Archivio del Tag ‘mistificazioni’
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Tellinger: noi, specie schiava degli Dei venuti dallo spazio
«Siamo stati creati o ci siamo evoluti? La verità sta probabilmente nel mezzo, ed è sconvolgente». Lo afferma UnoEditori, nell’annunciare l’uscita per l’Italia del libro di Michael Tellinger “Specie Schiava degli Dei” (titolo originale: “Slave Species of the Gods”) con la prefazione di Mauro Biglino. «Tellinger ci dimostra come l’uomo sia frutto di una manipolazione genetica effettuata da una specie aliena, gli Anunnaki, per realizzare la loro missione sulla Terra». Lo confermerebbero scoperte spiazzanti, come i fossili di “umanoidi”: quel che resta degli antichi Figli delle Stelle? Attraverso un’analisi meticolosa e comparativa di testi antichi (sumeri e biblici) con moderne conoscenze, secondo l’editore «emerge un affresco storico che ricostruisce l’epopea dell’uomo, la sua relazione di schiavitù con gli “dèi” e la sua possibile riscossa e liberazione». La deduzione è drastica: «La storia ufficiale è una menzogna necessaria a far sì che l’umanità rimanga nell’ignoranza per continuare a servire i creatori». Secondo Tellinger, la specie umana è il risultato di una manipolazione genetica: l’Homo Sapiens sarebbe un ibrido ottenuto dall’incrocio tra Anunnaki e Homo Erectus. Esiste una radice comune all’origine di tutte le civiltà della Terra, e i miti – è la tesi del libro – sono di fatto il riflesso archetipico di realtà storiche, di eventi realmente verificatisi. Quanto al denaro, «è stato inventato dagli Anunnaki come strumento di controllo della razza umana».
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Quale 25 Aprile e quale Liberazione, nella Colonia Italia?
Ho superato il 25 aprile uscendo dalla culla di questo eterno presente, dalla quale, a noi pupetti, i pupari non fanno né vedere passato, né prospettare futuro. Eterna sospensione tra l’unico pensiero possibile, quello attuale, e l’unica tecnologia disponibile, quella digitale. Ho afferrato una radice e mi sono ritrovato sotto il monumento sul Gianicolo alle vittorie di Garibaldi sui francesi e alla memoria della Repubblica Romana (1848), poi annegata nel sangue dei patrioti e del popolo romano dalle monarchie francese, borbonica, austroungarica che Pio IX aveva invocato dal suo esilio a Gaeta (i bersaglieri gli avrebbero reso la pariglia a Porta Pia, vent’anni dopo). Priorità assoluta delle potenze, non diversamente da oggi, stracciare una Costituzione che a quella di esattamente cent’anni dopo poco aveva da invidiare e, dato l’ambiente europeo e la sua affermazione di sovranità, era perciò anche più meritevole. Un monumento che mi proteggeva dallo scroscio di toni enfatici e parole declamatorie grandinate dal Quirinale e rimbombate nella camera dell’eco che è la stampa italiana. Toni e parole all’apparenza del tutto rituali, generiche e banali, altisonanti, proprio come si retoricheggiava ai tempi di Lui, prendendo fiato a ogni periodo, passando dal grave all’imperativo nobile e finendo sull’intimidatorio per chi non dovesse darsela per intesa.Insomma, discorsi da Balcone, dalla cui pomposa prosopopea cerimoniale, nel caso specifico del tutto abusiva, immancabilmente esalano i vapori dell’ipocrisia e dell’autorità fondata su chiacchiere e distintivo. E a volte, su felpe e giubbotti, abusivi pure questi. Tutte cose che con i fasti evocati da lontano, sempre senza averne i titoli, abusivamente, hanno il compito di coprire i nefasti del presente e dei presenti. Non ho partecipato ad alcuna celebrazione, ufficiale o ufficiosa, trovandole tutte spurie e inquinate. Dal Quirinale a un’Anpi che condivide con tutte le sinistre la perdita di sé e che si mette ad arzigogolare sull’equivalenza tra nazifascismo e quello che i superrazzisti dell’Impero e delle sue marche definiscono razzismo. Mistificando per tale quello di chi smaschera l’operazione colonialista, detta globalizzazione, ai danni dei dominati del Sud e del Nord. Gli sciagurati sovranisti, identitari, refrattari alla levigatezza dell’uniformato. Seppure lo definiscano tale, non ne fa sicuramente parte Matteo Salvini, sovranista farlocco e sfascia-Italia del “prima gli italiani”, purchè si tratti di trafficoni eolici, trivellatori di terre e mari, sfondatori di valli e montagne, magna magna di ogni genere, cravattai lombardoveneti, insomma tutti i missi dominici dell’Impero.Genìa che è stata decisiva perché i risultati del 25 aprile fossero consegnati nelle mani e nelle borse dei nuovi invasori. Genìa maledetta. E’ stato lo spirito dei tempi coronati dal 25 aprile e subito successivi che ha innalzato l’Italia – dal fascismo squadrista frantumata in giovani obnubilati, popolo plebeizzato e impecoranato, federali in stivali e loro mignotte, intellettualità sedotta, asservita e abbandonata, brutalità ed elementarietà di azione e pensiero (salvo grandi architetti) – ai livelli di un passato come quello dei Leopardi e dei moti ottocenteschi. Che ha prodotto i Fenoglio, Calvino, Pavese, i De Sica, Rossellini, Monicelli, giganti che hanno nanificato, moralmente e culturalmente, tutto quello che è venuto dopo e che formicola a petto in fuori nei Premi Strega e Bancarella. Si può dire, e spiacerà ai nonviolenti, di vocazione o altro, che quello Zeitgeist, così generoso, è uscito dalla canna di un fucile.Da ex-direttore responsabile e inviato di guerra del quotidiano “Lotta Continua” e militante (a lungo latitante) di quell’organizzazione, che contro il fascismo aggiornato del consociativismo di regime, con il suo terrorismo di Stato, pure qualcosa ha fatto, mi permetto, nel mio piccolo e intimo, di ringraziare i partigiani tutti. Formazione di popolo. Più di tutti quelli garibaldini, e rigettare nel buco nero dell’esecrazione gli Alleati, che ai primi hanno sottratto e pervertito la vittoria, poi procedendo a sottrarre e pervertire ciò che di ogni vivente fa quello che è: la sovranità sua, della sua comunità, del suo passato, presente, futuro, nome. Di questo gli antifascisti da terrazzo, antisovranisti del re di Prussia, non sanno e non dicono, bisognosi come sono dei cartonati in camicia nera e saluto romano per occultare il fascismo global-digital-finanziario che li ha reclutati e di cui si sono inoculato il virus. Il che non mi impedisce, sia detto per inciso, di trasecolare a fronte di chi insiste a definire Piazzale Loreto “giustizia di popolo”.Stessa matrice. Oggi si vedono sul palcoscenico della commedia nazionale e occidentale, in grande spolvero, nuovi “antifascisti”. Ce ne sono addirittura di patrocinati da George Soros, che non si fa scrupoli di affiancarli all’altra sua creatura: “Me too”. Come sempre quando il pifferaio riesce a riunire e riconciliare in un’unica truppa ratti e bambini ignari, li si trovano, schiamazzoni e autocertificati, dall’estrema sinistra a quella vera destra che si dice vuoi centrosinistra, vuoi centrodestra. Virgulti, balilla e giovani italiane del Nuovo Ordine Mondiale, puntano quello che in artiglieria viene chiamato “falso scopo” (e il puntamento indiretto verso un obiettivo non individuabile a vista). In parole semplici, additando un chihuahua ringhiante nei bassifondi ideologici urbani, si urla “al lupo, al lupo”, con l’effetto di distogliere la nostra mira dal lupo mannaro vero che tiene al guinzaglio chi urla. (Chiedendo scusa al lupo per la becera metafora fiabesca. E ricordando che il ministro dell’ambiente 5 Stelle, Costa, proibisce di abbattere i lupi, mentre Salvini, forte di mitraglietta, ne autorizza l’abbattimento: fatto che contiene in nuce tutto il significato delle temperie in cui il post-25 aprile, tradito come nemmeno il presunto Giuda il presunto Gesù, ci ha ingabbiato e nelle quali, o i 5 Stelle staccano la spina, o rischiamo il corto circuito e il black out loro e di tutti noi).Il discorso della Liberazione va ripreso ab imis fundamentis. E’ per questo che ho spostato le mie commemorazioni-celebrazioni a due giorni dopo, il 27 maggio del 1937. E il giorno tristissimo della morte di Antonio Gramsci (io c’ero già e ricordo una serie di quaderni di mio padre con sopra, imparai dopo, le immagini, tra altre, di Marinetti, D’Annunzio, Gozzano, Leopardi e Gramsci). Non significa niente, ma sono contento di esserci già stato quando ancora viveva Gramsci. E’ insensato, ma mi pare che così sono in qualche modo contemporaneo e, quindi, più partecipe di quel “popolo” a cui questo sardo degno della sua terra ha ridato un nome, un’identità, un progetto, nel tempo che più lo ha visto conculcato, mistificato, sviato da una storia che era iniziata con Dante, che aveva serpeggiato per secoli e che si era rifatta prorompente con la Repubblica Romana e le altre affini, incancellabili madri dei nostri partigiani. Come Anita Garibaldi, che, sul colle Gianicolo, sparava ai francesi rinnegati, lo è specificamente delle nostre partigiane. E come lo era anche delle brigate femminili alla Comune di Parigi (dove c’erano pure i dai neoborbonici esecrati garibaldini!). Che nessun movimento o gruppo femminista ricorda e onora, preferendo icone tipo Hillary o Boldrini.(Fulvio Grimaldi, “Quale 25 aprile. Quale 27 aprile. Quale liberazione”, dal blog di Grimaldi del 26 aprile 2019).Ho superato il 25 aprile uscendo dalla culla di questo eterno presente, dalla quale, a noi pupetti, i pupari non fanno né vedere passato, né prospettare futuro. Eterna sospensione tra l’unico pensiero possibile, quello attuale, e l’unica tecnologia disponibile, quella digitale. Ho afferrato una radice e mi sono ritrovato sotto il monumento sul Gianicolo alle vittorie di Garibaldi sui francesi e alla memoria della Repubblica Romana (1848), poi annegata nel sangue dei patrioti e del popolo romano dalle monarchie francese, borbonica, austroungarica che Pio IX aveva invocato dal suo esilio a Gaeta (i bersaglieri gli avrebbero reso la pariglia a Porta Pia, vent’anni dopo). Priorità assoluta delle potenze, non diversamente da oggi, stracciare una Costituzione che a quella di esattamente cent’anni dopo poco aveva da invidiare e, dato l’ambiente europeo e la sua affermazione di sovranità, era perciò anche più meritevole. Un monumento che mi proteggeva dallo scroscio di toni enfatici e parole declamatorie grandinate dal Quirinale e rimbombate nella camera dell’eco che è la stampa italiana. Toni e parole all’apparenza del tutto rituali, generiche e banali, altisonanti, proprio come si retoricheggiava ai tempi di Lui, prendendo fiato a ogni periodo, passando dal grave all’imperativo nobile e finendo sull’intimidatorio per chi non dovesse darsela per intesa.
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Ma siamo meno provinciali e cialtroni di chi fustiga l’Italietta
Possiamo pensare qualunque cosa sul Memorandum d’Intesa tra Italia e Cina (e gli accordi derivati) firmato qualche giorno fa a Roma. Che siano sbagliati, che siano giusti, che siano utili all’Italia o dannosi, che siano il cavallo di Troia della Cina per impossessarsi dell’Europa o che siano una opportunità storica per l’Europa stessa. E’ legittimo tutto. Tranne una cosa. Sostenere, in qualunque modo, anche solo per ischerzo, che un piccolo mediocre malamente alfabetizzato come Macron possa dire qualcosa di sensato. Alla stessa maniera di come è impossibile pensare che abbia detto qualcosa di sensato, in qualunque ambito, il suo predecessore Hollande, un altro mediocrissimo piccolo burocrate di partito che verrà ricordato solo per avere distrutto il Partito socialista francese. O, ancora peggio, pensare che abbia detto qualcosa di vagamente intelligente un filibustiere di pessimo conio dal nome Sarkozy, quello che ha voluto bombardare Gheddafi non prima di averci fatto affari miliardari. E’ un vezzo di chiunque solchi le porte dell’Eliseo immaginarsi Napoleone e immaginare la Francia ancora un Impero e non invece il piccolo paese provinciale quale è, come e peggio dell’Italia per certi (e non pochi) versi.La recente reprimenda sugli accordi italiani con la Cina di Macron all’Italia è l’ultimo esempio di una serie di cialtronate che questi presidenti, che sconoscono la parola “vergogna”, hanno prodotto negli ultimi quindici anni. Manco il tempo di dire all’Italia che gli accordi con la Cina non si fanno perché la Cina è pericolosa e che non rispetta i diritti umani che Macron, questo manichino semovente dall’aria sempre inutilmente pensosa, firma contratti miliardari con questa. Questo finto, fasullo fino al midollo, “europeista” è convinto di essere un grande statista e il salvatore della causa europea. E’ convinto che l’asse franco-tedesco sia l’argine ai “populismi”. E’ convinto di essere il più intelligente e in gamba di tutti e che, grazie a lui, la “casa europea” si salverà. Ignaro, per manifesta limitatezza intellettuale, che la fine prossima ventura di questa Europa è dovuta prima di tutto alla ipocrisia congenita, al nazionalismo travestito da europeismo, al colonialismo truccato da cooperazione internazionale, all’osanna al finanzcapitalismo spacciata per sviluppo, al doppiopesimo dei diritti umani che i maggiori paesi dell’Unione come la Francia, la Gran Bretagna e la Germania da sempre testimoniano convintamente al seguito del più ipocrita paese del mondo, gli Usa.In Italia al governo abbiamo gente mediocre, a tratti cattiva, scadente politicamente e umanamente; ma si tranquillizzino quelli che a ogni piè sospinto parlano di “italietta”, “italioti”, “repubblica delle banane” e cretinate del genere. Fossero meno provinciali, o provinciali quanto quelli che stanno oltre le Alpi, si accorgerebbero in meno di un minuto che l’Italietta è in ottima compagnia con la germanietta, la francetta, l’inghilterretta e tutto il resto del lordume liberista che vi si accompagna.(Turi Comito, “Francetta e Italietta”, dalla pagina Facebook di Comito. Intervento ripreso il 26 marzo 2019 da “Megachip”, che lo affianca a un video-editoriale pubblicato sempre su Facebook da Pino Cabras, dal titolo “Come si dirà, in francese, Chiagni e Fotti?”, sempre incentrato sulla surreale uscita di Macron contro l’accordo economico Italia-Cina).Possiamo pensare qualunque cosa sul Memorandum d’Intesa tra Italia e Cina (e gli accordi derivati) firmato qualche giorno fa a Roma. Che siano sbagliati, che siano giusti, che siano utili all’Italia o dannosi, che siano il cavallo di Troia della Cina per impossessarsi dell’Europa o che siano una opportunità storica per l’Europa stessa. E’ legittimo tutto. Tranne una cosa. Sostenere, in qualunque modo, anche solo per ischerzo, che un piccolo mediocre malamente alfabetizzato come Macron possa dire qualcosa di sensato. Alla stessa maniera di come è impossibile pensare che abbia detto qualcosa di sensato, in qualunque ambito, il suo predecessore Hollande, un altro mediocrissimo piccolo burocrate di partito che verrà ricordato solo per avere distrutto il Partito socialista francese. O, ancora peggio, pensare che abbia detto qualcosa di vagamente intelligente un filibustiere di pessimo conio dal nome Sarkozy, quello che ha voluto bombardare Gheddafi non prima di averci fatto affari miliardari. E’ un vezzo di chiunque solchi le porte dell’Eliseo immaginarsi Napoleone e immaginare la Francia ancora un Impero e non invece il piccolo paese provinciale quale è, come e peggio dell’Italia per certi (e non pochi) versi.
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Solo il Papa Buono si oppose all’orrore Usa in America Latina
Che l’America Latina debba essere proprietà privata degli Stati Uniti fu deciso nel 1823 dal presidente americano James Monroe, che nella sua celebre “dottrina” già aveva definito le terre che vanno dal Messico alla Patagonia come proprietà naturale degli Usa, cioè terre che per una “naturale legge di gravità politica” sarebbero prima o poi cadute nel “giardino di casa” di Washington (citaz. Chomsky). L’unico ostacolo, prevedeva Monroe, erano gli inglesi, le cui flotte erano a quel tempo troppo potenti per permettere la conquista yankee, ma che prima o poi si sarebbero ritirate, predisse il presidente. E infatti è accaduto. Quello che sta succedendo in queste ore in Venezuela è, in una sua parte, banale: il Padrone non molla mai, e siamo da capo, cioè all’intervento illegale N. 300 degli Stati Uniti in America Latina secondo la dottrina di Monroe. Naturalmente, agli Usa devono conformarsi i vassalli – cioè gli Stati latinoamericani oggi in mano a pupazzi del Fondo Monetario Internazionale, come il gruppo di Lima, poi la Gran Bretagna e anche noi della Ue. E la cosa farsesca è che, mentre in America si strilla isterici per le presunte interferenze di Putin a favore di Trump, accade che come nulla fosse il ministro degli esteri americano Mike Pompeo telefona al neo-autoproclamato presidente del Venezuela, Juan Guaidò, 24 ore prima dell’annuncio della sua candidatura a presidente. Ma va’?Prima domanda: “Ma se Pompeo fa questo, allora perché Putin non avrebbe potuto telefonare a Trump 24 ore prima dell’annuncio della sua candidatura?”. Poi, la risposta alla domanda “cosa si saranno detti?” la si può fare a una scatoletta di tonno, fiduciosi di avere la risposta giusta. E siccome è noto che – da Kennedy, finanziatore dell’orrendo golpe in Brasile; a Kissinger, finanziatore dei golpe dappertutto; passando per Carter e Reagan, torturatori del Nicaragua in particolare; i Bush contro Haiti in particolare; Bill Clinton, finanziatore degli squadroni della morte in Colombia; fino a Obama, sostenitore del golpe in Honduras e armatore della nuove basi militari – siccome è noto che, dicevo, Washington ci tiene così tanto agli ideali democratici che vanno esportati nel suo “giardino di casa”, è notizia di oggi che Mike Pompeo ha nominato il “neocon” Elliot Abrams come suo inviato speciale in Venezuela, giusto per dar l’impressione di essere equidistanti. Abrams è un neo-nazista, un pregiudicato (graziato da Bush I), che ha finanziato il genocidio in Guatemala del generale Rios Montt, che ha passato le bustarelle dello scandalo Iran-Contras sotto Reagan e che organizzò il fallito golpe contro Chavez nel 2002. E’ “the Monroe doctrine on steroids”, si direbbe in slang.Ma vedete, l’articolo N. 231 di oggi sul Venezuela e tutti i dettagli da Google-journalism non vi servono a molto. Piuttosto va dato ancora un po’ di retroterra per capire Maduro e come uscirne. In un indicibile paradosso, le tragedie dell’America Latina iniziarono nel XVI secolo con la conquista nel nome del Vaticano, ma ebbero la loro unica speranza di terminare proprio grazie al Vaticano, quello del Concilio Secondo di Papa Giovanni XXIII nel 1959. Fra le maggiori istanze che esso annunciò, ve n’era una di portata rivoluzionaria scioccante: l’opzione della Chiesa dei Poveri. Dall’infame Costantino, nel IV secolo, la Chiesa aveva scelto senza ombra di dubbio l’opzione per i ricchi e per i potenti e il tripudio per lo sterminio dei poveri e dei dissidenti, non stop per i 1.700 anni successivi anni fino al grande Papa Giovanni XXIII (poi ci è ricascata, ahimè). Questo pontefice, invece, di colpo invertì gli ordini di squadra: no, disse, la Chiesa ora sceglie i poveri. Quasi nessuno qui da noi ci fece molto caso; ovvio, eravamo italiani in pieno boom economico. Ma nell’America Latina invece il messaggio del Concilio Secondo prese piede in modo sorprendente sotto forma della Teologia della Liberazione. Cos’era?In due parole: si trattò di ampi numeri di preti e suore, e qualche rarissimo caso nei ranghi ecclesiastici superiori, che proprio ispirati dal Concilio Vaticano Secondo si spogliarono di ogni bene e semplicemente fecero quello che fece Cristo, cioè lottarono nelle bidonville dei poverissimi, morirono per e accanto a loro, e ovviamente entrarono in aperto conflitto con i superiori, cioè i loro vescovi, arcivescovi e cardinali, fra cui anche il buon Bergoglio. Nota: lunga e fetente storia per questo mistificatore, che sempre tenne i piedi in 3 staffe. Un minino stette coi suoi gesuiti teologi della liberazione (ne tradì due in circostanze orribili e silenziò molti altri), ma poi in maggioranza stette invece zitto con le dittature, e alla fine fu un fedele facilitatore del Fondo Monetario Internazionale di Washington fino al Papato. Ma torniamo alla storia. Nel 1962, il venerato (da voi…) presidente Usa J.F. Kennedy notò questi clamorosi fatti e scosse il capo. Ma scherziamo? Adesso ’sti quattro preti straccioni si mettono a fare i “socialisti” contro gli interessi degli investitori americani? Ma che crepino (non poté “prepensionare” Giovanni XXIII perché era troppo popolare).Quindi Kennedy per primo (ma nel mezzo fu assassinato) e poi il suo successore Lyndon B. Johnson diedero il semaforo verde (per usare un’espressione tutta americana) al peggior terrore neonazista della storia del Brasile, quando con la cacciata del democratico Goulart i militari ripresero il potere nel paese (1964) inaugurando la notoria stagione del National Security States, quella cioè dei golpe fascisti latinoamericani per tre decadi successive. Nei files segreti dell’epoca, oggi desecretati e disponibili presso i National Security Archives di Washington, si possono leggere le euforiche parole dell’ambasciatore statunitense in Brasile Lincoln Gordon, un uomo del “democratico” Kennedy, che definì il golpe dei torturatori «una grande vittoria per il mondo libero» e «un punto di svolta per la storia» (un intero capitolo del mio “Perché ci odiano” della Rizzoli è dedicato a questi abomini). Spiacenti, caro Papa Giovanni XXIII, la tua Opzione per i Poveri deve morire, disse Jfk. E fu olocausto di massacri, torture, campi di concentramento, furti di risorse per trilioni di dollari, tutto di fila in America Latina fino alla fine anni ’90 e proprio a partire dalla nascita della Teologia della Liberazione laggiù.Fra l’altro quest’anno ricorre il 30esimo anniversario di uno degli ultimi atti di macellazione post-Jfk della giustizia in America Latina, cioè la strage di sei accademici gesuiti teologi della liberazione e di due loro domestiche da parte degli squadroni della morte Atlacatl in Salvador nel 1989. Nota: col benestare evidente e più volte espresso nei fatti dell’infame Papa Wojtyla, l’uomo piantato a Roma da Washington non solo per abbattere l’Urss ma proprio per disintegrare l’Opzione per i Poveri in America Latina, visto che rodeva nelle tasche delle corporations, degli hedge funds e degli asset manager americani (e nostri). E arriviamo a Maduro oggi, passando, come già scritto sopra, per tutti i presidenti Usa di fila che mai hanno smesso di finanziare e armare ogni porcheria antidemocratica a sud del Texas (ripeto: da Kennedy, finanziatore del golpe in Brasile; a Kissinger, finanziatore dei golpe dappertutto; passando per Carter e Reagan, torturatori del Nicaragua in particolare; i Bush contro Haiti in particolare; Bill Clinton, finanziatore degli squadroni della morte in Colombia; fino a Obama, sostenitore del golpe in Honduras e armatore della nuove basi militari).Washington non molla, e oggi col naufragio delle rivoluzioni “bolivariane” in America Latina, siamo a questa realtà: l’85% del continente è tornato nelle mani delle destre-stuoini del Fondo Monetario. Ma qui l’onestà intellettuale impone un “ma”… Verissimo che la guerra di sanzioni americane contro Cuba e Venezuela è un abominio della legalità internazionale e ruba miliardi all’anno a quei due paesi. Verissimo che la fetente lustrascarpe del Fmi, cioè la Ue, non è capace di un belato di giustizia internazionale da nessuna parte (Palestina, Siria, Egitto, Yemen, America Latina) mentre ruggisce contro le pecorelle Piigs. Verissimo che quella che fu la culla della democrazia, la Gran Bretagna, ha di nuovo sputato sulla propria storia bloccando l’oro di Maduro in un momento drammatico per il Venezuela. Ma… è altrettanto verissimo che l’America Latina, almeno nella leadership (ma non solo), non ce la può fare, come si dice gergalmente. E inizio da questo: sono “cattolici dentro”, anche quando sono comunisti. Dal 2001/2 fino a ieri, le sinistre latinoamericane hanno avuto in mano quasi tutto per salvare il continente e per finalmente usare le loro immani risorse e le loro monete sovrane sganciate dal dollaro per rafforzare la base sociale povera, cioè il 90% degli elettori.Gli Usa erano in ritirata ormai decennale sia economica che militare, e in affanno, anzi, panico, proprio mentre dall’altra parte esplodeva il potere degli “astri benevoli” dell’America Latina di sinistra, cioè Cina e Russia a far da contraltare. Ma cosa è successo invece? Siamo minimamente onesti, per favore: i leader latinoamericani hanno sbagliato economie nel 100% dei casi, e con una pervicacia sbalorditiva, limitandosi a programmi-elemosina per la base sociale povera, cioè il 90% (vi ricorda qualcuno? RdC?). Hanno fatto parrocchie a sinistra come a destra nel 100% dei casi. Come ogni bravo “cattolico dentro” sono stati ipocriti da vomitare, corrotti da barzellette, e alla fine (in Brasile in modo cosmico) hanno rubato il rubabile. Chiunque non sia un partigiano in malafede si è accorto che sia in Brasile ma soprattutto in Venezuela l’elettorato di maggioranza detesta la sinistra come la destra, derubato e tradito da entrambi, oggi. Nomi come Maduro e Guaidò non rappresentano più nulla, sono screditati alla morte, e figurano solo nei media per via di quel 10% a testa di esagitati che riescono ancora a far comparire davanti alle telecamere in piazza, mentre l’80% sta a casa a sbattere la testa contro il muro. Quindi?Quindi di certo nel mondo dei sogni andrebbe messo uno stop immediato ai 196 anni d’illegalità della dottrina Monroe (con la pietosa Ue al seguito); di certo l’unica via è oggi il negoziato, visto che laggiù la scelta realistica per quella povera gente è fra lo schifo di Maduro e lo schifo di Guaidò. Ma come sempre dico in quasi totale isolamento da decenni (come nel caso dei paesi africani), finché le sinistre, intese come base di popolo, non accetteranno di guardarsi dentro e di capire come hanno fatto a diventare ovunque nel mondo delle tali schifezze, mafie, parrocchie e traditrici di lotte centenarie, possiamo pure continuare a gridare “yankee go home!”, ma in America Latina le maggioranze continueranno a sbattere la testa contro il muro. O le sinistre imitano l’immenso atto di autocritica di Giovanni XXIII e anch’esse ritornano a una vera storica Opzione per i Poveri (si spera con maggior successo oggi), oppure non si andrà da nessuna parte (neppure qui da noi).(Paolo Barnard, “Da Monroe a Papa Giovanni XXIII a Kennedy, fino a Obama, e allora si capisce il disastroso Maduro”, dal blog di Barnard del 29 gennaio 2019).Che l’America Latina debba essere proprietà privata degli Stati Uniti fu deciso nel 1823 dal presidente americano James Monroe, che nella sua celebre “dottrina” già aveva definito le terre che vanno dal Messico alla Patagonia come proprietà naturale degli Usa, cioè terre che per una “naturale legge di gravità politica” sarebbero prima o poi cadute nel “giardino di casa” di Washington (citaz. Chomsky). L’unico ostacolo, prevedeva Monroe, erano gli inglesi, le cui flotte erano a quel tempo troppo potenti per permettere la conquista yankee, ma che prima o poi si sarebbero ritirate, predisse il presidente. E infatti è accaduto. Quello che sta succedendo in queste ore in Venezuela è, in una sua parte, banale: il Padrone non molla mai, e siamo da capo, cioè all’intervento illegale N. 300 degli Stati Uniti in America Latina secondo la dottrina di Monroe. Naturalmente, agli Usa devono conformarsi i vassalli – cioè gli Stati latinoamericani oggi in mano a pupazzi del Fondo Monetario Internazionale, come il gruppo di Lima, poi la Gran Bretagna e anche noi della Ue. E la cosa farsesca è che, mentre in America si strilla isterici per le presunte interferenze di Putin a favore di Trump, accade che come nulla fosse il ministro degli esteri americano Mike Pompeo telefona al neo-autoproclamato presidente del Venezuela, Juan Guaidò, 24 ore prima dell’annuncio della sua candidatura a presidente. Ma va’?
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Cottarelli e Macron, il vero partito che rema contro l’Italia
Attenti a Carlo Cottarelli: non lavora per l’Italia, ma per il “partito” trasversale (italiano) che vuole mantenere il nostro paese in crisi perenne. Un avvertimento che, sul “Sussiadiario”, Federico Ferraù rilancia, intervistando il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale all’Università Cattolica di Milano. Pur senza essere esplicitamente nominato, l’ex commissario alla spending review del governo Letta – ormai ospite fisso dei maggiori talkshow, incluso il salotto televisivo di Fabio Fazio – è definito “Manciurian candidate”, cioè cavallo di Troia e quinta colonna di poteri esterni al nostro paese. Letteralmente: «Un economista che rilascia interviste da premier in pectore, facendo della riduzione del deficit e del debito il comandamento di una religione secolare». Tutto questo, «in attesa che il patto M5S-Lega si rompa, magari con l’aiuto del Colle», cioè di quel Mattarella che la candidatura Cottarelli l’aveva agitata come minaccia, in alternativa a quella di Conte, subito dopo aver bocciato la proposta di Paolo Savona come ministro dell’economia. Neoliberista, a lungo dirigente del Fmi, Cottarelli è considerato – insieme a Mario Draghi, allora dirigente di Goldman Sachs – uno dei maggiori responsabili della catastrofe abbattuasi sulla Grecia. Da tempo ci prova anche con l’Italia. La sua ricetta? Quella di Monti: deprimere l’economia tagliando il deficit. Agisce da solo, Cottarelli? Niente affatto: si muove in tandem con Emmanuel Macron.Lo stesso Ferraù definisce l’inquilino dell’Eliseo «un antipopulista a vocazione continentale che fa il populista alla bisogna, approfittando del fatto che il suo paese è ancora troppo importante per fallire». Macron e Cottarelli, sottolinea il professor Mangia, fanno parte dello stesso disegno anti-italiano: non ordito “dalla Francia” o “dalla Germania”, bensì da un cartello di poteri economici, che agiscono – inseguendo esclusivamente i propri interessi privatistici – all’insaputa degli stessi francesi e tedeschi. «In realtà – afferma Alessandro Mangia – ad essere vincitore, oggi, in Europa, è soltanto un blocco industriale e finanziario che dall’unificazione europea ha tratto solo vantaggi e ha distribuito gli svantaggi in modo più o meno equo tra i vari paesi d’Europa». Oggi Macron annuncia un’espansione del deficit francese, mentre Cottarelli tuona contro la ventilata (minima) crescita del disavanzo italiano? Niente di strano: quei poteri hanno bisogno che la Francia non crolli, per questo le consentono di sostenere la propria economia con una dose maggiore di debito pubblico. L’Italia, invece, “deve” crollare: a questo servono le prediche a reti unificate di Cottarelli, contro l’aumento della spesa invocato da Di Maio e Salvini per finanziare Flat Tax, pensioni e reddito di cittadinanza. La filosofia di Cottarelli? Quella, fallimentare, del Fmi: se infatti si taglia la spesa produttiva, decresce automaticamente il Pil e l’economia peggiora, aggravando il peso del debito pubblico.Dopo che Macron ha comunicato di voler aumentare il deficit fino al 2,8% per tagliare 25 miliardi di tasse, Di Maio ha detto: «Facciamo anche noi il 2,8% come loro». Domanda: perché l’Italia non può imitare i francesi? «Perché la Francia, nell’assetto attuale d’Europa – spiega Mangia – è un elemento essenziale per la tenuta del sistema di potere che si è instaurato dopo la crisi del 2010-2011». E quindi, chiarisce il professore, le va lasciato margine di manovra. Anche perché, senza la foglia di fico (francese) del famoso “asse franco-tedesco”, sarebbe evidente a tutti chi domina e chi è dominato, in Europa: «E l’Europa si ridurrebbe alla sola Germania e ai suoi sottoposti». In altre parole: in cambio di una parte in commedia, alla Francia viene lasciata maggiore libertà di bilancio. Solo che, «stanti le caratteristiche strutturali della moneta unica», questa maggiore libertà «si traduce in maggior debito e maggior deficit sull’estero». La spesa aggiuntiva francese, argomenta Mangia, viene fatta acquistando beni esteri — cioè tedeschi e italiani — perché costano meno di quelli francesi. Sicché, Macron potrà anche «tirare a campare, politicamente, come ha cercato di fare Hollande con l’esito che sappiamo», ma non farà altro che «aggravare la situazione e accumulare passivi sull’estero».E questo, sottolinea il professore, è esattamente ciò che succede da anni alla Francia, che «dopo sforamenti superiori al 5% (che noi ci sogneremmo) è su una china assai peggiore di quella dell’Italia: solo che non si può dire, se no viene giù tutta la messinscena dell’asse franco-tedesco e non si può più fare la voce grossa con Italia e Spagna». In più, se Bruxelles è di manica larga con Parigi, è anche per sostenere il suo uomo – Macron – ormai inviso al 70% dei francesi. La Francia, ricorda Alessandro Mangia, da oltre 10 anni sfora il tetto del 3% sul rapporto debito-Pil. Il paese è stabilmente in disavanzo commerciale sull’estero. Inoltre «ha un debito pubblico prossimo al 100% con un trend di stabile crescita e un volume superiore a quello italiano». La disoccupazione è stabile al 9% (in Italia è attorno all’11) con una manifattura «ormai secondaria, nel continente». Ancora: la Francia «è in stato d’emergenza dai tempi del Bataclan, e cioè dal novembre 2015, e ne è uscita (a parole) con il trucchetto di trasformare la legislazione d’emergenza in legislazione ordinaria, con quel che ne viene in termini di poteri della polizia su libertà personale e di riunione». Non solo: la Francia «riesce ad avere un governo solo grazie agli artifici di una legge elettorale a doppio turno, fatta apposta per drogare il consenso del vincitore».Come se non bastasse, l’Eliseo «sta cercando di approvare una riforma costituzionale osteggiata persino in quell’Assemblea nazionale dove la maggioranza drogata di “En Marche” dovrebbe essere netta e sicura». A fronte di tutto questo, aggiunge il professor Mancia, come stupirsi del fatto che Macron abbia problemi di popolarità? Tutto sommato, aggiunge, a Macron «sta andando ancora bene», se consideriamo che quel presidente, eletto in quel modo e con quell’esiguo consenso, «si è messo in testa di fare ai lavoratori francesi quello che è stato fatto ai lavoratori italiani dai governi Monti e Renzi in nome di “debito” e “competitività”, senza tener conto del fatto che sciopero generale e resistenza popolare fanno parte del mito repubblicano su cui si regge la Francia». Gli scandaletti come quello che ha coinvolto Macron e la sua guardia del corpo Alexandre Benalla? Un pretesto fisiologico per esprimere la protesta contro le scelte (politiche, non private) del presidente, «in un sistema istituzionale bloccato dalla mancanza di un voto di sfiducia, come è quello presidenziale della V Repubblica», dove «l’unico modo di liberarsi di un presidente è quello di costringerlo alle dimissioni». Mancando la possibilità del voto parlamentare di sfiducia, «poi si finisce con il parlare di stagiste e guardie del corpo come se fossero affari di Stato».Ma la Francia ha comunque due potenti frecce al suo arco: i 500 miliardi di euro che sottrae ogni anno a 14 ex colonie africane, più il fatto di essere rimasta – dopo la Brexit – l’unica potenza nucleare europea. «Nonostante le figuracce rimediate in Siria», afferma Mangia, la Francia è l’unica nazione in Europa a disporre di un deterrente nucleare, Per questo «è essenziale per calciare il barattolo europeo in avanti, parlando di Unione di Difesa, sessant’anni dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesa». Tant’è vero che da qualche settimana, in Germania, «si parla di munire la Bundeswehr di armi nucleari tattiche, per non lasciare il monopolio del nucleare alla Francia». Il che, aggiunge Mangia, «dà la misura di quanto le attuali classi politiche europee siano stralunate, fino a diventare visionarie, ipotizzando un futuro indipendente dall’ombrello Usa», come se la Nato non esistesse più. E comunque, «la Francia è l’unico Stato dell’Unione ad avere una proiezione extracontinentale, vuoi per i territori d’oltremare, vuoi per l’aggancio valutario dei paesi subshariani attraverso il sistema del franco Cfa, perfettamente convertibile in euro a condizione che le ex-colonie depositino metà delle loro riserve valutarie in un conto in Francia».E guarda caso, puntualizza il professor Mangia, «stiamo parlando di quegli stessi paesi che da qualche anno ci inondano di profughi che naturalmente scappano da fame e guerra». Che la Francia abbia qualcosa a che fare con quello che viene presentato come un inarrestabile evento naturale che si produce – combinazione – proprio nelle sue ex colonie? «Non possiamo stupirci che, nell’insieme, la Francia abbia ancora un margine di manovra di fronte alla Commissione in tema di bilancio», ribadisce il professore. «A reggere la Francia è la sua proiezione di potenza, non la sua economia, che è messa male almeno quanto la nostra, anche se per ragioni diverse». E che posto ha l’Italia in questo gioco di poteri? «La Francia serve alla Germania, anche se l’unico paese dove può espandersi è ormai soltanto l’Italia, naturalmente con l’attiva collaborazione di buona parte delle nostre élites politiche». Fateci caso, osserva Alessandro Mangia: «Avete mai visto quanti e quali esponenti politici italiani sono stati insigniti della Legion d’onore? E’ impressionante». Tra i nomi più in vista svettano quelli di Massimo D’Alema e Franco Bassanini, Emma Bonino, Piero Fassino e Walter Veltroni, Dario Franceschini, Enrico Letta. E poi il renziano Sandro Gozi, Giovanna Melandri, Roberta Pinotti, Romano Prodi, i sindaci milanesi Giuliano Pisapia e Beppe Sala.«Qualcuno si è mai chiesto – si domanda Mangia – per quali ragioni la Francia dovrebbe conferire quella che, dai tempi di Napoleone, è la massima onorificenza della nazione a una schiera di politici italiani? Solo per spirito europeo?». L’amara verità, aggiunge il professore, è che in questa Europa ci sono paesi «più sovrani degli altri». Il risultato? E’ sotto i nostri occhi: ormai, a votare in massa per i cosiddetti sovranisti, o populisti – in Italia ma anche in Francia, Germania, Austria, Svezia – è quello che fino a dieci anni fa era ancora “ceto medio”, e oggi, «oltre ad essere impoverito, è insultato quotidianamente sui giornali». Viene bollato come “ignorante, incolto e xenofobo”, da quegli stessi media che accolgono come rivelazioni sensazionali le palesi falsità spacciate da Cottarelli, che “vende” come virtù il “risparmio” nei conti pubblici, paragonando il bilancio statale a quello di una famiglia o di un’azienda. «Semplici slogan che non hanno nessun fondamento economico», protesta Alessandro Mangia: «Gli Stati, se sono Stati, non possono essere equiparati a una famiglia per il semplice fatto che, in genere, le famiglie non possono stamparsi il denaro che gli serve per vivere, mantenersi e investire. Gli Stati, se sono davvero Stati, la moneta se la stampano. E il limite è dato da congiuntura economica e andamento generale dell’economia, come è sempre stato in Italia fino al divorzio Tesoro-Bankitalia».Il punto, aggiunge il professore, è che «la moneta unica ha ridotto gli Stati a dover dipendere dai fornitori di moneta, esattamente come le famiglie, e ha trasformato il debito virtuale di uno Stato nel debito reale di una collettività». E’ stato questo il vero passaggio dalla valuta nazionale all’euro: si è ottenuta «la creazione di un debito reale in capo alle collettività nazionali, in cambio di un ribasso temporaneo dei tassi di interesse». Dovremmo “ringraziare” a lungo chi ci ha portati in questa situazione, «che ha ucciso ogni libertà politica». E cioè: ha ucciso «la libertà di scegliere le politiche da praticare con l’esercizio del diritto di voto». Svuotamento della democrazia: «Certo, oggi si può ancora votare – aggiunge Mangia – ma alla fine le scelte possibili sono solo quelle dettate dalle regole europee sul bilancio. E mi sembra che i discorsi di questi giorni sullo “zero virgola” e sulla dialettica Tria-Di Maio ne siano la più perfetta dimostrazione». Ribellarsi a questo falso paradigma, basato sulla mistificazione ideologica del neoliberismo? Facile a dirsi, ma prima bisogna sbarazzarsi del cartello-ombra costituito da potenti connazionali che “remano contro” il nostro paese.«Esiste un partito, che diviene sempre più incalzante – scrive Ferraù, sul “Sussidiario” – per il quale il taglio del debito è divenuta una ricetta trans-economica, un credo, un obbligo morale, un modo di salvare l’Europa e l’Italia attenendosi, senza se e senza ma, alle direttive di Bruxelles e di Berlino». Come potrebbe spuntarla, il governo gialloverde, se il ministro Giovanni Tria appare sempre più nella veste del “pilota automatico”, sulle orme di Mario Draghi? Come ogni ministro del bilancio da Maastricht in poi, cioè dal 1992 – dice il professor Mangia – anche Tria «si trova a dover mediare tra quelle scelte politiche che i cittadini credono ancora di fare, quando vanno a votare, e i vincoli che la Commissione impone al bilancio, interpretando, modulando, calibrando i vincoli formali, dal Patto di Stabilità al Fiscal Compact». Gli interlocutori di Tria? «Non sono solo Di Maio e Salvini, ma la Commissione e gli altri ministri dell’Eurogruppo, che sono lì solo per fare gli interessi dei paesi di provenienza». L’unica domanda è: «Quand’è che noi smetteremo di fare gli interessi degli altri e di produrre – malamente, e con quello che passa il convento, che non è proprio granché – i nostri piccoli “Manchurian candidates”, cui affidare la continuazione di queste politiche? All’orizzonte ne vedo almeno uno», chiosa il professore. Non ne fa il nome, non ce n’è bisogno: per scoprire chi è basta accendere il televisore.Attenti a Carlo Cottarelli: non lavora per l’Italia, ma per il “partito” trasversale (italiano) che vuole mantenere il nostro paese in crisi perenne. Un avvertimento che, sul “Sussiadiario”, Federico Ferraù rilancia, intervistando il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale all’Università Cattolica di Milano. Pur senza essere esplicitamente nominato, l’ex commissario alla spending review del governo Letta – ormai ospite fisso dei maggiori talkshow, incluso il salotto televisivo di Fabio Fazio – è definito “Manciurian candidate”, cioè cavallo di Troia e quinta colonna di poteri esterni al nostro paese. Letteralmente: «Un economista che rilascia interviste da premier in pectore, facendo della riduzione del deficit e del debito il comandamento di una religione secolare». Tutto questo, «in attesa che il patto M5S-Lega si rompa, magari con l’aiuto del Colle», cioè di quel Mattarella che la candidatura Cottarelli l’aveva agitata come minaccia, in alternativa a quella di Conte, subito dopo aver bocciato la proposta di Paolo Savona come ministro dell’economia. Neoliberista, a lungo dirigente del Fmi, Cottarelli è considerato – insieme a Mario Draghi, allora dirigente di Goldman Sachs – uno dei maggiori responsabili della catastrofe abbattutasi sulla Grecia. Da tempo ci prova anche con l’Italia. La sua ricetta? Quella di Monti: deprimere l’economia tagliando il deficit. Agisce da solo, Cottarelli? Niente affatto: si muove in tandem con Emmanuel Macron.
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Torino-Lione inutile ma irrinunciabile: anche dopo Genova?
Il “Giornale”, mai tenero con gli oppositori della Torino-Lione (che considera alla stregua di quasi-terroristi), lo presenta come “l’ingegnere che smonta tutte le bugie dei NoTav”. Si chiama Basaglia, come il padre della psichiatria moderna, ed è un uomo in evidente buona fede. Si deve a lui, che oltretutto dichiara di esser stato ripetutamente intimidito da attivisti fanatici, l’unico straccio di spiegazione finora pervenuta, a sostegno della grande opera più contestata d’Europa, ritenuta perfettamente inutile da 360 tecnici dell’università italiana, scomodatisi invano per scrivere a Palazzo Chigi e persino al Quirinale. Perché il tunnel s’ha da fare? «Per un’infinità di motivi», sostiene l’ingegner Paolo Basaglia, torinese, di fede Pd ma in nessun modo coinvolto, a titolo professionale, nel maxi-affare del secolo. «La linea storica è contorta», spiega. «I raggi di curvatura sono strettissimi, con attrito volvente elevatissimo e pendenze del 35 per mille che si traducono in scarsa efficienza energetica, tant’è che i treni merci richiedono due motrici in trazione e una in spinta. Con il nuovo tunnel i convogli consumeranno il 90% in meno». Costo del disturbo? In totale 22 miliardi di euro, secondo le stime del 2014 (quando fu fatta l’intervista) per una linea che – se fosse realizzata – non sarebbe pronta prima del 2040, dopo 15 anni di cantieri. Pezzo forte: un traforo di 54 chilometri da Susa a St. Jean de Maurienne, da scavare tra monti pieni di uranio e amianto.Proprio a causa della conformazione della linea ferroviaria attuale, che collega Italia e Francia in valle di Susa attraverso il traforo del Fréjus (appena riammodernato con 400 milioni di euro per consentire il transito di Tir e container “navali” caricati sui treni), sempre l’ingegner Basaglia spiega che, da Bussoleno alla frontiera francese, i convogli non possono superare i 70 chilometri orari. Un problema, se si trattasse di alta velocità ferroviaria per passeggeri, come appunto era nei piani del progetto iniziale, risalente all’inizio degli anni ‘90, cioè prima dell’avvento dei voli low cost. Per questo, da Tav, il progetto fu tramutato in Tac (treno ad alta capacità), puntando sulle merci nella speranza di tenerlo in vita, visto l’imponente lavoro di lobbying, a livello europeo, per mettere insieme almeno una parte dei faraonici finanziamenti necessari. Oggi però le merci sono scomparse, così come i passeggeri: i trasporti tra Piemonte e Rhône-Alpes sono al lumicino, la ferrovia è impiegata solo al 10% delle sue potenzialità. La rotta intercontinentale delle merci (asiatiche, ormai) non è più est-ovest, ma nord-sud: Genova-Rotterdam. La Torino-Lione? Non serve. Lo certifica l’autorità elvetica incaricata dall’Ue di monitorare i trasporti alpini: l’attuale linea valsusina Torino-Modane, affermano gli svizzeri, potrebbe tranquillamente reggere un incremento di traffico del 900%. Perché allora imbarcarsi in una spesa da decine di miliardi, devastando il territorio, per una maxi-opera completamente inutile?Quanto alla bassa velocità per le merci, nessun mistero: i convogli pesanti che trasportano materiali, e non persone, non possono comunque “volare” come i Frecciarossa, pena il crollo degli standard di sicurezza. Un guaio? Niente affatto: nel saggio “Binario morto”, edito da Chiarelettere, il giornalista di “Repubblica” Luca Rastello ricorda nel miglior sistema logistico del mondo, quello degli Usa, i treni merci non possono superare le 60 miglia di velocità, per legge. Sono treni lentissimi, che per superare le Montagne Rocciose continuano a utilizzare persino trafori risalenti all’800. «Il problema non sussiste proprio», spiegava Rastello, «perché la chiave del successo della logistica – come tutti sanno – non è la velocità, ma la puntualità: lo smistamento nei depositi avviene in modo perfetto se i treni arrivano in orario. Non importa se ci mettono un giorno o due, o tre: basta saperlo in anticipo con precisione». Cosa che infatti, negli Stati Uniti, succede regolarmente – e senza nessuna “alta velocità per le merci”, tecnicamente impossibile. L’ingegner Paolo Basaglia da Torino? Liberissimo, ovviamente, di esporre le sue legittime opinioni. Peccato solo che non abbia alcun profilo istituzionale: parla, infatti, da privato cittadino (preoccupato per quelle che, a suo avviso, sono mistificazioni pretestuose, da parte dei NoTav).Benissimo: ma le istituzioni, invece? Cosa dicono? Niente. E’ vero, sembra incredibile. Eppure, in vent’anni, nessuno dei governi che si sono succeduti – Berlusconi, Prodi, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni – ha mai speso una parola per motivare la decisione di progettare comunque l’infrastruttura, nonostante la forte opposizione popolare e le clamorose evidenze che i tecnici indipendenti hanno sempre esibito, smentendo nel mondo più netto la necessità di realizzare la Torino-Lione. Silenzio assoluto, da tutti i governi. Non una precisione strategica, in cifre, ad esempio sul presunto impatto positivo dell’opera sul sistema economico italiano, o almeno piemontese. Solo slogan: sviluppo, progresso, Europa. Propaganda polverosa, e pure mezze ammissioni: secondo i geologi, la nuova linea andrebbe protetta da una “diga” sotterranea profonda addirittura decine di metri, per tentare di arginare l’enorme fiume che scorre nel sottosuolo. Perforare le Alpi in quel punto, riconoscono gli stessi progettisti, potrebbe comportare incognite molto serie, incluso l’allagamento dei centri abitati in caso di eventi alluvionali. Anche fosse, il problema comunque resta a monte: perché insistere a tutti i costi su un’opera da più parti classificata come obsoleta e inutile? E soprattutto: come si permette, lo Stato, di non dare mai spiegazioni?Gli occhi di tutti, oggi, sono puntati sul governo gialloverde e in particolare sul ministro Toninelli. Come noto, i 5 Stelle vorrebbero tagliare la Torino-Lione sul nascere: il miliardo di euro già speso rappresenta un sacrificio irrisorio, rispetto alle decine di miliardi che si rispariemerebbero, un immenso capitale che andrebbe destinato a opere finalmente utili. Per contro, è la Lega a frenare: tradizionalmente, il Carroccio ha sempre appoggiato il cartello politico, industriale e bancario che si prodiga per veder finanziata la Torino-Lione. Cambierà qualcosa, dopo la tragedia di Genova? Il catastrofico crollo del viadotto Morandi ha costretto il paese a riflettere: perché regalare miliardi ogni anno ai signori Benetton? Di più: l’opinione pubblica ha appreso che, dietro gli industriali dell’abbigliamento, nella società Atlantia sono presenti grandi operatori finanziari di Londra e di Wall Street, beneficiari anch’essi del maxi-regalo ottenuto dal governo D’Alema quando privatizzò la rete autostradale, costruita con i soldi degli italiani. Se non altro, le autostrade servono. Perché allora tanto accanimento – e da parte di chi, al di là delle solite sigle politiche di facciata – dietro a una maxi-opera come la Torino-Lione, quasi universalmente ritenuta inutile?Il “Giornale”, mai tenero con gli oppositori della Torino-Lione (che considera alla stregua di quasi-terroristi), lo presenta come “l’ingegnere che smonta tutte le bugie dei NoTav”. Si chiama Basaglia, come il padre della psichiatria moderna, ed è un uomo in evidente buona fede. Si deve a lui, che oltretutto dichiara di esser stato ripetutamente intimidito da attivisti fanatici, l’unico straccio di spiegazione finora pervenuta, a sostegno della grande opera più contestata d’Europa, ritenuta perfettamente inutile da 360 tecnici dell’università italiana, scomodatisi invano per scrivere a Palazzo Chigi e persino al Quirinale. Perché il tunnel s’ha da fare? «Per un’infinità di motivi», sostiene l’ingegner Paolo Basaglia, torinese, di fede Pd ma in nessun modo coinvolto, a titolo professionale, nel maxi-affare del secolo. «La linea storica è contorta», spiega. «I raggi di curvatura sono strettissimi, con attrito volvente elevatissimo e pendenze del 35 per mille che si traducono in scarsa efficienza energetica, tant’è che i treni merci richiedono due motrici in trazione e una in spinta. Con il nuovo tunnel i convogli consumeranno il 90% in meno». Costo del disturbo? In totale 22 miliardi di euro, secondo le stime del 2014 (quando fu fatta l’intervista) per una linea che – se fosse realizzata – non sarebbe pronta prima del 2040, dopo 15 anni di cantieri. Pezzo forte: un traforo di 54 chilometri da Susa a St. Jean de Maurienne, da scavare tra monti pieni di uranio e amianto.
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E con Genova franano 40 anni di saccheggio neoliberista
Mentre i soliti media danno il via al cerimoniale di commenti e manifestazioni di sorpresa o di indignazione per il crollo del Viadotto Polcevera, affermiamo senza mezzi termini che la serie di crolli di infrastrutture degli ultimi anni, cui oggi si aggiunge un tragico e luttuoso disastro, è una naturale conseguenza del loro invecchiamento e della consegna del Bel Paese, ben prima del crac del 2007-2008, anzi da almeno quarant’anni, alla logica dell’austerità, che prevede giocoforza ilsilenziamento degli esperti di progettazione, manutenzione e ammodernamento. Il processo non riguarda soltanto l’Italia, bensì tutta la regione transatlantica, come ricordano i lettori a proposito di ponti e di inondazioni negli Stati Uniti, per esempio. Con il “governo del cambiamento” potrebbe in effetti cessare un trentennio di “inglorioso saccheggio”, l’opposto dei “trenta gloriosi”, come i francesi chiamano la fase storica di ricostruzione postbellica. Potrebbe esservi una svolta, dopo questo lungo periodo successivo al crollo del Muro di Berlino e rispetto a un condizionamento politico frutto dell’orchestrazione di Mani Pulite, ma ancora troppi sembrano stare al gioco di chi cade dalle nuvole, per scoprire che il governo eredita interi ambiti della nostra economica nazionale lasciati al declino.Per non parlare di come l’esecutivo si confronti con l’assenza di settori economici previsti dalla lungimiranza di coloro che, come dicevano, furono ridotti al silenzio, affinché i tecnocrati potessero procedere con il saccheggio del capitale nazionale. Casi emblematici delle due categorie? Maltenute sono le infrastrutture di gestione delle acque e disattesi i piani di sviluppo concepiti con le più ampie vedute urbanistiche. Assenti i sistemi di trasporto avveniristici rimasti tra le pagine di fantascienza o al più delle riviste di divulgazione scientifica: il treno a levitazione magnetica, l’aerotreno, gli hovercraft, gli aerei civili supersonici, le navi a propulsione magnetoidrodinamica, ecc.. In gravissimo affanno il settore della ricerca nello sfruttamento per scopi pacifici dell’energia custodita nei nuclei, in primis tramite la fusione nucleare. Quel che si trova alla “fine del ciclo vitale” non è, tuttavia, soltanto il parco composto delle numerosissime infrastrutture (a tal proposito approviamo il riferimento al Piano Marshall nel recente appello del Cnr alla ricostruzione delle opere obsolete), tra le quali i gioielli ingegneristici o di armonizzazione con il paesaggio costruiti anche in anticipo rispetto alle altre grandi potenze occidentali.I candidati sono stati eletti nel “governo del cambiamento” grazie ad animati discorsi sull’urgenza di intaccare la Legge Fornero, di smontare la Buona Scuola, di rivedere il Jobs Act, ma non avrebbero dovuto trascurare che l’inesorabile legge cronologica del “fine vita” vige anche per le opere immateriali: essa si applica ai cicli di vita della società stessa, quelli durante i quali prosperano le nefaste mezze verità dei sofisti. Sotto sforzi eccessivi non sono soltanto le strutture progettate dagli ingegneri, ma anche la capacità demografica della società stessa, che è stata indotta, con la negazione degli appropriati investimenti, a rinunciare di costruire la propria base di futuro progresso dei livelli di vita (lo trovate un caso che la vita media abbia cominciato lievemente a calare?). Altra cosa sarebbe stata, durante la campagna elettorale, se l’attacco alla Fornero fosse stato esteso a tutte le “riforme pensionistiche” risalendo sino a Lamberto Dini; se il male della scuola non fosse stato additato nella sola “riforma” renziana, ma si fosse aperto un dibattito sull’optimum raggiunto nei cento-cinquantanni di scuola pubblica (che in sé sono stati una lunghissima sperimentazione); se sulla questione del lavoro non si fosse sbandierata un’opposizione limitata al Jobs Act, ma fossero stati presentati in modo organico gli argomenti a favore di una rinascita economica, per incidere coordinatamente su altri fattori (moneta unica, parametri non scientifici di Maastricht, pareggio di bilancio in Costituzione, sovranità nella politica economica delle grandi opere, ecc.) anziché perdurare nella dinamica pluridecennale della depressione dei salari.Crollano, assieme ai ponti veri, i castelli fiabeschi di sabbia del sistema venduto come l’unico rimasto a disposizione, quello del liberismo, che in verità è già una concessione chiamare “sistema economico”. Siamo alla fine di un ciclo narrativo di menzogne al servizio degli avvoltoi finanziarii e in questo momento di transizione occorre tener presente che vi è chi ci consegna colpevolmente un paese in più modi fallato (non sono esclusi gli inetti o coloro che hanno preferito credere alla fiabe) e chi rischia di svilire l’impulso degli elettori, non osando essere di radicale cambiamento, ma accontentandosi di far appello alla memoria corta delle masse, invece che alla memoria a lungo termine degli esperti emarginati per decenni. Stiamo parlando di un’epoca che deve andarsene e della necessità di limitare i dolori del travaglio. Non è vero che abbiamo troppe infrastrutture: la rete ferroviaria è poco più di quella di Cavour, mentre la popolazione è nel frattempo triplicata. Ma anche, non fu mai vero che le pensioni fossero insostenibili, quando Dini vi mise mano.Non fu mai vero che la scuola dovesse trasformarsi in bottega e rafforzare la propria deriva con l’autoritarismo sotto la maschera della “autonomia” attenta alle “esigenze del territorio”. Non fu mai vero che il lavoro umano dovesse essere passato nel tritacarne della depressione dei salari. Se questa dolente epoca deve cedere, dobbiamo riconoscere altresì che non fu mai vero che la sovranità monetaria fu mal gestita dal nostro paese. Furono piuttosto certe morti di rilievo politico (Mattei, Moro, ecc.) ad arrestare la nostra corsa verso il progresso materiale e spirituale. Bisogna avere il coraggio di far maturare appieno e in brevissimo tempo il dibattito più strategico, assai mirato sulla necessità di rivedere quei vincoli che hanno determinato il disastro e continuano a legare le mani a chiunque sia chiamato a servire il paese, e non gli speculatori. Questi non staranno a lungo in attesa prima di sferrare qualche colpo.(Flavio Tabanelli, “Ponti, pensioni e altri assetti alla prova del governo del cambiamento”, da “Scenari Economici” del 15 agosto 2018).Mentre i soliti media danno il via al cerimoniale di commenti e manifestazioni di sorpresa o di indignazione per il crollo del Viadotto Polcevera, affermiamo senza mezzi termini che la serie di crolli di infrastrutture degli ultimi anni, cui oggi si aggiunge un tragico e luttuoso disastro, è una naturale conseguenza del loro invecchiamento e della consegna del Bel Paese, ben prima del crac del 2007-2008, anzi da almeno quarant’anni, alla logica dell’austerità, che prevede giocoforza ilsilenziamento degli esperti di progettazione, manutenzione e ammodernamento. Il processo non riguarda soltanto l’Italia, bensì tutta la regione transatlantica, come ricordano i lettori a proposito di ponti e di inondazioni negli Stati Uniti, per esempio. Con il “governo del cambiamento” potrebbe in effetti cessare un trentennio di “inglorioso saccheggio”, l’opposto dei “trenta gloriosi”, come i francesi chiamano la fase storica di ricostruzione postbellica. Potrebbe esservi una svolta, dopo questo lungo periodo successivo al crollo del Muro di Berlino e rispetto a un condizionamento politico frutto dell’orchestrazione di Mani Pulite, ma ancora troppi sembrano stare al gioco di chi cade dalle nuvole, per scoprire che il governo eredita interi ambiti della nostra economica nazionale lasciati al declino.
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Migranti, il business dei predoni globalisti condanna l’Africa
Esiste un nesso fra crescita demografica, povertà ed emigrazione? La popolazione africana sta subendo una vera e propria esplosione demografica: mentre, infatti, nel 1960 si attestava intorno ai 300 milioni di abitanti, oggi è di circa 1,2 miliardi e raggiungerà i 2 miliardi e mezzo entro il 2050. L’Africa si trova intrappolata in una spirale nefasta, nota come “trappola malthusiana”, che rende impossibile adeguare l’aumento della produzione e delle risorse alimentari in modo da compensare il forte incremento della domanda legato a una crescita esponenziale della popolazione. L’emigrazione viene percepita dagli africani come unica opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita e uscire dallo stato di miseria. Essa in realtà non fa che peggiorare i problemi economici del Continente, che viene privato così della sua forza lavoro più giovane e intraprendente. Il vaso di Pandora delle Ong è molto difficile da scoperchiare, a causa della fitta trama di interessi economici, politici e finanziari. In particolare esiste una grossa Ong, la più grande al mondo ma poco conosciuta dai media, di nome Brac, che svolge attività di “microcredito per l’emigrazione”. Essa è nata ed è particolarmente attiva in Bangladesh, dove ha finanziato l’imponente emigrazione dei cittadini verso altri paesi ma, come dichiara esplicitamente nel suo sito, fornisce prestiti per l’emigrazione (migration loans) anche in altri paesi, in particolare quelli dell’Africa.Esiste poi la Ong francese Positive Planete (prima Planet Finance), fondata dal francese Jacques Attali – colui che ha scoperto Macron – e dal bengalese Yunus, padre del microcredito, che si prefigge di “combattere la povertà in Africa attraverso lo sviluppo della microfinanza”. Un sodalizio, quello tra finanza, Ong ed emigrazione, molto redditizio e ben occultato. Tutti i paesi che si sono sviluppati l’hanno fatto avviando un piano di sviluppo economico basato sulla protezione dell’industria locale nascente e su politiche pubbliche di tipo keynesiano. Nell’Africa postcoloniale questo non è stato possibile, poiché le forze economiche internazionali hanno imposto il loro modello neoliberista, fatto di massima apertura al commercio estero, liberalizzazioni, privatizzazioni dei servizi pubblici e tagli alla spesa dello Stato. Ciò ha impedito qualsiasi possibilità di sviluppo dell’economia africana. Ogni tentativo in tale direzione è stato represso nel sangue, come nel caso di Lumumba in Congo e di Sankara in Burkina Faso. Questo è esattamente il modus operandi dell’attuale modello unico economico su scala globale: “keynesismo per i ricchi e neoliberismo per i poveri”, utilizzato come strumento di depredazione dei paesi.Mentre sappiamo molto della storia coloniale, quello che è accaduto in Africa con la decolonizzazione è poco conosciuto ai più e distorto da una narrazione mistificatrice che imputa ai vecchi imperi coloniali la causa dell’attuale e persistente stato di sottosviluppo del Continente Nero. Con la nascita degli Stati indipendenti in Africa, come in gran parte del Terzo Mondo, si stava avviando un percorso di crescita economica e di sviluppo locale. I paesi africani avevano adottato la cosiddetta politica di “industrializzazione per sostituzione”, secondo la quale le merci importate venivano sostituite con la produzione interna per tutelare le economie e le industrie nascenti dalla concorrenza internazionale. Questa politica, in aggiunta al riconoscimento da parte del Gatt del “diritto alla protezione asimmetrica” per i paesi in via di sviluppo (1964), generò in molti paesi dell’Africa subsahariana un periodo di crescita e relativo benessere. Ma le ingerenze esterne non tardarono a farsi sentire da parte dei grandi interessi economici internazionali.Con lo scoppiare della crisi del debito del Terzo Mondo nel 1982, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale imposero definitivamente le loro politiche macroeconomiche, che non favorivano lo sviluppo locale, non prevedevano alcun investimento nell’economia nazionale, ma incentivavano gli Stati a importare ingenti quantità di beni di consumo e a destinare la propria produzione all’esportazione per il pagamento del debito. Attraverso la previsione di “condizionalità” legate ai prestiti concessi, si venne a realizzare una nuova forma di imperialismo globale, il colonialismo del debito, da cui banche e prestatori di denaro hanno tratto enormi profitti, congiuntamente alle grandi multinazionali, che hanno depredato il Continente del suo ricco patrimonio di risorse naturali, inibendo ogni possibilità di sviluppo economico locale.La chiusura che incontro è più ideologica che scientifica. Purtroppo non si può parlare di neoliberismo e del fenomeno migratorio senza incorrere in divisioni ideologiche e pregiudizi. Dimostrare che il modello economico imposto dalle grandi istituzioni internazionali in Africa, che è lo stesso a distanza di decenni attuato ora in Italia, sia la causa del suo sottosviluppo lascia sconcertati. Sostenere poi che l’emigrazione non è una soluzione, ma anzi aggrava i problemi del continente africano, arricchendo solo chi specula sulla mercificazione degli esseri umani, suscita contrarietà da parte dei fautori acritici dell’accoglienza illimitata. Rompere dei tabù e dei luoghi comuni non è mai semplice, ma sto riscontrando anche molto interesse e consenso da parte di chi conosce e vive in prima persona la realtà africana. Da parte dei media sapevo, quando ho intrapreso questo percorso, iniziato col mio primo libro sottotitolato “Storia di una bocconiana redenta”, che non sarebbe stato per nulla facile rompere il muro nel mainstream. Tuttavia, l’interesse mostrato nei miei confronti da alcuni programmi televisivi e radiofonici è andato oltre le mie aspettative.Credo che, seppur con grande difficoltà, ci sia un piccolo spiraglio per chi affronta temi scomodi in modo serio e supportato da evidenze scientifiche. Il Decreto Dignità proposto da Di Maio? L’attuale modello economico è basato sulla precarizzazione del lavoro e, di conseguenza, della vita umana. Il Decreto Dignità ha il grosso merito di riportare al centro il lavoratore e i suoi diritti. Mettere un limite alla durata e al numero di rinnovi dei contratti a termine, aumentare la tutela e l’indennità del lavoratore nei casi di licenziamento, sanzionare le imprese che delocalizzano dopo aver usufruito di aiuti di Stato, nonché avviare una dura lotta alla ludopatia sono tutte misure che operano in questa direzione. Lo Stato in questo modo torna a occuparsi del cittadino e del lavoratore, ripudiando il ruolo di servitore dei mercati e degli interessi transnazionali, come vorrebbe il modello neoliberista universale, perfettamente rappresentato dall’attuale Unione Europea.(Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate a Marina Simeone per l’intervista “I coloni dell’austerity” pubblicata da “Il Pensiero Forte” il 25 luglio 2018. Economista attiva anche sul proprio seguitissimo blog, laureata alla Bocconi, scrittrice di libri coraggiosi e di successo sul neoliberismo, dopo la risonanza ottenuta dal primo lavoro “Neoliberismo e manipolazione di massa (storia di una Bocconiana redenta)”, Ilaria Bifarini ha presentato “I coloni dell’Austerity. Africa, neoliberismo e immigrazioni di massa”).Esiste un nesso fra crescita demografica, povertà ed emigrazione? La popolazione africana sta subendo una vera e propria esplosione demografica: mentre, infatti, nel 1960 si attestava intorno ai 300 milioni di abitanti, oggi è di circa 1,2 miliardi e raggiungerà i 2 miliardi e mezzo entro il 2050. L’Africa si trova intrappolata in una spirale nefasta, nota come “trappola malthusiana”, che rende impossibile adeguare l’aumento della produzione e delle risorse alimentari in modo da compensare il forte incremento della domanda legato a una crescita esponenziale della popolazione. L’emigrazione viene percepita dagli africani come unica opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita e uscire dallo stato di miseria. Essa in realtà non fa che peggiorare i problemi economici del Continente, che viene privato così della sua forza lavoro più giovane e intraprendente. Il vaso di Pandora delle Ong è molto difficile da scoperchiare, a causa della fitta trama di interessi economici, politici e finanziari. In particolare esiste una grossa Ong, la più grande al mondo ma poco conosciuta dai media, di nome Brac, che svolge attività di “microcredito per l’emigrazione”. Essa è nata ed è particolarmente attiva in Bangladesh, dove ha finanziato l’imponente emigrazione dei cittadini verso altri paesi ma, come dichiara esplicitamente nel suo sito, fornisce prestiti per l’emigrazione (migration loans) anche in altri paesi, in particolare quelli dell’Africa.
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Cremaschi: sono 10 milioni (non 5) i nuovi poveri in Italia
Sulla crescita della povertà tutto ciò che che oggi prevale è mistificazione. Innanzitutto i numeri: sono inferiori alla realtà o sono costruiti in modo da far apparire meno grave la situazione, scrive Giorgio Cremaschi su “Micromega”. Dal 2005 l’Istat suddivide i poveri in assoluti e relativi con due diverse classificazioni di reddito. Così oggi ci sarebbero 5 milioni di poveri assoluti e tanti altri milioni di “poveri relativi”. Ma è una distinzione che, secondo Cremaschi, serve solo ad attenuare l’impatto della catastrofe sociale che ha colpito il nostro paese (dopo l’adozione dell’euro). Tra l’altro, aggiunge, i mass media hanno tutti diffuso la notizia che i 5 milioni di poveri assoluti sarebbero il numero più alto dal 2005, come se prima fossero stati di più. No, naturalmente: il 2005 è solo l’anno di avvio della classificazione, e allora i più poveri dei poveri erano solo 1,5 milioni. In tredici anni sono triplicati. Eurostat, l’istituto europeo di statistica, usa piuttosto dei criteri sociali per contare i poveri, partendo da ciò di essenziale a cui essi debbono rinunciare. Sono considerati poveri i cittadini che, tra l’altro, hanno difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a riscaldare a sufficienza la casa, a pagare in tempo l’affitto e a comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Sulla base di questi e altri criteri nel 2017 l’Italia risulta il paese europeo con più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni. Un numero enorme, quasi pari agli abitanti di tutta la Germania.Ma i vertici europei – in guerra tra loro sull’emergenza-migranti, innescata da feroci ingiustizie contro l’Africa e il Medio Oriente – non fanno nulla per le decine di milioni che nella Ue già ci stanno. «I poveri si contano e poi vengono cancellati dall’agenda politica», sottolinea Cremaschi: sono lavoratori, pensionati, precari e disoccupati, donne e giovani. «Sono la parte più sfruttata e oppressa del mondo del lavoro, sono le prime vittime della lotta di classe dall’alto dei ricchi, che più i poveri aumentano, più vedono accrescere i propri patrimoni». I 14 italiani più ricchi – Ferrero, Del Vecchio, Berlusconi, Armani e gli altri – possiedono beni per un ammontare di 107 miliardi di dollari, come ciò che riescono a mettere assieme milioni di poveri. «Il 5% più ricco del paese detiene il 40% della ricchezza nazionale, cioè 4.000 miliardi». I poveri aumentano, aggiunge Cremaschi, «perché i ricchi sono sempre più ricchi, perché la ricchezza si concentra sempre di più in alto e viene espropriata e rapinata in basso». E così, «la diseguaglianza sociale che dilaga senza freni nel nome del libero mercato è la causa dell’enorme incremento della povertà in Italia e in tutta Europa».Il quadro macroeconomico dell’Eurozona è tristemente noto: «Le misure di austerità e di rigore di bilancio, le privatizzazioni, la flessibilità e la precarietà del lavoro, le politiche fiscali di agevolazioni alle imprese e di riduzione delle tasse ai ricchi, i Jobs Act e le Flat Tax che dilagano in tutta Europa, impoveriscono sempre più persone ed arricchiscono sempre di più una piccola minoranza». Se non si combatte la concentrazione della ricchezza non si può ridurre la povertà, conclude Cremaschi, «ma tutti i governi europei, tecnocratici o populisti che siano, di fronte alla sola ipotesi di contrastare la diseguaglianza redistribuendo ricchezza si fermano atterriti». Cremaschi, sostenitore di “Potere al Popolo”, accusa «anche chi ha preso i voti nel nome della lotta contro le élites», in primis lo stesso Salvini. Alla fine, sostiene Cremaschi, il neo-sovranismo «fa proprio l’imbroglio liberista secondo il quale, per redistribuire ricchezza, prima bisogna produrla». E’ la teoria neoliberista dello “sgocciolamento”, in base alla quale «per dare soldi ai poveri, prima bisogna darne ai ricchi». Per questo, insiste l’ex sindacalista Fiom, «vertici europei per la lotta alla povertà non se ne sono mai fatti». In altre parole: «Contro i ricchi nulla si può, nulla si deve fare: e questo è il primo articolo della “Costituzione reale” della Ue».Sulla crescita della povertà tutto ciò che che oggi prevale è mistificazione. Innanzitutto i numeri: sono inferiori alla realtà o sono costruiti in modo da far apparire meno grave la situazione, scrive Giorgio Cremaschi su “Micromega”. Dal 2005 l’Istat suddivide i poveri in assoluti e relativi con due diverse classificazioni di reddito. Così oggi ci sarebbero 5 milioni di poveri assoluti e tanti altri milioni di “poveri relativi”. Ma è una distinzione che, secondo Cremaschi, serve solo ad attenuare l’impatto della catastrofe sociale che ha colpito il nostro paese (dopo l’adozione dell’euro). Tra l’altro, aggiunge, i mass media hanno tutti diffuso la notizia che i 5 milioni di poveri assoluti sarebbero il numero più alto dal 2005, come se prima fossero stati di più. No, naturalmente: il 2005 è solo l’anno di avvio della classificazione, e allora i più poveri dei poveri erano solo 1,5 milioni. In tredici anni sono triplicati. Eurostat, l’istituto europeo di statistica, usa piuttosto dei criteri sociali per contare i poveri, partendo da ciò di essenziale a cui essi debbono rinunciare. Sono considerati poveri i cittadini che, tra l’altro, hanno difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a riscaldare a sufficienza la casa, a pagare in tempo l’affitto e a comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Sulla base di questi e altri criteri nel 2017 l’Italia risulta il paese europeo con più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni. Un numero enorme, quasi pari agli abitanti di tutta la Germania.
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Magaldi: Renzi riposi in pace, il progressista oggi è Salvini
«I progressisti devono capire la gente: il mondo va verso situazioni molto dure e le persone chiedono, giustamente, protezione. Invece, sino ad oggi, il Pd ha trattato le persone che hanno paura come se fossero imbecilli». Viva la sincerità, anche se fuori tempo massimo. Suonano comunque lucide, finalmente, le parole dell’ex manager Ferrari e poi ministro post-renziano Carlo Calenda, nipote di Luigi Comencini, approdato al Pd dopo l’esordio politico prima con Montezemolo e poi con Monti. «Dobbiamo dar vita ad un progetto con nuove parole», dice Calenda a “Otto e mezzo”: «Ma pretendere questo dal Pd – ammette – non è possibile». Tra le macerie elettorali dell’ex centrosinistra, forse anche Calenda pensa al “partito che serve all’Italia”, su cui il Movimento Roosevelt si confronterà il 14 luglio a Roma con politologi e sociologi. Tra gli invitati anche il sindaco milanese Beppe Sala e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. A Matteo Renzi, che in un tweet dopo il disastro dei ballottaggi alle amministrative prova a gettare la croce sul povero Martina («con tutto il rispetto, nel Pd manca una leadership: per questo mi riprendo la guida del partito»), Zingaretti risponde a stretto giro: troppo tardi, «un ciclo storico si è chiuso». Tradotto: abbiamo sbagliato tutto, Renzi in primis. Primo errore, capitale: il Pd ha preso per cretini gli italiani spaventati dalla crisi. «Salvini invece li ha saputi ascoltare», dice Calenda, «e questo è il suo grande merito». Infatti, per Gioele Magaldi, il vero progressista sulla scena, oggi, è proprio il leader della Lega.
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Magaldi: l’ottimo Salvini e gli ipocriti che uccisero Sankara
Prima rapinano l’Africa, poi uccidono chi vuole salvarla. Quindi costringono gli africani a emigrare in massa, esponendo i lavoratori europei (già in crisi) a una concorrenza sleale, al ribasso. Ma naturalmente è tutta colpa di Salvini, il Signor No della nave Aquarius. Hanno avuto il coraggio di attaccarlo gli spagnoli, che hanno sparato sui migranti provenienti dal Marocco, e naturalmente i francesi, che hanno respinto in modo infame i profughi alla frontiera di Ventimiglia, senza alcuna pietà per donne e bambini. Quello che sta crollando – proprio grazie a Salvini – è un muro vergognoso di ipocrisia: per Gioele Magaldi, l’affare migranti non è che un capitolo della grande guerra in corso, a partire proprio dall’Italia, tra democrazia e oligarchia. Se l’Italia vincerà la sua battaglia contro i sepolcri imbiancati di Parigi, Berlino e Bruxelles, allora sarà un’ottima notizia per tutta l’Europa, dice il presidente del Movimento Roosevelt, che si prepara a celebrare – in autunno, a Milano – un convegno su Olof Palme, leader socialista svedese assassinato alla vigilia della svolta autoritaria da cui è nata l’attuale Unione Europea. Ma, accanto a Palme (e a Carlo Rosselli, martire antifascista e teorico del socialismo liberale) il convegno milanese accenderà i riflettori anche sull’ultimo grande eroe africano, Thomas Sankara, trucidato dal potere globalista per impedirgli di attuare la sua politica di riscatto per l’Africa, basata sulla sovranità economica del continente nero.Sembrano storie lontane, ma sono vicinissime: probabilmente non sarebbe mai neppure esistita, una nave Aquarius carica di profughi, se il leader rivoluzionario del Burkina Faso non fosse stato assassinato nel 1987, dopo aver chiesto ad alta voce la cancellazione del debito per l’Africa e, al tempo stesso, la fine degli “aiuti” della Banca Mondiale e del Fmi. «I vostri prestiti diventano la nostra schiavitù», ripeteva. «L’Africa ha tutto, per farcela benissimo da sola; basta che ci lasciate in pace, liberi di svilupparci senza più il peso del debito, e delle multinazionali che portano via le nostre risorse». Il prestigio di Sankara stava infiammando paesi decisivi come il Senegal e la Costa d’Avorio, il Kenya, il Camerun. Che Africa avremmo, oggi, se in quei paesi fosse cresciuta una generazione di politici come Sankara? Certo non se lo domandano i buonisti della domenica stile Roberto Saviano, prontissimi ad aprire il fuoco contro i partiti del governo gialloverde, a cui la ex sinistra italiana (insieme ai media mainstream) non perdona di aver vinto le elezioni, il 4 marzo. Ragione in più per smascherare l’impostura dei finti amici dei migranti, che utilizzano la disperazione dei profughi solo per gettare fango sul neonato esecutivo.Finalmente abbiamo un governo all’altezza della situazione, dichiara Magaldi a “Colors Radio”, «dopo tanti anni di premier imbelli e ministri imbelli, figure veramente mediocri che si sono succedute sulle poltrone ministeriali». Per il presidente del Movimento Roosevelt, «Salvini ha mostrato il minimo sindacale di carattere e di fermezza – e con lui Conte, che è un signore dai modi aristocratici ma che ha avuto posizioni ferme. E anche nel Movimento 5 Stelle c’è stata perfetta solidarietà rispetto alle posizioni di Salvini». Tra parentesi: gli italiani apprezzano. Sondaggi alla mano, in 7 su 10 approvano senza riserve l’operato del leader leghista. Certo, si registra anche l’inevitabile strascico polemico di apparati politici ormai alla deriva, completamente spiazzati dalla svolta italiana: «Rimangono ovviamente i latrati di alcune testate giornalistiche e di alcuni ambienti politici che giocano a mistificare la questione gridando al razzismo, al fascismo, alla xenofobia», dice Magaldi. «Peccato che poi scopriamo (con piacere) che anche in casa Pd e in alcuni ambienti della cosiddetta sinistra qualcuno ha detto: intanto Salvini ha fatto quello che Minniti avrebbe voluto fare e non ha potuto fare per via di quel baciapile un po’ ipocrita di Del Rio, che all’epoca – come ministro delle infrastrutture – impedì cose analoghe».Perfettamente allineato a Salvini, invece, il neo-ministro Danilo Toninelli, che ha competenza sui porti e sulla Guardia Costiera. In sintesi: «Il governo Conte e il ministro Salvini hanno agito benissimo», scandisce Magaldi. «Hanno messo un freno a quella che è una modalità inaccettabile di gestione del problema immigrazione nel Mediterraneo». Attenzione: è un problema italiano, ma anche europeo e globale: «Dovrebbe farsene carico la Nato e magari anche l’Onu, se esistesse ancora e avesse una capacità di intervento». Già, appunto: dove sono, le Nazioni Unite? Non fanno altro che «promuovere le proprie agenzie – accusa Magaldi – ingrassando funzionari che spesso di tutto si occupano, tranne che di diffondere i principi di quella dichiarazione universale dei diritti umani che proprio all’Onu era stata approvata settant’anni fa». Brutto spettacolo: «Una struttura super-burocratica, l’Onu, che al pari dell’Europa è molto al di sotto delle sue potenzialità e anche delle sue retoriche». L’Aquarius? Siamo seri: «Non era una zattera alla deriva, ma una nave perfettamente funzionante. Ed è stata accompagnata, scortata, assistita con opportuni soccorsi sanitari». Parliamoci chiaro: «Ci sono Ong che lucrano sulla tratta di migranti, spesso poi utilizzati anche da associazioni criminali».Molti, una volta sbarcati, vivono “fuorilegge”, non avendo titolo per essere accolti come rifiugiati. Beninteso: «Hanno titolo, giustamente, per sognare una vita migliore in un nuovo paese: ma allora dovrebbero essere inquadrati in un progetto», sostiene Magaldi, che si dichiara «a favore dell’accoglienza a prescindere, e anche della libertà di emigrare». Ma qui non si tratta di scelte libere: è un esodo di disperati in fuga, di fronte al quale trionfa l’ipocrisia. «Nessuno si fa carico di andare a risanare i paesi di provienienza dei migranti, in mano a dittature sanguinose, con popolazioni tenute in condizioni di vita non dignitose. Si preferisce invece farsi carico di trasportare questi poveretti nelle nostre società, dove già sono compressi i diritti, non c’è un clima di socio-economico espansione. E così si fomenta una guerra al ribasso: perché i poveri migranti lavorano spesso in nero, peggiorando ulteriormente le condizioni dei lavoratori italiani: diventano una concorrenza semi-schiavile al ribasso rispetto ai ceti meno abbienti occidentali». E poi, sinceramente: «Quanti di loro sono utilizzati dalla criminalità organizzata?». E ancora: «Che senso ha che vi siano addirittura navi che, per mestiere e per lucro, vanno a prendere i migranti e li scaricano in Italia, anziché in Spagna o in Francia?».Quindi, ribadisce Magaldi, quella di Salvini è stata «un’ottima mossa», che infatti «ha indotto subito a più miti consigli quelli che in Europa avevano sempre ignorato le nostre richieste, reiterate ma velleitarie, da parte di altri governi, di guardare in modo collegiale al problema migrazioni». Nessuno – a Parigi o Madrid – può dare lezioni all’Italia. Al contrario, è ora che Bruxelles prenda nota: la pacchia è finita, per gli eurocrati che giocano allo scaricabarile, travestiti da crocerossine. E anche qui, buone notizie: «In molti hanno riveduto e corretto il giudizio sull’azione di Salvini, dopo aver visto le reazioni scomposte, ipocrite e pretestuose di alcuni governi europei, decisi a non accogliere i migranti a casa loro ma desiderosi di vedere l’Italia nel caos, lasciata sola di fronte a questo problema». La storia è feroce, quando diventa farsa: gli sponsor delle Ong sono gli stessi oligarchi che hanno distrutto il lavoro in Europa e fatto esplodere la fame in Africa. Ecco perché diventa emblematico, oggi, il nome del compianto presidente del Burkina Faso, marxista e massone, protagonista di una rivoluzione esemplare e nonviolenta in nome del popolo sovrano: l’ex Alto Volta come modello per un’Africa dignitosa e prospera, libera e decolonizzata. L’Africa per la quale Thomas Sankara perse la vita: un’Africa che, se oggi esistesse, di certo non esporterebbe disperazione.Oggi, sottolinea Malaldi, proprio Sankara «potrebbe diventare il vessillo di un ripensamento delle politiche sull’Africa», aprendo la strada all’idea – formulata da Craxi nel 1990 – di andare finalmente ad “aiutare a casa loro” quei poveretti derubati dall’Occidente, in fuga da un continente abbandonato alla dittatura delle multinazionali e privo di investimenti in strutture politiche, economiche e sociali. «Proprio l’aver ucciso personaggi come Sankara – insiste Magaldi – è stato un modo, da parte di coloro che negli anni ‘80 stavano costruendo questa cattiva globalizzazione, per arrestare uno sviluppo autonomo e dignitoso dell’Africa. Un modo per continuare a depredarla, per poi determinare questi esodi biblici di disperati». Mano tesa all’Africa dei Sankara di domani? Se l’Italia è il primo paese europeo a fermare la tratta degli schiavi, potrebbe essere – nel prossimo futuro – anche il primo a rilanciare una nuova politica euro-mediterranea, come quella già perseguita dai vari Mattei e Moro? «Come annunciato, oggi l’Italia è finalmente al centro di una guerra tra democrazia e oligarchia: e se si vince la battaglia in Italia – dice Magaldi – forse si può cambiare molto, a livello globale».Prima rapinano l’Africa, poi uccidono chi vuole salvarla. Quindi costringono gli africani a emigrare in massa, esponendo i lavoratori europei (già in crisi) a una concorrenza sleale, al ribasso. Ma naturalmente è tutta colpa di Salvini, il Signor No della nave Aquarius. Hanno avuto il coraggio di attaccarlo gli spagnoli, che hanno sparato sui migranti provenienti dal Marocco, e naturalmente i francesi, che hanno respinto in modo infame i profughi alla frontiera di Ventimiglia, senza alcuna pietà per donne e bambini. Quello che sta crollando – proprio grazie a Salvini – è un muro vergognoso di ipocrisia: per Gioele Magaldi, l’affare migranti non è che un capitolo della grande guerra in corso, a partire proprio dall’Italia, tra democrazia e oligarchia. Se l’Italia vincerà la sua battaglia contro i sepolcri imbiancati di Parigi, Berlino e Bruxelles, allora sarà un’ottima notizia per tutta l’Europa, dice il presidente del Movimento Roosevelt, che si prepara a celebrare – in autunno, a Milano – un convegno su Olof Palme, leader socialista svedese assassinato alla vigilia della svolta autoritaria da cui è nata l’attuale Unione Europea. Ma, accanto a Palme (e a Carlo Rosselli, martire antifascista e teorico del socialismo liberale) il convegno milanese accenderà i riflettori anche sull’ultimo grande eroe africano, Thomas Sankara, trucidato dal potere globalista per impedirgli di attuare la sua politica di riscatto per l’Africa, basata sulla sovranità economica del continente nero.
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Logge e potere: perché l’Espresso non intervista Scalfari?
Cari Eugenio Scalfari e Carlo De Benedetti, perché non raccontate i vostri rapporti con la massoneria? Gianfranco Carpeoro replica così all’ultimo servizio de “L’Espresso”, titolato “La massoneria torna a far paura: non identificabili tremila affiliati”. La presunta notizia? «Dopo il caso P2 le obbedienze avevano promesso trasparenza, invece regna l’opacità assoluta – scrive Gianfranco Turano – come dimostrano gli elenchi visionati dalla commissione parlamentare sulle logge calabresi e siciliane». Ribatte Carpeoro, in web-streaming su YouTube: «Io proporrei a Turano e al direttore dell’“Espresso” di chiedere a Scalfari e a De Benedetti di informare i lettori sui rapporti che quella casa editrice ha avuto con la massoneria. Rapporti molteplici, complicati, e peraltro intrattenuti con la parte meno commendevole della massoneria». Ovvero: «Chiederei pubblicamente a Scalfari e De Benedetti di spiegare e raccontare i rapporti che hanno avuto, per esempio, con quel massone (fior di personaggio) che si chiama Flavio Carboni. Prima di parlare genericamente di massoneria, comincino a parlare della loro connessione con la massoneria: guardino a casa loro, questi signori». Sintetizza Gioele Magaldi: «Non c’è bisogno di essere massoni, in Italia, per essere corrotti. Ma prendersela con i “peones” della massoneria, come fa “L’Espresso”, serve a occultare i veri terminali italiani della vera massoneria di potere, che è sovranazionale, e su cui la stampa (compreso “L’Espresso”) continua a tacere».Autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere) che svela la geografia delle Ur-Lodges nel back-office del potere mondiale, Magaldi prende nota: la sua denuncia, clamorosa, resta tuttora sepolta dal silenzio dei grandi media. «Nessuna reazione, nemmeno di fronte a precise interrogazioni parlamentari». Di massoneria si parla spesso a vanvera, per fini strumentali e magari elettoralistici come ha fatto Di Maio, garantendo l’assenza di massoni tra i candidati 5 Stelle. Lo smentisce Catello Vitiello, detto Lello, candidato dai grillini in Campania e iniziato alla loggia “La Sfinge”, del Grande Oriente d’Italia: notizia del “Mattino”, rilanciata dal “Giornale”. Di Maio? «Spara sulla massoneria, dopo aver bussato (inutilmente) alle porte dei peggiori circoli supermassonici reazionari di Washington», dice Magaldi, che a “La Gabbia”, trasmissione televisiva de “La7” condotta da Paragone, ha dichiarato l’appartenenza massonica di Pietro Grasso e Laura Boldrini. Ora “L’Espresso” rilancia la sua piccola crociata pre-elettorale contro le logge meridionali del Grande Oriente? Quella del reportage di Turano, «poco serio, sensazionalista e mistificatorio», a Magaldi sembra «un’operazione di bassissimo livello, che va a pescare nella diatriba miserevole sollevata dalla commissione parlamentare antimafia presieduta da due tangheri con pulsioni liberticide e antidemocratiche come Rosy Bindi e Claudio Fava».La Bindi («non ricandidata, per fortuna») ha condotto una sorta di crociata personale contro il Goi, mentre Fava è giunto a proporre una legge per chiudere ai massoni le porte della politica. «La massoneria è stata resa illegale solo dai regimi fascisti e comunisti (con l’eccezione di Cuba) e con la perversione che questi regimi erano composti da massoni, i quali mettevano fuorilegge le massonerie liberali e democratiche e si costituivano in massoneria segreta di governo, con piglio dispotico», ricorda Magaldi, a “Colors Radio”. Quella presieduta dalla Bindi? «E’ la peggior commissione antimafia della storia: non avendo di meglio da fare, ha preso di petto la massoneria regionale ma non i terminali italiani della massoneria che conta, nel bene e nel male (soprattutto nel male), collegata ai circuiti massonici neo-aristocratici che hanno fatto un golpe silenzioso insediando Mario Monti con la regia di Draghi e Napolitano». Personaggi che «hanno operato e operano tuttora a maleficio del popolo italiano», ma nessuna commissione parlamentare se n’è occupata. La Bindi invece ha preso di mira «comunioni massoniche in stato di decadenza, prive di incisività sul piano sociale, meta-politico, civico e culturale».Eppure, proprio dalle Ur-Lodges reazionarie sono venute «le ideologie neoliberiste e neo-aristocratiche che hanno pervaso la globalizzazione, la stessa Europa “matrigna” e anche la pessima governance dell’Italia negli ultimi decenni, la Seconda Repubblica, in modo accelerato con la devastazione sociale ed economica avviata nel 2011». Per questo, aggiunge Magaldi, «suona scandaloso che sedicenti giornalisti come Turano vadano a fare servizi apparentemente sontuosi, scandalistici e di grande richiamo, mettendo il dito su dei “peones” della massoneria e tacendo del tutto sulle domande che un vero giornalismo dovrebbe porsi: ovvero, chi è davvero inserito nelle leve del potere più importante?». Silenzi, omissioni, ipocrisie. «C’è chi sa benissimo che i momenti più alti della storia dell’Italia contemporanea sono dovuti all’opera meritoria di alcuni massoni. Ma tace per interesse, magari appartenendo a circuiti massonici neo-aristocratici». E poi, aggiunge Magaldi, «c’è una pletora di ignoranti, insipienti esecutori collocati in vari strati del mondo mediatico, politico, istituzionale e sociale, i quali si beano di questa loro pseudo-conoscenza: per costoro, “massoneria” sarebbe qualunque gruppo che, in modo indebito, opera per fini segreti e inconfessabili a favore dei propri aderenti».Che c’entra, la massoneria, con a gestione opaca del potere? «In Italia non serve essere massoni per esser stati corrotti e corruttori e aver mal gestito il denaro pubblico». Ci sono mille correnti e provenienze: culturali, spirituali, religiose, filosofiche e sapienziali. «Chi si distingue nel bene e chi nel male, a prescindere dal retroterra da cui proviene». Quanto alla massoneria, insiste Magaldi, «se si vuol parlare davvero di legami col potere bisogna alzare lo sguardo verso il cielo delle superlogge sovranazionali. Dopodiché, anche lì, si tratta di capire chi ha fatto cosa, e perché». Solo che non avviene: nessuno li alza, gli occhi al “cielo”. «Quindi siamo in una narrazione assolutamente irrisoria, fuorviante e, credo, anche strumentale: serve, è utile ai manovratori, ai padroni del vapore, che il sospetto, l’eventuale avversione rispetto alle logge, venga scaricata verso gruppi massonici che sono innocui sotto ogni punto di vista». E a chi si riempie la bocca con la difesa della Costituzione, Magaldi ricorda che il presidente della “Commissione dei 75” incaricata di redigere il testo costituzionale era Meuccio Ruini, notorio massone, il cui capo di gabinetto era Federico Caffè, eminente economista: il maggior keynesiano italiano (e del resto era massone lo stesso Keynes). «Se i padri della patria e della Costituzione del ‘48 (Ruini e non solo) erano massoni, non ho capito qual è il problema», conclude Magaldi. «Dopodiché vi sono le mele marce, e io nel mio libro ne ho indicate tante». I giornali come “L’Espresso”, però, hanno evitato accuratamente di raccontarlo ai lettori: perché?Cari Eugenio Scalfari e Carlo De Benedetti, perché non raccontate i vostri rapporti con la massoneria? Gianfranco Carpeoro replica così all’ultimo servizio de “L’Espresso”, titolato “La massoneria torna a far paura: non identificabili tremila affiliati”. La presunta notizia? «Dopo il caso P2 le obbedienze avevano promesso trasparenza, invece regna l’opacità assoluta – scrive Gianfranco Turano – come dimostrano gli elenchi visionati dalla commissione parlamentare sulle logge calabresi e siciliane». Ribatte il massone Carpeoro, in web-streaming su YouTube: «Io proporrei a Turano e al direttore dell’“Espresso” di chiedere a Scalfari e a De Benedetti di informare i lettori sui rapporti che quella casa editrice ha avuto con la massoneria. Rapporti molteplici, complicati, e peraltro intrattenuti con la parte meno commendevole della massoneria». Ovvero: «Chiederei pubblicamente a Scalfari e De Benedetti di spiegare e raccontare i rapporti che hanno avuto, per esempio, con quel massone (fior di personaggio) che si chiama Flavio Carboni. Prima di parlare genericamente di massoneria, comincino a parlare della loro connessione con la massoneria: guardino a casa loro, questi signori». Sintetizza Gioele Magaldi: «Non c’è bisogno di essere massoni, in Italia, per essere corrotti. Ma prendersela con i “peones” della massoneria, come fa “L’Espresso”, serve a occultare i terminali italiani della vera massoneria di potere, che è sovranazionale, e su cui la stampa (compreso “L’Espresso”) continua a tacere».