitalia. Dal caso della Banca dell’Etruria allo strano commissariamento del Banco di Credito di Siracusa, passando per le Coop e i molti casi di svolgimento abusivo dell’attività bancaria: la “Banda d’Italia”, come recita il sottotitolo, è “la prima vera inchiesta su Bankitalia, la super casta degli intoccabili che governa i nostri soldi” e non a caso denuncia le lacune dell’informazione italiana che – salvo rare eccezioni – su Via Nazionale e le sue vicende preferisce far calare la coltre del silenzio.(Francesco Scorza, “Banca d’Italia, l’altra casta. Vigilanza a danno dei piccoli e dei risparmiatori”, dal “Fatto Quotidiano” del 26 giugno 2015. Il libro: Elio Lannutti, “La Banda d’Italia. La prima vera inchiesta su Bankitalia, la super-casta di intoccabili che governa i nostro soldi”, Chiarelettere, 146 pagine, 13 euro).E’ un riflesso condizionato: se uno dice Banca d’Italia a me vengono subito in mente Paolo Baffi, Mario Sarcinelli e Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona che pagò con la vita la sua dedizione al Paese, al bene comune, all’onestà e alla verità. Poi, certo, ci sono altri grandi, grandissimi economisti che hanno ricoperto il ruolo di governatore prima di Baffi o che gli sono succeduti, come Carlo Azeglio Ciampi. Ma a me, in quegli anni in cui ero ragazzo, il senso “forte” dell’istituzione Banca d’Italia lo hanno trasmesso quei tre uomini con il loro esempio. Ecco perché ho trovato particolarmente dolorosa la lettura di “La Banda d’Italia” (Chiarelettere), il libro-inchiesta di Elio Lannutti su un’istituzione che da diversi anni ormai sembra essersi trasformata nel contrario di ciò che era. Lettura dolorosa ma rivelatrice di un inganno fattosi sistema attraverso la collusione con i controllati, favorita anche dal meccanismo delle porte girevoli che consentono passaggi “arditi”, come quelli dei molti ispettori e funzionari divenuti dirigenti bancari, per non parlare delle nomine ai più alti livelli dell’istituto centrale concertate con gli azionisti, cioè le banche.
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Carpeoro: pensiero magico, così il potere ci tiene prigionieri
La manipolazione è una diretta conseguenza del potere: non c’è potere senza manipolazione. Ognuno fa quello che vogliono altri, perché è manipolato. L’errore che molti di noi commettono è quello di soffermarsi sulla manipolazione di cui ci accorgiamo, senza capire come nasce il potere. Se non si capisce come funziona il potere, non si può decodificare la manipolazione, che del potere è figlia. Nel libro “Dominio”, Francesco Saba Sardi spiega che il potere nasce quando l’uomo abbandona il nomadismo. L’uomo che non ha bisogno di conquistare, gestire, governare, coltivare e sfruttare la terra non ha neanche bisogno del potere. Quel bisogno nasce quando qualcuno diventa propritario di un territorio. E quel territorio lo governa, lo gestisce, lo difende, lo sfrutta economicamente. E come nasce, il potere? Per un passaggio obbligato: la guerra. Devo fare una guerra per conquistare un territorio, per difenderlo, per conservarlo. Prendermi la terra significa che devo fare la guerra. Per poi coltivarla e sfruttarla, questa terra, che diventa sempre più grande (non posso coltivarmela la solo), devo avere dei servi. E per avere dei servi devo aveve una religione. Alla fine, tutto questo, secondo Saba Sardi, si chiama “dominio”.Il dominio è il rapporto tra la terra, la guerra e la religione: alla fine, configurano il potere. E’ chiaro che, per sfruttare gli altri, li devo manipolare: perché mai una persona non manipolata dovrebbe farsi sfruttare da me? Questo meccanismo si chiama pensiero magico. Nel momento in cui io sono uno che conosce, io sono un “magister”. La radice “Mg”, in sanscrito, significa “conoscere”. Nel momento io cui io conosco, per espandere il mio essere e accrescere la mia consapevolezza, io sono un “magister”; nel momento in cui utilizzo questa mia conoscenza non per l’essere ma per il potere, e quindi per cambiare il comportamento degli altri, allora io sono “magus”. Si passa dal “magister” al “magus”: il “magus” è l’elemento che caratterizza il potere, e quindi è l’elemento che manipola. E’ il “magus”, il pensiero magico, la fonte della manipolazione. Il pensiero magico stabilisce un’area all’interno della quale non valgono le regole vere, quelle dell’universo; valgono le regole del “magus”, e quel territorio si chiama “cerchio magico”. Il mago faceva un gesto, tracciava un cerchio, e all’interno di quel cerchio non valevano più le regole del mondo, valevano le regole per cui aveva ragione lui, essendo lui lo strumento del potere – che poteva essere sacerdotale, regale o di qualunque altra natura.Noi siamo talmente contaminati e impressi di pensiero magico che ne viviamo fin dalla prima infanzia. Non diciamo a nostro figlio “non fare questa cosa perché è sbagliata”, gli diciamo “non farla perché viene l’Uomo Nero”. Quello è pensiero magico, perché stabiliamo una regola diversa da quella della natura: nella natura non esiste, l’Uomo Nero. Sembra una cosa piccola, ma poi ci segna. Tutti quanti scegliamo le vie magiche: il Superenalotto che ci cambia la vita, la grande vincita, la fortuna, la sfortuna. Tutti quanti preferiamo disegnare itinerari che ci mettono in condizione di essere all’interno di cerchi magici, dove poi siamo manipolati: chi pone le regole di quel cerchio ci fa fare quello che vuole lui, senza che neanche ce ne accorgiamo. Il tonno Rio Mare, “così tenero che si taglia con un grissino”, ha dietro un’operazione magica: trasformare un difetto in una qualità. E’ magia. Un tonno non può essere tenero; se è tenero, è perché lo fanno con le frattaglie pressate. Ma è “così tenero che si taglia con un grissino”, e voi infatti lo comprate. Sono le manipolazioni della pubblicità, e sono operazioni magiche: io vi costringo ad accettare non le regole della natura, che imporrebbero di capire cos’è un tonno, ma le mie regole.Quando una certa ditta ha voluto vendere un famoso biscotto, ha detto: sono biscotti che potete comprare perché non c’è l’acido tartarico. Nessuno vi spiega che in nessun biscotto c’è l’acido tartarico. Perché dovrebbe essere una qualità? Avete mai visto vostra nonna che fa i biscotti con l’acido tartarico? Eppure, passa per una qualità. L’operazione magica non è fondata su una realtà; è fondata sulla manipolazione del soggetto passivo, che vede come realtà una cosa che realtà non è. Tecnicamente si chiama: stabilire un dogma. Significa farvi vedere le cose in modo diverso, anche rispetto alla loro effettiva connotazione. Quando la Chiesa disegna l’Immacolata Concezione – la Madonna, vergine nonostante abbia concepito – fa un’operazione magica, perché non vi porta in realtà sul vero problema. Da un punto di vista medico, sappiamo che per una donna è possibile concepire rimanendo vergine; la cosa veramente difficile è rimanere vergini dopo avere partorito. Ma non c’è l’Immacolato Parto. Neanche la Chiesa arriva a mettersi in contrapposizione con regole assolute, per cui rimane il mistero: la Madonna è rimasta vergine anche dopo aver partorito? Questo, tra i dogmi della Chiesa non c’è.Il dogma non è credere in qualcosa, è non poter discutere di qualcosa, e non accettare che ne discutano nemmeno gli altri. Nel momento in cui le Chiese sono diventate potere, hanno imposto un meccanismo dogmatico anche a chi non lo voleva. C’è gente che è finita sul rogo, per questo. In Europa, sono morte bruciate 600.000 streghe in trecento anni. Quando l’uomo possiede una fede, trattasi di religione; quando una fede possiede l’uomo, trattasi di setta. Una persona che ha una fede è libera, una persona che ha un dogma no, non è libera. Non è la religione a operare la manipolazione, ma la struttura. Non c’è scritto da nessuna parte che una Chiesa debba essere una struttura, che debba avere un tesoro, degli amministratori, dei beni, debba essere uno Stato, debba avere le Guardie Svizzere. Maometto aveva vietato all’Islam di diventare una Chiesa, aveva vietato di avere gli Imam. Gesù Cristo da nessuna parte ha detto che doveva nascere una Chiesa strutturata. Le strutture, se nascono, nascono per il potere, non per la fede. Alla fede non servono le strutture. Le cose buone le fanno gli fanno gli uomini, gli esseri umani, non le strutture. Le strutture – si chiamino massoneria, Chiesa, Stato – possono fare solo cose negative.Sono le strutture a manipolare, e voi trovate mille manipolazioni di questo tipo. Il Credo è una preghiera che nasce da un’operazione politica. Concilio di Nicea, 300 e rotti dopo Cristo, grande scontro tra eresia ariana e versione ortodossa: l’eresia ariana diceva che Gesù Cristo era un uomo, la Chiesa regolare diceva che Cristo era figlio di Dio, quindi era Dio. Siccome i due vescovi che dovevano mettere a posto questo complicato problema erano compagni di merende – si chiamavano Eusebio di Nicomedia e Eusebio di Cesarea – fanno un compromesso: voi oggi recitate una preghiera che è frutto di un compromesso. “Credo in Gesù Cristo, generato, non creato”. Gli uomini generano, Dio crea. Quindi, uomo: generato, non creato. E poi aggiungono: “Della stessa sostanza del padre”, ma non specificano il padre. Cioè fanno un’operazione in base alla quale ognuno può scegliere l’interpretazione più favorevole a sé. Nessuno ve la spiega così, quella preghiera. Ve la fanno dire automaticamente, perché il dogma è importante. Come l’Auditel, che in realtà è fondato su una convenzione.Ci sono 150 persone, in tutta Italia, che hanno una macchinetta che rivela i programmi che vedono. Il primo problema è statistico: uno mangia quattro polli, un altro non ne mangia nessuno, quindi ne mangiano due a testa. Così funziona la statistica. E poi: com’è gestita, questa cosa? Chi dovrebbe essere controllato in realtà controlla se stesso. Perché, chi sono i soci dell’Auditel? Le concessionarie. E’ come per le banche. Chi le controlla? I banchieri. In Italia chi controlla i magistrati? Altri magistrati. Da noi funziona tutto così. Il controllore dovrebbe essere avulso da ciò che deve controllare: in Italia, invece, il contollore controlla se stesso – per regola. Mentana, che sa benissimo cos’è l’Auditel, non fa nulla per l’Auditel, perché sa che molte cose sono concordate a monte. E sa anche di avere una professionalità, una simpatia, un appeal che gli consentono di evitare che gli vengano attribuite brutte figure. Il problema è: stabilire a quale cerchio magico risponde qualunque tipo di operazione. Perché nella nostra società non esiste nessuna operazione – di informazione, di finanza, di politica – che non risponda a un pensiero magico.Al pensiero magico si contrappone il pensiero simbolico, quello che ti spinge a chiederti “perché”. Il pensiero magico, che è funzionale a una società consumistica, ti spinge a chiederti solo “come”, non perché. Il perché è superato, non te lo devi chiedere. Tutti devono solo chiedersi come. Nessuno si deve chiedere perché comprare qualcosa, ma solo come comprarlo, come sbattersi per mettere insieme i soldi per comprare il modello nuovo sei mesi dopo, e così via. Nei meccanismi di manipolazione, il primo obiettivo è impedire alla gente di chiedersi perché. La manipolazione avviene perché quel gradino ve lo fanno saltare. Voi vi chiedete solo come, non perché. Ed è fondamentale, nel pensiero magico: non ti devi chiedere perché diventare ricco, ma come diventarlo. Non ti devi chiedere perché una donna si dovrebbe innamorare di te: al mago, tu chiedi come una donna si possa innamorare di te. Quel perché lo dovresti chiedere a te stesso, non al mago.L’uomo diventerebbe libero, se non ci fosse il pensiero magico, perché farebbe le domande a se stesso. Col pensiero magico non è libero, perché è costretto a fare le domande al mago. Immaginando la magia, siamo ancora legati al tipo col cappello a cono e le stelline, ma la magia è sofisticata. Bin Laden è l’Uomo Nero. Noi disegnamo scenari in base ai quali, per interi decenni, pensiamo che tutto il problema sia legato a una persona. Ci hanno spiegato che il problema dell’Italia era Sindona, poi Sindona è sparito ma i problemi sono rimasti. Poi ci hanno detto che era Gelli, ma – via Gelli – i problemi son rimasti. Poi Craxi, idem. Ma perché? Perché noi siamo costretti a immaginare la logica dell’Uomo Nero, che applichiamo dall’inizio. E’ connaturata in noi, col modo in cui abbiamo costruito questa società, che è costruita sul pensiero magico.La nostra società è costruita sul mito secondo cui qualsiasi cittadino americano possa diventare presidente degli Stati Uniti. Ma anche fosse, perché un americano dovrebbe voler fare il presidente? Sarebbe felice? Sulla libertà, abbiamo costruito un dogma del piffero. La libertà non è poter fare tutto quello che vuoi. La libertà è sapere quello che veramente vuoi. Potete pensare una donna meno libera di una che voglia diventare madre? Sicuramente, dopo che fa dei figli, una donna può sembrare meno libera. Ma non è vero che sia meno libera, se l’ha scelto lei. In una democrazia si può essere meno liberi che in una monarchia. Il problema è a monte, ma non si risolve col dogma. Va risolto a livello individuale: sta nel chiedere il perché a stessi, e non il come al mago. Noi concepiamo una società dove calpestare i nostri diritti è normale, è fisiologico, perché siamo permeati di pensiero magico.Prima di combattere gli effetti, esaminiamo le cause. La manipolazione non nasce come un fungo in un prato, è il frutto di una costruzione di società: qualcuno decide che può stare meglio se gli altri stanno peggio. Ma nemmeno nel potere c’è libertà. La libertà è nell’essere, nella realizzazione di se stessi, nei modi e coi tempi di ciascuno.Abbiamo costruito una società del pensiero magico, basata sulla velocità: se una cosa la capisci dopo, sei ritardato. Ma siamo sicuri che capire subito sia un valore? Siamo certi che chi capisce dopo non capisca meglio? Il nostro concetto di tempo non è legato a cose che abbiamo deciso noi, sono altri che hanno deciso che dobbiamo fare in fretta. E questo, perché noi non dobbiamo avere tempo per pensare, per scegliere. Sono meccanismi assolutamente magici. La prima cosa che ci dev’essere sottratta è il tempo. La seconda è la linearità del desiderio. Nei supermercati, a mezzogiorno diffondono profumo di pane per stimolarci a comprare di più. Fa tutto parte del pensiero magico: stabilisco il cerchio, che è la mia area commerciale, decido che tu devi comprare più roba e quindi utilizzo il meccanismo di manipolazione, che è l’odore del pane. Dobbiamo conoscere, non esistono scorciatoie: può cose uno conosce, più è in grado di capire all’interno di quali cerchi magici si trova, come ne può uscire e come può evitare di entrarne in altri. Ma la conoscenza ha bisogno di tempo. E noi quanto tempo dedichiamo a conoscere?Internet può essere una fonte di conoscenza, ma richiede tempo (e ce ne sottrae) perché ormai è diventato talmente vasto da essere dispersivo. In più, Internet elimina la conoscenza casuale. Se da Napoli vai a Milano in auto, Bologna la vedi. Se ci vai in aereo, te la perdi. Voglio il passo del Paradiso dove si parla dell’aquila? Digito, e mi compare direttamente quel passo. Senza Internet, no: te la devi leggere, la Divina Commedia. E intanto che leggi, conosci. Non bisogna fare di niente un valore assoluto. Via i paraocchi: tutto, interpretato in chiave assoluta, ci preclude delle possibilità. Se Internet ci preclude la possibilità di leggere la Divina Commedia, allora non va bene. Ognuno di noi, tanti anni fa, teneva un diario, che conservava per anni. Avete mai provato a scoprire su Facebook cos’avete scritto un anno fa? In pratica, il sistema vi si blocca: pensate a cosa vi toglie, tutto questo. Poi, per conoscere, la seconda cosa che conta, oltre al tempo, qual è? La memoria. Senza memoria non si conosce nulla. Per conoscere, archiviamo dati che poi colleghiamo. Se non archiviamo, non possiamo collegare. Cosa ci ha tolto Facebook? La memoria. Senza accesso al passato, non posso rileggere i fatti oggi ed evitare di commettere gli stessi errori di ieri.Facebook è una delle conseguenze dell’11 Settembre. Doveva essere una mega-progetto della Cia per schedare tutti gli americani. Ma costava un sacco di soldi, perché bisognava raccogliere i dati. Al che, un cervello della Cia si è alzato e ha detto: “Ma perché i dati li dobbiamo raccogliere noi? Facciamoceli dare”. E hanno risparmiato non so quanti miliardi di dollari. Hanno trovato un nazistello, Zuckerberg, a cui hanno intestato la cosa e gli hanno detto “fai i quattrini”, e hanno schedato tutto il mondo. Perché spendere miliardi per quei dati? Meglio se faccio in modo che i dati vengano a me. E’ un pensiero magico, no? Il ricercatore è il “magister”, quello a cui piovono le cose nel piatto è il “magus”. Questa società deve vendere: è basata su una produzione posticcia, esigenze posticce, un mercato posticcio. Una società normale, agricola, rurale, non mangiava carne ogni giorno: McDonald’s sarebbe fallito. Ma anche i vegani sono schiavi del pensiero magico: disegnano quello che non si può fare (tutto il mondo che diventa vegano) anziché quello che si può fare (consumi gradualmente più responsabili).Chi pensa a soluzioni radicali esprime il pensiero magico: nessuna soluzione può essere radicale, in un cerchio diverso dal cerchio magico. Il radicalismo porta a rimanere dove si è. Se invece usciamo dal recinto, di giorno in giorno possiamo porci degli obbiettivi raggiungibili. Se di ogni cosa che facciamo ci chiediamo il perché, possiamo evitare di essere vittima di un cerchio magico. E’ successo anche alla massoneria, quando ha accettato di diventare un organismo unico e centralizzato. Un progetto di potere: pensiero magico. Non sono gli uomini che fanno progetti di potere. E’ il potere che fa progetti di uomini. Il potere è un meccanismo, non è identificabile con la persona. Nel momento in cui la società è vocata al potere, al pensiero magico, questa società – indipendentemente da Sindona, Gelli o Totò Riina – va avanti così. E’ lo schema, che si riproduce, non le persone. Puoi arrestare Provenzano, ma poi ti ritrovi Messina Denaro: la regola vale per la mafia, per la politica, per la religione, per tutte le aggregazioni umane. Ed è una società che può peggiorare. Ve l’immaginate, cent’anni fa, un camorrista che seppellisce scorie tossiche dove gioca il figlio?Nonostante la scelta di essere delinquente, un mafioso non avrebbe mai potuto seppellire scorie nucleari dove giocano i figli. Adesso invece è immaginabile. Perché le scelte di potere sono solo peggiorative, non sono mai un’evoluzione positiva. Il massone del ‘700 è comunque meglio del massone di adesso. Perché il potere peggiora, corrompe. Abbatte valori, limiti, paletti, confini. Questa riflessione, oggi, è l’unico atto rivoluzionario che possiamo fare. La vera rivoluzione che possiamo fare è minare il sistema consumistico dalle sue radici, e le sue radici sono il potere. Nella misura in cui riusciamo a sottrarci al potere – al potere che ci vuol far comprare, al potere che ci toglie il tempo e non ci fa pensare – noi facciamo un’operazione realmente rivoluzionaria, dove non c’è bisogno di spargere del sangue. C’è bisogno però di faticare noi, di fare un percorso di conoscenza e di consapevolezza – faticoso, lento. Ma dobbiamo entrare nell’ottica per la quale tutto deve essere fatto per noi stessi, non per la proiezione che questa società fa di noi stessi.La new age oggi vende la “regola dell’attrazione”, che spinge ancora una volta a mettersi al centro del mondo, ma nessuno di noi è il centro del mondo. E’ un’operazione magica, mettersi al centro del mondo – per questo il mago disegna il cerchio: lui è il centro del cerchio. Smettiamo di disegnare cerchi, e cominciamo a pensare che esiste un unico, grande cerchio di cui noi siamo parte. E cominciamo anche a immaginare che la legge vera non è quella dell’attrazione (per cui noi attraiamo o respingiamo le cose) ma è la legge della complementarietà, per cui noi combaciamo con tutto il resto. Vi siete mai guardati allo specchio? Vi mostra come vi vedono gli altri. E se non mettete assieme come vi vedete voi e come vi vedono gli altri, non vedrete mai come siete veramente. Solo portando nell’ambito della conoscenza tutto quello che non conoscete, potere avere la vera dimensione del vostro essere. Siamo tessere di un mosaico (meraviglioso, peraltro) che, se stanno nei loro limiti, ci entrano perfettamente, in quel buchetto. Ed entrando in quel buchetto concorrono a una grande bellezza.(Gianfranco Carpeoro, estratti dall’intervento al convegno “La manipolazione dell’informazione e delle coscienze” tenutosi il 20 dicembre 2014 a Ercolano, con relatori come Paolo Franceschetti e Massimo Mazzucco. Giornalista e saggista, già avvocato e pubblicitario, Carpeoro è stato “sovrano gran maestro” della comunione massonica di Piazza del Gesù; studioso di esoterismo, è un grande esperto di storia antica e linguaggio simbolico).La manipolazione è una diretta conseguenza del potere: non c’è potere senza manipolazione. Ognuno fa quello che vogliono altri, perché è manipolato. L’errore che molti di noi commettono è quello di soffermarsi sulla manipolazione di cui ci accorgiamo, senza capire come nasce il potere. Se non si capisce come funziona il potere, non si può decodificare la manipolazione, che del potere è figlia. Nel libro “Dominio”, Francesco Saba Sardi spiega che il potere nasce quando l’uomo abbandona il nomadismo. L’uomo che non ha bisogno di conquistare, gestire, governare, coltivare e sfruttare la terra non ha neanche bisogno del potere. Quel bisogno nasce quando qualcuno diventa propritario di un territorio. E quel territorio lo governa, lo gestisce, lo difende, lo sfrutta economicamente. E come nasce, il potere? Per un passaggio obbligato: la guerra. Devo fare una guerra per conquistare un territorio, per difenderlo, per conservarlo. Prendermi la terra significa che devo fare la guerra. Per poi coltivarla e sfruttarla, questa terra, che diventa sempre più grande (non posso coltivarmela la solo), devo avere dei servi. E per avere dei servi devo aveve una religione. Alla fine, tutto questo, secondo Saba Sardi, si chiama “dominio”.