Archivio del Tag ‘moderati’
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Foa: visto? Anche i tedeschi, nel loro piccolo, s’incazzano
Con ogni probabilità la Merkel rimarrà cancelliere, con una longevità straordinaria. Ma il risultato delle elezioni in Germania non rappresenta un trionfo per Angela. Al contrario. Quando la Cdu perde oltre l’8% dei voti, passando dal 41,5% al 32,7% e quando l’altro partito al governo, l’Spd, ne perde meno (“solo” il 5%) ma scendendo al 20%, il peggior risultato della sua storia, è difficile parlare di successo. Ed è difficile credere che la Germania sia un paese davvero in salute e soprattutto felice, come sembra da lontano. Queste elezioni sono dense di significati. Anche a Berlino, come nella maggior parte dei paesi europei, gli elettori credono sempre meno nei partiti moderati sia di destra sia di sinistra, che si differenziano per il colore delle bandiere ma non per l’azione politica. L’Spd e la Cdu alla fine dei conti sono troppo simili e rappresentano l’establishment. Assieme hanno perso il 13%, un’enormità. Quello di domenica va letto come un voto di protesta contro un sistema politico omologante e alla fine falso. Che senso ha distinguere fra destra e sinistra se poi sono quasi uguali? In Germania addirittura hanno governato assieme.I tedeschi chiedono una vera alternativa moderata e pretendono che si affrontino i veri problemi della società. Quali? L’immigrazione, innanzitutto. In Germania si conferma una verità che i progressisti e la maggior parte dei media si ostinano ad ignorare. L’immigrazione è fonte di ricchezza e non genera problemi quando i flussi sono regolati, quando l’integrazione è reale e quando non si formano comunità chiuse. Se invece diventa impetuosa, sregolata, massiccia, viene rifiutata perché vissuta come destabilizzante e, per l’ordine pubblico, pericolosa. E la propaganda “buonista”, alimentata anche dalla Cdu, responsabile di aver spalancato le frontiere sull’onda emotiva della foto del piccolo Aylan, non basta a convincere gli elettori. Risultato: milioni votano per Alternative für Deutschland, che vola al 13%. Ma non è solo l’immigrazione ad aver favorito la destra nazionalista. La Germania ha una bilancia commerciale record ma l’export non trascina l’economia interna, dove la disoccupazione è bassa ma a fronte di troppi posti di lavoro a stipendi ridicoli, i cosiddetti minijobs da 450 euro, con cui vengono pagati oltre 7 milioni di persone; un paese dove le tasse restano alte, dove i länder dell’Est continuano a languire.In teoria, alla luce dei risultati economici, il paese dovrebbe vivere un boom memorabile ma non è così, anche per l’effetto paralizzante dell’euro – che, come spiega da tempo Alberto Bagnai, impedisce la rivalutazione e la svalutazione delle monete nazionali e di conseguenza il più naturale fenomeno di compensazione fra economie forti e deboli. La Germania è sempre più ricca ma la sua ricchezza non si trasferisce alla società nel suo insieme. L’Afd ha saputo intercettare un malumore che fino ad oggi premiava i partiti di sinistra. Non è un caso che l’Spd sia crollata e che la Linke e i Verdi siano rimasti stabili. Così come non è un caso che il Partito liberale sia tornato in Parlamento, superando lo sbarramento del 5% e di gran carriera: raggiunge il 10,5%. Molti elettori della destra moderata, che credono nell’imprenditoria privata, che vogliono pagare meno tasse, hanno convogliato sull’Fpd i consensi riservati 4 anni fa alla Cdu di Angela Merkel, a conferma del forte desiderio di una vera alternativa. Sì, anche i tedeschi nel loro piccolo si arrabbiano. Con l’odioso Schulz e con la smunta Merkel, che rimarrà cancelliere, ma che dovrà faticare non poco per varare una nuova coalizione. Non fatevi ingannare dai titoli di queste ore sulla vittoria della Merkel. E’ arrivata prima questo sì, ma perdendo quasi un quarto del proprio elettorato. Che scoppola!(Marcello Foa, “Anche i tedeschi nel loro piccolo si arrabbiano. Vero Schulz? Vero Merkel, che in realtà crolla?”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 14 settembre 2017).Con ogni probabilità la Merkel rimarrà cancelliere, con una longevità straordinaria. Ma il risultato delle elezioni in Germania non rappresenta un trionfo per Angela. Al contrario. Quando la Cdu perde oltre l’8% dei voti, passando dal 41,5% al 32,7% e quando l’altro partito al governo, l’Spd, ne perde meno (“solo” il 5%) ma scendendo al 20%, il peggior risultato della sua storia, è difficile parlare di successo. Ed è difficile credere che la Germania sia un paese davvero in salute e soprattutto felice, come sembra da lontano. Queste elezioni sono dense di significati. Anche a Berlino, come nella maggior parte dei paesi europei, gli elettori credono sempre meno nei partiti moderati sia di destra sia di sinistra, che si differenziano per il colore delle bandiere ma non per l’azione politica. L’Spd e la Cdu alla fine dei conti sono troppo simili e rappresentano l’establishment. Assieme hanno perso il 13%, un’enormità. Quello di domenica va letto come un voto di protesta contro un sistema politico omologante e alla fine falso. Che senso ha distinguere fra destra e sinistra se poi sono quasi uguali? In Germania addirittura hanno governato assieme.
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Di Maio e Gentiloni, Salvini con Silvio: Italia, non pervenuta
Non una parola sui vaccini, silenzio assoluto sull’euro, eppure (o meglio: e quindi) Luigi Di Maio si candida a premier, rispolverando l’antico refrain gandhiano (“prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci”), come se i 5 Stelle avessero davvero combattuto qualche epica battaglia contro il potere responsabile della grande crisi, anche italiana. «Era il segreto di Pulcinella», annota Antonio Fanna sul “Sussidiario” commentando la “discesa in campo” del vicepresidente della Camera, che «ha avviato da tempo il giro delle sette chiese per accreditarsi negli ambienti che contano, perché con gli elettori bisogna mostrare la faccia antisistema ma con i potenti si deve apparire affidabili». Il newsmagazine accusa i grillini: «Il copione ipocrita non cambia: antisistema davanti agli elettori, e codice etico interno addio, modificato a uso e consumo di chi decidono i capi», decisi a proteggersi, come nel caso della Raggi, del sindaco livornese Nogarin e dello stesso Di Maio, denunciato dall’ex candidata genovese dei 5 Stelle. «Sulle proteste contro la magistratura e chi dà seguito alle “querele sul nulla”», per il “Sussidiario” Di Maio «si allinea con Matteo Salvini e la Lega dalle tasche svuotate».
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Potere e denaro, dal caso Moro all’Isis fino al Russiagate
Andreotti e Cossiga: sarebbero stati soprattutto loro a impedire che Aldo Moro venisse liberato dai Gis dei carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, insieme ai Nocs della polizia. Reparti speciali che, si dice, avevano individuato la prigione romana dello statista democristiano. E’ la tesi, più volte esposta (anche in libri di successo) da un magistrato di lungo corso come Ferdinando Imposimato, già pm e poi presidente onorario della Cassazione. La sua versione, suffragata da testimoni-chiave delle forze dell’ordine: il blitz decisivo fu impedito da Andreotti e Cossiga. Movente: ambivano entrambi alla carica alla quale sarebbe stato destinato Moro, il Quirinale. Gli americani? C’entrano, ma fino a un certo punto: perché poi, al dunque, “ritirarono” il loro uomo, Steve Pieczneick, in un primo momento inviato a Roma per controllare (e depistare) le indagini. Regia dell’operazione Moro: affidata alla Gladio, costola dell’intelligence Nato, in Italia gestita da uomini della P2 come il generale Giuseppe Santovito, allora a capo del Sismi. Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, Gianfranco Carpeoro aggiunge un nome, quello del politologo statunitense Michael Leeden, tuttora attivissimo: sarebbe stato il vero burattinaio di Gelli. Per Gioele Magaldi, autore del besteller “Massoni”, la P2 era il terminale italiano della Ur-Lodge “Three Eyes”, potentissima superloggia internazionale di stampo antidemocratico.
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La lezione inglese: se i socialisti tornano a fare i socialisti
Tutte le elezioni degli anni della crisi sono state caratterizzate dai risultati catastrofici dei partiti socialisti, che in vari casi – ultimi due l’Olanda e la Francia – da formazioni che competevano per il governo si sono ridotti a gruppetti irrilevanti. Sono i risultati di lungo termine della loro mutazione genetica, iniziata con la truffaldina “Terza via” blairiana che li ha portati ad accogliere senza riserve l’ideologia neoliberista. In vari casi i loro elettori tradizionali ci hanno messo un po’ a capire che erano passati dall’altra parte e quindi in una prima fase hanno avuto successo, usufruendo di un patrimonio di adesioni consolidatosi storicamente e raccogliendone altre nuove dall’area moderata. Ma poi hanno cominciato a franare, perché non c’è tradizione che tenga quando si sceglie di rappresentare interessi opposti a quelli per tutelare i quali il partito era nato. Questa è stata anche la parabola del Labour, che dopo il grande e anche lungo successo di Blair ha cominciato a perdere sempre più terreno, avviandosi a seguire quella stessa sorte.L’elezione a sorpresa di Jeremy Corbyn alla segreteria – grazie a primarie che hanno dato più peso alla base e meno ai notabili – ha rappresentato una rottura e un ritorno alla linea precedente. Non c’è stato osservatore o analista politico che non abbia accolto questa sterzata con commenti impregnati di uno scetticismo a volte ai limiti del dileggio: in questo modo, si è detto, il Labour si condanna a una sterile opposizione, senza alcuna speranza di tornare prima o poi al governo. I sondaggi sembravano confortare questa tesi, visto che fino a un paio di mesi fa accreditavano al Labour consensi intorno al 25%, con un abissale distacco di una ventina di punti rispetto ai rivali Tory. Poi Corbyn ha presentato il suo programma, subito bollato come “massimalista” e “populista”. In realtà, al di là di qualche esagerazione da campagna elettorale, era semplicemente un programma che rovesciava i paradigmi neoliberisti: basta all’austerità diretta a senso unico verso le classi più svantaggiate, basta riduzioni del welfare, ri-nazionalizzazione di servizi essenziali come poste e ferrovie (queste ultime oggetto di una privatizzazione particolarmente fallimentare).Basta con l’università così costosa da escludere gran parte di coloro che non hanno possibilità economiche: e probabilmente proprio questa è stata la carta vincente nei confronti dei giovani, che sono andati a votare (mentre al referendum sulla Brexit si erano astenuti per due terzi) e hanno votato in maggioranza per Corbyn. Il risultato è stato che un partito che sembrava avviato verso la triste sorte degli altri confratelli ha ottenuto un successo a cui il numero di seggi non rende giustizia: il Labour è arrivato al 40%, testa a testa con il 42,5 dei Tory. Altro che che “così non vincerà mai più”: la linea Corbyn ha dimostrato di essere l’unica che possa sperare di contendere il potere ai conservatori. Una speranza tutt’altro che peregrina: quando le percentuali sono così vicine basta l’ulteriore spostamento di un numero abbastanza limitato di voti per rovesciare la maggioranza dei seggi conquistati. Frutto di un sistema elettorale che produce risultati paradossali: anche questa volta, per esempio, l’irlandese Dup con lo 0,91% conquista 10 seggi, mentre il 7,36 dei Libdem ne vale appena 2 in più e il 3% dei nazionalisti scozzesi gliene assegna 35.Insomma la lezione, per chi la vuol capire, è molto chiara: se i socialisti non fanno i socialisti prima o poi vanno incontro alla scomparsa. Ogni paese ha le sue dinamiche e le sue specificità: per alcuni quel “poi” è già arrivato, in altri casi – come quello dell’Italia – non ancora, ma è sulla buona strada. Ne dovrebbero tener conto, per esempio, i fuoriusciti dal Pd, le cui analisi sulla globalizzazione, sull’Europa e sull’economia non recidono ancora quel legame con la Terza via che ha distrutto o sta distruggendo la sinistra. Cosa che invece ha fatto, per esempio, il francese Jean-Luc Mélenchon, ottenendo alle recenti presidenziali un successo che – anche in quel caso – nessuno aveva previsto. Il mondo è cambiato, è vero. Ma ciò non significa che non possa cambiare di nuovo. Soprattutto, non sono cambiati i bisogni e gli interessi di chi da questi mutamenti è stato danneggiato e vede un futuro in cui la propria condizione potrà semmai solo peggiorare. Chi vuole rappresentarli dovrà prenderne atto fino in fondo.(Carlo Clericetti, “Uk, quando i socialisti fanno i socialisti”, da “Repubblica” del 9 giugno 2017, articolo ripreso da “Micromega”).Tutte le elezioni degli anni della crisi sono state caratterizzate dai risultati catastrofici dei partiti socialisti, che in vari casi – ultimi due l’Olanda e la Francia – da formazioni che competevano per il governo si sono ridotti a gruppetti irrilevanti. Sono i risultati di lungo termine della loro mutazione genetica, iniziata con la truffaldina “Terza via” blairiana che li ha portati ad accogliere senza riserve l’ideologia neoliberista. In vari casi i loro elettori tradizionali ci hanno messo un po’ a capire che erano passati dall’altra parte e quindi in una prima fase hanno avuto successo, usufruendo di un patrimonio di adesioni consolidatosi storicamente e raccogliendone altre nuove dall’area moderata. Ma poi hanno cominciato a franare, perché non c’è tradizione che tenga quando si sceglie di rappresentare interessi opposti a quelli per tutelare i quali il partito era nato. Questa è stata anche la parabola del Labour, che dopo il grande e anche lungo successo di Blair ha cominciato a perdere sempre più terreno, avviandosi a seguire quella stessa sorte.
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Foa: anche la Merkel nel complotto per abbattere Trump
Per capire il significato più autentico della rottura che si è consumata a Taormina tra Trump e gli alleati europei occorre individuare la chiave di lettura. E quella più appropriata si trova, ancora una volta, nell’articolo di uno degli ex consiglieri di Obama Charles A. Kupchan, pubblicato lo scorso mese di febbraio. Sembrava l’ennesimo editoriale tanto interessante quanto destinato a un rapido oblio e invece indicava la linea che l’establishment globalista avrebbe seguito per estromettere Trump. E cosa c’entra l’Europa? Penseranno molti di voi. C’entra, c’entra. I passaggi salienti erano due. Questi: «Mentre gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali sono scosse dalle forze populiste, gli effetti moderatori dei contrappesi istituzionali saranno di importanza cruciale. Il sistema legislativo, i tribunali, i media, l’opinione pubblica e l’attivismo – rappresentano tutti un freno all’autorità esecutiva e devono essere pienamente adoperati». Ora, pensate a cosa sta succedendo negli Stati Uniti: a condurre la campagna contro Trump sul Russiagate sono i media, i parlamentari e, in divenire, i tribunali. E pensate a quante manifestazioni ci sono state, su temi cari alla sinistra negli Usa ma anche in Europa.Pensate alle marce pro-immigrati come quelle svoltesi a Londra o a Milano: rientrano non solo in una certa linea di pensiero (e fin qui niente di sorprendente) ma anche – e forse soprattutto – in un movimentismo teso a contrastare le cosiddette forze populiste. L’Europa, però, veniva indicata da Kupchan come nuovo perno del potere globalista. La frase cruciale è questa: «Stati Uniti e la Gran Bretagna saranno, almeno temporaneamente, latitanti quando si tratta di difendere l’ordine liberale internazionale, l’Europa continentale dovrà difendere la posizione. Nel momento in cui la coesione interna dell’Unione europea è messa alla prova dallo stesso populismo che occorre sconfiggere, non è buon momento per chiederle di colmare il vuoto lasciato dal disimpegno anglo-americano. Ma almeno per ora, la leadership europea è la migliore speranza per l’internazionalismo liberale». Riflettete: quante volte in passato i leader europei hanno osato contestare pubblicamente un presidente degli Stati Uniti durante un vertice del G7 o in altri consessi ufficiali?Probabilmente bisogna risalire al 2003 quanto Schroeder e Chirac si opposero, con saggezza, alla guerra in Irak. Per il resto o i contrasti non emergevano in conferenza stampa o più frequentemente, gli alleati europei si allineavano ai desiderata di Washington, talvolta anche contro il proprio interesse geostrategico. Non è strano che un cancelliere prudentissimo come la Merkel trovi improvvisamente il coraggio per dire: “Impossibile ormai fidarsi degli Usa”? Ne converrete: non è da lei. Il sospetto è che tanto ardire sia calcolato e strumentale: ovvero che vada a rafforzare la tesi – o dovremmo dire gli auspici – di Kupchan. Quelle dichiarazioni rafforzano l’establishment anti-Trump, che può dire ai notabili di Washington: visto? Perdiamo anche l’Europa. In realtà non va intesa come una rottura ma come una parentesi politica, perché lo stesso Kupchan parlava di una latitanza angloamericana “temporanea”; dunque il tempo di far fuori Trump. Quando negli Usa loro riconquisteranno la Casa Bianca, l’Unione europea tornerà ad essere consenziente e l’audace Merkel di nuovo pragmaticamente mansueta.(Marcello Foa, “Anche l’Europa nel piano per far cadere Trump, ecco perché la Merkel è cpsì audace”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 28 maggio 2017).Per capire il significato più autentico della rottura che si è consumata a Taormina tra Trump e gli alleati europei occorre individuare la chiave di lettura. E quella più appropriata si trova, ancora una volta, nell’articolo di uno degli ex consiglieri di Obama Charles A. Kupchan, pubblicato lo scorso mese di febbraio. Sembrava l’ennesimo editoriale tanto interessante quanto destinato a un rapido oblio e invece indicava la linea che l’establishment globalista avrebbe seguito per estromettere Trump. E cosa c’entra l’Europa? Penseranno molti di voi. C’entra, c’entra. I passaggi salienti erano due. Questi: «Mentre gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali sono scosse dalle forze populiste, gli effetti moderatori dei contrappesi istituzionali saranno di importanza cruciale. Il sistema legislativo, i tribunali, i media, l’opinione pubblica e l’attivismo – rappresentano tutti un freno all’autorità esecutiva e devono essere pienamente adoperati». Ora, pensate a cosa sta succedendo negli Stati Uniti: a condurre la campagna contro Trump sul Russiagate sono i media, i parlamentari e, in divenire, i tribunali. E pensate a quante manifestazioni ci sono state, su temi cari alla sinistra negli Usa ma anche in Europa.
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Massoneria? Un mistero solo per le facce di bronzo della Tv
La massoneria è un potere forte, anzi fortissimo: peccato che sui giornali e nei talkshow televisivi si preferisca il pettegolezzo sulla piccola massoneria nostrana, ignorando deliberatamente l’unica fonte che, in Italia, ha messo nero su bianco nomi e cognomi della supermassoneria internazionale, quella che conta. Supermassoneria conservatrice, alla quale appartiene lo stesso neopresidente francese Emmanuel Macron: e alla medesima porta «hanno ripetutamente bussato sia Matteo Renzi che l’ex direttore del “Corriere”, Ferruccio De Bortoli, lo stesso che ora (nel libro “Poteri forti”) polemizza con Renzi evocando l’ombra della massoneria toscana su Maria Elena Boschi e Banca Etruria». Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere), dalle pagine web di “Affari Italiani” si rivolge direttamente «ai vari Lilli Gruber, Giovanni Floris, Luca Telese, Corrado Formigli, Enrico Mentana, Gianluigi Paragone, Bruno Vespa». Giornalisti e frontman che, «con rara faccia di bronzo, in questi anni hanno parlato di qualsiasi tematica attinente da vicino o da lontano la massoneria e il potere, ma si sono scientificamente cimentati nella censura e nella rimozione del libro “Massoni”, nonostante la grande diffusione del volume in Italia e all’estero».La polemica tra De Bortoli, Boschi e Renzi su Banca Etruria «è una vicenda piena di ipocrisia, doppi e tripli sensi, surrealtà e vecchi rancori», afferma Magaldi. La Boschi? «Ha fatto bene a interessarsi del possibile salvataggio di Banca Etruria, essendo una parlamentare del territorio dove la banca operava». Semmai, «ha fatto male a negare di averlo fatto: una brutta abitudine, quella di negare l’evidenza, che l’accomuna spesso allo stesso Renzi». Quanto alla telefonata tra i due Renzi, padre e figlio, intercettata dagli inquirenti e poi pubblicata dal “Fatto Quotidiano”, per Magaldi si tratta di «una pantomima», nella quale il figlio tratta il padre, Tiziano, «apparentemente in modo rude e con tono inquisitorio». Secondo Magaldi «si tratta di un’operazione preventiva, per poter un giorno utilizzare questa scenetta quale dimostrazione dell’assoluta estraneità di Matteo ai maneggi e alle relazioni “pericolose” del padre». Peccato, però, che il sistema di potere di cui Renzi junior ha beneficiato nella prima parte della sua ascesa, aggiunge Magaldi, si sia fondato «anche su tutta una serie di rapporti con personaggi toscani (alcuni massoni e altri no) collegati agli interessi imprenditoriali ed economici di Renzi senior, all’interno di un più complessivo groviglio di legami tra politica, istituzioni e cenacoli privati alla ricerca di profitti, tra Firenze e territori contigui».Massoneria e banche? Senz’altro: si tratta di un rapporto «storicamente evidente». Vale anche per Banca Etruria, «benemerita banca dedita al credito popolare», fondata da massoni e a lungo «ottimamente gestita dal “fratello” massone Elio Faralli», prima che subentrassero quelli che Stefano Bisi, gran maestro del Grande Oriente d’Italia, chiama “bischeri”, massoni e non. «Ma in tutta questa vicenda – insiste Magaldi su “Affari Italiani” – il personaggio più in malafede appare proprio Ferruccio De Bortoli». Un giornalista che, sempre secondo Magaldi, «durante tutta la sua carriera ha sempre cercato di essere ammesso ai salotti più esclusivi dell’aristocrazia massonica euro-atlantica». Solo che «non c’è mai riuscito», come del resto lo stesso Renzi, «da anni aspirante apprendista massone presso superlogge sovranazionali, visto che le amicizie massoniche di medio-basso calibro del padre Tiziano potevano essere buone per arrivare a governare la Provincia e il Comune di Firenze, ma non erano e non sono certo sufficienti a puntellare e a consolidare la traiettoria nazionale e internazionale delle ambizioni renziane».Sia De Bortoli che Renzi, aggiunge Magaldi, hanno spesso sfiorato l’accesso al “salotto buono”: «In tempi diversi, tra diverse Ur-Lodges presso cui hanno “bussato” (mediante intermediari), si sono trovati entrambi a un soffio dall’essere accolti dalla superloggia moderata “Atlantis-Aletheia”», una “officina” internazionale di cui fa peraltro fa parte «il massone Emmanuel Macron, neoeletto presidente francese». Incongruenza tutta italiana: «Trovo davvero ipocrita che De Bortoli si metta a cianciare in stile genericamente antimassonico di rapporti tra “massoneria e banche”, riguardo alla vicenda Etruria, ma si sia sempre guardato bene (al pari di quasi tutto il sistema giornalistico italiano) dall’evocare la questione della responsabilità che hanno avuto massoni neoaristocratici come Mario Draghi e Anna Maria Tarantola (all’epoca ai vertici di Bankitalia) nella pessima gestione del Monte dei Paschi di Siena, con riferimento sia all’acquisizione di Banca Antonveneta che ad altre non meno scabrose questioni». Non solo: «Trovo gravissimo – aggiunge Magaldi – che in contesti come la trasmissione “Otto e Mezzo” condotta da Lilli Gruber, così come in altri talk-show televisivi italiani, venga data occasione a De Bortoli e ad altri di pontificare genericamente di legami tra massoneria e banche, massoneria e affari, massoneria e poteri opachi o poteri forti, senza che nessuno si sia mai preso la briga di citare e discutere le precise informazioni e le puntualissime narrazioni (con nomi, cognomi, sigle, date e circostanze) degli intrecci tra la “libera muratoria” e il potere contenute nel libro “Massoni. Società a responsabilità illimitata”», edito già a fine 2014.Lilli Gruber – ed altri suoi colleghi del piccolo schermo – invitano “cani e porci”, «inesperti di questioni latomistiche o carichi di veleni antimassonici per qualche mancata affiliazione», a parlare di massoneria e potere in televisione, presentando «miriadi di libri privi di reale interesse per la pubblica opinione», ma al tempo stesso «evitano come la peste», anzi «censurano da anni» le straordinarie rivelazioni del libro “Massoni”, appena sbarcato anche in Spagna e Sud America, e di cui sta per uscire il sequel, significativamente intitolato “Globalizzazione e massoneria”. Perché dunque rifiutarsi di far approdare nel mainstream una precisa lettura del legame tra massoneria e potere, in primis in ambito finanziario? Forse perché quegli stessi media mainstream, «da qualche decennio, e non solo i Italia, sono in buona parte caduti nelle mani di ambigui segmenti massonici “contro-iniziatici”, traditori dei valori progressisti di libertà, uguaglianza e fratellanza che contraddistinguono da secoli l’autentica “libera muratoria”». Meglio allora evitare che il pubblico televisivo condivida “la scoperta delle Ur-Lodges”, cioè le 36 superlogge mondiali che rappresentano il “back office” del vero potere. Inclusa la “Atlantis Aletheia”, quella di Macron: la superloggia che, secondo Magaldi, si sarebbe rifiutata finora di accogliere i “bussanti” De Bortoli e Renzi.La massoneria è un potere forte, anzi fortissimo: peccato che sui giornali e nei talkshow televisivi si preferisca il pettegolezzo sulla piccola massoneria nostrana, ignorando deliberatamente l’unica fonte che, in Italia, ha messo nero su bianco nomi e cognomi della supermassoneria internazionale, quella che conta. Supermassoneria conservatrice, alla quale appartiene lo stesso neopresidente francese Emmanuel Macron: e alla medesima porta «hanno ripetutamente bussato sia Matteo Renzi che l’ex direttore del “Corriere”, Ferruccio De Bortoli, lo stesso che ora (nel libro “Poteri forti”) polemizza con Renzi evocando l’ombra della massoneria toscana su Maria Elena Boschi e Banca Etruria». Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere), dalle pagine web di “Affari Italiani” si rivolge direttamente «ai vari Lilli Gruber, Giovanni Floris, Luca Telese, Corrado Formigli, Enrico Mentana, Gianluigi Paragone, Bruno Vespa». Giornalisti e frontman che, «con rara faccia di bronzo, in questi anni hanno parlato di qualsiasi tematica attinente da vicino o da lontano la massoneria e il potere, ma si sono scientificamente cimentati nella censura e nella rimozione del libro “Massoni”, nonostante la grande diffusione del volume in Italia e all’estero».
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Macron, il gattopardo mannaro spremerà sangue francese
Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi: Emmanuel Macron è il nuovo gattopardo che si aggira per l’Europa, scrive Giacomo Russo Spena su “Micromega”. E’ l’ultimo paladino del riformismo europeo, l’uomo della provvidenza. Giovane, rampante, volto pulito e sbarazzino. Ha il merito di aver arginato l’avanzata del “populismo xenofobo”, affermando “l’europeismo” contro il neosovranismo, mandando al settimo cielo personaggi come Angela Merkel, Jean-Claude Juncker e lo statista Angelino Alfano, che twitta: «Brinda la Francia e chi crede nell’Europa, nel libero mercato, nella solidarietà». Piace, Macron, perché è il nuovo che avanza sulle ceneri di un sistema ormai al collasso, tra i socialisti francesi ridotti al livello del Pasok greco e la crisi del gollismo, incapace di arrivare al ballottaggio. Macron si definisce “né di destra né di sinistra”, ma incarna veramente il “nuovo che avanza”? A leggere biografia, programma e dichiarazioni, siamo di fronte ad un caso gattopardesco, insiste Russo Spena: dietro quell’idea di rottura con l’establishment, infatti, si nascondono esattamente gli stessi blocchi di potere e di interessi economici finora perfettamente dominanti.Dopo la prima tornata elettorale, Marta Fana e Lorenzo Zamponi spiegavano su “Internazionale” come il successo di Macron si basasse sulla debolezza del socialista Hamon e del gollista Fillon, e soprattutto sull’ampia visibilità garantitagli dai media, che l’hanno presentato come un argine affidabile contro l’ascesa dei “populisti” di destra e di sinistra: a spaventare i moderati, lo strappo anto-Ue promesso da Le Pen e Mélenchon, che ha messo in allarme soprattutto gli interessi immobiliari di fronte allo spettro di un crollo dei prezzi. Ma Macron non sembra affatto rappresentare un’inversione di rotta nell’Europa dell’austerity, continua Russo Spena: «Ha annunciato, tra le varie misure, di voler tagliare 120mila funzionari pubblici, oltre a proporre una nuova riforma del lavoro». Attenzione: la legge Loi Travail, il Jobs Act francese, già motivo di dure proteste giovanili, «è una sua filiazione politica». E ora il nuovo inquilino dell’Eliseo «è pronto addirittura ad irrigidire alcune norme in materia». Così, la sua svolta graverà «in primo luogo sui lavoratori e sui soggetti sociali più deboli», già in fibrillazione nelle piazze.Secondo un articolo del “Sole24ore”, Macron deciderà di intervenire subito liberalizzando ulteriormente il mercato del lavoro: già a luglio chiederà al Parlamento di votare la legge che consentirà al governo di agire rapidamente con decreti di immediata attuazione su almeno due punti chiave, a rischio di scontrarsi con sindacati e mobilitazioni sociali: il trasferimento di maggiori competenze a livello di categoria e impresa, nonché i tetti alle indennità di licenziamento. Come scrive l’economista Emiliano Brancaccio, «Macron incarna l’estremo tentativo del capitalismo francese di aumentare la competitività, accrescere i profitti e ridurre i debiti per riequilibrare i rapporti di forza con la Germania e stabilizzare il patto tra i due paesi sul quale si basa l’Unione Europea. Al di là degli slogan di facciata, cercherà di sfruttare il crollo dei socialisti e lo spostamento a destra dell’asse della maggioranza parlamentare per promuovere le riforme che gli imprenditori francesi invocano e che, a loro avviso, Hollande ha portato avanti con troppa timidezza».Per dirla con Paolo Barnard: «Il razzismo di Le Pen e ogni altra sua orripilante facciata erano noccioline in confronto al regalo che ci avrebbe fatto la sua vittoria, cioè: fine dell’Ue, dell’Eurozona e dell’economicidio di milioni di famiglie». Veder vincere Marine Le Pen sarebbe stato come «pagare il prezzo del bombardamento di Montecassino per la fine della Germania nazista». Ora abbiamo Macron, che «fa rima col peggio di Wolfgang Schaeuble», ma anche col nome Rothschild, in cui il rampante Emmanuel «fu centrale nella bella fetta di torta (10 miliardi di dollari) che la Nestlé si è pappata dal colosso mondiale dei più potenti e corrotti informatori farmaceutici del mondo, cioè la Pfizer». Peter Brabeck-Letmathe, che era il capo della Nestlé quando rifiutò a Barnard un’intervista per “Report”, «fu un patrigno di Macron mentre ammazzavano qualche milioncino di bambini col loro latte finto, venduto in Africa e in Sud America dicendo alle madri che il latte delle loro tette era infetto». E poi il nome Macron «fa rima con ’sti colossi francesi della sanità privata, roba che la rivoltante UniSalute è una scorreggia in confronto, cioè International Sos, che lavora in 1.000 laboratori-rapina in 90 paesi del mondo estorcendo ad ammalati disperati i risparmi per un’ecografia salvavita».E non è tutto: «Macron prende soldi da Meetic», la piattaforma online per “cuori solitari”, che incassa «una media di 150 milioni di dollari all’anno». E ancora: «Come potevano mancare nell’armadio di Macron nomi come Walter Lippmann, Edward Bernays, Samuel Huntington e Sundar Pichai? Ed ecco che uno dei fratellini di Macron è la Atari Corp., uno dei colossi mondiali della distrazione di massa sul divano, inclusi Casinò Social, e gioco d’azzardo, quelli della “terza ondata di apatizzazione dei popoli”, scritta e studiata a tavolino». Non ha dubbo, Barnard: «Macron è fratellino anche di questi, ’sto tizio descritto dai vostri giornali come “un liberale in economia ma di sinistra sulle questioni sociali”». E questo, spacciato come “il nuovo”, sarebbe il Macron-pensiero: nient’altro che l’ultima puntata del filone lib-lab capeggiato da Tony Blair, quella cosiddetta “terza via” entrata irreversibilmente in crisi. Riciclaggio politico: «L’establishment ha risolto così il modo per sopravvivere al crollo dei partiti tradizionali», dice Russo Spena su “Micromega”. Un circolo vizioso: «Le politiche dei Macron producono, come reazione, le politiche delle Le Pen, per arginare le quali poi i Macron ci chiedono il “voto utile”». Serve un’alternativa vera, perché «il cambiamento non passa per i gattopardi: i Macron non sono la soluzione, ma parte del problema».Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi: Emmanuel Macron è il nuovo gattopardo che si aggira per l’Europa, scrive Giacomo Russo Spena su “Micromega”. E’ l’ultimo paladino del riformismo europeo, l’uomo della provvidenza. Giovane, rampante, volto pulito e sbarazzino. Ha il merito di aver arginato l’avanzata del “populismo xenofobo”, affermando “l’europeismo” contro il neosovranismo, mandando al settimo cielo personaggi come Angela Merkel, Jean-Claude Juncker e lo statista Angelino Alfano, che twitta: «Brinda la Francia e chi crede nell’Europa, nel libero mercato, nella solidarietà». Piace, Macron, perché è il nuovo che avanza sulle ceneri di un sistema ormai al collasso, tra i socialisti francesi ridotti al livello del Pasok greco e la crisi del gollismo, incapace di arrivare al ballottaggio. Macron si definisce “né di destra né di sinistra”, ma incarna veramente il “nuovo che avanza”? A leggere biografia, programma e dichiarazioni, siamo di fronte ad un caso gattopardesco, insiste Russo Spena: dietro quell’idea di rottura con l’establishment, infatti, si nascondono esattamente gli stessi blocchi di potere e di interessi economici finora perfettamente dominanti.
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Euro e vaccini: e io che credevo alla serietà dei 5 Stelle…
Se vanno avanti così i 5 Stelle non vinceranno mai le elezioni (con margini sufficienti per andare al governo, intendo) perchè non hanno più il coraggio delle proprie idee. Prendiamo ad esempio la posizione ambigua, e sostanzialmente contraddittoria, che hanno assunto di recente riguardo al problema dei vaccini. Ospite della Gruber un paio di settimane fa, Alessandro Di Battista si è sentito fare una domanda-trabocchetto da una giornalista di “Sky-Tv”: «Lei vaccinerà suo figlio [che sta per nascere, ndr]?». «Certamente», ha risposto Di Battista senza esitazioni, e dimenticandosi di aggiungere una qualunque obiezione rispetto all’obbligatorietà dei vaccini. In altre parole, Di Battista ha voluto far passare il messaggio che “per i 5 Stelle i vaccini, così come sono somministrati oggi, non rappresentano un problema”. Peggio di lui ha fatto Luigi Di Maio, che pochi giorni dopo ad Harvard ha dichiarato: «I vaccini in Italia sono obbligatori per legge. Noi non abbiamo nessuna intenzione di eliminare questa obbligatorietà. Per noi sono fondamentali, e vogliamo promuovere il più possibile la cultura dell’informazione». Ma scusa un attimo, caro Di Maio, che cosa ce ne facciamo noi dell’“informazione”, se poi tanto i vaccini restano obbligatori?Questa lampante contraddizione nasconde una evidente paura che ha assalito i 5 Stelle da quando è esplosa la polemica sui vaccini. Messi sotto attacco da ogni angolo (compreso il “New York Times”, che non è poco), e accusati di essere anti-vax in modo categorico, i 5 Stelle non hanno trovato di meglio che fare una violenta retromarcia, per andare a nascondersi dietro ad una posizione palesemente allineata con il pensiero mainstream. La stessa cosa è successa con l’euro. Inizialmente i 5 Stelle denunciavano apertamente la moneta unica come evidente strumento per tenere in schiavitù le diverse economie nazionali, ma da un po’ di tempo a questa parte le loro posizioni si sono progressivamente annacquate, al punto da non essere più distinguibili dal pensiero mainstream. Il problema dei 5 Stelle è molto chiaro: quando sentono di poter diventare vulnerabili su un certo argomento, o fanno una netta marcia indietro (come nel caso dei vaccini) oppure annacquano talmente le loro posizioni (come nel caso dell’euro) da finire per assomigliare a tutti gli altri.Ma a questo punto a cosa servono i 5 Stelle? Se da partito di rottura stanno diventando lentamente allineati con gli altri su tutte le questioni più importanti, tanto vale votare Berlusconi oppure Matteo Renzi, no? Purtroppo i 5 Stelle seguono questa strategia convinti di poter conquistare più voti “fra gli indecisi”, ovvero fra coloro che sarebbero magari disponibili a votare per loro, ma che ne temono alcune posizioni troppo estreme. Ma in realtà avviene l’esatto contrario: l’indeciso rimane comunque indeciso (a causa delle posizioni poco chiare dei 5 Stelle), mentre chi prima li appoggiava apertamente rischia di sentirsi tradito dai loro voltafaccia, e di disamorarsi di questo movimento. Prendiamo ancora l’esempio dei vaccini: quante madri credono di aver conquistato, dicendo che «l’obbligo delle vaccinazioni non verrà messo in discussione»? Pochissime, in realtà, perchè comunque le madri che già sono favorevoli all’obbligo sono certamente persone che non votano 5 Stelle. E quante invece ne avranno perse? Moltissime, a mio parere, e cioè tutte quelle madri che speravano in una rimozione dell’obbligo vaccinale, proprio per poter decidere in piena libertà sul futuro e sulla salute dei propri figli.Quando ci si trova di fronte ad argomenti controversi non bisogna arretrare “per paura del nemico”, ma bisogna andargli incontro sostenendo con coraggio le proprie idee, in modo documentato ed informato. Io voglio poter votare per un movimento che sostiene apertamente e coraggiosamente quello che è giusto, documentando e argomentando in modo adeguato le proprie posizioni. Non me ne faccio nulla invece di un movimento che ha paura di tutto e di tutti, nascondendosi dietro ad un filo d’erba ogni volta che rischia di essere attaccato. Altrimenti, davvero, evviva la Democrazia Cristiana.(Massimo Mazzucco, “I 5 Stelle stanno perdendo la loro qualità migliore: la coerenza”, dal blog “Luogo Comune” del 9 maggio 2017).Se vanno avanti così i 5 Stelle non vinceranno mai le elezioni (con margini sufficienti per andare al governo, intendo) perchè non hanno più il coraggio delle proprie idee. Prendiamo ad esempio la posizione ambigua, e sostanzialmente contraddittoria, che hanno assunto di recente riguardo al problema dei vaccini. Ospite della Gruber un paio di settimane fa, Alessandro Di Battista si è sentito fare una domanda-trabocchetto da una giornalista di “Sky-Tv”: «Lei vaccinerà suo figlio [che sta per nascere, ndr]?». «Certamente», ha risposto Di Battista senza esitazioni, e dimenticandosi di aggiungere una qualunque obiezione rispetto all’obbligatorietà dei vaccini. In altre parole, Di Battista ha voluto far passare il messaggio che “per i 5 Stelle i vaccini, così come sono somministrati oggi, non rappresentano un problema”. Peggio di lui ha fatto Luigi Di Maio, che pochi giorni dopo ad Harvard ha dichiarato: «I vaccini in Italia sono obbligatori per legge. Noi non abbiamo nessuna intenzione di eliminare questa obbligatorietà. Per noi sono fondamentali, e vogliamo promuovere il più possibile la cultura dell’informazione». Ma scusa un attimo, caro Di Maio, che cosa ce ne facciamo noi dell’“informazione”, se poi tanto i vaccini restano obbligatori?
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Servizi deviati? No: a decidere è la politica (anche le stragi)
Perché chiamarli “servizi deviati”, se i servizi segreti si prestano a fare una manovra riguardo a un traffico di droga che gli consente di acchiappare dei terroristi che stanno per mettere delle bombe? I servizi segreti fanno un lavoro sporco, ci dobbiamo rassegnare: uno può rinunciare ad averli, i servizi, ma non può pensare di avere servizi segreti trasparenti. I servizi segreti, pur di sapere se viene fatto un attentato al Papa, devono fargli vendere l’eroina, a qualcuno. Devono fare cose inconfessabili: per questo si chiamano servizi segreti. Devono fare cose sotto copertura, che non si devono venire a sapere. Ci sono Stati – molto piccoli – che non li hanno, i servizi, eppure vanno avanti lo stesso. Ma se li hai, devono essere segreti. Poi, dato che rispondono al governo, semmai a essere “deviato” è il governo: è il governo a chiedere qualcosa di “deviato”, ai suoi servizi, che sono alle dipendenze di una responsabilità anche politica. Non puoi dare ai servizi segreti responsabilità che non hanno. Interventi di servizi stranieri? Fa parte del gioco: anche noi interveniamo nelle cose straniere. Ognuno ha il suo interesse nazionale, che non si tutela solo entro i confini. Ma è sempre l’autorità politica a dare l’input.Quando i servizi segreti italiani hanno ricevuto l’ordine di mettersi a disposizione della Gladio, l’operazione Stay Behind, l’hanno ricevuto da Cossiga, che era il ministro degli interni: dunque erano deviati loro o era deviato Cossiga? Certo che i servizi sono “al di sopra della legge”. E sono pure dotati della “licenza di uccidere”, proprio come il titolo del primo film di James Bond. Poi ci sono aspetti decisamente criminali, da parte di alcuni servizi segreti. C’è tutta una serie di attività di auto-finanziamento a cura di servizi come il Mossad (e, fino a dieci anni fa, i servizi bulgari), che fanno operazioni su commissione. Sono sempre autorizzate, questa operazioni: le autorità politiche non danno ai servizi tutti i soldi che loro richiedono, e quindi tollarano che, a scopo di auto-finanziamento, il servizio esegua azioni per conto terzi. A volte lavorano per qualche imprenditore che gli chiede qualche favore. Di mezzo c’è sempre, comunque, una responsabilità politica. In Italia i servizi rispondono solo a una commissione parlamentare e al ministro dell’interno, a cui si può contestare se è stato fedele, o meno, all’interesse nazionale. Da noi non puoi rivolgerti direttamente ai servizi: ti rivolgi al ministero dell’interno, chiedendo di attivare i servizi per monitorare ad esempio un’industria farmaceutica, o traffici finanziari. Ma tutto fa capo, sempre, al ministero.Il primo ministro può anche essere ignaro, dell’attività dei servizi, solo se non funziona il rapporto gerarchico con il referente diretto dei servizi, cioè il ministro dell’interno. Ma l’Italia è un paese bislacco, carente di responsabilità politica: da noi è capitato spesso che sia stato il presidente del Consiglio a chiedere espressamente al ministro dell’interno di non informarlo, su certe cose. E’ accaduto quando i servizi hanno gestito il pagamento del riscatto di certi sequestrati, e hanno pagato i rapitori con fondi che non dovevano comparire. Chi gestì quelle operazioni di liberazione, e con che soldi? Forse a questo punto vi date delle risposte, ricordando l’allora presidente della repubblica Oscar Luigi Scalfaro, già ministro dell’interno: rispose “non ci so”, quando gli chiesero dove fossero finiti certi famosi fondi neri. Scalfaro sapeva che gli sarebbe toccato tirar fuori l’elenco delle “operazioni” attuate per accumulare quei fondi neri. Quand’era ministro, il presidente del Consiglio aveva detto a Scalfaro: fa’ pure tutte quelle cose, ma fa’ in modo che io non ne sappia niente.Poi c’è l’ulteriore problema che è stato posto, ad esempio, durante il nazismo: la catena gerarchica ufficiale, che sotto il nazismo ha funzionato benissimo, era una catena perfetta. Gli ordini più terribili – uccidere, aprire i gas nei lager, sterminare ostaggi (come quelli delle Fosse Ardeatine) – gerarchicamente erano corretti. Ai soldati nazisti è stato contestato il fatto che, a certi ordini, bisognerebbe disobbedire. Ma è un problema molto delicato: perché, se fai passare questa linea, finisci col non ritrovartelo più, un esercito. Perché la linea gerarchica di un esercito, di un’operazione militare, dev’essere assoluta. Se tu la incrini, poi rimetti alle valutazioni individuali di ogni soldato a quale ordine obbedire e a quale no. Secondo voi sopravvive, un esercito, a questo? E’ un problema molto delicato, che vale anche per i servizi. Il servizio segreto che ha favorito la strage di Bologna, quello di Giannettini, si doveva rifiutare? Dire questo è eticamente giusto, però si stabilisce un principio che è contro la sopravvivenza di quell’organo: se uno mette in discussione la catena gerarchica, poi ognuno stabilisce per i fatti suoi quel che è giusto e quello che non è giusto, e quella cosa lì non esiste più.Attività criminali, come lo stragismo? Il rapporto con l’interesse nazionale lo stabilisce la responsabilità politica, siamo sempre lì. C’era una catena gerarchica che ha ritenuto utile, per l’interesse nazionale, la strategia della tensione e l’esistenza di opposti estremismi: “servivano” un estremismo violento di destra e un estremismo violento di sinistra, in maniera che la Dc sopravvivesse, potendo dire “noi, moderati, siamo i migliori”. Se c’è un potere politico che stabilisce qual è l’interesse nazionale, il funzionario dei servizi segreti esegue ordini. Ci sono dei campi in cui non esiste la libertà, etica, di fare o non fare una cosa: noi puoi rimettere alla valutazione di ciascun agente dei servizi quale ordine eseguire e quale no. A quel punto è meglio scioglierli, i servizi: fare a meno di averli. Quello che non si può fare è tenerli, e poi contestare il fatto che eseguano gli ordini che ricevono, dal potere politico, quando – per legge – sono assoggettati al potere politico.A volte i servizi segreti sono stati interessati ad acquisire informazioni dalla massoneria, altre volte sono stati interessati a utilizzare la massoneria come copertura per certe operazioni. A volte i servizi hanno avuto interesse ad affiancarsi a certe massonerie e non a certe altre, sperando che crescessero e proliferassero quelle più vicine al loro modus operandi. Ma è accaduto anche con i sindacati, con i partiti. Non fa una grossa differenza: se una funzione statuale come quella dei servizi, peraltro con uno status un po’ particolare, decide che per fare una certa operazione le è utile la Cgil, cerca di acquisire la collaborazione della Cgil. Anch’io ho avuto rapporti coi servizi: a suo tempo, mi era stato proposto anche di fare loro da consulente, con un bel compenso mensile. Solo che ho rifiutato. Ho detto: se la cosa è nell’interesse dello Stato la faccio gratis. Se non è nell’interesse dello Stato – e fortunamente non faccio parte di una catena gerarchica – perché dovrei farla pure a pagamento? Ho rifiutato proprio per quello: non volevo mettermi in un rapporto gerarchico, volevo essere io a valutare l’eticità di quello che mi veniva richiesto.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web “Carpeoro Racconta” del 30 aprile 2017, ripresa su YouTube).Perché chiamarli “servizi deviati”, se i servizi segreti si prestano a fare una manovra riguardo a un traffico di droga che gli consente di acchiappare dei terroristi che stanno per mettere delle bombe? I servizi segreti fanno un lavoro sporco, ci dobbiamo rassegnare: uno può rinunciare ad averli, i servizi, ma non può pensare di avere servizi segreti trasparenti. I servizi segreti, pur di sapere se viene fatto un attentato al Papa, devono fargli vendere l’eroina, a qualcuno. Devono fare cose inconfessabili: per questo si chiamano servizi segreti. Devono fare cose sotto copertura, che non si devono venire a sapere. Ci sono Stati – molto piccoli – che non li hanno, i servizi, eppure vanno avanti lo stesso. Ma se li hai, devono essere segreti. Poi, dato che rispondono al governo, semmai a essere “deviato” è il governo: è il governo a chiedere qualcosa di “deviato”, ai suoi servizi, che sono alle dipendenze di una responsabilità anche politica. Non puoi dare ai servizi segreti responsabilità che non hanno. Interventi di servizi stranieri? Fa parte del gioco: anche noi interveniamo nelle cose straniere. Ognuno ha il suo interesse nazionale, che non si tutela solo entro i confini. Ma è sempre l’autorità politica a dare l’input.
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Magaldi: il supermassone Macron è un bambino nato morto
«Se avesse vinto Marine Le Pen, forse il ripensamento sull’Europa sarebbe stato più rapido. Così invece, per scuotersi, bisognerà soffrire la continuazione della stagnazione, per la Francia e per l’Europa. Vale quello che dissi tanti anni fa per Berlusconi: lasciatelo governare, e si capirà che è un cattivo statista». Gioele Magaldi non ha dubbi: Emmanuel Macron riuscirà nella “missione impossibile” di far rimpiangere addirittura Hollande, passato alla storia come il meno stimato di tutti i presidenti francesi: «Macron è il prodotto “surgelato”, preconfezionato e perfetto per non cambiare nulla, cioè per riproporre quella stessa subalternità politica, istituzionale e sostanziale nell’adesione a un certo paradigma economico che hanno avuto Sarkozy e Hollande». Lo strano entusiasmo manifestato anche dal mainstream italiano per il neo-inquilino dell’Eliseo, paragonato a Renzi all’insegna del “nuovo”? Ma no: «Renzi e Macron sono vecchi: sono personaggi vecchi, anche se appaiono giovani grazie ai loro modi pieni di ritmo». E attenzione, non hanno un gran futuro davanti: «Così come Renzi non inganna più nessuno – la sua vittoria nel Pd è un po’ il canto del cigno – così Macron è un bambino nato morto, politicamente».All’indomani del voto francese, in collegamento con David Gramiccioli di “Colors Radio”, si esprime senza mezzi termini il massone progressista Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata”. Emmanuel Macron, insiste Magaldi, rappresenta «la perfetta continuità rispetto a quello che è stato il mediocre Hollande», ma forse il successore «ha capacità anche minori di Hollande, che era un oscuro burocrate di partito ma almeno aveva una sua “praticaccia”: Macron invece non ha altrettanta esprienza». Già banchiere Rothschild, ha fatto il consulente e poi il ministro proprio di Hollande. In più è il pupillo del supermassone reazionario Jacques Attali. Non a caso, aggiunge Magaldi, lo stesso Macron vanta precise ascendenze massoniche, «nella Ur-Lodge “Fraternitè Verte” dove lo ha portato lo stesso Hollande, e nell’ambigua superloggia “Atlantis Aletheia”, dove hanno convissuto moderati, sedicenti progressisti e reali conservatori; un circuito che fu importante, a suo tempo, nel traghettare la dittatura dei colonnelli in Grecia verso il ritorno alla democrazia».Il suo mentore Attali? «Un raffinato massone, un intellettuale di spessore», ma che purtroppo «operando sul versante del sedicente centro-sinistra ha compartecipato alla costruzione di quest’Europa matrigna, tecnocratica e oligarchica». Un’operazioni cosmetica, quella che ha portato Macron all’Eliseo. E, nonostante i lodevoli sforzi per rendere più laica la sua piattaforma, Marine Le Pen non poteva vincere: «Con un’avversaria così, impossibilitata a diventare maggioritaria, vincerà sempre l’altro, il candidato della continuità con questa gestione pessima dell’Europa». Magaldi poi sorride, di fronte a «tutta questa empatia sbandierata da Gentiloni e Renzi per Macron», e spiega: «Sarebbe come esultare se in Germania vincesse Schulz sulla Merkel – due che sono come i ladri di Pisa, litigano di giorno ma poi, la notte, vanno a rubare insieme». Stessi programmi, identico paradigma per l’Europa. «Macron riprodurrà quello stile renziano, fatto di velleitari distinguo rispetto all’austerity, apparenti “abbaiamenti” per chiedere lo 0,1% in più di spesa pubblica. E Macron non avrà nemmeno bisogno di abbaiare molto, perché alla Francia è stato sempre concesso tutto: in questa gestione dell’Europa, alla Francia la mancia è sempre stata assicurata, senza che nemmeno la chiedesse».Completamente da bocciare, quindi, ogni investimento di credito nei confronti di Macron. Se non altro, «il nuovo quinquennio servirà a smascherare definitivamente tutti questi impostori, che prendono sul serio l’idea renziana-macroniana dei piccoli aggiustamenti, riverniciata di gioventù e ottimismo, come se i piccoli aggiustamenti bastassero davvero a correggere il percorso europeo». Per Magaldi, in questa Europa, «il dramma è che al vertice di governi e istituzioni ci sono solo dei pesci lessi, che stanno lì e amministrano un copione scritto da altri, e lo fanno in modo grigio». Che fare? «Più che indignarsi, c’è da rimboccarsi le maniche e costruire coalizioni realmente progressiste, sia in Francia che in Italia che altrove, uscendo da questa ormai insopportabile narrazione “destra, centro, sinistra” che ha perso di senso, mentre ha sempre più senso la divaricazione tra chi vuole conservare l’attuale paradigma politico-economico e chi vuole progredire su un’altra via».Di una cosa, Magaldi è assolutamente certo: Renzi e Macron «vengono entrambi da una tarda interpretazione della cosiddetta “terza via” enunciata a suo tempo da Anthony Giddens», il sociologo che ispirò Bill Clinton e Tony Blair negli anni ‘90. Ovvero: «L’idea che la sinistra – laburista, democratica, post-socialista – nel nuovo millennio non dovesse proporre paradigmi alternativi a quello del neoliberismo ormai imperante, da Thathcher e Reagan in poi, con tutto il lavorio supermassonico di corredo». Quella sinistra doveva azzerare i diritti, e l’ha fatto: rigore nei bilanci pubblici, svalutazione della sfera pubblica, deregulation senza contrappesi. «Alla sinistra spettava il ruolo di dare una spruzzata di benevolenza sociale e di solidarietà più sbandierata che praticata. Quindi: smantellamento sistematico del welfare system, e una serie di iniziative economico-finanziarie non troppo dissimili da quelle predicate, con più asprezza, dai teorici fanatici del neoliberismo». Questa è stata la “terza via”. «E chi oggi in Italia contesta Renzi da posizioni di “sedicente sinistra”? Massimo D’Alema, che da presidente del Consiglio è stato uno degli interpreti “all’amatriciana” di quella strada. Così è stato Bersani, che oggi si presenta come contestatore. E così è Renzi, a distanza di vent’anni».«Se avesse vinto Marine Le Pen, forse il ripensamento sull’Europa sarebbe stato più rapido. Così invece, per scuotersi, bisognerà soffrire la continuazione della stagnazione, per la Francia e per l’Europa. Vale quello che dissi tanti anni fa per Berlusconi: lasciatelo governare, e si capirà che è un cattivo statista». Gioele Magaldi non ha dubbi: Emmanuel Macron riuscirà nella “missione impossibile” di far rimpiangere addirittura Hollande, passato alla storia come il meno stimato di tutti i presidenti francesi: «Macron è il prodotto “surgelato”, preconfezionato e perfetto per non cambiare nulla, cioè per riproporre quella stessa subalternità politica, istituzionale e sostanziale nell’adesione a un certo paradigma economico che hanno avuto Sarkozy e Hollande». Lo strano entusiasmo manifestato anche dal mainstream italiano per il neo-inquilino dell’Eliseo, paragonato a Renzi all’insegna del “nuovo”? Ma no: «Renzi e Macron sono vecchi: sono personaggi vecchi, anche se appaiono giovani grazie ai loro modi pieni di ritmo». E attenzione, non hanno un gran futuro davanti: «Così come Renzi non inganna più nessuno – la sua vittoria nel Pd è un po’ il canto del cigno – così Macron è un bambino nato morto, politicamente».
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Carpeoro: ucciso il socialismo, era l’antidoto all’orrore Ue
Hanno ucciso Olof Palme, il migliore dei leader, per assassinare il socialismo in Europa, intimidire e poi togliere di mezzo personaggi come Schmidt e Mitterrand (e volendo, lo stesso Craxi). Obiettivo: far stravincere l’oligarchia finanziaria e mettere in piedi l’attuale obbrobrio chiamato Unione Europea. Faceva paura, il premier svedese? Eccome: acerrimo avversario di ogni totalitarismo, in Svezia aveva varato un’economia mista, con quote di controllo allo Stato, nelle aziende, e quote di partecipazione assegnate ai lavoratori. Pragmatismo, coraggio. E soprattutto idee: «E’ di quelle che ha paura, il potere. Per questo ha trasformato la parola “ideologia” in una specie di insulto. Ma l’ideologia è il futuro, il progetto. E senza idee, non puoi fare nessun progetto». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo e romanziere, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, intervenuto in un recente convegno a Roma. L’occasione per una riflessione anche storica sull’eredità del socialismo: se la nostra società occidentale è ridotta così, alla solitudine dell’homo homini lupus, è perché è stato scientificamente, chirurgicamente asportato il virus benefico del socialismo. Anche con il terrorismo, e non da oggi.Alla tragedia del leader socialdemocratico svedese, ucciso a Stoccolma nel 1986 da un killer mai identificato, Carpeoro ha dedicato lunghe pagine del suo lavoro sui legami occulti tra massoneria, servizi segreti e terroristi (il sistema della “sovragestione”). Ed è tornato sul tema a margine del simposio “Le forme della democrazia”, promosso dal Movimento Roosevelt, fondato da Gioele Magaldi. Cos’è stato, il socialismo? Cos’è oggi, e cosa potrebbe essere domani? «Non è stato un pensiero statico, ha avuto un’evoluzione storica, politica», e ora è stato letteralmente rimosso. «Da dov’era partito, il socialismo? Da molto lontano», esordisce Carpeoro: da un periodo di grande riflessione spirituale. «Senza scomodare i Rosacroce», già nel ‘600 si trovano svariate opere proto-socialiste: “Utopia” di Tommaso Moro, “La città del sole” di Tommaso Campanella, “La nuova Atlantide” di Francesco Bacone. Fino ad arrivare a opere meno conosciute, come quelle di Johann Valentin Andreae, presunto autore dei manifesti rosacrociani dell’epoca, che chiude la sua esistenza scrivendo “Christianopolis”, dove racconta il naufragio in un’isola (Caphar Salama) che viene governata in maniera socialista.«Perché la chiamo socialista? Perché una serie di capisaldi di queste opere caratterizzeranno la fase che Marx, con intento quasi spregiatorio, chiamerà “socialismo utopistico”». Ma la parola “utopia”, ricorda Carpeoro, non esisteva nemmeno, prima di Tommaso Moro. «L’ha inventata lui. E’ un neologismo di origine greca, significa “non luogo”. Lo stesso Marx, dunque, citando il “socialismo utopistico”, si richiama a Tommaso Moro». E come nasce, il socialismo utopistico? Ha varie declinazioni: è anarchica quella di Pierre-Joseph Proudhon, quasi mistica quella di Henri de Saint-Simon. Ci sono interpretazioni più pragmatiche, e c’è una declinazione, «forse la più illuminata», che è quella di Auguste Blanqui. «Ma in tutte queste declinazioni ci sono i capisaldi di quello che, secondo gli utopisti del ‘600, doveva essere lo Stato perfetto, la comunità perfetta, con l’abolizione della proprietà privata». In sostanza, «si cominciava a riconoscere il diritto delle persone a vivere secondo dignità e aspettative». Perché questi diritti vengano finalmente riconosciuti in modo istituzionale ci vorrà Eleanor Roosevelt, con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo alle Nazioni Unite nel 1948. «Ma queste idee erano state in qualche modo anticipate già quattro secoli prima». Giustizia e libertà. Tradotto: una società che riconosca il giusto a ognuno, dando a ciascuno la possibilità di scegliere. «Sembra una cosa semplice, no? Eppure, noi ancora non l’abbiamo creata, una società così».Nella sua storia, aggiunge Carpeoro, il movimento socialista si è continuamente frammentato. Lo dimostra la stessa storia del Psi italiano, fondato a Genova nel 1892 da Filippo Turati, «che sarà forse il socialista più coerente», fedele all’impostazione iniziale del progetto ottocentesco, rivoluzionario. Obiettivo: la “guerra” alla società classista del sistema capitalistico, che sottomette e sfrutta contadini e operai. Due mosse: prima la rivoluzione, per abbattere il sistema padronale, e poi l’abolizione delle classi sociali. Come? “Socializzando” i mezzi di produzione, l’economia, le industrie, e distribuendo le terre ai contadini. Poi irrompe Marx, che «istituzionalizza questa sorta di diagnosi», e pensa a come realizzare il disegno rivoluzionario e la fase successiva. «Marx chiama tutto questo “socialismo scientifico”, da contrapporre a quello che lui, disprezzandolo un po’, chiamava “socialismo utopistico”». Ma l’obiettivo, aggiunge Carpeoro, non era forse arrivare comunque all’utopia? «L’eliminazione delle classi cos’è, se non la realizzazione di “Utopia”, della “Nuova Atlantide”, della “Città del Sole”?». In ogni caso, poteva il “fiume” socialista restare interamente ancorato a questo schema? No, ovviamente. E così cominciano le divisioni.«La prima scissione, nel mondo socialista, è quella degli anarchici», ricorda Carpeoro. «Per loro non esiste la fase intermedia, si annulla tutto: nella loro visione, la dissoluzione dello Stato capitalistico è una fase contestuale all’impulso rivoluzionario». Poco dopo, vanno per la loro strada anche i comunisti: «Hanno una visione schematica, per la quale bisogna arrivare con quei passaggi, alla soluzione», che è sempre rivoluzionaria. Rimane il nucleo socialista, che – in Italia come in Europa – si divide a sua volta: nascono i “riformisti”, che restano anti-capitalisti e combattono per la giustizia sociale, ma rinunciano alla rivoluzione come mezzo per ottenerla. Poi ci sono quelli che, successivamente, si chiameranno “socialdemocratici”, come Leonida Bissolati, «i quali aboliscono anche il passaggio finale, l’abbattimento del capitalismo», e quando poi si radicheranno anche nel Pci prenderanno il nome di “miglioristi”. Secondo loro è irrealistica la rinuncia al sistema liberale. Semmai, il capitalismo va corretto con continue migliorie, per guarirne le distorsioni. Nell’800 c’era stato anche il filone dei “socialisti libertari”, che «declineranno il socialismo esclusivamente all’interno dei diritti civili e delle libertà, senza più occuparsi di strategie di governo».Il socialismo libertario, spiega Carperoro, era ciò che era rimasto di un’ulteriore scissione, quella di Mazzini: litigando con Garibaldi, l’ideologo del Risorgimento si era portato via «quel nucleo che poi diventerà l’area laica», repubblicani e Partito d’Azione). Ma, superata la tragedia della Prima Guerra Mondiale – intervisti, neutralisti – e poi il blackout planetario del nazifascismo, nel dopoguerra «dagli anni ‘70 in poi, l’unica direttiva che lentamente si afferma, nel socialismo, è quella socialdemocratica», alimentata anche dalla guerra fredda: nel fatidico 1956 il leader sovietico Khrushev alimenta grandi speranze con la denuncia dei crimini di Stalin, ma nello stesso anno non riesce a evitare la sanguinosa repressione della rivolta popolare scoppiata in Unghieria, replicata nel ‘68 con il soffocamento della “Primavera di Praga”. «In realtà – prosegue Carpeoro – si avvia quella che nel ‘70 si chiamerà “terza via”, cioè la possibilità di trovare una composizione della società, correggendone le deviazioni, verso una maggiore giustizia sociale: cosa che la socialdemocrazia europea considerava assolutamente irrinunciabile».E questa linea, particolarmente efficace perché moderata nelle forme quanto incisiva nei contenuti, «trova un eroe assolutamente straordinario», anche se è «un personaggio di cui non parla mai nessuno». Straordinario «da tutti i punti di vista (anche dal mio, perché era massone come me)», ammette Carpeoro, parlando di Olof Palme. «E’ stato uno dei personaggi più fulgidi del ‘900. Vi invito a leggere i suoi scritti, e soprattutto a rimetterlo sulle bandiere». Il leader svedese, intanto, «è la prima vittima di una congiura contro il socialismo». Attenzione: «Nell’arco di vent’anni, i grandi leader socialisti europei vengono tutti cancellati, in circostanze ambigue. Olof Palme viene ucciso mentre è presidente del Consiglio, in Svezia. E non è che ne sia parlato molto in Europa. Ancora oggi si parla di Che Guevara, non di Olof Palme. Ma è un eroe». E viene ucciso da killer rispetto ai quali «emergono connessioni con ambienti dell’estrema destra e anche, purtroppo, della massoneria: in un telegramma piuttosto equivoco, alla vigilia dell’attentato, Licio Gelli scrive a un parlamentare americano, Philip Guarino, che nel giro di pochi giorni “la palma svedese” sarebbe “caduta”, come la Svezia pullulasse di palme».Lo stesso Craxi, ricorda Carperoro, vinse lo storico congresso del Psi al Midas, da cui nacque la sua leadership, «con un programma che al 50% era quello di Olof Palme, che era il padre nobile di tutti questi socialisti europei». Poi ovviamente «ognuno è libero di considerare i seguaci degni o non degni, ma resta il fatto che Palme aveva dato un programma socialista all’Europa». Dopo il drammatico “avvertimento” rappresentato dall’omicidio di Stoccolma, nessuno dei seguaci di Palme gli sopravviverà – politicamente, quantomeno. «Craxi, in circostanze che non riesco a considerare nitide (e con tutti i suoi errori, certo) viene comunque rimosso dalla vita politica italiana. Poi viene rimosso Mitterrand, in Francia. E viene rimosso Schmidt in Germania, con uno scandaletto. E pensate che, dopo tutte queste concatenazioni nel giro di pochi anni, poi la si faccia casualmente, l’Europa unita, nel modo in cui è stata fatta?». Per Carpeoro, c’è poco da cianciare di complottismo: «Sono stati eliminati i vertici di un movimento politico che aveva un capofila importante».Palme, già attivissimo come leader del suo partito, ha poi svolto due mandati come presidente del Consiglio, in Svezia, «e il secondo l’ha fatto coram populo». Disse: «Io non sono contro il capitalismo, voglio solo tagliargli le unghie ogni tanto». E’ questo il ruolo del socialismo, sottolinea Carpeoro: «Per questo il socialismo è necessario, è indispensabile a questa società. Anche perché, senza socialismo (come, del resto, senza liberismo) questa società non può camminare. Deve avere due ruote, un polo conservatore e un polo progressista. E possibilmente, questi due poli devono essere talmente di qualità che il fatto che si possano alternare al potere deve dipendere solo dalle condizioni del momento». Il liberismo sfrenato? «Non ha fatto male, all’America, appena è stato introdotto da Reagan. Poi però ci si doveva fermare. Se qualcuno ti progetta un regime oligarchico ultraliberista e senza regole per vent’anni, ti vuoi meravigliare se poi il risultato sono le banche che saltano, i soldi che non viaggiano, l’economia che non gira? E’ una forma di staticità della società, e la società non può essere statica».Di fronte alla drastica possibilità di nazionalizzare le aziende, Olof Palme adottò una soluzione intermedia, ispirata alla teoria dell’economista Rudolf Meidner: una quota ai lavoratori, una quota di controllo allo Stato e una quota al privato. «Non per tutto: solo per le aziende in difficoltà. E ha funzionato, in Svezia. Il problema è che poi Palme l’hanno ammazzato». E in Italia? «Se avessero adottato lo schema Meidner, anche da noi, forse molte aziende in difficoltà sarebbero sopravvissute, e i sacrifici richiesti alle nostre maestranze sarebbero stati vissuti in maniera diversa». Non c’è bisogno di tornare all’antico, all’assistenzialismo dell’Iri, basterebbe la leva dei benefici fiscali, alla portata di uno Stato che possedesse quote di aziende. Perché nonè successo? «Perché noi non abbiamo avuto il coraggio di fare quello che Palme ha osato fare, in Svezia, dal ‘69 in poi». Rimettere mano, oggi, alla “contaminazione” socialista? Assolutamente sì, come stimolo ideologico: «Progetto e ideologia sono la stessa cosa: non puoi fare un progetto se non hai un’ideologia. E l’aver trasformato l’ideologia in un insulto è la riprova che a questo sistema, le cose che hanno idee, fanno paura. Il potere le teme, vuole cose senza idee. Vogliono un encefalogramma piatto come quello di Renzi, dove non ci sono onde».Hanno ucciso Olof Palme, il migliore dei leader, per assassinare il socialismo in Europa, intimidire e poi togliere di mezzo personaggi come Schmidt e Mitterrand (e volendo, lo stesso Craxi). Obiettivo: far stravincere l’oligarchia finanziaria e mettere in piedi l’attuale obbrobrio chiamato Unione Europea. Faceva paura, il premier svedese? Eccome: acerrimo avversario di ogni totalitarismo, in Svezia aveva varato un’economia mista, con quote di controllo allo Stato, nelle aziende, e quote di partecipazione assegnate ai lavoratori. Pragmatismo, coraggio. E soprattutto idee: «E’ di quelle che ha paura, il potere. Per questo ha trasformato la parola “ideologia” in una specie di insulto. Ma l’ideologia è il futuro, il progetto. E senza idee, non puoi fare nessun progetto». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo e romanziere, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, intervenuto in un recente convegno a Roma. L’occasione per una riflessione anche storica sull’eredità del socialismo: se la nostra società occidentale è ridotta così, alla solitudine dell’homo homini lupus, è perché è stato scientificamente, chirurgicamente asportato il virus benefico del socialismo. Anche con il terrorismo, e non da oggi.
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L’oligarca Rothschild o la Le Pen? Vinceranno paura e odio
Il risultato del primo turno delle presidenziali francesi regala al candidato di plastica Emmanuel Macron, l’uomo dei Rothschild, le apparenti maggiori possibilità di vittoria per il secondo appuntamento alle urne, quello del 7 maggio, quando dovrà vedersela con Marine Le Pen. I quattro candidati più votati (Macron, Le Pen, Fillon, Mélenchon) si sono spartiti l’80 per cento dei voti, collocandosi ciascuno poco sopra o poco sotto il 20 per cento. Con un dato di partenza così basso, il meccanismo del ballottaggio non potrà mai a giocarsi sul consenso per sé, ma sul dissenso verso l’altro candidato. Non vincerà il più amato e apprezzato, perderà il più odiato e temuto. Entrambi i candidati sono in grado di attirare su di sé le principali forme di dissenso già sperimentate in questi anni nel discorso pubblico dei paesi occidentali. Ognuna di queste forme ha i suoi intellettuali organici, i suoi media di riferimento, i suoi argomenti dominanti. Prendiamo Emmanuel Macron. È un prodotto sfornato direttamente dalle officine dell’élite atlantista come un avatar telegenico che deve dare un volto elettoralmente fungibile agli interessi della grande finanza, di cui è espressione immediata.Una volta consumato oltre ogni dire l’impresentabile presidente Hollande, l’élite filo-Nato e filo-Ue ha equipaggiato in fretta e furia il giovane Emmanuel con tutto il corredo retorico del “nuovo” e del “dinamico” (il suo partito istantaneo si chiama “En Marche!”, ossia “In Cammino!”), senza poterlo tuttavia riparare completamente dalla verità che lo riguarda né dalla repulsione di chi conosce questa verità: Macron è l’ennesimo fantoccio neoliberista, un continuatore delle politiche neocolonialiste che hanno fatto della Francia uno dei maggiori perturbatori della pace negli ultimi anni, un distruttore dei diritti del lavoro. Ha dalla sua parte le grandi Tv e i grandi giornali dell’oligarchia francese, che sono organici al suo mondo di provenienza, ma questo elemento di forza – pur potentissimo – sconta il fatto che la corrente principale dei media è sempre più invisa a decine di milioni di persone, che si informano su altri canali e hanno altri intellettuali di riferimento.Dal canto suo, Marine Le Pen non è certo una candidata artificiale e il suo Front National non è un partito finto, bensì una forza popolare radicata da decenni, durante i quali ha assunto un profilo staccato dalle caratteristiche fasciste impresse dal suo fondatore, e padre di Marine, Jean-Marie Le Pen, ormai espulso dal partito. Ma le dinamiche elettorali hanno inerzie e resistenze molto lunghe, che riguardano l’identità e la psicologia di grandi masse di elettori. Saranno in tanti a continuare a votare in base a pregiudiziali destra-sinistra: la lunga storia xenofoba del partito a guida Le Pen farà turare ancora milioni di nasi, cui non basterà il suo profilo sociale, il suo radicamento nei quartieri operai, i suoi progetti di ripresa della sovranità rispetto alle tecnocrazie europoidi, perché temeranno le sue ricette più dure in tema di immigrazione e di sicurezza pubblica. Marine Le Pen ha una certa presa popolare attraverso i media fuori dal mainstream, ma non le sarà risparmiata alcuna forma di manipolazione e “spin” mediatico da parte di un sistema disposto a vendere cara la pelle, con uno schieramento impressionante di politici già in lotta per far vincere Macron.La cosa può anche non funzionare. Gli esempi recenti non mancano. Di fronte al Brexit e all’ascesa di Donald Trump la linea di difesa aggressivissima del “kombinat” politico-mediatico non ha retto nelle urne, dove i risultati sono stati quelli opposti al suo volere. Tanto che sono dovuti scattare dei “piani B”: sia a Londra che a Washington sono riusciti, sì, a normalizzare le scelte dei governi nati dai terremoti elettorali, ma con grande fatica e incertezza, in uno scenario di crisi sistemica meno manovrabile dall’élite: se sei un guerrafondaio neoconservatore russofobo e sei riuscito a castrare le velleità di The Donald, beh, la cosa ti va lo stesso di lusso, date le circostanze, ma alla Casa Bianca preferivi comunque avere qualcun altro. Anche in Italia, con il referendum costituzionale del 4 dicembre, il risultato è stato opposto a quello voluto dai padroni del vapore, al punto che Matteo Renzi è stato ridimensionato, con un governo che intanto galleggia senza progetto. Tuttavia, nelle forme in cui avviene l’espressione della volontà popolare, conta parecchio il tipo di sistema elettorale. Il ballottaggio francese ha caratteristiche importantissime che influiscono sulle possibilità reali di vittoria. E vincere implica trasformare un 20 per cento in un 51 per cento in appena quindici giorni.Se con piccole variazioni percentuali Macron non avesse raggiunto il ballottaggio e lo avesse conquistato qualcun altro, avremmo misurato l’avversione a quell’altro candidato con altri criteri. Ad esempio, come si sarebbero evolute le posizioni anti-Ue e anti-Nato del candidato della sinistra, Mélenchon, di fronte alle analoghe posizioni della Le Pen? Sarebbe stata un’altra dinamica, o no? E se al ballottaggio fosse giunto il gollista Fillon, che voleva ripristinare un dialogo amichevole con la Russia spazzando le sanzioni, come sarebbe cambiata la geografia elettorale? E se Marine Le Pen non fosse giunta al ballottaggio, come avrebbero votato i suoi elettori? Avrebbe prevalso un euroscettico o un atlantista sfegatato Dato il sistema del ballottaggio, Macron prende il via comunque da favorito, perché una parte massiccia delle personalità e delle formazioni sociali che pure non lo ha votato teme di più Le Pen e si mobiliterà in tal senso. Ora non si tratta tanto dello schieramento – davvero scontato – dell’élite, ma anche delle associazioni nei quartieri, dei sindacati a livello locale, di tutta una miriade di organizzazioni con radici popolari.Certo, è un mondo che stavolta ha dato al candidato socialista Benoît Hamon soltanto un miserrimo 6 per cento dei voti, ma è anche un mondo che ha una lunga storia dove dire ‘non’ a Le Pen è stata sempre una pregiudiziale inflessibile, quartiere per quartiere, villaggio per villaggio. Buona parte degli elettori di sinistra di Mélenchon condivide molti più punti programmatici sociali con la presidente del Fronte Nazionale che con il rampollo della finanza predatoria. Ma per Marine Le Pen conquistare quei voti significa dover demolire un “di più” di sfiducia verso il portato storico e ideologico che lei rappresenta. È prevedibile che farà allora di tutto per presentarsi come l’Alternativa possibile, cercando di erodere il Fronte che già si è costituito contro di lei, pescando tanto a sinistra, quanto fra gli euroscettici che pure hanno votato il moderato Fillon. In mezzo al risultato colpisce la disfatta totale dei socialisti francesi, che ripete quella dei socialisti olandesi di marzo. La sinistra socialdemocratica europea è in rotta, e le sue residue bandiere le consegna a difendere un bidone della banca Rothschild.(Pino Cabras, “#Macron, #LePen, chi perderà di più?”, da “Megachip” del 24 aprile 2017).Il risultato del primo turno delle presidenziali francesi regala al candidato di plastica Emmanuel Macron, l’uomo dei Rothschild, le apparenti maggiori possibilità di vittoria per il secondo appuntamento alle urne, quello del 7 maggio, quando dovrà vedersela con Marine Le Pen. I quattro candidati più votati (Macron, Le Pen, Fillon, Mélenchon) si sono spartiti l’80 per cento dei voti, collocandosi ciascuno poco sopra o poco sotto il 20 per cento. Con un dato di partenza così basso, il meccanismo del ballottaggio non potrà mai a giocarsi sul consenso per sé, ma sul dissenso verso l’altro candidato. Non vincerà il più amato e apprezzato, perderà il più odiato e temuto. Entrambi i candidati sono in grado di attirare su di sé le principali forme di dissenso già sperimentate in questi anni nel discorso pubblico dei paesi occidentali. Ognuna di queste forme ha i suoi intellettuali organici, i suoi media di riferimento, i suoi argomenti dominanti. Prendiamo Emmanuel Macron. È un prodotto sfornato direttamente dalle officine dell’élite atlantista come un avatar telegenico che deve dare un volto elettoralmente fungibile agli interessi della grande finanza, di cui è espressione immediata.