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Reporter senza frontiere, ora sindaco lepenista a Béziers
«Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». Non è certo che l’infelicissima frase – sterminare l’intera popolazione di una città che ospitava 500 càtari – sia stata testualmente pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo della “crociata contro gli albigesi”. Né è sicuro che i morti di quel fatidico 22 luglio 1209 siano stati davvero così tanti, 20.000 civili. Ma è invece accertato che la città di Béziers, pure circondata dalle schiaccianti milizie crociate, avesse sdegnosamente rifiutato, il giorno prima, di salvarsi consegnando ai carnefici gli eretici che ospitava: la morte, piuttosto che il tradimento della protezione accordata agli inermi “veri cristiani” del medioevo. Otto secoli dopo quella strage, che segnò l’inizio della sanguinosa Crociata Albigese, oggi la città di Béziers – ribelle e martire – ha un sindaco eletto coi voti del Front National di Marine Le Pen, la donna che sfida a viso aperto il regime di Bruxelles. Ma la notizia è un’altra: il nuovo primo cittadino è il giornalista Robert Ménard, fondatore di “Reporters Sans Frontières” e icona francese della difesa dei diritti civili.I francesi, scrive Leonardo Martinelli sul “Fatto Quotidiano”, se lo ricordano per anni a difendere con entusiasmo e determinazione «il diritto a informare e a essere informati in tutto il mondo». Protagonista di blitz sorprendenti, Ménard: nel 2008 salì di notte in cima a Notre-Dame, a Parigi, per poi sventolare una bandiera con la scritta “Freedom in China”, in occasione del passaggio della fiamma dei Giochi olimpici di Pechino nelle strade della capitale francese. «Oggi, ecco il nuovo Ménard: sindaco di Béziers, città del profondo Sud francese, una delle più degradate e povere del paese», nel cuore della regione dove nacque la lingua d’Oc. Ménard è stato un uomo simbolo, in Francia, delle tradizionali battaglie sociali della sinistra: gli stessi francesi faticano a comprenderne la “metamorfosi”, ora che si è schierato con un partito sovranista ed euroscettico, che la gauche – francese e non solo – continua a definire “sciovinista e di estrema destra”, non volendo riconoscere il “patriottismo socio-economico” invocato dalla Le Pen, per tornare alla “sovranità democratica nazionale” contro i diktat dell’Unione Europea.Classe 1953, Ménard è nato a Orano, in Algeria. «È quindi un pied-noir, figlio di coloni dell’Algeria francese, che dovette abbandonare dopo la raggiunta indipendenza», scrive Martinelli. Famiglia di origini modeste, il padre era un sindacalista comunista che poi passò all’Oas, l’organizzazione paramilitare che voleva mantenere il dominio della Francia sull’Algeria. La madre, una fervente cattolica. «Sono elementi non secondari, se si guarda alla vita che verrà del piccolo Robert». Lasciata in fretta Orano, andarono a vivere a Béziers, nel quartiere (ancora oggi) popolare della Devèze. «Negli anni Settanta il giovane Robert aderì alla Lega comunista rivoluzionaria, per poi prendere la tessera del Partito socialista nel 1979, abbandonato, a dire il vero, poco dopo l’elezione di François Mitterrand», uno dei massimi artefici dell’attuale Unione Europea. Ménard continuò negli anni Ottanta a impegnarsi animando radio libere, per poi entrare a far parte, come giornalista, della redazione locale di “Radio France”, l’emittente di Stato.A Montpellier, ancora nel Sud, fondò nel 1985 con un gruppo di amici “Reporters Sans Frontières”, «una Ong che in seguito ha assunto un ruolo importante, anche a livello internazionale, nella difesa dei giornalisti perseguitati in tutto il mondo», ricorda Martinelli. Sebbene Rsf non sia legata direttamente ad alcun partito, ha sempre avuto in Francia un’immagine di sinistra. «Ménard veniva invitato sempre più spesso in tv: diretto nell’eloquio, perfino un po’ irascibile. Ormai era diventato un personaggio pubblico». A sorpresa Ménard lasciò Rsf nel settembre 2008 per andare a Doha, in Qatar, a dirigere il “Centro per la libertà dell’informazione”, «finanziato dall’emirato, che non si può proprio definire una democrazia perfetta». Ma «fuggì anche da lì, l’anno seguente, in mezzo alle polemiche, per rientrare in Francia e ricominciare la sua carriera di giornalista, con trasmissioni alla tv e in radio». È a quel momento, continua il “Fatto”, che è emersa chiaramente la virata verso il Front National, firmando il libro “Vive Le Pen!”, uscito nel 2011. Il paladino francese della libertà d’informazione ha sempre rifiutato di iscriversi al partito. E anche a Béziers, la città della sua giovinezza, quando ha deciso di presentarsi alle comunali ha costituito una lista indipendente, con personaggi provenienti da vari orizzonti culturali, non solo quello del Fn, di cui ha chiesto solo in seguito l’appoggio esterno.In ogni caso, riguardo al discorso politico di Marine Le Pen, dice di «condividerne almeno l’80%», in modo assolutamente spiazzante: è favorevole alla linea dura sull’immigrazione mentre è contrario al maggior cavallo di battaglia del Fronte Nazionale, cioè l’uscita della Francia dall’euro. «Adesso – ha dichiarato – dico quello che penso e che prima non osavo dire o non ammettevo neanche a me stesso». Si è quindi lanciato contro il «perbenismo della sinistra», accusata di essere troppo “politicamente corretta”. «Sul matrimonio gay, ad esempio – scrive Martinelli – si è espresso in maniera critica, definendolo un “capriccio” e assicurando che, una volta eletto a Béziers, si sarebbe rifiutato di celebrarne al municipio della città». Il “Fatto” sottolinea che Ménard ha scritto quasi tutti i suoi ultimi libri assieme a Emmanuelle Duverger, sua moglie, che proviene da una famiglia cattolica di destra.Partita in sordina nell’estate scorsa, la campagna elettorale di Ménard è diventata progressivamente un caso in Francia e soprattutto a Béziers, città rivierasca del sud-ovest mediterraneo con 76.000 abitanti, di cui il 32% vive al di sotto della soglia di povertà. Béziers, che ha vissuto un lento declino economico a partire dagli anni Ottanta, esce da 19 anni ininterrotti di dominio dell’Ump, il partito conservatore, protagonista di un governo locale accusato a più riprese di corruzione. «Anche questo ha favorito la lista di Ménard, oltre al fatto che la sinistra è storicamente debole in città», conclude Martinelli. «L’ex agitatore di Rsf ha costituito una lista “con l’obiettivo di riunire elettori di sinistra e di destra”. Obiettivo decisamente centrato».«Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». Non è certo che l’infelicissima frase – sterminare l’intera popolazione di una città che ospitava 500 càtari – sia stata testualmente pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo della “crociata contro gli albigesi”. Né è sicuro che i morti di quel fatidico 22 luglio 1209 siano stati davvero così tanti, 20.000 civili. Ma è invece accertato che la città di Béziers, pure circondata dalle schiaccianti milizie crociate, avesse sdegnosamente rifiutato, il giorno prima, di salvarsi consegnando ai carnefici gli eretici che ospitava: la morte, piuttosto che il tradimento della protezione accordata agli inermi “veri cristiani” del medioevo. Otto secoli dopo quella strage, che segnò l’inizio della sanguinosa Crociata Albigese, oggi la città di Béziers – che fu ribelle e martire – ha un sindaco eletto coi voti del Front National di Marine Le Pen, la donna che sfida a viso aperto il regime di Bruxelles. Ma la notizia è un’altra: il nuovo primo cittadino è il giornalista Robert Ménard, fondatore di “Reporters Sans Frontières” e icona francese della difesa dei diritti civili.
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Generazione decrescente: la crisi e la formica utopista
Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.Certo, l’attuale modello di sviluppo ha avvelenato la Terra e prodotto solitudine e depressione. E ora che s’è inceppato, abbandona al suo destino la prima “generazione decrescente” della storia occidentale moderna, quella che sa di non poter avere quello che ebbero tutte le generazioni precedenti: la legittima speranza di crescere ancora. Il che però non significa, di per sé, precipitare nell’abisso: ci si può attrezzare per vivere meglio, comunque, a prescindere dall’ecatombe del Pil. E’ la tesi di Andrea Bertaglio, classe 1979, espressa nella sua ultima dolente ricognizione editoriale presentata da Maurizio Pallante, di cui è stretto collaboratore. Il libro si affaccia con angoscia sul panorama desolante dei coetanei, traditi dalle false promesse dello sviluppo illimitato e condannati all’esilio o al call center, in precaria alternativa alla disoccupazione perenne, mentre intorno si sfasciano, giorno per giorno, tutte le certezze del sistema Italia. Sta franando, il nostro paese, che pure militava nel G7 – settima potenza industriale del mondo – e che l’Eurozona dell’austerity ha letteralmente declassato, stroncato, ridotto a mendicare clemenza dai potenti signori di Bruxelles, che peraltro nessuno ha mai eletto.Tutto questo accade, sostengono ormai molti analisti, perché l’élite mondiale non tollera di dover “dividere la torta” con ormai 7 miliardi di esseri umani e le loro inevitabili aspirazioni di consumo. Cibo e terre, acqua, energia, tecnologia, merci. Il risveglio dell’ex terzo mondo, oggi guidato dai Brics, dopo la caduta dell’Urss ha fatto esplodere il business della globalizzazione selvaggia, le delocalizzazioni, il lavoro schiavistico. L’industria? Sempre meno conveniente, per gli antichi “padroni”: meglio la pura speculazione finanziaria. A una condizione, essenziale: sbaraccare l’ostacolo della politica democratica, il welfare, la sovranità degli Stati, le leggi a tutela del cittadino, i diritti del lavoro. Per teorici intransigenti come Paolo Barnard – che cita economisti come il francese Alain Parguez, già insider all’Eliseo – basta dare un’occhiata alle biografie dei padri fondatori dell’Unione Europea (l’autoritario Mitterrand, “monarchico” come il suo guru Jacques Attali, e il primo presidente della Commissione Europea, Jacques Delors, definito “uomo dell’Opus Dei”) per capire che razza di progetto – a vocazione feudale – sia quello dell’Ue, di cui l’euro rappresenza il braccio armato, con un unico grande obiettivo: radere al suolo la sovranità finanziaria degli Stati membri, e quindi la loro residua capacità di proteggere le rispettive comunità nazionali.Il tracollo è ovvio, perfettamente voluto. Se privatizzi la moneta crolla tutto, a cascata: credito, spesa pubblica, settore privato dell’economia, occupazione, risparmi delle famiglie. “Masters of the Universe”, li chiama Noam Chomsky. Sono l’élite planetaria, erede dell’oligarchia occidentale che per due secoli, e in particolare nella seconda metà del ‘900, ha subito come un affronto la nascita della democrazia moderna, l’avvento dello Stato come erogatore di benessere materiale per i propri cittadini, grazie alla libera creazione di moneta. Oggi? Si stanno semplicemente riprendendo tutto, abolendo di fatto la democrazia. E lo fanno in un mondo sovrappopolato e minacciato da più crisi, concomitanti e tutte potenzialmente letali: energia, clima, economia, acqua, cibo, ambiente. Per Giulietto Chiesa, autore del saggio “Invece della Catastrofe” che parte dalle drammatiche profezie del Club di Roma sui raggiunti limiti dello sviluppo del capitalismo coloniale e mercantile, ci sono tutte le condizioni geopolitiche per temere l’avvento di una Terza Guerra Mondiale.Dopo l’11 Settembre la storia s’è rimessa a correre: Iraq e Afghanistan, Libia e Siria, ora Ucraina. Evidente il tentativo degli Usa di coinvolgere l’Europa in una drammatica sfida con la Russia. Obiettivo: fermare l’avanzata della Cina, sfruttando l’unico vero vantaggio di cui gli Stati Uniti ancora dispongono, cioè la supremazia tecnologico-militare. Il guaio, avverte uno storico medievista come Franco Cardini, è che ormai a decidere non sono più i governi eletti dal Parlamento, perché tutte le maggiori istituzioni nazionali e soprattutto internazionali – politiche, diplomatiche, economiche, finanziarie – sono capillarmente infiltrate dalle lobby dell’élite, che tende a militarizzare il mondo impiegando missili-fantasma, droni-killer, milizie private, eserciti mercenari. Si preparano soluzioni sbrigative, repressioni, abolizioni di diritti sociali. Un incubo, che aiuta a comprendere lo scenario nel quale sono paracadutati i trentenni di oggi, a cui anche in Germania viene spiegato che i mini-job da 500 euro al mese sono un lusso, dati i tempi che corrono. C’è una guerra in corso, appunto. Ma ancora si stenta a riconoscerla.Di recente, in un incontro coi ragazzi torinesi del Movimento per la Decrescita Felice, un intellettuale ultra-indipendente come Guido Ceronetti ha ammesso la propria nostalgia per il socialismo, cioè un sistema in cui lo Stato garantisca pari opportunità per tutti. Lo Stato è il grande assente dei nostri giorni: privandolo della sua sovranità fisiologica, i trattati-capestro di Bruxelles lo costringono a trasformarsi in spietato esattore, non avendo più altra fonte finanziaria che quella fiscale. Un libero pensatore come Alex Langer, profeta europeo dell’ambientalismo politico, si battè già negli anni ‘80 per il grande cambiamento oggi invocato dagli ecologisti: sapeva benissimo che solo il governo, investendo denaro sovrano attraverso la spesa pubblica e quindi il debito, può imprimere una forte eccelerazione a qualsiasi politica di ricoversione sostenibile dell’economia. Bertaglio lo cita in un passaggio del suo libro: «La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile». E’ esattamente il crinale – innanzitutto culturale – su cui si impegnano i promotori della decrescita intelligente, da Pallante a Latouche.E’ anche il cuore dell’indagine che Andrea Bertaglio conduce con voce disarmata, partendo dalla propria esperienza personale, a confronto con quella di suo padre e, prima ancora, di suo nonno. E’ crollato un mondo, il loro. E questo di oggi, popolato di giovani spaesati e costretti a farsi mantenere dai genitori, rinunciando all’idea di metter su casa, è qualcosa che – per la prima volta – fa davvero paura. Quella della decrescita (s’intende: decrescita del Pil, degli sprechi, dei veleni) è una sorta di bussola: se lavori come un pazzo e spendi tutto quello che guadagni, finisci col non sapere neppure più cosa stai facendo, e perché. A cosa serve il lavoro che attualmente – quando c’è – ci dà da vivere? Riconversione: di certo, un lavoro socialmente utile fa vivere meglio, anche se magari fa calare il Pil perché comporta meno consumi, meno spostamenti, meno spese. E’ la filosofia della filiera corta, dei territori sostenibili, del “meno e meglio”. La strada imboccata da Roberto, che ha mollato il lavoro d’ufficio a Cagliari e si è messo a fare l’orticoltore in un paesino della provincia. O quella – spettacolare – dei ragazzi di Pescomaggiore, l’ecovillaggio fatto di case di paglia.I pionieri dell’economia sostenibile sembrano scansare il dilemma politico dei rapporti di forza, quelli cioè che – attraverso le elezioni – possono far vincere un’idea, trasformandola in azione pubblica regolarmente finanziata. Si diffida, purtroppo (ma comprensibilmente) delle organizzazioni politiche, preferendo l’azione diretta, promossa dal basso. Come quella del Comitato Rifiuti Zero che, ricorda Bertaglio, ha imposto «la vittoria del popolo valdostano contro l’affarismo», che voleva il solito inceneritore. Leader del comitato di lotta, il giovane medico Jean-Luis Aillon, dirigente Mdf. Un ragazzo di 29 anni, che ha scelto di lavorare meno – come guardia medica – per avere più tempo per l’orto e la produzione di formaggi destinati all’autoconsumo. «Se lavorassi soltanto per diventare ricco e famoso, sarei presto molto depresso».L’ennesimo ingenuo utopista? «La selezione naturale ha prescelto l’istinto utopista», risponde il dottor Aillon. «Sperare in un mondo migliore, mettere in crisi il reale, lottare per i propri sogni, è qualcosa che è stato iscritto nel nostro parimonio genetico. Perché favorisce la sopravvivenza della specie». Utopia, maneggiare con cura: quello che può apparire debolezza, è esattamente il suo contrario. Nel libro di Bertaglio, Jean-Luis ricorre a una parabola: «Se paragoniamo il nostro cinquantenne medio, disilluso e senza speranze, e una specie di formiche utopista, che sogna e si batte per un mondo diverso, possiamo vedere che quest’ultima è molto più forte e sopravvive». Inutile negarlo: «Noi abbiamo dentro questo patrimonio genetico, che la cultura odierna cerca di spegnere. L’ingenuo, semmai, è chi non lo riconosce». Farà in tempo, la “formica utopista”, a fermare i carri armati neoliberisti di Harvard, quelli che suggeriscono all’euro-totalitarismo la dottrina dell’austerity espansiva che uccide come mosche i bambini di Atene e avvicina alla Grecia anche il nostro paese?(Il libro: Andrea Bertaglio, “Generazione decrescente”, riflessione autobiografica sul mondo che è – e che potrebbe essere, con prefazione di Maurizio Pallante, Edizioni Età dell’Acquario, 103 pagine, 14 euro).Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.
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Sorvegliati e felici: è il capolavoro del Sesto Potere
Le preoccupazioni per l’uso intensivo dei media digitali come strumenti di sorveglianza pervasiva sono aumentate esponenzialmente dopo le rivelazioni della “gola profonda” Edward Snowden sulle pratiche di spionaggio messe in atto dai suoi ex datori di lavoro, la maggiore agenzia di sicurezza Usa, la Nsa, ai danni dei cittadini americani e di tutti gli altri paesi, nonché di capi di Stato (anche alleati) e imprese pubbliche e private. A mano a mano che Snowden rendeva noti nuovi documenti che denunciavano tali pratiche – intercettazioni di conversazioni telefoniche, email e quant’altro – i media sfoderavano gli immancabili riferimenti al romanzo “1984” di Orwell, o al Panopticon di Bentham, utilizzato da Michel Foucault come emblema di una modernità assurta a regno della sorveglianza e del controllo. Ora un libro a quattro mani di David Lyon e Zygmunt Bauman (si tratta di una conversazione a distanza, realizzata attraverso lo scambio di email) dal titolo “Sesto Potere. La sorveglianza nella modernità liquida” (ed. Laterza) suggerisce una prospettiva diversa.Lyon, da sempre attento analista dei problemi della sorveglianza, e Bauman, il filosofo che ha sostituito il concetto di “modernità liquida” alla categoria di postmodernità, ribaltano gli scenari orwelliani e foucaultiani di cui sopra, ai quali contrappongono quattro tesi di fondo: 1) viviamo in un mondo post-panottico in cui le nuove forme di controllo e sorveglianza assumono le caratteristiche tipiche del consumo e dell’intrattenimento; 2) i principali oggetti al centro dell’attenzione dei sistemi di sorveglianza non sono le persone in carne e ossa, bensì i loro “doppi” elettronici, cioè i dati che li riguardano; 3) ciò che più dobbiamo temere non è la fine della privacy e dell’anonimato bensì l’inquadramento in categorie in grado di determinare a priori il nostro futuro di consumatori e cittadini; 4) la costruzione di questa macchina infernale procede con la collaborazione spontanea, se non gioiosa, delle sue vittime. Proverò ora a illustrare le quattro tesi nell’ordine appena enunciato.Il concetto di Panopticon, argomentano Lyon e Bauman, implicava la concentrazione dei soggetti sottoposti a sorveglianza in determinati luoghi – carceri, fabbriche, scuole, ospedali, ecc. – e sfruttava il “controllo delle anime” come strumento per cambiare comportamenti e motivazioni. Lo sguardo del controllore, temuto ma non visto e quindi presunto come costantemente presente, induce l’autodisciplina di lavoratori, prigionieri, pazienti e allievi che si adeguano alle aspettative del sistema di controllo per non subire sanzioni. Queste modalità punitive di controllo, osservano gli autori, riguardano ormai esclusivamente le “zone ingestibili” della società come le prigioni e i campi profughi, sono cioè riservate agli esseri umani dichiarati “inutili” ed esclusi nel senso pieno e letterale della parola. Viceversa il nuovo potere globale – che Lyon e Bauman contrappongono al potere politico tradizionale, confinato nel locale – non si esercita erigendo barriere, recinzioni e confini che vengono anzi considerati come ostacoli da superare e aggirare; esso deve poter raggiungere tutti in modo da poterli valutare e giudicare uno per uno e, a tale scopo, si impegna affinché tutti siano motivati a esporsi volontariamente al suo sguardo, a cercarlo avidamente più che a sottrarvisi.Passiamo alla seconda tesi. Qui Lyon e Bauman riprendono un tema che Stefano Rodotà ha già ampiamente sviscerato negli anni scorsi, analizzando il fenomeno del “doppio elettronico”. La costruzione di veri e propri “duplicati” delle persone è un processo costantemente in atto a partire dai frammenti di dati personali che ognuno di noi fornisce continuamente e quotidianamente al sistema di sorveglianza navigando in rete, usando la carta di credito, frequentando i social media, usando i motori di ricerca. Ciò di cui non siamo consapevoli è che questi frammenti di dati, estratti per scopi diversi, vengono poi remixati e utilizzati per altri scopi, sfuggendo completamente al nostro controllo (la sorveglianza tende così “a farsi liquida”, dice Bauman riproponendo la sua metafora favorita). Ma soprattutto ciò di cui non ci rendiamo sufficientemente conto è che questa informazione sganciata dal corpo finisce per esercitare un’influenza decisiva sulle nostre opportunità di vita e di lavoro. Il punto è infatti che i nostri duplicati divengono oggetto di analisi statistiche che servono a prevedere comportamenti futuri (Lyon e Bauman citano in merito il film “Minority Report”) e, sulla base di tali previsioni, a incasellarci in determinate categorie di consumatori appetibili o marginali e/o di cittadini buoni cattivi o “pericolosi”.Siamo così alla terza tesi, la più inquietante, secondo cui la nuova sorveglianza si propone di selezionare le persone allo stesso modo in cui, nei campi di concentramento nazisti, si selezionava chi doveva essere eliminato subito e chi poteva ancora tornare utile. Oggi è sparita la violenza omicida, ma non il principio della classificazione come presupposto di un trattamento differenziale per le diverse categorie di consumatori e cittadini. Il marketing ci valuta in base ai nostri “profili”, cioè ai nostri precedenti comportamenti di consumo; i sistemi di sicurezza non rivolgono più la loro attenzione ai singoli potenziali malfattori ma alle “categorie sospette” (vedi le disavventure delle persone di origine araba ai controlli negli aeroporti occidentali). Ecco perché la privacy non è più soltanto minacciata, ma diventa addirittura sospetta.Quante volte vi siete sentiti rispondere da qualcuno a cui ponevate il problema “che m’importa tanto non ho nulla da nascondere”? Come dire: se qualcuno tiene troppo alla propria invisibilità è automaticamente sospettato di avere commesso un crimine. Una mentalità che alimenta la tendenza alla delazione: per non essere classificati fra i sospettati, siamo infatti disposti a puntare il dito (o gli occhiali di Google) contro gli altri. Infine la quarta tesi: esporsi alla sorveglianza è oggi divenuto un gesto spontaneo, se non addirittura gratificante. Se il sorvegliato del Panopticon era ossessionato dall’incubo di non essere mai solo, il nostro incubo è diventato quello di non essere notati da nessuno; quello che vogliamo è non sentirci mai soli. Addestrati dai reality show televisivi e dall’esibizionismo dei social media, i nativi digitali considerano l’esibizione pubblica del privato come una virtù, se non come un dovere; “diventiamo tutti, al tempo stesso, promotori di merci e le merci che promuoviamo”, siamo costantemente impegnati a trasformare noi stessi in una merce vendibile.La seduzione sostituisce la polizia come arma strategica del controllo e ciò non riguarda solo consumi e sicurezza, ma anche la nuova organizzazione del lavoro: i manager si liberano del fardello di gestire e controllare una forza lavoro che ormai si autocontrolla h24 (come le lumache, scrivono Lyon e Bauman, ci portiamo sempre dietro quei Panopticon personali che sono cellulari, smart phone e iPad). In molti dei concetti del libro di Lyon e Bauman – e soprattutto in quest’ultima tesi della collaborazione volontaria delle vittime – ritrovo quanto io stesso scrivevo qualche anno fa (“Felici e sfruttati”, Ed. Egea). Tuttavia, pur condividendo questi argomenti, non posso fare a meno di provare un certo disagio, perché mi sembra che nell’analisi manchi qualcosa. Nella loro critica all’idolatria della tecnica risuonano infatti echi dei discorsi di un autore come Jacques Ellul, discorsi in cui l’autonomia della tecnica e la sua capacità di “spersonalizzare” i sistemi di dominio e controllo vengono presentati come assoluti: «La guerra d’indipendenza delle scuri contro i boia», si legge in un passaggio del libro, «ormai si è conclusa con la vittoria delle scuri, ormai sono le scuri a scegliere i fini, cioè le teste da tagliare».Qui il pensiero corre ai droni e alla loro capacità di “anestetizzare” il senso di colpa di chi li manovra (o, in futuro prossimo, di fare del tutto a meno di manovratori umani); ma per quanto inquietanti ci appaiano simili fenomeni, credo che non andrebbero mai dimenticati i fattori politici ed economici – leggi le relazioni di potere fra dominati e dominanti – che rendono possibili certi sviluppi tecnici e che, quindi, rappresentano l’unico terreno su cui si possa sperare di lottare per cambiare direzione. Altrimenti l’unica speranza di salvezza, come mi pare succeda nell’ultimo capitolo del libro, resta affidata alla fede (è il caso di Lyon) o a un’etica laica (è il caso di Bauman) che rinvia solo a sé stessa.(Carlo Formenti, “Felici e sorvegliati”, da “Micromega” del 5 marzo 2014. Il libro: Sygmunt Bauman e David Lion, “Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida”, Laterza, 159 pagine, 16 euro).Le preoccupazioni per l’uso intensivo dei media digitali come strumenti di sorveglianza pervasiva sono aumentate esponenzialmente dopo le rivelazioni della “gola profonda” Edward Snowden sulle pratiche di spionaggio messe in atto dai suoi ex datori di lavoro, la maggiore agenzia di sicurezza Usa, la Nsa, ai danni dei cittadini americani e di tutti gli altri paesi, nonché di capi di Stato (anche alleati) e imprese pubbliche e private. A mano a mano che Snowden rendeva noti nuovi documenti che denunciavano tali pratiche – intercettazioni di conversazioni telefoniche, email e quant’altro – i media sfoderavano gli immancabili riferimenti al romanzo “1984” di Orwell, o al Panopticon di Bentham, utilizzato da Michel Foucault come emblema di una modernità assurta a regno della sorveglianza e del controllo. Ora un libro a quattro mani di David Lyon e Zygmunt Bauman (si tratta di una conversazione a distanza, realizzata attraverso lo scambio di email) dal titolo “Sesto Potere. La sorveglianza nella modernità liquida” (ed. Laterza) suggerisce una prospettiva diversa.
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Soldi alle aziende? C’è Blackrock, futuro padrone d’Italia
I prestiti bancari ormai vengono sistematicamente negati e servono alternative per finanziare lo sviluppo delle imprese. La notizia: la Cassa Depositi e Prestiti vuole sfruttare l’enorme liquidità inutilizzata di Blackrock, il più grande fondo finanziario del mondo, per dare così un nuovo sostegno alle medie aziende del Belpaese. Il piano, riferisce “Libero”, sembra trovare il gradimento del colosso Usa che, proprio per studiare a fondo l’economia italiana, ha intensificato le visite dentro i nostri confini: dal quartier generale londinese, i “pellegrinaggi” di manager Blackrock in Italia si sarebbero intensificati da inizio anno. E forse non è un caso che quest’anno la convention dei 150 top manager Blackrock si terrà in Italia, a Milano. Dopo l’ingresso in Mps, Intesa Sanpaolo e Unicredit, oltre che in Telecom, Generali, Fiat Industrial e Mediaset, il gigante d’investimento americano starebbe preparando l’assalto alle medie imprese italiane.Il colosso guidato da Larry Fink – ebreo della California che in 20 anni ha creato un colosso da 4.300 miliardi di dollari di investimenti su scala globale – potrebbe far scattare l’operazione Pmi, scrive Francesco De Dominicis sul quotidiano diretto da Maurizio Belpietro. Il progetto, per ora a livelli embrionali, è allo studio con i vertici della Cdp. «Pochi giorni fa, secondo indiscrezioni, emissari di Blackrock arrivati dalla sede di Londra hanno incontrato a Roma Bernardo Bini Smaghi, responsabile progetti speciali di Cdp. Sul tavolo, la creazione di un “fondo dei fondi” volto a incentivare il mercato dei mini-bond. Si tratta di strumenti di indebitamento sostenuti, ma senza successo, dal decreto “Destinazione Italia” varato a febbraio dal governo di Enrico Letta». La Cdp, continua “Libero”, sta passando al setaccio varie soluzioni volte ad aiutare le aziende per utilizzare queste speciali obbligazioni, che hanno l’obiettivo di aggirare il “credit crunch”.«Comunque, non sarebbero solo i soldi dello “zio Sam” ad alimentare il fondo disegnato dalla Cdp», precisa De Dominicis. «I soldi americani potrebbero essere accompagnati da altre fonti di liquidità: la Cassa intenderebbe coinvolgere nel progetto enti di previdenza e fondi pensione». Il tutto, «sotto l’attenta regia del presidente della Spa controllata dal Tesoro, Franco Bassanini», il quale «sta progressivamente mutando la natura della Cdp». Senza dimenticare, che lo stesso esecutivo di Matteo Renzi scommette proprio sulla Cassa Depositi e Prestiti per sbloccare definitivamente il pagamento dello stock di debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese. «La crescita del Pil italiano, insomma, passa da via Goito».I prestiti bancari ormai vengono sistematicamente negati e servono alternative per finanziare lo sviluppo delle imprese. La notizia: la Cassa Depositi e Prestiti vuole sfruttare l’enorme liquidità inutilizzata di Blackrock, il più grande fondo finanziario del mondo, per dare così un nuovo sostegno alle medie aziende del Belpaese. Il piano, riferisce “Libero”, sembra trovare il gradimento del colosso Usa che, proprio per studiare a fondo l’economia italiana, ha intensificato le visite dentro i nostri confini: dal quartier generale londinese, i “pellegrinaggi” di manager Blackrock in Italia si sarebbero intensificati da inizio anno. E forse non è un caso che quest’anno la convention dei 150 top manager Blackrock si terrà in Italia, a Milano. Dopo l’ingresso in Mps, Intesa Sanpaolo e Unicredit, oltre che in Telecom, Generali, Fiat Industrial e Mediaset, il gigante d’investimento americano starebbe preparando l’assalto alle medie imprese italiane. -
Russia isolata? No, più vicina alla Cina. E addio dollaro
La crisi in Ucraina, sollecitata dagli Usa coinvolgendo l’Europa, finirà con l’accelerare in modo decisivo le relazioni strategiche tra Mosca e Pechino, cioè tra la superpotenza delle risorse naturali e quella del capitale e del lavoro. «Mentre l’Europa sta cercando disperatamente di trovare delle fonti energetiche alternative, nel caso la Gazprom dovesse bloccare le esportazioni di gas naturale verso la Germania e l’Europa», osserva il blog “Zero Hedge”, la Russia sta preparando l’annuncio-chiave del commercio energetico, cioè la nascita dell’asse preferenziale con la Cina. «Una mossa che causerebbe onde d’urto geopolitiche in tutto il mondo»: getterebbe le basi «per una nuova valuta di riserva, in grado di aggirare il dollaro». La Russia, come ventilato, potrebbe astenersi dal chiedere prestiti esteri, già nel corso di quest’anno. La grande corsa verso la Cina, a quanto pare, è cominciata.Tradotto in parole semplici, riassume “Zero Hedge” in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, significa che Mosca «potrebbe fare a meno degli acquisti occidentali di debito russo», a loro volta finanziati dagli acquisti cinesi di T-bonds statunitensi, e andare «direttamente alla fonte», ovvero la Cina. E’ questo che intende Mosca quando dice che le sanzioni per l’annessione della Crimea sarebbero «controproducenti». Chiaro il messaggio proveniente dalla Rosneft: se l’Europa e gli Stati Uniti dovessero isolare la Russia, Mosca cercherà nuovi affari, accordi energetici, contratti militari e alleanze politiche ad Oriente. Già per maggio si attende che Putin, in visita in Cina, firmi l’accordo per il super-gasdotto destinato a collegare la Russia con Pechino, sostituendo così l’Occidente come “grande cliente”. Già a partire dal 2018, la Gazprom spera di pompare 38 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno verso la Cina.«Quello che è dolorosamente evidente a tutti», aggiunge il blog, è che «più peggiorano le relazioni della Russia con l’Occidente, più la Russia vorrà averne di buone con la Cina». A questo si aggiungono gli scambi bilaterali denominati sia in rubli che in renminbi (o in oro) con paesi come Iran e India. Presto toccherà anche all’Arabia Saudita, il maggior fornitore di greggio per la Cina: il principe ereditario ha appena incontrato il presidente Xi Jinping per espandere ulteriormente i commerci. «Possiamo cominciare a dire addio ai petrodollari», ipotizza “Zero Hedge”. Per il leader di Pechino, l’asse con Mosca «sarebbe utile ad entrambi i paesi, come contrappeso agli Stati Uniti». Quest’anno, inoltre, la Cina ha superato la Germania come più grande acquirente di petrolio russo, grazie alla Rosneft, che ha aumentato le forniture di petrolio verso est, attraverso il gasdotto che unisce la Siberia Orientale all’Oceano Pacifico, e quello che attraversa il Kazakhstan.«Se Mosca fosse isolata da un nuovo round di sanzioni occidentali – continua “Zero Hedge” – Russia e Cina potrebbero rafforzare la cooperazione anche in altri settori, oltre all’energia. La crescita dei rapporti bilaterali include investimenti strategici nelle infrastrutture ma anche forniture militari, come quella per i caccia Sukhoi Su-35. Un declino del commercio con l’Occidente potrebbe costringere Mosca ad abbandonare alcune delle sue riserve sugli investimenti cinesi nei settori strategici. Il volume del commercio russo-cinese è cresciuto del 8,2% nel 2013, raggiungendo quota 8,1 miliardi di dollari, ma la Russia lo scorso anno era ancora solo il settimo più grande partner cinese per le esportazioni, e non era tra i primi 10 paesi per le merci importate. E’ l’Unione Europea il principale partner economico della Russia, e ancora oggi rappresenta quasi la metà di tutto il suo fatturato commerciale.«E se spingere la Russia verso un caldo abbraccio con la nazione più popolosa del mondo non fosse ancora abbastanza, c’è anche a disposizione il secondo paese più popoloso del mondo, l’India». Putin, in effetti, non ha perso tempo: non si è limitato a rigraziare la Cina per la “comprensione” dimostrata col voto non contrario, all’Onu, sull’annessione della Crimea, ma si è affrettato a riconoscere anche la “moderazione e obiettività” dell’India, intavolando relazioni col premier Manmohan Singh sulla possibilità di sviluppare accordi con un paese non-allineato come l’India. Per l’editore del quotidiano “The Hindu”, autorevole voce dell’establishment di New Delhi, sulla Crimea «la Russia ha degli interessi legittimi». Così, «mentre il più grande spostamento geopolitico dai tempi della Guerra Fredda sta accelerando, con l’inevitabile consolidamento dell’“asse asiatico”», per “Zero Hedge” l’Occidente «monetizza il suo debito e si crogiola nella ricchezza di carta creata da un mercato azionario fortemente manipolato», mentre la propria economia si indebolisce e il futuro svolta verso Oriente.La crisi in Ucraina, sollecitata dagli Usa coinvolgendo l’Europa, finirà con l’accelerare in modo decisivo le relazioni strategiche tra Mosca e Pechino, cioè tra la superpotenza delle risorse naturali e quella del capitale e del lavoro. «Mentre l’Europa sta cercando disperatamente di trovare delle fonti energetiche alternative, nel caso la Gazprom dovesse bloccare le esportazioni di gas naturale verso la Germania e l’Europa», osserva il blog “Zero Hedge”, la Russia sta preparando l’annuncio-chiave del commercio energetico, cioè la nascita dell’asse preferenziale con la Cina. «Una mossa che causerebbe onde d’urto geopolitiche in tutto il mondo»: getterebbe le basi «per una nuova valuta di riserva, in grado di aggirare il dollaro». La Russia, come ventilato, potrebbe astenersi dal chiedere prestiti esteri, già nel corso di quest’anno. La grande corsa verso la Cina, a quanto pare, è cominciata.
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Volete la verità? Ve la offre Pandora, col vostro aiuto
Non ve la siete mai bevuta, la storia delle armi di distruzione di massa di Saddam? E nemmeno la versione ufficiale dell’11 Settembre o quella del gas Sarin usato dall’esercito siriano contro la popolazione civile di Damasco? Allora “Pandora Tv” potrebbe fare al caso vostro, perché – oltre alla voce di Giulietto Chiesa – vi offre un aggiornamento quotidiano sull’attualità internazionale attraverso i servizi di “Rt”, offerti in esclusiva e tradotti in italiano per garantire “un’altra visione del mondo”, come recita il claim della nuova web-tv aperta su iniziativa del giornalista e scrittore che ha fatto della battaglia contro le menzogne del mainstream il proprio marchio di fabbrica. Una scommessa, quella di “Pandora”, basata sulla garanzia di assoluta indipendenza: proprio per questo, l’esperimento si affida al contributo diretto del pubblico, mediante lo strumento democratico del social crowdfunding: bastano 10 euro per sostenere la produzione della programmazione. Informazione libera, democrazia nella comunicazione.«Ci stanno portando in guerra», avverte Giulietto Chiesa, che da anni vigila sulla grande crisi del capitalismo imperiale, globalizzato e finanziarizzato. Tesi ben riassunta dal suo ultimo saggio, “Invece della catastrofe”, che parte dallo storico allarme lanciato dal Club di Roma sui raggiunti limiti dello sviluppo: l’élite mondiale non tollera più di dover spartire le risorse vitali del pianeta con una popolazione di 7 miliardi di esseri umani. E se i Brics alzano la testa – crescita accelerata e fame di consumi – è ovvio che sulla “coperta troppo corta” si accende una disputa strategica e geopolitica che i meno ottimisti chiamano “terza guerra mondiale”. Tradotto: mettere le mani su quel che resta del pianeta, battendo sul tempo i cinesi, prima che esploda in modo apocalittico una qualsiasi delle grandi crisi innescate: quella economico-finanziaria, quella energetica, quella climatica, quella dell’acqua o quella del cibo. Unico strumento di autodifesa: la democrazia. Che però è accecata da un filtro prodigioso: la disinformazione.«La verità è che non sappiamo quello che sta davvero succedendo», sostiene Giulietto Chiesa, che punta il dito contro le omissioni e i depistaggi del mainstream, colonizzato dall’élite esattamente come i maggiori partiti politici, tutti infiltrati dai poteri forti che – da Wall Street a Bruxelles – impongono la “loro” agenda, a colpi di diktat e recessioni pilotate. Ultimo scenario offerto dall’attualità: la dirompente crisi scatenata in Ucraina per indebolire la Russia e “intrappolare” l’Europa, pensando già, ovviamente, soprattutto alla Cina. Dai servizi di “Russia Today” proposti da “Pandora”, la tempestiva denuncia della strategia della tensione organizzata a Kiev per rovesciare il (pessimo) regime di Yanukovich, grazie a milizie-fantasma addestrate in segreto e appoggiate da potenti frange neonaziste. “Pandora” si candida a rappresentarla, “un’altra visione del mondo”, dando spazio all’analisi anche italiana della grande crisi, ospitando le voci dei nostri territori. Un canale sociale, aperto a tutti, che – per affermarsi – ha bisogno del contributo di tutti.Non ve la siete mai bevuta, la storia delle armi di distruzione di massa di Saddam? E nemmeno la versione ufficiale dell’11 Settembre o quella del gas Sarin usato dall’esercito siriano contro la popolazione civile di Damasco? Allora “Pandora Tv” potrebbe fare al caso vostro, perché – oltre alla voce di Giulietto Chiesa – vi propone un aggiornamento quotidiano sull’attualità internazionale attraverso i servizi di “Rt”, offerti in esclusiva e tradotti in italiano per garantire “un’altra visione del mondo”, come recita il claim della nuova web-tv aperta su iniziativa del giornalista e scrittore che ha fatto della battaglia contro le menzogne del mainstream il proprio marchio di fabbrica. Una scommessa, quella di “Pandora”, basata sulla garanzia di assoluta indipendenza: proprio per questo, l’esperimento si affida al contributo diretto del pubblico, mediante lo strumento democratico del social crowdfunding: bastano 10 euro per sostenere la produzione della programmazione. Informazione libera, democrazia nella comunicazione.
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Banca Mondiale e maxi-dighe, ma l’Africa resta al buio
La realizzazione di dighe di grandi o grandissime dimensioni comporta danni ambientali e costi economici e umani che risultano, stando ai dati, assolutamente controproducenti. Questo però non sembra preoccupare la Banca Mondiale, anzi essa è da molto tempo in prima linea nel finanziamento di dighe e sbarramenti fluviali tra i più grandi del mondo. In Italia la storia ha dimostrato la pericolosità e i costi delle grandi dighe, che fortunatamente non hanno avuto una così larga diffusione come in altre nazioni. La Banca Mondiale da molto tempo è impegnata con tutte le sue forze nel promuovere la costruzione di tali opere e si prepara a finanziare enormi progetti idraulici. In tempi di crisi economica mondiale, la Bm imbocca la via percorsa ormai anche da paesi come il Brasile e la Cina. I progetti riguardano in particolare il Congo, l’Himalaya e il bacino dello Zambesi.Già dal luglio 2013 la Banca Mondiale ha adottato un nuovo programma energetico che prevede appunto di aumentare i prestiti ai grandi progetti idroelettrici e ai gasdotti. Ha finanziato più di 600 grandi dighe in 60 anni e supporta attualmente 150 progetti in corso nel settore idroelettrico. La metà di essi sono in Africa e nel Sudest Asiatico. Questi progetti sono tuttavia meno colossali rispetto alla prossima generazione di opera che si preannuncia.Un esempio è costituito dalle dighe Inga 1 e 2 costruite sul fiume Congo. Dopo che un gruppo di finanziatori ha speso miliardi in questi progetti, l’85% dell’elettricità della Repubblica Democratica del Congo è destinata a grandi industrie forti consumatrici di energia e… alla popolazione urbana! Mentre meno del 10% della popolazione delle zone rurali ha accesso all’elettricità.La Banca ha scelto nel luglio 2013 di finanziare il progetto Inga 3 sempre sul fiume Congo per 12 miliardi di dollari, il più costoso mai proposto in Africa, oltre a due progetti di parecchi miliardi sullo Zambesi. Queste tre opere dovrebbero servire a produrre elettricità per le compagnie minerarie e i consumatori delle classi abbienti dell’Africa del Sud. Le Ong che lavorano sulla dipendenza energetica sono allarmate per questa scelta, fatta in uno dei paesi più poveri e più corrotti dell’Africa. I progetti Inga 1 e 2 non hanno portato alcuno sviluppo economico, ma hanno aumentato il peso del debito e in un periodo di fragilità idrogeologica le grandi dighe aumenteranno la vulnerabilità climatica dei paesi poveri.A chi paventa e prevede disastri ecologici e tragedie umane per le popolazioni private di terra e sostentamento e costrette a sfollare, la Bm si difende. «Non si tratta più delle dighe dei vostri nonni», ha detto infatti Julia Bucknall, responsabile del settore idrogeologico dell’istituto internazionale. Cosa cambia rispetto alle dighe “dei nostri nonni”? Soltanto il fatto che vengono pubblicati miriadi di rapporti sull’impatto ambientale che, così come le dighe stesse, verranno addebitati ai paesi che ne “beneficiano”, il cui debito aumenterà e con esso la loro dipendenza dalle grandi industrie e istituzioni finanziare occidentali. La diga Lom Pangar in Camerun è un esempio di medio progetto finanziato dalla Banca. Inonderà 30.000 ettari di foresta tropicale tra cui il parco nazionale Deng Deng, un rifugio per gorilla, scimpanzè e altre specie minacciate. Il progetto è destinato ad alimentare un’industria di alluminio, che consuma già la maggior parte di energia del Camerun. E tutto quell’alluminio non serve di certo al Camerun. Magari servirà per le lattine delle nostre bibite.Soluzioni migliori esistono già. In questi ultimi dieci anni a livello mondiale i governi e gli investitori privati hanno prodotto più energia dall’eolico che dalle dighe. Anche il solare ha reso più degli investimenti idroelettrici. Queste due fonti di energia sono più efficaci delle dighe per rifornire l’Africa sub sahariana. L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha dimostrato che l’elettrificazione in rete ottenuta dai grandi progetti idroelettrici non è efficace per le zone rurali, che non sono densamente popolate. Sono efficaci invece le energie rinnovabili e decentrate. Queste presenterebbero il triplo beneficio di aumentare l’accesso all’energia, proteggere l’ambiente e non incentivare il cambiamento climatico. L’Agenzia raccomanda che più del 60% dei fondi siano investiti nelle energie rinnovabili. Ma la Banca Mondiale tra il 2007 e il 2012 ha accordato 5,4 miliardi di dollari per le dighe contro 2 miliardi complessivi per eolico e solare. Il programma si concentra sempre su progetti di grandi opere idrauliche. Ne sorgeranno anche in Nepal, nella fragile regione dell’Himalaya, con l’obiettivo di esportare l’energia in India.E in Italia? Il nostro territorio fortemente antropizzato non consente di realizzare progetti di grande portata ed è ormai finita l’era delle dighe che, complice lo sviluppo industriale ed economico, sono state realizzate in gran parte dagli anni 50’ alla fine degli anni 90’. Ma se nel nostro paese non ci sono più vallate e fiumi da sfruttare in maniera massiccia, le aziende del settore non stanno con le mani in mano. Infatti Enel collabora nella costruzione di grandi dighe nel mondo a discapito di popoli indigeni e di patrimoni naturalistici, come nel caso degli enormi impianti da realizzare in Cile e in Guatemala. Se l’acqua è un diritto per tutti i cittadini del mondo, ne consegue che nessuno dovrebbe avere il diritto di sciuparla, deviarla, imbrigliarla nel nome del profitto monetario ed energetico; ma si sa, in questi tempi di globalizzazione i diritti degli alberi, dei popoli primitivi e dei fiumi sono sempre meno considerati, soprattutto da istituzioni il cui scopo è salvaguardare e incrementare ad ogni costo i profitti dei potenti, come la Banca Mondiale.(Martino Danielli, “Alla Banca Mondiale piacciono le grandi dighe”, da “Il Cambiamento” del 5 marzo 2014).La realizzazione di dighe di grandi o grandissime dimensioni comporta danni ambientali e costi economici e umani che risultano, stando ai dati, assolutamente controproducenti. Questo però non sembra preoccupare la Banca Mondiale, anzi essa è da molto tempo in prima linea nel finanziamento di dighe e sbarramenti fluviali tra i più grandi del mondo. In Italia la storia ha dimostrato la pericolosità e i costi delle grandi dighe, che fortunatamente non hanno avuto una così larga diffusione come in altre nazioni. La Banca Mondiale da molto tempo è impegnata con tutte le sue forze nel promuovere la costruzione di tali opere e si prepara a finanziare enormi progetti idraulici. In tempi di crisi economica mondiale, la Bm imbocca la via percorsa ormai anche da paesi come il Brasile e la Cina. I progetti riguardano in particolare il Congo, l’Himalaya e il bacino dello Zambesi.
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Navarro: crisi finita, se la Bce finanziasse gli Stati
Da almeno trent’anni, il nostro potere d’acquisto è in caduta libera, mentre le ricchezze finanziarie sono aumentate in modo esplosivo. Per metter fine alla crisi, ovvero alla Grande Recessione, basterebbe invertire semplicemente la rotta: aumentare i redditi da lavoro e tagliare le unghie alla finanza. Nel solo modo possibile: restituendo sovranità finanziaria agli Stati. Lo sostiene l’economista Vicenc Navarro, docente dell’università Upf “Johns Hopkins” di Baltimora, analizzando le cause della depressione economica. Certo, la deregulation ha creato uno sviluppo “mostruoso” del capitale finanziario, non puù legato alla produzione. Ma chi l’ha voluto? Semplice: gli stessi super-poteri che, dagli anni ‘80, hanno costantemente colpito i lavoratori, tagliando i salari. Di qui la «enorme crescita delle disuguaglianze di reddito» negli Stati dell’Ocse, «il club dei paesi più ricchi del mondo». La causa? La diminuzione dei redditi da lavoro, cioè i redditi del 99% della popolazione. Un dramma, perché proprio un’equa distribuzione dei redditi è il fattore determinante per l’evoluzione economica, sociale e politica di un paese.La maggior parte della popolazione ottiene i propri redditi dal lavoro. E quando questi diminuiscono (tagli ai salari, disoccupazione), anche la domanda di prodotti e servizi, e quindi la loro produzione, decresce. L’economia subisce una caduta: è quello che si chiama recessione. La “scoperta” di questo nesso tra discesa della domanda e crisi economica, scrive Navarro in un’analisi ripresa da “Come Don Chisciotte”, viene spesso attribuita al celebre economista inglese John Maynard Keynes, ma in realtà fu Karl Marx il primo ad avvertire che «l’accumulazione di capitale, a scapito del lavoro, porta alla crisi del capitalismo». Tesi approfondita da uno dei suoi più brillanti seguaci, il polacco Michael Kalecki, il quale a sua volta influenzò economisti come Joan Robinson e Paul Sweezy. Sintetizza Navarro: «Quando la gente non ha soldi, li chiede in prestito. E questo spiega la crescita del sistema bancario». Il super-indebitamento delle famiglie e delle piccole e medie «si deve precisamente alla diminuzione dei redditi da lavoro». Attenzione: «Sin dagli anni ‘80, c’è un’opposta relazione tra la diminuzione dei redditi da lavoro di un paese e la crescita del sistema bancario». Più calano i primi, più cresce il secondo.I dati parlano da soli, continua Navarro. Negli anni ‘80, in relazione al Pil, in Spagna i redditi da lavoro sono diminuiti dal 68%, con valori analoghi negli Usa. Stessa tendenza in tutta l’area Ocse, dalla Grecia alla Svezia, dall’Italia all’Irlanda. «In tutti questi paesi, i redditi da lavoro sono scesi rapidamente a scapito dell’incremento dei redditi da capitale. Questa è la realtà, ignorata, sconosciuta o occultata. E non è sicuramente casuale che Grecia, Irlanda, Italia e Spagna siano i paesi dove la Grande Recessione è stata più forte». Dove crolla la domanda, esplode la recessione. Il credito bancario può sopperire alla diminuzione dei redditi da lavoro e sostenere la domanda di consumi, ma fino a un certo punto. Perché poi, se l’economia si inceppa, chi ha molto denaro cessa di investire nell’economia produttiva e ripiega «in aree dove il rendimento è maggiore, come nelle attività speculative, come ad esempio, il settore immobiliare».Così «si producono le grandi bolle speculative, facilitate dalla deregolamentazione del sistema bancario». E quando la bolla scoppia, «la banca collassa o si paralizza, il credito sparisce e anche l’economia entra in crisi, perché senza credito, anche la domanda tracolla, poiché i salari, sempre più bassi, in assenza di credito, non possono sostenerla. Ed è così che nasce la Grande Recessione». Aggiunge Navarro: «L’enorme concentrazione della ricchezza ha creato la Grande Recessione, così come prima, agli inizi del secolo XX, creó la Grande Depressione». La soluzione? Tecnicamente semplice: «Ribaltare le politiche pubbliche che si sono andate sviluppando, in maggior parte dal 1980 ad oggi, cambiando il segno di questi interventi, favorendo i redditi da lavoro al posto dei redditi da capitale». Aumentare salari, occupazione e impiego, e sfavorire le rendite finanziarie, a cominciare da quelle del settore bancario: «Non ha senso che il sistema bancario privato ottenga prestiti a tassi molto bassi dalla Bce, affinché dopo le banche private possano prestare questo denaro con interessi molto alti alle autorità pubbliche, come lo Stato, o alle imprese». Molto meglio se la Bce prestasse gli euro direttamente agli Stati, incaricati di finanziare famiglie e imprese. «Che tutto ciò accada o meno, dipende da una volontà politica», conclude Navarro. «Affinché accada, si ha bisogno di un cambiamento profondo delle relazioni di potere, includendo le relazioni di potere di classe, nelle quali una minoranza controlla la maggioranza di istituzioni mediatiche e politiche dei paesi dell’Ocse, imponendo politiche ultra-liberali che stanno danneggiando grandemente la popolazione».Da almeno trent’anni, il nostro potere d’acquisto è in caduta libera, mentre le ricchezze finanziarie sono aumentate in modo esplosivo. Per metter fine alla crisi, ovvero alla Grande Recessione, basterebbe invertire semplicemente la rotta: aumentare i redditi da lavoro e tagliare le unghie alla finanza. Nel solo modo possibile: restituendo sovranità finanziaria agli Stati. Lo sostiene l’economista Vicenc Navarro, docente dell’università Upf “Johns Hopkins” di Baltimora, analizzando le cause della depressione economica. Certo, la deregulation ha creato uno sviluppo “mostruoso” del capitale finanziario, non puù legato alla produzione. Ma chi l’ha voluto? Semplice: gli stessi super-poteri che, dagli anni ‘80, hanno costantemente colpito i lavoratori, tagliando i salari. Di qui la «enorme crescita delle disuguaglianze di reddito» negli Stati dell’Ocse, «il club dei paesi più ricchi del mondo». La causa? La diminuzione dei redditi da lavoro, cioè i redditi del 99% della popolazione. Un dramma, perché proprio un’equa distribuzione dei redditi è il fattore determinante per l’evoluzione economica, sociale e politica di un paese.
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Col Ttip gli Usa ci arruolano nella guerra contro la Cina
Tra un paio d’anni potrebbe crollare il nostro attuale sistema democratico, se il potere supremo dovesse passare direttamente alle grandi multunazionali grazie all’approvazione del Ttip, il Trattato Transatlantico destinato a lasciare al business l’ultima parola su lavoro, salute, sicurezza alimentare, acqua e beni comuni. Su “Le Monde Diplomatique”, Ignacio Ramonet rilancia l’allarme: quel trattato super-segreto fa paura, perché rivela la volontà degli Usa di trascinare l’Europa nello scontro geopolitico con la Cina. Il vero obiettivo dell’Accordo Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, infatti, è fermare l’inesorabile avanzata di Pechino, che sta clamorosamente ridimensionando la leadership mondiale di Washington: tra una decina d’anni, al massimo, lo yuan potrebbe definitivamente scalzare il dollaro come valuta di scambio internazionale, mettendo fine a cent’anni di egemonia statunitense.Lo scopo del trattato che Washington e Bruxelles stanno mettendo a punto, lontano dai riflettori e con “l’assistenza” di 600 super-lobbysti, è quello di creare la maggiore zona di libero scambio commerciale del pianeta, con circa 800 milioni di consumatori. L’area formata da Usa ed Europa rappresenta quasi la metà del prodotto interno lordo mondiale e un terzo del commercio mondiale. L’Ue è la principale economia del mondo, ricorda Ramonet in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”: i suoi 500 milioni di abitanti dispongono in media, pro capite, di 25.000 euro di entrate all’anno. «Ciò significa che l’Ue è il maggior mercato mondiale e il principale importatore di manufatti e di servizi, dispone del maggiore volume di investimenti all’estero ed è il principale ricettore planetario di investimenti stranieri». L’Unione Europea è anche il primo investitore negli Usa, la seconda destinazione dell’esportazione statunitense e il maggior mercato per l’esportazione statunitense di servizi.La bilancia commerciale dei beni destina alla Ue un attivo di 76.300 milioni di euro; e quella dei servizi, un deficit di 3.400 milioni. Gli investimenti diretti dell’Ue negli Usa, viceversa, si aggirano sui 1.200 miliardi di euro. Washington e Bruxelles vorrebbero chiudere il trattato Ttip in meno di due anni, prima che scada il mandato del presidente Barack Obama. «Perché tanta fretta? Perché, per Washington, questo accordo ha un carattere geostrategico. Costituisce un’arma decisiva di fronte all’irresistibile crescita della potenza cinese», accompagnata da quella degli altri Brics, ovvero Brasile, Russia, India e Sudafrica. «Bisogna precisare che tra il 2000 e il 2008 il commercio internazionale della Cina si è più che quadruplicato: le sue esportazioni sono aumentate del 474% e le importazioni del 403%. Conseguenze? Gli Stati Uniti hanno perso la loro leadership come prima potenza commerciale del mondo che ostentavano da un secolo». Prima della crisi finanziaria del 2008, gli Usa erano il socio commerciale più importante per 127 Stati del mondo; la Cina lo era solo per 70 paesi. Questo bilancio si è invertito: oggi, la Cina è il socio commerciale più importante per 124 Stati, mentre gli Usa solo per 76.«Pechino, al massimo in dieci anni, potrebbe fare della sua moneta, lo yuan, l’altra grande divisa dell’interscambio internazionale e minacciare la supremazia del dollaro», spiega Ramonet. «È anche sempre più chiaro che le esportazioni cinesi non sono solo più di bassa qualità a prezzi accessibili grazie alla sua manodopera conveniente. L’obiettivo di Pechino è alzare il livello tecnologico della sua produzione e dei suoi servizi per essere leader domani anche nei settori (informatica, finanza, aereonautica, telefonia, ecologia) che gli Usa e altre potenze tecnologiche occidentali pensavano di poter preservare». Per tutte queste ragioni, ed essenzialmente per evitare che la Cina diventi la prima potenza mondiale, Washington desidera «blindare grandi zone di libero scambio dove i prodotti di Pechino avrebbero difficile accesso». Lo si sta facendo anche nel Pacifico, con un trattato gemello come la Tpp, Trans-Pacific Partnership.Tema cruciale, ma escluso dall’agenda-news dei grandi media: i cittadini “non devono sapere”, in modo che i tecnocrati di Bruxelles possano procedere indisturbati, cioè in modo opaco e non democratico, obbedendo ai “consigli” delle più grandi multinazionali del pianeta. Obiettivo finale: abbattere tutti i vincoli che oggi in Europa tutelano i consumatori, esponendo gli Stati al rischio di pesantissime penali – inflitte da tribunali speciali formati da legali d’affari – nel caso in cui le grandi compagnie accusassero i governi di “ostacolare il business” difendendo i lavoratori, l’ambiente, la salute pubblica, la sicurezza alimentare, la sopravvivenza di servizi non privatizzati. Pia Eberhardt, della Ong “Corporate Europe Observatory”, denuncia che i negoziati si sono tenuti senza alcuna trasparenza democratica: con la Commissione Europea solo impresari e lobby, esclusi tutti gli altri: giornalisti, ambientalisti, sindacati, organizzazioni per la difesa del consumatore. Un grande pericolo, denuncia Eberhardt, viene «dagli alimenti non sicuri importati dagli Usa, che potrebbero essere transgenici, o i polli disinfettati con cloro, procedimento proibito in Europa».Altri critici temono le conseguenze del Ttip in materia di educazione e conoscenza scientifica, inclusi i diritti intellettuali. In questo senso, la Francia, per proteggere il suo importante settore audiovisivo, ha già imposto una “eccezione culturale”, in modo che l’industria della cultura francese sia esclusa dal trattato. «Varie organizzazioni sindacali – continua Ramonet – avvertono che, senza dubbio, l’Accordo Transatlantico sprofonderà nei tagli sociali, nella riduzione dei salari, e distruggerà l’impiego in diversi settori industriali (elettronica, comunicazione, attrezzature dei trasporti, metallurgia, carta, servizi per le imprese) e agrari (pastorizia, agrocombustibili, zucchero)». Gli ecologisti europei spiegano inoltre che il Ttip, eliminando il principio di precauzione, potrebbe facilitare l’eliminazione di normative per la difesa dell’ambiente o di sicurezza alimentare e sanitaria.Alcune Ong ambientaliste temono che anche in Europa si incominci a introdurre il fracking, ossia l’uso di sostanze chimiche pericolose per le falde acquifere, per poter sfruttare il gas e il petrolio di scisto. Il maggior pericolo del Trattato Transatlantico resta il capitolo sulla “protezione degli investimenti”, che metterebbe fine alla residua sovranità degli Stati, costretti a piegarsi per non pagare sanzioni esorbitanti, inflitte per il “reato” di “limitazione dei profitti”. «Per il Ttip i cittadini non esistono», conclude l’analista di “Le Monde Diplomatique”: «Ci sono solo consumatori e questi appartengono alle imprese private che controllano i mercati. La sfida è immensa. La volontà civica di fermare il Ttip non deve essere da meno».Tra un paio d’anni potrebbe crollare il nostro attuale sistema democratico, se il potere supremo dovesse passare direttamente alle grandi multunazionali grazie all’approvazione del Ttip, il Trattato Transatlantico destinato a lasciare al business l’ultima parola su lavoro, salute, sicurezza alimentare, acqua e beni comuni. Su “Le Monde Diplomatique”, Ignacio Ramonet rilancia l’allarme: quel trattato super-segreto fa paura, perché rivela la volontà degli Usa di trascinare l’Europa nello scontro geopolitico con la Cina. Il vero obiettivo dell’Accordo Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, infatti, è fermare l’inesorabile avanzata di Pechino, che sta clamorosamente ridimensionando la leadership mondiale di Washington: tra una decina d’anni, al massimo, lo yuan potrebbe definitivamente scalzare il dollaro come valuta di scambio internazionale, mettendo fine a cent’anni di egemonia statunitense.
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Perché le banche ci presteranno sempre meno soldi
Le banche italiane (ma anche le altre) non prestano quasi più. Dal 2007 al 2012 il motivo era ovvio: la crisi finanziaria. Cioè dagli Usa era arrivato lo tsunami che ha travolto tutto il sistema creditizio europeo. Poi arriva un altro tsunami: i 10 anni di esistenza dell’euro hanno talmente depresso le economie di Francia, Olanda, Italia, Spagna, Portogallo, Slovenia e Grecia che le banche si sono ritrovate con milioni di prestiti inesigibili (aziende e famiglie che non possono più ripagare le rate). Cioè: i buchi nei loro bilanci già abnormi per la crisi finanziaria sono diventati crateri visibili dalla Luna. Ora, imprenditore, già a questo punto per te andare in banca a chiedere qualsiasi cosa che non sia un’indicazione stradale era diventato un dramma. Ma ecco che la politica tecnocratica americana ed europea se ne esce con l’idea di tutte le idee: siccome ’ste banche hanno fatto porcate fuori dalle grazie di Dio e hanno portato il mondo al collasso, ora noi le prendiamo per la collottola e, a sberle, le mettiamo in riga.Ti spiego cosa significa: per la prima volta forse nella storia, il paradigma che il politico è il cameriere dei banchieri s’inverte. Ora la politica comanda. In Europa la Banca Centrale Europea decide che fra un anno diventerà il super-poliziotto delle banche (Banking Union) ma, prima di questo, i regolamentatori europei faranno il check up medico alle banche. Cosa significa? Ecco. Una banca ha tre cose: 1) Il capitale, che sono le azioni investite in quella banca; 2) i prestiti emessi (mutui e aziende) che sono gli attivi della banca; 3) e l’obbligo che il capitale sia una percentuale precisa di tutti gli attivi detenuti (dall’8 al 10% di tutti i prestiti fatti). Allora: con le banche europee praticamente tutte fallite, il loro capitale si è ridotto tanto (investitori in fuga). Pensa, amico imprenditore, che se la mega Deutsche Bank fosse esaminata con un test severo chiamato Leverage Ratio, si ritroverebbe con un capitale che invece di essere 8-10% degli attivi è il 2,5%. Cioè: dovrebbe portare i libri in tribunale fra 15 minuti. Ok?Bene. Il problema del capitale obbligatorio delle banche che si è ridotto tantissimo rispetto ai prestiti fatti è già gravissimo in tutta la Ue. Poi, come se non bastasse… Si è detto sopra che le crisi economiche generate dalla crisi Usa e da quella inflitta dall’euro hanno aumentato esponenzialmente la percentuale di famiglie e aziende che non possono più ripagare i prestiti/mutui. Risultato: buchi stellari nei libri contabili della banche. E anche qui i politici tecnocrati europei hanno detto alle banche: dovete mettere da parte del capitale per coprire anche ’sti buchi. Merda, non c’è altra parola, specialmente per le piccole medie banche italiane, quelle cioè coi buchi più spettacolari in Ue. Allora le banche cosa hanno pensato? Furbi loro: siccome il problema degli esaminatori europei è che i nostri capitali sono in proporzione percentuale sempre inadeguati (cioè troppo bassi) rispetto ai prestiti (attivi) emessi o rispetto ai prestiti che non ci verranno mai più ripagati, allora cosa facciamo noi? Ha! Trovata: riduciamo gli attivi, cioè i prestiti, e svendiamo agli speculatori i prestiti inesigibili, così i rapporti percentuali fra capitale e prestiti emessi si riequilibria a favore del capitale, e… passiamo gli esami.Ma, caro imprenditore amico, che significa ridurre gli attivi delle banche? Sìììì, esatto, significa ridurre i prestiti che fanno. Ed ecco che ora a te non prestano più neppure una Bic. Capito? E allora, imprenditore che vai alla “Gabbia” a sbraitare, ora lo hai capito perché la tua azienda di Istrana in provincia di Treviso non ha più credito? Hai capito dove sta il problema? Hai capito che se continui a sbraitare da “La Gabbia” contro la casta sei scemo? Nel nome di Giove, spero che tu mi stia capendo. Ma aspetta, perché hai da capire altre due cose fondamentali, sì, tu di Istrana, o di Fusignano, o di Pozzuoli: a) Che la sberla alle banche della crisi finanziaria poteva essere risanata in sei mesi se Roma avesse avuto sovranità monetaria (si aprono i rubinetti di spesa e si nazionalizzano le banche marce); b) Che la mega sberla alle banche della crisi dell’Eurozona la si risolve curando l’Eurozona, che significa questo: uscirne, sbattere la porta e dire ciao ciao. Poi magari girarci verso il Giappone e chiedere qualche consiglio, che loro di crisi se ne intendono, visto che ci sono stati per 20 anni ma sono ancora in cima al mondo.(Paolo Barnard, “Senti imprenditore, te lo spiego semplice – ma semplice, eh?”, dal blog di Barnard del 27 febbraio 2014).Le banche italiane (ma anche le altre) non prestano quasi più. Dal 2007 al 2012 il motivo era ovvio: la crisi finanziaria. Cioè dagli Usa era arrivato lo tsunami che ha travolto tutto il sistema creditizio europeo. Poi arriva un altro tsunami: i 10 anni di esistenza dell’euro hanno talmente depresso le economie di Francia, Olanda, Italia, Spagna, Portogallo, Slovenia e Grecia che le banche si sono ritrovate con milioni di prestiti inesigibili (aziende e famiglie che non possono più ripagare le rate). Cioè: i buchi nei loro bilanci già abnormi per la crisi finanziaria sono diventati crateri visibili dalla Luna. Ora, imprenditore, già a questo punto per te andare in banca a chiedere qualsiasi cosa che non sia un’indicazione stradale era diventato un dramma. Ma ecco che la politica tecnocratica americana ed europea se ne esce con l’idea di tutte le idee: siccome ’ste banche hanno fatto porcate fuori dalle grazie di Dio e hanno portato il mondo al collasso, ora noi le prendiamo per la collottola e, a sberle, le mettiamo in riga.
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Guerra al gas russo? Ma a pagare il conto saremo noi
Dietro alla crisi dell’Ucraina, cioè il grande crocevia dei gasdotti, si nasconde una colossale operazione geopolitica: gli Usa puntano a uscire dalla crisi economica a spese dell’Europa, trasformata in importatrice di gas americano? A quanto pare, ci aspettano 6-7 anni d’inferno: tanto occorre, infatti, per attrezzare il vecchio continente in modo che possa rinunciare al gas russo e passare a quello norvegese e americano. Analoga scelta anche per la Russia: le servono 6-7 anni per sviluppare i nuovi gasdotti verso il più grande mercato industriale del mondo, la Cina. Per l’Europa, pessime notizie: riguardo all’energia e quindi all’economia, l’Unione Europea dipenderebbe al 100% dagli Usa e dai suoi prezzi. Secondo Giulietto Chiesa, dobbiamo aspettarci «una guerra fredda intensificata», perché «saremo sul fronte del combattimento» tra Washington e Mosca e «saremo costretti a pagarne il prezzo». Una sfida pericolosa, perché «l’intera sicurezza europea sarà completamente rivoluzionata, coi missili americani piazzati in Ucraina a 400 chilometri da Mosca».Putin, osserva Giulietto Chiesa in un video-editoriale su “Pandora Tv”, non può più arretrare: o si arrende, facendo la fine di Yanukovich, o – al contrario – ribatterà colpo su colpo, come sta facendo in Crimea. Facile previsione: «La popolarità di Putin aumenterà vertiginosamente». Il capo del Cremlino diventa il “salvatore” della Russia: «Lo hanno capito i russi d’Ucraina, lo stanno capendo i russi di Crimea, lo capiranno i 150 milioni di russi». E questo, aggiunge Chiesa, è un segnale molto preoccupante per l’Occidente, che gioca il tutto per tutto: «In una decina d’anni si decide il destino non solo dell’Europa e della Russia, ma del mondo intero». Sul peso della posta in gioco non ci sono dubbi: basta osservare la precisione con cui alcuni strateghi americani come Strobe Talbott, già consigliere di Clinton, si affrettano ad “avvertire” Putin sulle conseguenze finanziarie del braccio di ferro con Obama. Invasa la Crimea, la Borsa di Mosca è franata del 12%, provocando il crollo del rublo. Emergenza che «ha costretto Putin a intervenire per salvare la sua moneta con 60 miliardi di dollari. gli è costata più quest’operazione che non le Olimpiadi di Sochi».Da Gazprom a Rosneft, i colossi mondiali dell’energia russa sono quotati nelle maggiori Borse del pianeta e compartecipati da capitale internazionale, anche americano. Per non parlare degli “oligarchi” di Mosca, i cui asset sono depositati nelle banche occidentali. «E se improvvisamente gli Stati Uniti, tra le sanzioni, mettessero il congelamento dei loro conti? Che succederebbe alla gran parte dell’oligarchia russa? Ecco il grande problema. Putin – spiega Giulietto Chiesa – ha potuto prosperare e far aumentare la sua popolarità in Russia grazie a gigantesche entrate statali, prodotte dalla vendita di gas e petrolio. Ma se improvvisamente questa vendita diventasse difficoltosa, come potrebbe continuare ad aumentare le pensioni, come ha fatto, o gli stipendi dei militari, della polizia e degli alti funzionari, facendo prosperare un certo ceto medio? Come potrebbe, Putin, in una situazione del genere?». La minaccia è chiara. Perché «l’operazione “conquista dell’Ucraina” significa “conquista dei gasdotti”, attraverso i quali passa il 90% del gas russo verso gli utilizzatori europei». La Crimea? Trascurabile. Come dice Talbott: se la prendano pure, gliela porteremo via dopo. L’importante, adesso, è l’Ucraina: cioè il rubinetto del gas destinato all’Europa, oggi venduto a prezzi accessibili. Ma domani? Che fine farà la manifattura tedesca, italiana e francese, senza più la garanzia del gas russo?Gli analisti statunitensi ci promettono un altro gas, ovvero «il gas norvegese – che c’è già ma ha un difetto: non ha i gasdotti – oppure il gas americano e canadese, quello nuovo, che sta arrivando adesso, dicono, in grandi quantità e a prezzi economicissimi». Entrambi però «devono essere prima liquefatti, trasportati attraverso l’oceano e poi nuovamente rigassificati sulle coste di tutti i paesi europei». Quanto costerà l’operazione? «Le cifre sono vertiginose e fanno pensare a un vero disegno strategico: l’America si rilancerà, rilancerà la sua economia attraverso la costruzione di un gigantesco ponte gasifero attraverso l’Oceano Atlantico». Tempi già calcolati, dai russi ma anche dall’Eni: non meno di 6-7 anni per allestire le nuove infrastrutture. Cosa accadrà nel frattempo? «Nessuno lo sa. L’unica cosa certa è che con questo piano tutta l’industria europea dipenderà dalle decisioni degli Stati Uniti e dal prezzo del gas che stabiliranno loro. Quindi avremo rincari evidenti». Secondo Chiesa, «il colpo alla Russia sicuramente sarà inferto», perché – con questa “guerra del gas” – l’Europa finirà «sotto il controllo diretto degli Stati Uniti, anche economico oltre che finanziario». Ecco spiegato il fervore “democratico” con cui gli Usa sostengono Kiev contro Mosca. Un gioco molto pericoloso, tenendo conto che l’obiettivo finale, strategico, resta Pechino.Dietro alla crisi dell’Ucraina, cioè il grande crocevia dei gasdotti, si nasconde una colossale operazione geopolitica: gli Usa puntano a uscire dalla crisi economica a spese dell’Europa, trasformata in importatrice di gas americano? A quanto pare, ci aspettano 6-7 anni d’inferno: tanto occorre, infatti, per attrezzare il vecchio continente in modo che possa rinunciare al gas russo e passare a quello norvegese e americano. Analoga scelta anche per la Russia: le servono 6-7 anni per sviluppare i nuovi gasdotti verso il più grande mercato industriale del mondo, la Cina. Per l’Europa, pessime notizie: riguardo all’energia e quindi all’economia, l’Unione Europea dipenderebbe al 100% dagli Usa e dai suoi prezzi. Secondo Giulietto Chiesa, dobbiamo aspettarci «una guerra fredda intensificata», perché «saremo sul fronte del combattimento» tra Washington e Mosca e «saremo costretti a pagarne il prezzo». Una sfida pericolosa, perché «l’intera sicurezza europea sarà completamente rivoluzionata, coi missili americani piazzati in Ucraina a 400 chilometri da Mosca».
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Facebook: dieci anni di cazzeggio, solitudini e menzogne
Facebook compie dieci anni, ma solo negli ultimi cinque si è diffuso come veicolo di menzogna, luogo in cui poter essere ciò che non si è. Per questo Facebook ha ucciso Second Life, dove il gioco della finzione era dichiarato. L’abilità sta nel trasformare lo squallore in esclusività e follia. Il post dell’amica zitella che al sabato sera scrive «finalmente il lusso di una serata tutta per me, tra musica, un bagno caldo, profumi esotici e telefono staccato» va tradotto così: «Nemmeno questa sera mi hanno invitata a uscire e sto guardando “Ti lascio una canzone” dopo aver sistemato alla meglio lo scarico del water che è esploso, mentre i vicini cingalesi pare stiano cucinando dei cadaveri e mi è pure finito il credito del cellulare». Fossero solo le menzogne. Facebook in questi pochi anni si è rivelato la migliore palestra dove esercitarsi nei sei vizi capitali.Certo, i vizi capitali sono sette, ma su Facebook ce n’è uno, l’avarizia, che non ha cittadinanza. Qui conducono tutti vite splendide e dispendiose. Tutti impegnati a farsi gli autoscatto ai tropici con i muscoli in evidenza. O con gli occhialoni da sole davanti a un’infinita serie di gate negli aeroporti di tutto il mondo. O, ancora, in qualche locale esclusivo, insieme ad amiche con la stessa capigliatura bionda e liscia, magari mostrando la lingua con il piercing. Questo tipo di foto è molto ricercato dai cronisti quando la proprietaria dell’account finisce coinvolta in un caso di “nera”. Gli altri, quelli che non riescono nemmeno a fingere un alto tenore di vita, si danno all’invidia. Non lanciano proclami che inneggiano alla decrescita felice, ma si iscrivono a quelle sempre più numerose pagine in cui si fomenta l’odio verso la Casta strapagata.Nei loro volgarissimi post, questi individui non sognano una ripartizione più equa delle ricchezze, ma un semplice passaggio nelle proprie tasche di tutto quel denaro, che poi dilapiderebbero in fuoriserie, cocaina, vacanze da cinepanettone e notti con quelle stesse donnine che insultavano quando le vedevano al fianco di qualche anziano premier. Il passo dall’invidia alla lussuria è breve, su Facebook. I fastidi più grandi però vengono causati dalla mole di foto che inseriscono quelli che cedono alla gola e all’accidia. I primi vivono per mettere online le immagini di qualunque piatto abbiano divorato, con la certezza che al mondo interessi sapere che «ho fatto colazione con pane al sesamo, caffè turco e uova». Perché su Facebook ci si deve sempre distinguere e il cappuccino con la brioche surgelata del bar si lascia alla massa.Peggio ancora sono gli accidiosi, quelli che, negli uffici, rubano lo stipendio perché passano le giornate inserendo decine di brutte foto della propria brutta prole travestita da Principessa Disney o da motociclista. Mamme e papà convinti che i propri pargoli siano i più belli e i più furbi. Succedeva anche ai tempi di Cornelia madre dei Gracchi, ma almeno quella non postava ogni giorno cinquanta foto dei suoi gioielli. Io sono particolarmente infastidito dalla categoria dei superbi, soprattutto quelli di ambito intellettuale. Facebook accoglie un numero straordinario di scrittori e poetesse che inseriscono come immagine del profilo la copertina, solitamente pessima, del proprio libro stampato per qualche editore truffaldino a pagamento. E nel diario ecco tutta una serie di autocitazioni, alternate a strali contro gli scrittori di successo, bollati come ignoranti, mentre loro sono geni misconosciuti.Sono quelli che ti mandano almeno cinque inviti giornalieri alle loro presentazioni in qualche bar rionale, «modera la professoressa dottoressa Concetta Lo Moscio» o a letture collettive di “autori emergenti” al circolo Magna Grecia 2000. Eh sì: gli intellettuali superbi sono per lo più del sud. Al nord si trovano più spesso gli iracondi. Gente che senza un preciso motivo ti insulta, anche se non ti conosce. Ti insulta se sa che ti radi, che possiedi il televisore, che non ti convince il fumettaro trentenne di moda, che non ti è piaciuto il polpettone candidato agli Oscar. Li cancelli, ma è inutile: sono una massa infinita. L’unica via di uscita sarebbe abbandonare Facebook. Purtroppo l’umanità reale non è migliore di quella virtuale. E sui social network almeno esiste la funzione “blocca utente”.(Tommaso Labranca, “Dieci anni di cazzeggio, la parabola di Facebook – da social network per giovanissimi a droga quotidiana”, da “Libero” del 4 febbraio 2014, ripreso da “Dagospia”).Facebook compie dieci anni, ma solo negli ultimi cinque si è diffuso come veicolo di menzogna, luogo in cui poter essere ciò che non si è. Per questo Facebook ha ucciso Second Life, dove il gioco della finzione era dichiarato. L’abilità sta nel trasformare lo squallore in esclusività e follia. Il post dell’amica zitella che al sabato sera scrive «finalmente il lusso di una serata tutta per me, tra musica, un bagno caldo, profumi esotici e telefono staccato» va tradotto così: «Nemmeno questa sera mi hanno invitata a uscire e sto guardando “Ti lascio una canzone” dopo aver sistemato alla meglio lo scarico del water che è esploso, mentre i vicini cingalesi pare stiano cucinando dei cadaveri e mi è pure finito il credito del cellulare». Fossero solo le menzogne. Facebook in questi pochi anni si è rivelato la migliore palestra dove esercitarsi nei sei vizi capitali.