Archivio del Tag ‘monopolio’
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“Per l’Italia si avvicina la fine”, e Rcs silura De Bortoli
Qualcosa di esplosivo sta accadendo nei piani alti del mainstream italiano: a rompere il tabù, prospettando l’arrivo della famigerata Troika, il triumvirato tecnocratico composto da Commissione Ue, Bce e Fmi, è stato il direttore del “Corriere della Sera” Ferruccio De Bortoli. «Il direttore del “Corriere” ci descrive lo scenario che ci aspetta il prossimo autunno», avverte Cesare Sacchetti, «quando vedremo realizzarsi le peggiori nemesi nella manovra economica, che prevederà un probabile prelievo forzoso sui conti correnti». Sarebbe la riedizione del 1992, quando l’allora primo ministro Giuliano Amato «decise di approvare questo furto a danno del risparmio dei cittadini italiani». Solo allora «verrà dichiarata la resa ai tecnocrati». E sarà «messo in un angolo» il governo presieduto da Matteo Renzi, «che non ha vinto nessuna elezione democratica ma è stato nominato dal Capo dello Stato». Tutto questo, mentre i signori della Troika faranno all’Italia quello che fecero nel 2011 alla Grecia, che in cambio dei 50 miliardi ricevuti sta privatizzando tutto: sono all’asta «porti, aeroporti, isole e acquedotti».È questa, scrive Sacchetti su “L’Antidiplomatico”, «la forma più subdola e criminale con la quale il colonialismo finanziario distrugge e depreda gli Stati sovrani, ostaggi di un debito sovrano denominato in una valuta straniera che non possono stampare». Parole profetiche: «Datemi il controllo della moneta di una nazione e non mi importa di chi farà le sue leggi», disse un certo Mayer Amschel Rothschild. Auspicio «portato a compimento nella moderna Eurozona», dal momento che «gli Stati ex-sovrani sono messi nelle condizioni di una colonia: per poter finanziare la propria spesa devono bussare alle porte dei colonizzatori, che vorranno in cambio la linfa economica degli Stati e prenderanno il possesso monopolistico di tutti i settori strategici di quel paese». L’Italia è già da tempo in vendita, e gli investitori stranieri stanno facendo man bassa dei suoi gioielli, «gentilmente offerti dal governo Renzi», come la Cassa Depositi e Prestiti, Poste Italiane (che dismetterà il 40% della partecipazione pubblica), nonché Eni e Enel, «che potrebbero cedere il 5% delle azioni, come annunciato recentemente dal sottosegretario all’economia, Giovanni Legnini».Mentre gli italiani provano a godersi quei pochi spicchi di sole di quest’estate anomala, scrive Sacchetti, l’ipotesi che la Troika venga qui nel Belpaese non è più remota. «Il giorno dopo che De Bortoli ha annunciato questo scenario, Rcs fa sapere che non si avvarrà più della collaborazione del direttore. È stato infranto un vincolo di riservatezza, qualcosa che doveva essere taciuto è stato rivelato». Forse il direttore «ha pagato questa delazione», anche se «l’impressione è quella di un Ponzio Pilato che vuole lavarsi le mani del sangue degli italiani e non intende accollarsi la responsabilità morale di un disastro sociale ed economico senza precedenti». Non passano che pochi giorni dalle scioccanti dichiarazioni di De Bortoli che «il Barbapapà del giornalismo italiano, Eugenio Scalfari», fondatore di “Repubblica”, «ci fa dono di una delle sue memorabili articolesse domenicali, dove si augura una venuta della Troika che “deve combattere la deflazione che ci minaccia”».Per Scalfari, la Troika – proprio lei, la massima responsabile dell’euro-disastro – deve «puntare su una politica al tempo stesso di aumento del Pil, di riforme sulla produttività e la competitività, di sostegno della liquidità e del credito delle banche alle imprese». Scalfari, che non ha ancora digerito la detronizzazione del suo beniamino Letta (con quale cenava, addirittura insieme a Draghi e Napolitano) non manca di inviare un messaggio a Renzi: «Capisco che dal punto di vista del prestigio politico sottoporsi al controllo diretto della Troika sarebbe uno scacco di rilevanti proporzioni, ma a volte la necessità impone di trascurare la vanagloria e questo è per l’appunto uno di quei casi». Parole chiare: caro Renzi, ti è stato affidato un compito ben preciso e non lo stai portando a termine come previsto.«Questo – scrive Sacchetti – il contenuto del messaggio che Scalfari manda al premier, al quale potrebbe essere dato il ben servito molto presto se non esegue pedissequamente le istruzioni che gli sono state date». E la fine che lo attende, se non “obbedisce”, «è quella dei suoi predecessori Monti e Letta, i quali sono stati gettati via come due scarpe vecchie appena diventati inutili». Nessuna sorpresa: «E’ il meccanismo infernale che ha progettato l’élite transnazionale che detesta gli Stati e i popoli che li abitano, considerati alla stregua di una plebe ignorante priva di diritti», conclude Sacchetti. «De Bortoli e Scalfari sanno molto bene quale sarà il trattamento che attende l’Italia e ne stanno discutendo nei primi giorni di agosto, mese ideale per sferrare l’ennesimo calcio nelle gengive agli italiani, distratti dalle vacanze». Al loro ritorno, «potrebbero trovare ciò che è stato conquistato ieri dai loro padri completamente distrutto nel giro di pochi mesi oggi».Qualcosa di esplosivo sta accadendo nei piani alti del mainstream italiano: a rompere il tabù, prospettando l’arrivo della famigerata Troika, il triumvirato tecnocratico composto da Commissione Ue, Bce e Fmi, è stato il direttore del “Corriere della Sera” Ferruccio De Bortoli. «Il direttore del “Corriere” ci descrive lo scenario che ci aspetta il prossimo autunno», avverte Cesare Sacchetti, «quando vedremo realizzarsi le peggiori nemesi nella manovra economica, che prevederà un probabile prelievo forzoso sui conti correnti». Sarebbe la riedizione del 1992, quando l’allora primo ministro Giuliano Amato «decise di approvare questo furto a danno del risparmio dei cittadini italiani». Solo allora «verrà dichiarata la resa ai tecnocrati». E sarà «messo in un angolo» il governo presieduto da Matteo Renzi, «che non ha vinto nessuna elezione democratica ma è stato nominato dal Capo dello Stato». Tutto questo, mentre i signori della Troika faranno all’Italia quello che fecero nel 2011 alla Grecia, che in cambio dei 50 miliardi ricevuti sta privatizzando tutto: sono all’asta «porti, aeroporti, isole e acquedotti».
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Fortezza Europa: vendiamo armi e anneghiamo profughi
Siamo noi a vendere le armi ai regimi che li massacrano, facendoli fuggire sui barconi. Per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati ha superato i 50 milioni di persone. E’ il più grande esodo della storia, dopo la fuga di massa dall’Europa dominata dal nazismo. La fuga è diventata espressione del nostro mondo, scrivono Barbara Spinelli, Daniela Padoan e Guido Viale in una petizione al Parlamento Europeo in occasione del semestre italiano di presidenza dell’Ue. «È una fuga che vede l’Europa come approdo, luogo di salvezza». Sulle nostre coste affluiscono uomini, donne e bambini «che si lasciano alle spalle paesi in fiamme, dittature, genocidi, carestie, catastrofi climatiche e ambientali, guerre divenute inani e senza fine contro il terrorismo». Ma siamo noi, Occidente, i principali “esportatori” di disperazione. E tutto quello che facciamo è lasciare i disperati in mano ai trafficanti, per poi rinchiudere i superstiti nei centri di detenzione italiani, mentre il resto d’Europa lascia che la sbrighi l’Italia.«I rifugiati sono oggi il prodotto su scala industriale di quella grande guerra, immateriale e non dichiarata, che è la guerra contro i poveri, dove un confine netto separa chi ha diritto di muoversi da chi quel diritto si vede negato», e di trova di trova di fronte un’Europa trasformata in filo spinato, scrivono Spinelli, Padoan e Viale, nella petizione sottoscritta da Alexis Tsipras e Nichi Vendola e da autorevoli personalità come Stefano Rodotà, Luigi Manconi, Andrea Camilleri, Umberto Eco, Curzio Maltese, Moni Ovadia, Erri De Luca, Gad Lerner, Marco Revelli, Ermanno Rea, Sandra Bonsanti e Gustavo Zagrebelsky. Imperativo morale: garantire il diritto di fuga e fermare i “respingimenti”. Nel 2013, il numero dei migranti forzati è aumentato di ben 6 milioni, complice la carneficina siriana che in tre anni ha sfrattato due milioni e mezzo di civili. Si scappa anche dalla Repubblica Centrafricana, dal Sud Sudan, dall’Eritrea, dalla Libia gettata nel caos dalla guerra occidentale; si fugge dalla Somalia e dal Maghreb.Uomini, donne e bambini che giungono alle nostre coste «in cerca non solo della nuda vita, ma di libertà e di giustizia: di quell’inclusione nel concetto di umanità senza il quale ogni discorso sui diritti perde significato, rimanendo appannaggio di un ceto di privilegiati». Chi non muore durante il viaggio, che trasforma il Mediterraneo in un cimitero, viene accolto come un fuorilegge, subendo una «inferiorizzazione giuridica, economica e sociale», oltre alla privazione della libertà. Così, a naufragare è «quello stesso pensiero di eguaglianza e solidarietà che fonda le nostre democrazie». Sicché, «i cittadini europei non possono più assistere passivamente alla strage che giorno dopo giorno si svolge davanti ai loro occhi». Tuttavia, l’Unione Europea – che dal 2000 dichiara di voler prevenire e combattere il traffico di esseri umani – sta, di fatto, permettendo che profughi e migranti attraversino il Mediterraneo «mettendo la propria vita nelle mani di organizzazioni criminali transnazionali, perché è stato lasciato loro il monopolio del trasporto in mare».La cosa, aggiungono i firmatari della petizione, è tanto più grave in quanto il Trattato sul Funzionamento dell’Unione prevede una responsabilità diretta in materia di gestione integrata delle frontiere, gestione di tutte le fasi del processo migratorio, accoglienza delle persone e condivisione degli oneri, non solo finanziari, tra tutti i paesi membri. Tutte norme rimaste quasi lettera morta: questo «conferma l’assenza di volontà politica da parte degli Stati membri e la pusillanimità della Commissione», data anche l’incapacità di predisporre soluzioni pratiche come la creazione di corridoi umanitari. L’Ue preferisce restare «nascosta dalla retorica del Consiglio Europeo o dalla valanga di documenti, incontri e conferenze», tra agenzie europee che dovrebbero «applicare le politiche europee, e non nel fare da schermo alla loro assenza». Massima ipocrisia, i respingimenti: presentati come misure per salvare i profughi, sono esattamente la loro condanna all’annegamento. Sono gli Stati, per primi, a violare le norme su diritto d’asilo, integrazione e solidarietà: «L’ossessione della lotta contro l’immigrazione clandestina e la chiusura dei canali di accesso regolari hanno concretamente operato per accrescere, come strumento di dissuasione, il rischio patito da tutti coloro che cercano di attraversare i confini della “fortezza Europa”».Come ogni altra legge varata dall’autocrazia tecnocratica di Bruxelles che infligge le politiche di austerity, anche lo “scudo” europeo anti-immigrazione, Frontex, non è mai stato votato dai cittadini. «L’Europa che ha creduto di potersi barricare in una fortezza, ha fallito», scrivono Spinelli, Padoan e Viale, ricordando il cartello esposto a Bruxelles da un migrante: “Non siamo noi ad attraversare i confini, sono i confini ad attraversare noi”. Servono nuove leggi, da applicare prontamente per fermare la strage. Oggi ci sono soltanto «iniziative su base volontaria, approcci diplomatici poco credibili e strumenti operativi con risorse limitate, come Frontex», praticamente «fumo negli occhi». I firmatari chiedono a Bruxelles di esaminare seriamente la situazione e produrre risposte. Nel frattempo, «si tratta di prevedere d’urgenza l’apertura di percorsi autorizzati e sicuri per chi lascia il territorio di nascita, di cittadinanza o di residenza – in fuga da guerre, persecuzioni, catastrofi ambientali, climatiche o economiche». Un corridoio umanitario tra Africa e Ue, sotto tutela Onu, per scongiurare nuove tragedie. Del resto, l’Europa è già presente in Libia: perché non fa niente per contrastare il traffico di esseri umani?Spinelli, Padoan e Viale chiedono «canali di ingresso legale», in cui «un sistema di traghetti e voli charter sostituisca le carrette del mare», e in cui l’Onu e l’Ue presidino ogni snodo di partenza e di transito per «identificare, tutelare e dotare i profughi di visti provvisori», per poi «smistare gli arrivi fra i vari porti e aeroporti attrezzati per l’accoglienza, così da governare razionalmente la distribuzione sul territorio europeo dei singoli e delle famiglie», mettendo fine all’assedio degli abitanti di Lampedusa, costretti a supplire, con grande generosità, «l’abissale assenza dello Stato e dell’Unione Europea». Più in generale, «l’Italia e tutti i popoli del Sud Europa non possono più essere lasciati soli nel gravoso compito dei soccorsi in mare». Poi occorre assicurare libertà di movimento, garantire ai profughi «la libertà di scegliere dove vivere e la libertà di riannodare i propri affetti». Serve anche il “mutuo riconoscimento” delle decisioni sull’asilo: «Chiunque si trovi nello spazio europeo, indipendentemente dalla sua cittadinanza, deve poter godere del pieno esercizio di pari diritti». Per questo, i firmatari chiedono «la chiusura di tutti i centri di detenzione per migranti e profughi, comunque si chiamino, che configurano una forma di detenzione extra ordinem».Barbara Spinelli, Daniela Padoan, Guido Viale e chiedono che l’Ue si impegni a facilitare richieste e visti, «per chi fugge da situazioni di guerra o di persecuzione o di rischio per la vita», grazie a una normativa «capace di restituire dignità giuridica ai rifugiati», a cominciare dalla protezione del diritto di transito. Problema ancor più drammatico per i minori non accompagnati, quasi 6.000 in Italia negli ultimi 18 mesi: «Molti di loro sono trattenuti da mesi in strutture inadeguate, che non prevedono percorsi di formazione né di integrazione». Poi, l’istituzione dello “ius soli”, per assicurare la cittadinanza europea ai figli dei migranti nati nei nostri paesi. Obiettivo finale: una “pax mediterranea”, dopo la “guerra infinita” prodotta dall’attuale geopolitica occidentale, prima responsabile delle crisi che determinano il flusso dei rifugiati. Servono nuovi strumenti politici per governare l’esodo: «Basti pensare al fatto che se accogliessimo davvero i profughi, dando loro possibilità di avere voce e diritti, si creerebbe forse in Europa una “terza forza” in grado di rappresentare il rispettivo paese – per esempio la Siria, la Repubblica Centrafricana, l’Eritrea e tutti i paesi del Corno d’Africa – in un eventuale negoziato, più e meglio dei cosiddetti governi in esilio, che talvolta sono puri fantocci».La crisi migratoria, concludono i firmatari, mostra quanto sia urgente una politica estera europea, «attualmente impedita non solo da sterili sovranità nazionali gelosamente custodite, ma anche dalla sudditanza dell’Unione Europea alla Nato e agli Usa, che sono spesso all’origine dei conflitti che deflagrano nel mondo e soprattutto ai nostri confini». L’Europa è tutt’altro che innocente: tra i primi dieci esportatori mondiali di armi figurano Germania, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Italia, Spagna e Svezia. «Partner di questo lucroso commercio sono in gran parte proprio i paesi dai quali le persone sono costrette a fuggire per mettersi al riparo da guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti umani e soppressione delle libertà democratiche. Poiché i rifugiati sono il prodotto della guerra, noi, cittadini d’Europa, chiediamo che la nostra pace non sia una retorica né un privilegio di asserragliati, ma si declini in politiche solidali capaci di includere i paesi che si affacciano sul Mediterraneo e l’Africa».Siamo noi a vendere le armi ai regimi che li massacrano, facendoli fuggire sui barconi. Per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati ha superato i 50 milioni di persone. E’ il più grande esodo della storia, dopo la fuga di massa dall’Europa dominata dal nazismo. La fuga è diventata espressione del nostro mondo, scrivono Barbara Spinelli, Daniela Padoan e Guido Viale in una petizione al Parlamento Europeo in occasione del semestre italiano di presidenza dell’Ue. «È una fuga che vede l’Europa come approdo, luogo di salvezza». Sulle nostre coste affluiscono uomini, donne e bambini «che si lasciano alle spalle paesi in fiamme, dittature, genocidi, carestie, catastrofi climatiche e ambientali, guerre divenute inani e senza fine contro il terrorismo». Ma siamo noi, Occidente, i principali “esportatori” di disperazione. E tutto quello che facciamo è lasciare i disperati in mano ai trafficanti, per poi rinchiudere i superstiti nei centri di detenzione italiani, mentre il resto d’Europa lascia che la sbrighi l’Italia.
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Riforme progettate per noi, docile bestiame da decimare
Ci sono due linee di riforme “indispensabili per la crescita”. Linee convergenti. Pericolosamente. La prima linea è istituzionale-strutturale e sta producendo: svuotamento dei poteri e dell’autonomia degli Stati nazionali parlamentari; concentrazione dei poteri politici in organismi sovrannazionali; isolamento tecnocratico degli organismi decidenti; soprattutto, indipendenza e gestione autoreferenziale delle banche centrali e della politica monetaria; riduzione della partecipazione e dell’influenza democratiche sugli organismi decidenti; riduzione della trasparenza, della responsabilità, della controllabilità degli organismi decidenti; riduzione della conoscibilità dei loro obiettivi di medio e lungo termine e degli effetti di medio e lungo termine delle loro decisioni. Queste caratteristiche (votate da quasi tutto il Parlamento, perché comportano la blindatura della partitocrazia contro la società civile) sono marcatamente proprie soprattutto dell’Ue: quasi tutto il potere, e tutto il potere legislativo, sono in mano ad organismi non elettivi, non responsabili, non trasparenti, burocratici, intergovernativi.L’unico organo elettivo, cioè il Parlamento, ha poteri limitati, che preferisce non esercitare (non ha mai costretto la Commissione a un rendiconto), e la sua natura di cagnolino da passeggio è stata evidenziata da come è stato fatto votare il nuovo presidente dell’Ue: era ammesso un solo candidato – Juncker – e il voto era segreto. Per giunta, nessun elettore europeo, prima di votare, aveva saputo che sarebbe stato Juncker il candidato unico alla presidenza. Nessuna meraviglia se le medesime caratteristiche le ritroviamo anche nella urgente e irresistibile marcia delle riforme istituzionali di Renzi: queste riforme, appunto, diminuiscono la partecipazione e l’influenza degli elettori, ostacolano i referendum, danno al premier i poteri sia politico-legislativi, che di controllo (su se stesso) anche solo con un 22% dei consensi. Nessuna meraviglia: è chiaro che l’Italia e la sua Costituzione devono essere riformate in questo senso per integrarsi nella struttura autocratica dell’Ue.La seconda linea di riforme, iniziata alla fine degli anni ’70, è quella economico-finanziaria, e punta essenzialmente a difendere e tutelare gli interessi dei creditori finanziari con sacrificio degli altri interessi sociali: il modello di sviluppo keynesiano, caratterizzato dallo Stato che corregge il mercato e fa investimenti anticiclici per evitare la recessione e assicurare l’occupazione, al prezzo di una costante, fisiologica inflazione, viene sostituito con un modello da alcuni ritenuto hayekiano, ma che tale non è perché Friedrich Von Hayek voleva non solo il libero mercato come unico regolatore dell’economia, ma anche uno Stato che tenga il mercato libero dai monopoli e che si astenga dall’assistenzialismo sociale e imprenditoriale. Il modello economico-finanziario imposto all’Ue fa per contro tutto questo, anzi in esso i grandi monopoli bancario-finanziari dettano la politica degli Stati e dell’Unione.Il detto modello raggiunge lo scopo della tutela degli interessi dei creditori-finanziari mediante alcuni principali strumenti: indipendenza-irresponsabilità delle banche centrali dai parlamenti, vincoli di bilancio pubblico (proibizione della spesa pubblica antirecessiva), stretta monetaria, compressione salariale (e della domanda interna) per assicurare un pareggio o un surplus della bilancia estera, socializzazione delle perdite delle banche. Quando la politica economica è affidata ai banchieri centrali, che, per statuto, deliberano e operano non solo in autonomia ma nella segretezza e nella irresponsabilità, la democrazia rappresentativa è finita, il consenso popolare è superato. Il risultato – prevedibile e inevitabile perché facente parte degli obiettivi – è la deflazione, la disoccupazione, l’avvitamento fiscale, la recessione o stagnazione – che ora si prospetta pure per la Germania.La Costituzione italiana del 1948 è, per contro, esplicitamente keynesiana: l’articolo 1 fonda la Repubblica sul lavoro, non sul capitale, e numerose altre norme riconoscono al lavoro (all’occupazione, alla produzione, agli investimenti) il primato assoluto e la funzione di perequazione sostanziale tra i cittadini; quindi essa è in opposizione radicale e inconciliabile col modello politico-economico costitutivo dell’Ue e della Bce, che si basa sulla priorità alla prevenzione dell’inflazione (primaria minaccia per le rendite finanziarie), e per prevenirla impone l’austerità, cioè innanzitutto l’astensione dagli investimenti pubblici anticiclici per uscire dalla recessione – sicché la recessione perdura, diviene strutturale e non accidentale. La storia della cosiddetta integrazione europea è in realtà la storia della sostituzione di un modello socio-economico-istituzionale con un modello opposto, ossia dei valori sociali e produttivi, fondanti per la democrazia elettiva e la legittimità costituzionale, col loro contrario: parassitismo finanziario e autocrazia.E’ la storia di un’inversione non dichiarata, che è avanzata di soppiatto, sotto il camuffamento di ideali sbandierati e mai attuati di solidarietà integrazione dei popoli, identità comune, di promesso sviluppo che non arriva mai. Un’inversione di cui oramai sentiamo fortemente gli effetti pratici, anche se molti di noi non sanno da che cosa provengano, e pensano che le cause siano la corruzione o l’evasione o l’articolo 18. In Italia, oltre a queste piaghe, le due linee di riforme di cui Napolitano, Monti, Letta e Renzi sono paladini e artefici (soprattutto Napolitano, che, per imporla e accelerarla, deborda continuamente dalla sua funzione di garante e arbitro per intervenire nella politica dei partiti) sul piano economico sta producendo un continuo e rapido aumento del debito pubblico – cioè l’opposto di ciò che promette – e l’emigrazione di capitali, imprese e cervelli, con la deindustrializzazione del paese e la moria delle sue aziende (dirò poi perché queste loro azioni non vanno condannate, nemmeno moralmente).La direzione, la finalità autocratica, essenzialmente dittatoriale, a cui mira la prima linea di riforme, cioè quelle istituzionali, spiega chiaramente la ragione per la quale, paradossalmente, ci si ostina a portare avanti la seconda linea di riforme, cioè quella economico-finanziaria, sebbene stia producendo effetti rovinosi e contrari a quelli che dovrebbe produrre, tra la sofferenza di milioni di persone: le due linee di riforme convergono in un’operazione di ingegneria sociale, di costruzione di una società radicalmente e apertamente oligarchica che comandi incontrastata le popolazioni fiaccate e rassegnate da molti anni di frustrazioni e insicurezze, e impoverite di redditi, risparmi, diritti civili, sociali, politici. Il modello economico in via di imposizione, con le sue riforme, non importa se produce recessione o stagnazione; il suo scopo reale e non detto non è la crescita, ma una riforma dell’ordinamento sociale e giuridico che assicuri il dominio sulla popolazione generale, la possibilità di sfruttarla senza limiti, l’estrazione da essa di rendite certe per il capitale finanziario anche in periodi di contrazione del Pil, e il tutto in modo formalmente legittimo. A questo servono le riforme. E le privatizzazioni, che ieri Padoan ha ripromesso, parlando in Cina, che verranno eseguite. Quindi è assurdo ciò che promette Renzi, ossia che queste riforme strutturali rilancerebbero l’economia. Possono solo rilanciare l’affarismo spartitorio e screditare ulteriormente il settore pubblico – e questo credo sia il vero obiettivo.Attualmente in Italia abbiamo un programma di tagli alla spesa pubblica, una pressione fiscale che non può calare anche a causa dei 40 miliardi all’anno di riduzione del debito pubblico che il governo dovrà fare in esecuzione del Fiscal Compact, un reddito e una capacità di spesa in picchiata anche a causa dell’alta disoccupazione e maloccupazione, soprattutto giovanili; inoltre le banche stanno riducendo il credito alle imprese e alle famiglie e tengono altissimi i tassi: sanno che gli aspiranti mutuatari, data la mancanza di continuità del loro reddito, non avranno i mezzi per ripagare i prestiti, quindi logicamente non erogano prestiti, se non raramente e con spread altissimi, al decuplo dell’Euribor, per compensare il rischio – dicono. Quindi oggettivamente non ci sono le condizioni per un’uscita dalla depressione economica. Anzi, è in corso un avvitamento recessivo, che determinerebbe rendimenti altissimi sul debito pubblico, senonché qualcuno – la Bce e/o la Fed – comprando sul mercato secondario, e distorcendo il mercato, li tiene artificialmente bassi – come fa ancora più vistosamente con le nuove emissioni del debito pubblico greco.Alla luce di quanto sopra detto, possiamo tranquillamente concludere che, quando un leader comunitario, soprattutto un leader italiano, promette crescita o impegno per la crescita, promette la sospirata flessibilità, promette che l’Ue porta allo sviluppo – quando promette queste cose, e insieme dice che “le regole europee”, “il risanamento”, “il rigore di bilancio” saranno rispettati, mente sapendo di mentire, mente per imbonire la gente: il modello che viene implementato attraverso l’Ue e l’Italia in particolare non vuole crescita, lavoro, sicurezza, rilancio produttivo, ma stagnazione. Come non vuole partecipazione popolare né diritti sociali. Al massimo sono ammessi interventi di riduzione del disagio sociale per prevenire che evolva in sommossa, o sussidii a categorie sociali realizzati a spese di altre categorie sociali (come gli 80 euro di Renzi), in una logica di divide et impera. Logica peraltro applicata anche tra gli Stati membri: consentire ad alcuni (Germania e soci) un relativo (e provvisorio) sviluppo a spese degli altri, onde avere il loro appoggio per completare l’opera di inversione costituzionale. Che si appalesa, oramai, come un’opera eversiva. E quando ci dicono “fare le riforme istituzionali è condizione per ottenere flessibilità di bilancio dall’Europa”, il significato è: “se non ci lasciate riformare la Costituzione per realizzare l’autocrazia che vuole la grande finanza, la grande finanza vi lascia senza soldi”.Diversamente da altri, io non biasimo moralmente i progettisti e gli autori di quanto sopra. Non dico che sono criminali perché sacrificano il 99% della popolazione agli interessi dell’1%. Infatti, il loro modello socioeconomico deflativo-parassitario-autocratico è più adeguato a ciò che i popoli sono, al loro effettivo livello mentale e di consapevolezza, che non è molto diverso da quello del bestiame, come dimostra la bovina docilità con cui si lasciano “riformare”. Il modello democratico, e anche il modello (post)keynesiano, presuppongono che l’uomo mediano e il popolo siano qualcosa che in realtà non sono affatto, quindi semplicemente non possono funzionare. Il modello socioeconomico deflativo ha, inoltre, il vantaggio di riuscire a imporre coercitivamente e dall’alto, di fronte al raggiungimento dei limiti fisici dello sviluppo e alla necessità di ripiegare, la necessaria decrescita ecologica dei consumi e della stessa popolazione, che in regime di democrazie nazionali non si potrebbe ottenere.(Marco Della Luna, estratti dal post “Dove portano queste riforme”, pubblicato sul blog di Della Luna il 24 luglio 2014).Ci sono due linee di riforme “indispensabili per la crescita”. Linee convergenti. Pericolosamente. La prima linea è istituzionale-strutturale e sta producendo: svuotamento dei poteri e dell’autonomia degli Stati nazionali parlamentari; concentrazione dei poteri politici in organismi sovrannazionali; isolamento tecnocratico degli organismi decidenti; soprattutto, indipendenza e gestione autoreferenziale delle banche centrali e della politica monetaria; riduzione della partecipazione e dell’influenza democratiche sugli organismi decidenti; riduzione della trasparenza, della responsabilità, della controllabilità degli organismi decidenti; riduzione della conoscibilità dei loro obiettivi di medio e lungo termine e degli effetti di medio e lungo termine delle loro decisioni. Queste caratteristiche (votate da quasi tutto il Parlamento, perché comportano la blindatura della partitocrazia contro la società civile) sono marcatamente proprie soprattutto dell’Ue: quasi tutto il potere, e tutto il potere legislativo, sono in mano ad organismi non elettivi, non responsabili, non trasparenti, burocratici, intergovernativi.
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Meno democrazia: Renzi, il tecno-populista dell’élite
L’Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), negli ultimi vent’anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l’economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo – prima delle merci e del denaro – le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano – ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso.Effetto culturale, questo, dell’antipolitica capitalista, che per essere sovrano assoluto e culturalmente monopolista deve rimuovere ogni sovrano concorrente. Berlusconi: il populista che prometteva la modernizzazione neoliberale del paese. In realtà, un populismo del cambiare tutto per non cambiare nulla (soprattutto i suoi interessi personali e aziendali).Un populismo aziendalista, con la figura del padre/leader sostituita da quella dell’imprenditore che si è fatto da solo (o quasi), perfetta nell’esprimere il modello culturale che tutti dovevano apprendere: l’edonismo, il godimento immediato, la deresponsabilizzazione egoistica ed egotistica. Per legittimare – questa l’azione appunto culturale, pedagogica prima che economica – le retoriche neoliberiste dell’essere imprenditori di se stessi e della competizione come unica forma di vita.Bossi e la Lega: il mezzo populismo (non solo perché limitato a una parte del territorio), apparentemente il più classico dei populismi con il richiamo alla tradizione, ai simboli di terra e di sangue. All’essere padroni a casa nostra: da intendere però non come sovrani sulla nostra terra ma come padroni nel senso antico del capitalismo. Populismo da piccola impresa, da capitalismo molecolare come versione localistica dell’ordoliberalismo tedesco e della sua pedagogia per imporre il modello impresa all’intera società. Grillo: il populista contestatore, il teorico del net-populismo come forma perfetta della democrazia. Grillo come l’uomo del cambiamento ma incapace di cambiare (dice solo no) e forse populista anche di se stesso. E Matteo Renzi. Un populismo di tipo nuovo ma evoluzione dei precedenti. Perché anch’egli cerca il rapporto diretto con il popolo e lo invoca come propria totalizzante legittimazione. Perché aspira ad essere insieme Partito di Renzi e Partito della Nazione. Un partito-non-partito, tuttavia, ormai anch’esso trasversale – e quasi un non-luogo nel senso di Marc Augé: come un aeroporto, un supermercato, un luogo di consumo di politica.Un populismo che invoca il popolo contro le caste e il sindacato, salvando invece le oligarchie che lo sostengono come un sol uomo; che ha grandi mass-media schierati dalla sua parte e che gli consentono ciò che mai avrebbero consentito a Berlusconi; un populismo fideistico e teologico-politico (noi contro loro, noi il tutto che non accetta il due e il tre e il molteplice e gli eretici; noi il nuovo, gli altri il vecchio). Un populismo che vuole rottamare appunto il vecchio, ma che non rottama, non corregge (una volta si chiamava autocritica, ma il nuovo che avanza travolge anche la memoria) i molti errori del passato: il sì all’austerità, all’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio. Un populismo finalizzato alla modernizzazione dell’Italia – e ogni populismo è stato, storicamente, anche una via per la modernizzazione, facendo accettare al popolo, in nome del popolo, quelle trasformazioni che altrimenti non sarebbero state possibili per trasformare un paese e quel popolo. Per questo, quello di Renzi è un populismo tecnocratico: che produce quella modernizzazione neoliberista che Berlusconi non è riuscito a produrre e Grillo fatica a poter produrre.Un populismo nel nome della tecnocrazia, che la tecnocrazia ama; un populismo che trasforma (forse questa volta per davvero) il potere politico nel senso richiesto dalla tecnocrazia: meno democrazia (la riforma del Senato, le proposte di nuova legge elettorale); meno diritti sociali e quindi politici (diventati un costo); più decisionismo; meno partecipazione e più adattamento alla realtà immodificabile del mercato; meno cittadinanza attiva e più accettazione della ineluttabilità del reale. Perché le sue pratiche politiche – al di là delle apparenze e delle discussioni con Angela Merkel e di alcuni interventi comunque virtuosi – sono tutte dentro alla cultura della modernizzazione richiesta dall’ideologia neoliberista (flessibilità del lavoro, privatizzazioni, un nuovo modo di essere imprenditori di se stessi, riduzione ulteriore dello stato sociale, crescita invece di sviluppo, competizione invece di solidarietà); e la flessibilità sul Fiscal Compact (invece della sua abolizione, per evidente irrazionalità e surrealtà economica), pure invocata, è un pannicello caldo rispetto al nuovo new deal che sarebbe invece necessario (e urgente).Un populismo futurista, inoltre: nel nome della velocità, delle macchine, delle parole in libertà, dell’azione per l’azione. Il populismo di Renzi è dunque più di un classico neopopulismo, che ha dominato la scena per trent’anni coniugando populismo e neoliberismo, mercato e popolo, modernizzazione e impoverimento e disuguaglianze. E’ un neopopulismo tecnocratico – per altro discendenza diretta di quello neoliberista – che scardina ancor più di quello neoliberista le forme e le pratiche della democrazia; riduce a niente la società e la società civile; attacca il sindacato o lo rende inutile (in coerenza con le tecnocrazie globali); che spettacolarizza se stesso proponendosi come outsider, come rottura, come alternativa, in realtà portandoci nella società dello spettacolo della tecnocrazia. Una tecnocrazia che non si espone più direttamente con i noiosi e antipatici tecnici, ma con la fantasia e l’estro di un populismo mediatico e spettacolare, moderno e postmoderno insieme, dove twittare è più importante che ascoltare.(Lelio Demichelis, “Il populismo tecnocratico del rottamatore”, da “Sbilanciamoci” del 4 luglio 2014).L’Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), negli ultimi vent’anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l’economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo – prima delle merci e del denaro – le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano – ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso.
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I Brics: addio dollaro, così fermeremo i missili Usa
Porre fine al monopolio del dollaro come valuta internazionale. Obiettivo: frenare l’aggressività militare degli Usa, che sta mettendo in pericolo la stabilità geopolitica del mondo. Russia e Cina guidano i Brics verso la de-dollarizzazione del pianeta, allo scopo di sottrarre linfa all’apparato industriale-militare statunitense. Grandi manovre sono ormai in corso, conferma “Zero Hegde”, per re-impostare il commercio mondiale costruendo un’alternativa al dollaro come moneta di scambio. «Mentre i governi di tutto il mondo sono occupati a nascondere alla loro devastata classe media la vera faccia del mercato e a distrarla dal progressivo impoverimento della sua esistenza, dietro le quinte sta avvenendo qualcosa di veramente importante, di cui solo pochissimi si rendono conto». Un nuovo sistema di scambio monetario tra le banche centrali dei Brics faciliterà il finanziamento del commercio, bypassando completamente il dollaro. Il nuovo sistema «potrà agire anche come sostituto de facto del Fmi», segnando la fine di un’epoca.Sono molti, segnala “Zero Hedge” in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, i paesi che stanno «gettando le basi per questa guerra valutaria finale». Valentin Madrescu, di “Vor”, spiega che la “riconversione” sta avvenendo «lentamente ma inesorabilmente, nei paesi del Brics». Lavori in corso: Elvira Nabiullina, governatore della banca centrale russa, ha concertato con Putin l’imminente accordo rublo-yuan con la Banca Popolare Cinese. Sergej Glaziev, consigliere economico di Putin, sostiene la necessità di «creare un’alleanza internazionale di paesi disposti a sbarazzarsi del dollaro per i loro commerci internazionali e a rifiutarsi di continuare a stoccare dollari come riserve valutarie». L’obiettivo finale, rileva “Zero Hedge”, sarebbe quello di «far ingrippare la macchina-stampa-soldi di Washington che serve ad alimentare il suo complesso militare e industriale, che sta permettendo agli Usa di diffondere il caos in tutto il mondo, fomentando le guerre civili in Libia, Iraq, Siria e in Ucraina».La missione tecnica dei banchieri russi e cinesi: semplificare il finanziamento del commercio internazionale. «Stiamo discutendo con la Cina e con i nostri parter del Brics sull’istituzione di un sistema di scambi multilaterali, che permetterà di trasferire risorse da un paese all’altro, se necessario», dice Glaziev a “Prime News Agency”. «Una parte delle riserve valutarie potrà essere destinata a questo scopo», cioè la creazione del nuovo sistema.«Sembra che il Cremlino abbia scelto l’approccio all-in-one per costruire la sua alleanza anti-dollaro», scrive Tyler Durden. «Uno scambio monetario tra le banche centrali dei Brics faciliterà il finanziamento del commercio, bypassando completamente il dollaro. Allo stesso tempo, il nuovo sistema potrà anche agire come sostituto de facto del Fondo Monetario Internazionale, perché permetterà ai membri dell’alleanza di usare le risorse per finanziare i paesi più deboli». I Brics probabilmente useranno le loro attuali riserve in dollari per sostenere il nuovo sistema, «riducendo drasticamente la quantità di strumenti in dollari acquistati dai più grandi creditori esteri degli Stati Uniti».Gli scettici, aggiunde Durden, sicuramente diranno che l’alleanza dei Brics contro il dollaro non riuscirà a privare il biglietto verde del suo status di valuta di riserva globale. In compenso, bisogna ammettere che Washington «sta facendo del suo meglio per allargare le fila dei nemici del dollaro». Quando il canale televisivio “Russia 24” ha chiesto a Sergej Kostin di commentare le dichiarazioni della Nabiullina, tra le più convinte sostenitrici della svolta anti-dollaro, ha ottenuto una risposta illuminante sui contraccolpi in Europa: l’asse tra la valuta russa e quella cinese è ormai imminente, la modalità dei pagamenti rublo-yuan «sarà lasciata libera», mentre la stessa Banca di Francia – per proteggere Bnp Paribas da Wall Street – per bocca del governatore Christian Noyer annuncia che il commercio con la Cina sarà «gestito in yuan o in euro», non più in dollari. «Se la tendenza attuale dovesse continuare – rileva Durden su “Zero Hedge” – presto il dollaro sarà abbandonato dalle più importanti economie globali e sbattuto fuori dalla finanza del commercio globale. Il bullismo di Washington porterà anche i suoi alleati storici a dover scegliere l’allenza dei Brics, invece del sistema monetario attuale basato sul dollaro». Secondo Durden, «il punto di non-ritorno per il dollaro potrebbe essere molto più vicino di quanto si creda».Porre fine al monopolio del dollaro come valuta internazionale. Obiettivo: frenare l’aggressività militare degli Usa, che sta mettendo in pericolo la stabilità geopolitica del mondo. Russia e Cina guidano i Brics verso la de-dollarizzazione del pianeta, allo scopo di sottrarre linfa all’apparato industriale-militare statunitense. Grandi manovre sono ormai in corso, conferma “Zero Hegde”, per re-impostare il commercio mondiale costruendo un’alternativa al dollaro come moneta di scambio. «Mentre i governi di tutto il mondo sono occupati a nascondere alla loro devastata classe media la vera faccia del mercato e a distrarla dal suo progressivo impoverimento, dietro le quinte sta avvenendo qualcosa di veramente importante, di cui solo pochissimi si rendono conto». Un nuovo sistema di scambio monetario tra le banche centrali dei Brics faciliterà il finanziamento del commercio, bypassando completamente il dollaro. Il nuovo sistema «potrà agire anche come sostituto de facto del Fmi», segnando la fine di un’epoca.
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Ma il mondo ha capito che Obama è più bugiardo di Bush
Caro Obama, ci hai deluso. Firmato: 93 paesi, dalla A di Afghanistan alla Z di Zimbabwe, passando per Europa, Brasile, Medio Oriente, ex Urss, Sudamerica e Africa. Durante gli anni di Bush, le popolazioni di tutto il mondo erano inorridite dalle aggressioni, dalle violazioni dei diritti umani e dal militarismo degli americani. Nel 2008 solo una persona su tre, in tutto il mondo, approvava l’operato dei leader Usa. L’avvento di Obama trasmise un messaggio di speranza e cambiamento, e nel 2009 il monitoraggio della Gallup (Usglp, Us Global Leadership Project) registrò il forte consenso dell’opinione pubblica mondiale: il 49% del campione aveva fiducia nella nuova leadership statunitense, che però è andata riducendosi non appena Obama è passato dalle promesse ai fatti. Domanda: lei approva o disapprova la leadership Usa? In alcuni paesi, «un gran numero di persone ha rifiutato di rispondere e di esprimere un qualsivoglia parere, mascherando la disapprovazione dietro ad un silenzio dettato dalla paura», spiega Nicolas Davies.I dati più suggestivi vengono dall’Africa, continente dove Obama aveva sempre goduto di alti indici di gradimento: la caduta delle grandi speranze nei suoi riguardi può spiegare, almeno in parte, il minor consenso in 28 dei 34 paesi esaminati, scrive Davies in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Ma non può spiegare perché, ora, in 15 paesi su 27 – ovvero nella maggior parte del continente nero – le persone considerano la leadership di Obama peggiore di quella di Bush (compreso il Kenya, il paese di origine della famiglia Obama). Va meglio in Europa, dove più forte era stata l’ostilità verso Bush. Ma attenzione: «Le interviste europee della Gallup, nel 2013, sono state fatte prima delle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio della Nsa, e prima che l’assistente segretario di Stato, Victoria Nuland, organizzasse il colpo di stato in Ucraina, trasformando questo paese nell’ultimo campo di battaglia di quella guerra globale americana», cioè il tipo di guerra «che aveva alienato il consenso di così tanti europei all’amministrazione Bush».Le promesse di speranza e di cambiamento fatte da Obama nella campagna presidenziale del 2008 «sono progressivamente sbiadite, nei titoli dei giornali di tutto il mondo, esattamente come in America». La sua politica estera e militare? «E’ clamorosamente fallita nel segnare una rottura con le politiche di Bush». Obama «non è riuscito a chiudere Guantanamo, né a “contenere” gli alti ufficiali statunitensi responsabili dei crimini di guerra». Inoltre ha intensificato la guerra in Afghanistan con 22.000 attacchi aerei e «ha consentito centinaia di illegittimi attacchi di droni in Pakistan, Yemen e Somalia». Sempre Obama «ha ampliato le operazioni delle forze speciali fino all’incredibile numero di 134 paesi, ha lanciato sanguinose guerre “per procura” in Libia ed in Siria precipitando, questi due paesi nel caos, e ha consegnato l’Iraq e l’Afghanistan ai “signori della guerra”». Più operazioni coperte, meno occupazioni militari, più navi da guerra nel Pacifico: un’evoluzione dettata dai fallimenti in Iraq e Afghanistan e dall’ascesa della Cina, più che da una precisa visione della Casa Bianca.«Il fascino di Obama», scrive Davies, «si è sempre basato più sullo stile che sul merito. Dietro alla maschera del “cambiamento” c’è sempre stata la continuità. Né l’America né le popolazioni globali avrebbero accettato tranquillamente un altro George W. Bush». Quindi, servivano «un volto e una voce cui una popolazione sfibrata avrebbe volentieri dato il benvenuto», ma in grado di garantire, al tempo stesso, «la continuità nel controllo di Wall Street e dell’economia, e la ricerca incessante – ma sempre più sfuggente – del dominio militare americano nel mondo». La suggestione del cambiamento? «Era indispensabile per depistare e porre il bavaglio alla crescente richiesta di un cambiamento effettivo nella politica degli Stati Uniti: è questa la sfida che ha definito il ruolo intrinsecamente ingannevole di Obama come nuovo “ceo dell’America Incorporated”».I parametri della politica estera Usa dopo la guerra fredda, continua Davies, furono definiti nel 1992, per orientare i leader e aiutarli a sfruttare il meglio il dividendo acquisito con il crollo dell’Unione Sovietica. Furono precisati nel documento “Defense Planning Guidance” redatto dal sottosegretario alla difesa Paul Wolfowitz e dal suo assistente Scooter Libby, come trapelò sul “New York Times” nel marzo del 1992. «Quel documento fu poi sostanzialmente rivisto per oscurare le sue implicazioni a livello di offensiva globale, prima che fosse ufficialmente rilasciato il mese successivo». Il quadro politico delineato da Wolfowitz nel 1992 fu poi codificato nel 1997 da Bill Clinton e poi nel “2002 National Security Strategy”, che il senatore Edward Kennedy definì «un manifesto dell’imperialismo americano del 21° secolo, che nessun’altra nazione può o dovrebbe accettare».La politica delineata da Wolfowitz nel 1992 stabiliva un ordine mondiale in cui l’esercito statunitense sarebbe stato così schiacciante, e così pronto ad usare la sua forza, che «i potenziali concorrenti sarebbero stati indotti a non aspirare ad un qualche ruolo regionale o globale». Anche gli alleati della Nato sarebbero stati dissuasi dall’agire in modo indipendente dagli Stati Uniti, o dal formare autonomi accordi di sicurezza europea. Quell’impostazione «violava implicitamente il divieto contenuto nella “Carta delle Nazioni Unite” di minacciare o di far ricorso unilateralmente all’uso della forza militare, da parte degli Stati Uniti, contro i “potenziali concorrenti”». Era la fine del cosiddetto “internazionalismo collettivo”, cioè il multilateralismo che aveva permesso agli Alleati, vincitori della Seconda Guerra Mondiale, di dar vita all’Onu come organizzazione deputata a mediare le dispute e scongiurare i conflitti armati.Durante l’amministrazione Bush, la filosofia “neocon” di Wolfowitz «è uscita dal cono d’ombra ed è diventata un bersaglio della critica mondiale». Le radici dell’aggressione all’Iraq sono state rintracciate nel neoconservatore “Project for the New American Century”, il famigerato Pnac firmato nel 1997 da Robert Kagan e William Kristol, direttore del “Weekly Standard” fondato da Rupert Murdoch. Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz e Libby erano tutti membri del Pnac. «Ma il ruolo della moglie di Kagan, Victoria Nuland, quale leader del team del Dipartimento di Stato e della Cia che ha organizzato il colpo di Stato americano in Ucraina, ha attirato nuova attenzione sul fatto che anche sotto Obama i neocon continuano a detenere posizioni di potere e di influenza», ben insediati in tutte le stanze dei bottoni di Washington, accanto a Obama. La Nuland ha lavorato indifferentemente con Cheney, alla Nato, con Hillary Clinton e John Kerry. E suo marito, Robert Kagan, lavora al Brookings Institution e, insieme a Kristol, ha fondato il “Foreign Policy Initiative”, considerato il successore del Pnac. Obama ha citato il suo saggio “The Myth of American Decline” al discorso sullo Stato dell’Unione del 2012.Un altro neocon molto influente nell’amministrazione Obama è il fratello di Kagan, Frederick, studioso dell’“American Enterprise Institute”, mentre sua moglie Kimberly è presidente dell’“Institute for the Study of War”. «Nel 2009 erano tra i principali sostenitori dell’escalation in Afghanistan, e gli stretti rapporti con il segretario Gates e con i generali Petraeus e McChrystal ha dato loro un’influenza fondamentale nel far prendere ad Obama la decisione di intensificare e prolungare la guerra». L’ex direttore del Pnac, Bruce Jackson, è presidente del “Project on Transitional Democracies”, il cui scopo è l’integrazione dell’Europa dell’Est nell’Ue e nella Nato. Reuell Marc Gerecht, membro della “Foundation for the Defense of Democracies” ed ex agente della Cia in Iran, «è una delle voci più forti che si sono alzate a Washington per sostenere l’aggressione americana alla Siria e all’Iran, e l’abbandono di soluzioni diplomatiche per entrambi i casi». Ancora: Carl Gershman e Vin Weber sono i leader della Ned, “National Endowment for Democracy”, l’organizzazione che ha pianificato il golpe a Kiev spendendo più di 3,4 miliardi di dollari. Ron Paul ha definito la Ned «un’organizzazione che utilizza i soldi delle tasse statunitensi per sovvertire la democrazia, concedendo finanziamenti a pioggia a partiti o movimenti politici di loro gradimento all’estero».Per Davies, l’influenza del neoconservatorismo si estende ben al di là della cricca dei neocon che cavalcavano l’amministrazione Bush: gli obiettivi definiti da Wolfowitz nel 1992 «sono stati scolpiti nella pietra, allo stesso modo, da tutte le amministrazioni democratiche e repubblicane: l’obiettivo della supremazia militare degli Stati Uniti è diventato un tale articolo di fede, che le alternative razionali vengono considerate come un sacrilegio o un tradimento». Non ci sono crimini che l’eccezionalismo americano non possa giustificare, dice Davies, e il genuino rispetto per uno Stato di Diritto «è visto come un’impensabile minaccia al nuovo fondamento del potere americano». Ed ecco il trucco: «L’unico modo attraverso il quale un governo può mantenere una posizione di tale illegittimità, è attraverso l’uso della propaganda, dell’inganno e della segretezza, sia contro il proprio popolo che contro il resto del mondo». Di qui il “modello Obama”, che si è evoluto grazie alle tecniche di marketing e costruzione dell’immagine fiduciaria di un presidente «trendy, sofisticato, con forti radici nell’afro-americanismo e nella moderna cultura urbana».Il contrasto tra l’immagine e la realtà, un elemento così essenziale nel ruolo di Obama, rappresenta la nuova conquista della “democrazia gestita”, che gli consente di «continuare ed espandere politiche che sono l’esatto opposto del cambiamento che i suoi sostenitori pensavano di andare a votare», scrive Davies. «Questo regime di segretezza, di inganno e di propaganda è la caratteristica essenziale della filosofia politica neoconservatrice che sta ora guidando la leadership di entrambi i maggiori partiti politici americani». E’ un pensiero che viene da lontano: Leo Strauss, il padrino intellettuale dei neocon – un rifugiato proveniente dalla Germania del 1930 – credeva che qualsiasi sforzo, seppur sincero, per ottenere un “governo del popolo, dal popolo e per il popolo” fosse destinato a finire come la Repubblica di Weimar in Germania, con l’ascesa di Hitler e dei nazisti. Pensava che «qualsiasi sistema in cui il popolo avesse detenuto sul serio il potere sarebbe sicuramente finito in barbarie».La soluzione di Strauss? E’ il sistema della “democrazia gestita”, ovvero «una forma privilegiata di “alto sacerdozio” o di “oligarchia”, che monopolizza il potere reale e sovrintende ad una superficiale struttura democratica, promuovendo miti patriottici e religiosi per garantirsi la fedeltà del popolo e la coesione sociale». Il politologo Sheldon Wolin lo definisce “totalitarismo invertito”, meno apertamente offensivo del totalitarismo classico e quindi più sostenibile, oggi, nella concentrazione totale della ricchezza e del potere. Paradossalmente, dice Davies, questa nuova forma di totalitarismo “invisibile” è più insidiosa del roboante totalitarismo storico. Nel suo saggio su Strauss e la destra americana, Shadia Drury avverte: «Strauss crede che ogni cultura ed ogni sua implicita forma di moralità siano invenzioni umane, progettate dai filosofi e dagli altri geni creativi per la conservazione del gregge. Poiché la verità è buia e sordida, Strauss sostiene che il filosofico amore per la verità deve restare un appannaggio riservato a pochissimi».«Nella loro posizione pubblica – continua Drury – i filosofi devono mostrare rispetto ai miti e alle illusioni che hanno fabbricato per gli altri. Devono sostenere l’immutabilità della verità, l’universalità della giustizia e la natura disinteressata del bene, mentre segretamente insegnano ai loro accoliti che la verità non è che una mera costruzione, che la giustizia deve fare del bene agli amici e del male ai nemici, che il solo bene è il proprio piacere. La verità deve essere gustata da pochi, perché è molto pericoloso che la consumino in molti». Se tutto ciò sembra inquietante, esattamente come lo è l’atteggiamento cinico delle persone che gestiscono l’America di oggi, è perché «stiamo vivendo in un sistema politico neoconservatore e straussiano». E il presidente Obama, «lontano dal rappresentare una sorta di alternativa, è un presidente neoconservatore, anch’egli straussiano». Obama e i Clinton «si sono dimostrati praticanti più sofisticati e magistrali della politica straussiana di quanto mai lo siano stati Bush o Cheney».Il report 2013 della Gallup, la prima agenzia di ricerche statistiche del mondo, «è una prova di come si possa ingannare qualcuno per un po’ di tempo, e qualcun altro per tutto il tempo, ma non si può ingannare tutto un popolo per sempre», conclude Davies. «Dietro alla cortina di fumo della democrazia e dei valori americani, il sistema politico statunitense ricicla la ricchezza in potere politico, e il potere politico in ricchezza. Dietro al consumista “Sogno Americano”, un’economia guidata dalle oligarchie economiche e finanziarie sta portando la concentrazione di ricchezza e di potere a un livello che mai i totalitaristi del 20° secolo avevano nemmeno immaginato, sostenuta dalla corrispondente esplosione della povertà, del debito e della criminalizzazione di massa». E dietro a tutto questo «sventola all’infinito la bandiera di una politica estera militarizzata, che distrugge paese dopo paese in nome della democrazia». Se Leo Strauss aveva ragione, «il popolo americano accetterà passivamente questo regime basato sulla propaganda e sull’inganno». Se invece aveva torto, e i cittadini reagiranno, devono sapere che il tempo stringe: «I problemi che affliggono il mondo di oggi non aspetteranno ancora a lungo prima che noi si arrivi a comprendere se Leo Strauss aveva ragione o torto, nella sua oscura e sprezzante visione di chi noi siamo».Caro Obama, ci hai deluso. Firmato: 93 paesi, dalla A di Afghanistan alla Z di Zimbabwe, passando per Europa, Brasile, Medio Oriente, ex Urss, Sudamerica e Africa. Durante gli anni di Bush, le popolazioni di tutto il mondo erano inorridite dalle aggressioni, dalle violazioni dei diritti umani e dal militarismo degli americani. Nel 2008 solo una persona su tre, in tutto il mondo, approvava l’operato dei leader Usa. L’avvento di Obama trasmise un messaggio di speranza e cambiamento, e nel 2009 il monitoraggio della Gallup (Usglp, Us Global Leadership Project) registrò il forte consenso dell’opinione pubblica mondiale: il 49% del campione aveva fiducia nella nuova leadership statunitense, che però è andata riducendosi non appena Obama è passato dalle promesse ai fatti. Domanda: lei approva o disapprova la leadership Usa? In alcuni paesi, «un gran numero di persone ha rifiutato di rispondere e di esprimere un qualsivoglia parere, mascherando la disapprovazione dietro ad un silenzio dettato dalla paura», spiega Nicolas Davies.
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Sternhell: basta apartheid, il mondo libero isoli Israele
Chiedere ad Abu Mazen di riconoscere Israele come Stato ebraico significa pretendere che i palestinesi ammettano la loro sconfitta storica e riconoscano la proprietà esclusiva degli ebrei del paese. Ciò che si chiede loro è rinnegare la loro identità nazionale, accettando una resa storico-culturale prima ancora che politica. Ciò che mi preoccupa di più è l’idea di “pace” che oggi permea trasversalmente Israele: un’idea diventata senso comune per la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana. E’ qualcosa di più e di più grave di una idea di pace a costo zero. E’ la convinzione che l’unica pace accettabile sia la resa incondizionata dei palestinesi. Se si chiede a un cittadino medio israeliano se è per la pace o per la guerra, risponderà pronto che lui vuole la pace. Ma la “psicologia di una nazione” emerge quando si scava nell’idea di pace. E’ qui che si nasconde l’arretramento. Una pace senza giustizia è un esercizio retorico destinato a un misero fallimento.La giustizia, in questo caso, è tale se riconosce e rispetta i diritti di tutti e non solo di chi esercita il monopolio della forza. Nel mio paese chi si considera di sinistra evoca spesso la necessità di battersi per la giustizia sociale. Ma come è possibile realizzare la giustizia sociale senza definire la giustizia come un valore universale? Quali sono i confini della giustizia e della sua attuazione? Questo ci riporta all’ occupazione. La giustizia non è solo il diritto a un alloggio decente per gli ebrei, è anche il diritto alla libertà per un popolo che vive sotto occupazione. Prima che in politica, la sinistra ha perso la sua battaglia nel campo della cultura, del confronto di visioni. A 68 anni dalla nascita d’Israele, ad affermarsi sembra essere il revisionismo sionista di Jabotinsky, quello che affida a Israele una sorta di ruolo “messianico”, da popolo eletto; una idea per cui a essere centrate è “Eretz Israel”, la sacra Terra d’Israele, piuttosto che “Medinat Israel”, lo Stato d’Israele.In questa visione lo Stato non esiste per garantire la democrazia, l’uguaglianza, i diritti umani o anche una vita dignitosa a tutti; esiste per garantire il dominio ebraico sulla Terra di Israele e per assicurarsi che nessuna entità politica supplementare è qui stabilita. Tutto è ritenuto lecito per raggiungere tale fine, e nessun prezzo è considerato troppo elevato. Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con la “modernità”. Inesorabilmente Israele si sta trasformando sempre più in una entità anacronistica. Uno Stato di apartheid? Non si tratta di un rischio, è qualcosa che già si sta determinando nella realtà quotidiana, negli atti compiuti dalle autorità e nella percezione di sé e dell’altro che ne è il tratto ideologico: l’idea per cui se il palestinese, o l’arabo israeliano, vuol essere “tollerato” deve accettare la propria inferiorità. Quello che così facendo si è creato è un “popolo di espropriati”. Espropriati non solo delle loro terre ma della loro identità, del loro essere più profondo.Purtroppo, la strada per il Sudafrica è stata pavimentata, e potrà essere smantellata solo se il mondo libero, l’Occidente, porrà Israele di fronte a un aut-aut: fermare l’annessione e smantellare la maggior parte delle colonie e lo stato dei coloni, o essere emarginato. Fuori e dentro Israele è aperto da tempo un dibattito sul boicottaggio dei prodotti che provengono dagli insediamenti. Il boicottaggio è soprattutto un modo civile, non violento ma concreto, per protestare contro il colonialismo e l’apartheid prevalente nei Territori. Una tesi condivisa da molti intellettuali israeliani. E’ un bene che sia così, ed è un bene per Israele, per la sua immagine nel mondo. Gli intellettuali israeliani sono i migliori ambasciatori del sionismo, ma rappresentano la società israeliana, non la realtà coloniale. Pensano che calpestare i diritti dei palestinesi in nome dei nostri diritti esclusivi per la terra, e in virtù di un decreto divino, contamini la storia ebraica di una macchia indelebile.C’è chi vede proprio nel sionismo la radice ideologica e l’esperienza politica “fatta Stato” che è alla base dell’espansionismo israeliano, ma non è così: questa è una caricatura del sionismo, o comunque ne è una traduzione politica strumentale, in alcuni casi funzionale ad ammantare di idealità positiva una pratica intollerabile. Il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Questi diritti naturali dei popoli valgono per tutti, inclusi i palestinesi. Resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Purtroppo, gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea Verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo: hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare. Da questo punto di vista, per come è stata interpretata e per ciò che ha innescato, la Guerra dei Sei Giorni è in rottura e non in continuazione con la Guerra del ’48. Quest’ultima fondò lo Stato d’Israele, quella del ’67 si trasformò, soprattutto per la destra ma non solo per essa, da risposta di difesa ad un segno “divino” di una missione superiore da compiere: quella di edificare la Grande Israele.(Zeev Sternhell, dichiarazioni rilasciate a Umberto De Giovannangeli per un’intervista pubblicata da “L’Unità” e ripresa dal blog di Gad Lerner il 5 maggio 2014. Sternhell,79 anni, è considerato il più autorevole storico israeliano, insignito nel 2008 dal Premio Israele per le Scienze Politiche, massima onorihicenza culturale del paese. Tra le sue opere, “Nascita d’Israele. Miti, storia, contraddizioni”).Chiedere ad Abu Mazen di riconoscere Israele come Stato ebraico significa pretendere che i palestinesi ammettano la loro sconfitta storica e riconoscano la proprietà esclusiva degli ebrei del paese. Ciò che si chiede loro è rinnegare la loro identità nazionale, accettando una resa storico-culturale prima ancora che politica. Ciò che mi preoccupa di più è l’idea di “pace” che oggi permea trasversalmente Israele: un’idea diventata senso comune per la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana. E’ qualcosa di più e di più grave di una idea di pace a costo zero. E’ la convinzione che l’unica pace accettabile sia la resa incondizionata dei palestinesi. Se si chiede a un cittadino medio israeliano se è per la pace o per la guerra, risponderà pronto che lui vuole la pace. Ma la “psicologia di una nazione” emerge quando si scava nell’idea di pace. E’ qui che si nasconde l’arretramento. Una pace senza giustizia è un esercizio retorico destinato a un misero fallimento.
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Renzi piace ai mercati? Ovvio: sta per svendere l’Italia
Improvvisamente sembra tutto chiaro. E’ più che un sospetto, e la mente corre al passato: i grandi gestori internazionali non hanno mai dimenticato, con riconoscenza, Romano Prodi, il leader della sinistra moderata che permise lo smantellamento dell’Iri e portò a buon fine le ambitissime privatizzazioni. «Si sa, in Italia certe cose può farle solo la sinistra». Privatizzazioni, ricorda Marcello Foa, che però «si risolsero in un eccellente affare per chi compra e in una fregatura per chi vende o nella sostituzione di monopoli pubblici con monopoli privati». Cose che capitano, ma fanno riflettere. E sorgere qualche dubbio: «Renzi è di sinistra, come Prodi. Come lui è graditissimo a Wall Street, ai grandi fondi come Blackrock, nella City. Ed è più deciso di Enrico Letta che a sua volta godeva di buone credenziali in quegli ambienti ma era troppo lento e prudente: nessuno, nel momento del bisogno, lo ha difeso. Vuoi vedere che la vera missione del mirabolante Matteo Renzi è quella di portare a termine le privatizzazioni, ovvero di svendere quel che resta di buono in Italia?».L’allarme, per Foa, è scattato poco dopo la nomina di Matteo Renzi a Palazzo Chigi. Fonte dell’avvertimento, un amico che lavora nella finanza: «E’ già la terza volta che una grande banca d’affari parla bene della Borsa di Milano e invita a investire nei titoli italiani. Stesso approccio, stesse argomentazioni: non so cosa stia succedendo». Foa controlla sui grandi giornali e sui principali siti web, ma non trova nulla, a parte qualche trafiletto sul “Sole 24 Ore”. «Poi, tra fine marzo e i primi di aprile, l’informazione riservata a pochi privilegiati del mondo bancario, diventa pubblica». I quotidiani iniziano a battere sullo stesso tasto. Inizia “Repubblica” il 26 marzo, con Federico Fubini che avverte: «I fondi pronti a comprare, ma è una fiducia a tempo: riformare spesa e burocrazia». E spiega: «Erano anni che l’Italia non raccoglieva un interesse simile sui mercati».Così, si scopre che pochi giorni prima si è svolto un summit alla Royal Bank of Scotland, nel cuore della City di Londra, tra investitori di primissimo piano: qualcosa come 300 fondi finanziari, che – in aggregato – rappresentano «istituzioni che controllano ogni giorno molte migliaia di miliardi di dollari sui mercati globali». Tra questi, colossi americani come Blackrock, Fidelity, Blackstone, hedge fund di punta come quello di George Soros o Glg, fondi pensione, banche, più l’antica aristrocrazia europea del risparmio gestito con Schroders. «Il 70% degli investitori raccolti ha sì detto che nei prossimi tre mesi “comprerà attivi italiani”». A ruota, il “Corriere della Sera” titola in prima pagina: “Capitali esteri a caccia d’Italia”. Fabrizio Massaro spiega che fondi Usa, arabi e cinesi puntano su Borsa e made in Italy. Nel mirino banche, industria manifatturiera, moda e turismo. E ancora: «Così Goldman Sachs vende il nuovo corso politico. Garzarelli, capoeconomista del colosso Usa: prezzi bassi e nuova stabilità. Rispetto alla Spagna avete fondamentali più solidi. Renzi? Per i mercati è un leader fuori dagli schemi». Anche il “Sole 24 Ore” abbandona il riserbo e titola: “Piazza affari fa il pieno di capitali esteri”.Nell’ultimo mese il tono non è cambiato, aggiunge Foa nel suo blog sul “Giornale”. «La grande finanza internazionale continua a credere all’Italia. E si scoprono altri dettagli interessanti». Ad esempio, che Matteo Renzi ha incontrato il Ceo di Blackrock, Larry Fink, il più grande fondo di investimento al mondo: «Un colosso da 4.300 miliardi di dollari che, se fosse uno Stato, sarebbe la quarta potenza al mondo dopo Usa, Cina e Giappone». Evento salutato da tutti. «Commenti positivi», informa “Radiocor”, mentre la “Repubblica” si entusiasma: «Il più grande fondo del mondo da Renzi, Blackrock crede nella ripresa italiana». Pian piano, continua Foa, il puzzle si compone. «In Italia, lo sappiamo benissimo, la situazione non è certo migliorata rispetto a qualche mese fa. Anzi, a giudicare dai disastrosi dati sulla disoccupazione e dalle cifre record del debito pubblico è persino peggiorata». Ma quei “mercati” – gli stessi che nel 2011 avevano gettato discredito sull’Italia usando arbitrariamente lo strumento dello spread, nonostante il nostro paese fosse uscito meglio di altri dalla crisi dei subprime – ora ignorano le cattive notizie. «L’Italia è diventata, brava, buona, promettente. Da premiare con la “fiducia”».«Non sono un economista – premette Foa – ma ho seguito da vicino tante crisi finanziarie: e questa, proprio, non me la bevo». Infatti, ad attrarre l’interesse dei grandi fondi, delle banche d’affari e delle multinazionali «non sono solo i valori relativamente bassi (ma neanche troppo) di Piazza Affari, c’è dell’altro». E questo “altro” sembra «strettamente connesso all’inaspettata e rapidissima ascesa a Palazzo Chigi di Matteo Renzi». Forse, una chiave la fornisce il “Corriere della Sera”, nell’articolo di Massaro sulla “caccia ai capitali esteri”. «L’acquisto di azioni a Piazza Affari – scrive – potrebbe essere solo un assaggio in vista di quella che si annuncia come la più grande operazione di privatizzazione degli ultimi anni». Parola del neoministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, super-falco neoliberista proveniente dall’Ocse e dalla casta tecnocratica al servizio dell’élite mondiale. E’ proprio Padoan, a Cernobbio, a svelare le carte: avanti tutta con le privatizzazioni, quelle che piacciono tanto ai “mercati”, così pieni di “fiducia” per l’Italia di Renzi.«L’attenzione del mercato è crescente e va sfruttata nel migliore dei modi», dichiara Padoan al “Corriere”. L’obiettivo della nuova ondata di privatizzazioni che si profila? E’ duplice: «Accrescere l’efficienza delle imprese privatizzate e ovviamente ridurre in modo consistente il debito pubblico». Il primo banco di prova potrebbero essere le Poste: «È stato avviato il processo di privatizzazione, è una sfida importante per il paese e verrà sottoposta al vaglio del mercato». Gran parte della fortuna politica del governo, scrive il “Corriere”, si gioca sul successo delle vendite di Stato: l’incasso per il Tesoro potrebbe arrivare a oltre 15 miliardi da Poste (il cui 40% da solo vale 4-5 miliardi), Fincantieri, Enac, Cdp Reti, Sace, Grandi Stazioni, St Microelectronics. «Per i fondi si tratta di comprare a prezzi favorevoli, per le banche d’affari di guadagnare sugli incarichi di vendita». Tutto questo, grazie a Matteo il rottamatore, il nuovo eroe dei “mercati” ammazza-paesi.Improvvisamente sembra tutto chiaro. E’ più che un sospetto, e la mente corre al passato: i grandi gestori internazionali non hanno mai dimenticato, con riconoscenza, Romano Prodi, il leader della sinistra moderata che permise lo smantellamento dell’Iri e portò a buon fine le ambitissime privatizzazioni. «Si sa, in Italia certe cose può farle solo la sinistra». Privatizzazioni, ricorda Marcello Foa, che però «si risolsero in un eccellente affare per chi compra e in una fregatura per chi vende o nella sostituzione di monopoli pubblici con monopoli privati». Cose che capitano, ma fanno riflettere. E sorgere qualche dubbio: «Renzi è di sinistra, come Prodi. Come lui è graditissimo a Wall Street, ai grandi fondi come Blackrock, nella City. Ed è più deciso di Enrico Letta che a sua volta godeva di buone credenziali in quegli ambienti ma era troppo lento e prudente: nessuno, nel momento del bisogno, lo ha difeso. Vuoi vedere che la vera missione del mirabolante Matteo Renzi è quella di portare a termine le privatizzazioni, ovvero di svendere quel che resta di buono in Italia?».
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Londra: e smettetela di dire che non ci sono più soldi
Spiacenti, non ci sono più soldi. E quindi: rigore, tagli alla spesa pubblica, spending review. Per colpire, solo e sempre, il settore pubblico: il welfare, la spesa vitale per i cittadini, da cui dipende strettamente la salute dell’economia privata di aziende e famiglie. Stando a politici, tecnocrati e banchieri, è come se il denaro «fosse una risorsa limitata, alla stregua della bauxite o del petrolio». Errore: il denaro è inesauribile, illimitato. Perché può essere creato dal nulla, in qualsiasi momento, a una sola condizione: che venga accettato come valore di scambio, per acquistare beni e servizi e pagare le tasse. Quella che a prima vista può sembrare la scoperta dell’acqua calda, secondo David Graeber del “Guardian” è un’esternazione epocale: perché proviene dalla Banca d’Inghilterra, che ammette ufficialmente che la quantità di denaro circolante – quella in nostro possesso, e a disposizione dei nostri Stati – non dipende assolutamente da un ammontare frutto di risparmi, ma da una semplice decisione politica, attuata dalle banche centrali e dai super-banchieri che le gestiscono.Il sistema continua dirci che «semplicemente non c’è abbastanza denaro per finanziare lo stato sociale», e preferisce «parlare dell’immoralità del debito pubblico o di una spesa pubblica che “svuota le tasche” al settore privato»? Tutto falso. «Il sistema della riserva frazionaria permette alle banche di prestare somme considerevolmente superiori a quelle che detengono nelle riserve». E, se i risparmi dei correntisti non bastano, «le banche possono farsi prestare altro denaro dalla banca centrale», la quale «può stampare tutto il denaro che vuole», riassume Graeber, citando il documento intitolato “La creazione della moneta nell’economia moderna”, redatto da tre economisti del dipartimento di analisi monetaria della Bank of England. «Non c’è davvero alcun limite alla quantità di denaro che una banca può creare, a patto che trovi persone che vogliano prendere in prestito quel denaro. Non rischieranno mai di finire senza soldi, per il semplice motivo che, in genere, i loro mutuatari non prenderanno mai il denaro per metterlo sotto al materasso: alla fine, tutto il denaro che una banca presta tornerà indietro in qualche modo in qualche altra banca».Le banche, sottolineano gli analisti della banca centrale britannica, non ricevono i risparmi dai privati per poi successivamente prestarli. Al contrario: «Sono i prestiti delle banche a creare i depositi», attraverso la banca centrale. «E la moneta della banca centrale non è nemmeno “moltiplicata” sotto forma di prestiti e depositi», perché viene semplicemente creata dal nulla. «Nel caso le banche avessero bisogno di prelevare denaro dalla banca centrale – scrive Graeber – possono prenderne in prestito quanto ne vogliono; tutto ciò che fa quest’ultima è determinare il tasso di interesse, il costo del denaro, non la sua quantità». Per questo, «non c’è alcuna spesa pubblica che “svuoti le tasche” al settore privato. E’ esattamente l’opposto»: è la finanza a chiudere i rubinetti, a costringere intere nazioni a tirare la cinghia. «Perché, così all’improvviso, la Banca d’Inghilterra ammette tutto ciò?».Forse, si risponde Graeber, la banca di Stato britannica ha capito che è «un lusso che non si può più permettere» il mantenere in vita «la versione “fantasilandia” dell’economia, che si è rivelata così conveniente per i ricchi». Politicamente, secondo il giornalista del “Guardian”, i banchieri centrali inglesi stanno affrontando un rischio enorme: «Immaginate cosa potrebbe succedere se i titolari dei mutui si rendessero conto che il denaro che la banca ha prestato loro non proviene in realtà dai risparmi di una vita di qualche pensionato parsimonioso, ma sia invece un qualcosa creato dal nulla da una bacchetta magica in loro possesso, che noi gli abbiamo consegnato». Certo, la Gran Bretagna non è in sofferenza quanto l’Eurozona: la sterlina sovrana consente a Londra di cambiare politica, per esempio di aumentare la spesa pubblica e la protezione dello Stato verso i cittadini. Operazione preclusa ai paesi la cui sovranità finanziaria è stata confiscata dall’euro, i cui gestori ripetono che, semplicemente, “non ci sono più soldi”. Come se il denaro fosse un bene materiale, anziché un valore convenzionale che si può liberamente immettere nel sistema economico.Se oggi si “scopre” che la fonte del credito non è certo la riserva frazionaria – cioè la percentuale di depositi accantonati per la solvibilità del sistema – a diffidare della libera emissione di moneta furono economisti di destra ma anche di sinistra. Secondo la scuola marxista, l’espansione del credito assicura una forte crescita, che però finisce per provocare crisi di sovrapproduzione o crisi economiche dovute all’insolvenza di molte imprese alla scadenza dei debiti. Più in generale, si teme che la quantità di moneta prestata possa non corrispondere ad una ricchezza reale, e quindi causare inflazione e calo della domanda. Analoghe conclusioni dalla “scuola austriaca” di economia: se si espande il credito oltre il “tesoro” della riserva frazionaria, i prezzi cresceranno molto più in fretta del Pil, generando inflazione. Tesi sostanzialmente smentite dalla storia e dalla realtà di oggi: gli Usa uscirono dalla Grande Depressione proprio espandendo il credito mediante creazione di moneta, e oggi il dramma dell’Eurozona si chiama deflazione: insufficiente quantità di denaro a disposizione delle imprese e delle famiglie, a causa dei tagli imposti agli Stati che, limitando la spesa pubblica (in fase di recessione economica) condannano il sistema all’asfissia.Fin dall’inizio della recessione, scrive il “Guardian”, le banche centrali degli Usa e della Gran Bretagna hanno ridotto quasi a zero il costo del denaro: attraverso il “quantitative easing”, cioè l’alleggerimento quantitativo, «hanno pompato quanto più denaro potevano nelle banche, senza produrre alcun effetto inflattivo». Il significato di tutto questo? «Il tetto dell’ammontare della moneta in circolazione non è dato da quanto le banche centrali siano disposte a prestare, ma da quanto denaro siano disposti a prendere in prestito governi, aziende, e cittadini ordinari». La questione è politica: «La spesa dei governi ha il ruolo principale in tutto ciò». E lo stesso documento della Bank of England «ammette, leggendolo con attenzione, che alla fine le banche centrali forniscono denaro ai governi». Certo, le banche centrali degli Stati con moneta sovrana – quindi non i paesi dell’Eurozona.«Storicamente – rileva Graeber – la Banca d’Inghilterra tende a essere un precursore, esternando quelle che possono sembrare posizioni radicali ma che poi finiscono per diventare la nuova ordotossia». E’ come se gli analisti inglesi avesso detto, chiaro e tondo, che bisogna bocciare la Bce e tutte le politiche restrittive dell’Unione Europea. Non è vero che “non ci sono più soldi” per gli Stati. E’ vero il contrario: Bruxelles ha deciso che gli Stati, e i loro cittadini, devono soffrire. Solo degradando le condizioni generali di vita, abolendo diritti sociali e diritti del lavoro, l’élite può sperare di disporre di “sudditi” docili, disposti a tutto per un salario schiavistico. Il paradiso in terra per i monopolisti della moneta ex-sovrana, super-tecnocrati al servizio degli oligarchi planetari, i grandi privatizzatori del nostro futuro.Spiacenti, non ci sono più soldi. E quindi: rigore, tagli alla spesa pubblica, spending review. Per colpire, solo e sempre, il settore pubblico: il welfare, la spesa vitale per i cittadini, da cui dipende strettamente la salute dell’economia privata di aziende e famiglie. Stando a politici, tecnocrati e banchieri, è come se il denaro «fosse una risorsa limitata, alla stregua della bauxite o del petrolio». Errore: il denaro è inesauribile, illimitato. Perché può essere creato dal nulla, in qualsiasi momento, a una sola condizione: che venga accettato come valore di scambio, per acquistare beni e servizi e pagare le tasse. Quella che a prima vista può sembrare la scoperta dell’acqua calda, secondo David Graeber del “Guardian” è un’esternazione epocale: perché proviene dalla Banca d’Inghilterra, che ammette ufficialmente che la quantità di denaro circolante – quella in nostro possesso, e a disposizione dei nostri Stati – non dipende assolutamente da un ammontare frutto di risparmi, ma da una semplice decisione politica, attuata dalle banche centrali e dai super-banchieri che le gestiscono.
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Halevi: liquidare il Pd e l’euro-regime che taglia i salari
Non penso assolutamente che l’euro sia un progetto con orizzonti mondiali. Nasce in Europa e nemmeno tanto in Europa. Nasce in Francia, la Germania non lo voleva. E morirà tra la Francia e la Germania. L’euro ha creato un consenso politico ed economico, non solo da parte dei gruppi capitalistici con più voce in capitolo, per una gara tra chi riesce ad imporre con maggior successo la deflazione salariale. È questo l’elemento che cementa le diverse componenti del capitale europeo. Se non fosse per quest’aspetto, l’euro sarebbe già saltato per reazione del resto dei paesi dell’Eurozona alle azioni unilaterali della Francia e della Germania, come ad esempio l’annuncio di Parigi e Berlino sul finire del 2002 di non voler rispettare i parametri di Maastricht. E infatti Olanda e Austria protestarono, ma Francia e Germania non li presero nemmeno in considerazione. Italia zitta, ovviamente. Purtroppo non si può uscire dall’unione monetaria se non si esce anche dall’Ue.Per poter permettere l’uscita soltanto dall’Ume sarebbe stato necessario includere nei Trattati una separazione tra Eurozona e Ue – cosa che non c’è, come non c’è alcuna clausola di uscita nei testi che legalizzano l’unione monetaria. In Italia il risparmio delle famiglie – al 3,6% del reddito disponibile secondo l’ultimo “economic outlook” dell’Ocse – è crollato per via della crisi aggravata dalle politiche di austerità, e quindi per via del connesso calo degli investimenti. Non si può tornare a Keynes, perché a Keynes non ci si è mai arrivati se non attraverso il “keynesismo militare” del periodo 1947-71 o forse ‘47-74. Infine, con o senza riferimento a Keynes, anche dopo la fine di Bretton Woods gli Usa non hanno mai abbandonato una politica fiscale attiva, finalizzata agli obiettivi dei gruppi capitalistici che, di volta in volta, controllano il governo. Durante Bush il Piccolo, la presidenza Usa non ha mai posto un veto alle proposte di espansione della spesa federale inoltrate dai repubblicani.Tutte queste spese hanno avuto sì degli effetti “keynesiani”, soprattutto l’ulteriore militarizzazione lanciata da Reagan, ma non vennero effettuate con obiettivi keynesiani di piena occupazione. Servono però a dimostrare che le idee secondo cui il neoliberismo ha implicato meno Stato, meno spesa pubblica, e più mercato sono sbagliate. C’è stato più Stato e più capitale privato. La fase apertasi col 2007 mette in crisi anche le visioni secondo cui dal 1980 in poi, cioè con Ronald Reagan e Margaret Thatcher, il sistema economico sarebbe stato gestito da politiche neoliberiste volte a ridurre il ruolo dello Stato a favore del mercato. Invece, per molti versi organismi statuali insindacabili (come quelli dell’Ue) hanno aumentato la loro azione ed ingerenza negli affari economici, intervenendo attivamente nello spostamento dei rapporti economici e sociali a favore non solo del capitale in generale ma dei gruppi capitalistici prescelti.Infine si è dimostrata errata l’idea che la crisi sia il prodotto della moderazione e stagnazione dei salari, negli Usa prima e progressivamente anche in Europa, che ha spinto le famiglie a indebitarsi. Credo che la dinamica sia stata differente. La stagnazione salariale e le trasformazioni finanziarie, sempre appoggiate dallo Stato fin nei minimi particolari, hanno permesso di acchiappare due piccioni con una fava. Da un lato la stagnazione salariale riduceva la pressione sul costo del lavoro e – cosa ben più importante del costo del lavoro – riduceva soprattutto la possibilità di resistenza organizzata alle decisioni manageriali. Negli Stati Uniti, le delocalizzazioni industriali – prima verso il Messico e poi massicciamente verso la Cina – sono andate di pari passo con l’indebolimento salariale e sindacale, che sono stati gli strumenti sociali usati per effettuare tali delocalizzazioni.In parole povere: non avrebbero potuto traslocare con questa facilità se i dipendenti non fossero stati già in crisi profonda, tale da non poter offrire grande resistenza. Dall’altro lato le trasformazioni finanziarie, l’invenzione di nuove forme di moltiplicazione dei titoli, sempre rese possibili dalle politiche degli organismi statali, hanno creato ciò che Riccardo Bellofiore ha chiamato keynesismo finanziario privatizzato. In altri termini l’indebitamento non è stato soltanto l’elemento che ha controbilanciato la stagnazione salariale. È andato molto più in avanti. Il sistema giuridico statale ha dato facoltà alle società finanziarie di cercare e creare i soggetti da indebitare anche nelle classi di reddito più basse, che altrimenti non avrebbero potuto accedere ad una tale massa di prestiti. In questo modo dagli Usa è stata sostenuta la domanda effettiva mondiale: tramite le delocalizzazioni e con le conseguenti importazioni dal resto del mondo.A ben guardare, i paesi che negli anni 1985-2007 hanno avuto un tasso di crescita degno di questo nome sono Cina, India, Usa e pochi altri. Negli Usa il tasso di crescita pro capite è stato moderato, ma quello aggregato – che include l’aumento di popolazione – è stato maggiore che in Europa o Giappone. Pertanto il processo che è sfociato nella crisi del 2007 evidenzia come sia erronea la contrapposizione di capitalismo finanziario ad economia reale. La fase iniziata con le politiche reaganiane si basa sull’integrazione dei due aspetti, al punto che è impossibile fare delle distinzioni. A Keynes non si può ritornare perché non ci si è mai arrivati, né ci si arriverà. Lo predisse Keynes stesso in un articolo apparso sulla rivista americana “The New Republic” nel 1940. Keynes sostenne che le democrazie liberali non avrebbero mai accettato di aumentare la spesa pubblica ad un livello tale da poter convalidare la sua concezione dell’economia. Nei fatti questo livello venne però raggiunto e superato, ma grazie al pilastro rappresentato dal keynesismo miltare.Oggi non è questione di andare oltre Keynes né di ritornarci, dato che le probabilità di un ampio consenso sociale interclassista intorno alle politiche dette keynesiane si allontana sempre di più, a meno che non sorgano delle esigenze militari globali che coinvolgano sia gli Usa che l’Europa e l’Asia capitalistica. Allo stato attuale la crisi ha allontanato ulteriormente la possibilità di un compromesso interclassista keyensiano. Non ci credono gli imprenditori, non ci credono i think tanks, non ci credono politici e banchieri centrali; mentre il lavoro dipendente, il precariato e i disoccupati non hanno espressioni politiche coerenti rilevanti nell’ambito degli schieramenti parlamentari. Di fronte a ciò abbiamo la concreta prospettiva di un massiccio voto operaio a formazioni di destra come nel caso del Front National in Francia. Ritorno ai cambi flessibili? L’horror story dell’euro non risiede nell’impossibilità di svalutare o rivalutare. A mio avviso su questo terreno ha valore l’affermazione di Lenin riguardo il secolare scontro tra libero scambio e protezionismo. Né l’uno né l’altro, sostenne Lenin, bensì monopolio statale sul commercio estero.Precaria la precaria posizione dei sindacati di oggi – sono pessimi organismi, spesso corrotti e imboscati nei meandri della politica. Però sono necessari: senza di loro, come argomentò un grande economista matematico metà neoclassico e metà marxiano, Michio Morishima, la società capitalistica tenderebbe verso la schiavitù. Comunque, se oggi si vuole ascrivere allo Stato un ruolo di datore di lavoro, dovrebbe essere quello di datore di lavoro di prima istanza. Le società europee stanno tendendo verso la piena disoccupazione e precarizzazione. Il toro lo si può affrontare solo prendendolo per le corna: organizzare lotte con idee chiare in testa. Cioè la socializzazione pianificata degli investimenti e, necessariamente, per delle politiche monetarie e fiscali subordinate a quest’obiettivo. Tuttavia per queste lotte non ci sono le condizioni. In Italia la formazione di tali condizioni deve passare per una radicale trasformazione della Cgil e per la dissoluzione del Pd. I nuovi quadri dovranno inoltre essere altamente preparati sui temi economici di cui abbiamo discusso. Impossibile.(Joseph Halevi, estratti dall’intervista realizzata da “EuroTruffa” e ripresa da “Megachip”. Economista dell’università di Sydney, Halevi è autore con Riccardo Bellofiore del saggio “La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica”).Non penso assolutamente che l’euro sia un progetto con orizzonti mondiali. Nasce in Europa e nemmeno tanto in Europa. Nasce in Francia, la Germania non lo voleva. E morirà tra la Francia e la Germania. L’euro ha creato un consenso politico ed economico, non solo da parte dei gruppi capitalistici con più voce in capitolo, per una gara tra chi riesce ad imporre con maggior successo la deflazione salariale. È questo l’elemento che cementa le diverse componenti del capitale europeo. Se non fosse per quest’aspetto, l’euro sarebbe già saltato per reazione del resto dei paesi dell’Eurozona alle azioni unilaterali della Francia e della Germania, come ad esempio l’annuncio di Parigi e Berlino sul finire del 2002 di non voler rispettare i parametri di Maastricht. E infatti Olanda e Austria protestarono, ma Francia e Germania non li presero nemmeno in considerazione. Italia zitta, ovviamente. Purtroppo non si può uscire dall’unione monetaria se non si esce anche dall’Ue.
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Gas: è scoppiata la Terza Guerra (mondiale) dell’energia
Negli ultimi mesi si sono prodotti una serie di avvenimenti che hanno investito pesantemente il mondo dell’energia: la crisi di Crimea, che sta profilando una crisi nella vendita di gas russo alla Ue, con conseguente arresto del progetto South Stream e parallela proposta americana di forniture sostitutive; la forte penetrazione dei cinesi nel mercato mediorientale, dove sono diventati i primi acquirenti del petrolio iracheno; la destabilizzazione sociale e finanziaria del Venezuela (terzo produttore mondiale); l’inasprimento della crisi libica, dove le forniture sono sempre più a rischio; la crescente tensione fra il Qatar (detentore di fortissime riserve di gas e petrolio) e l’Arabia Saudita, che non approva l’appoggio ai Fratelli Musulmani e le pretese egemoniche quatarine sul Golfo. Il tutto mentre prosegue la guerra civile siriana e l’embargo euro-americano contro l’Iran.Una precipitazione di eventi assai insolita, che profila tendenze di medio periodo suscettibili di mutare l’assetto strategico mondiale dell’energia. E ovviamente non dobbiamo stare a spendere parole sulla centralità dell’energia, sia dal punto di vista economico che politico, nell’ordine mondiale. A partire dagli anni novanta, si era determinato un quadro che possiamo descrivere come segue. Con la comparsa delle ingenti masse di gas russo, si produceva una accentuata diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico (ancora molto petrolio, ma anche gas, nucleare, carbone, etanolo da biomasse e fonti alternative) e, di conseguenza, delle tecnologie necessarie al trattamento delle varie fonti. La differenziazione di fonti e tecnologie induceva i vari paesi ad adottare diversi mix energetici, per così dire “personalizzati”, in base alle esigenze di ciascuno. E questo, a sua volta, dava luogo ad un accentuato policentrismo sia dei produttori che dei consumatori, assicurando un regime di relativa abbondanza energetica a basso costo.Questo accentuato policentrismo energetico, insieme all’affermarsi più rapido del previsto di nuove potenze economiche emergenti, determinava un più generale policentrismo dell’ordine mondiale. Un aspetto particolarmente importante di questa nuova situazione è stato rappresentato dal gas, rapidamente affermatosi fra le primissime fonti in ordine di importanza. Come si sa, esso è difficilmente trasportabile via mare (per i costi di liquefazione e poi rigasificazione del prodotto) e prevalentemente è distribuito attraverso gasdotti che hanno elevati costi di costruzione, per cui si privilegia lo scambio fra paesi limitrofi o, comunque, non eccessivamente distanti. Anche per questo motivo si è formato un mercato separato del gas che, cosa importante, non è necessariamente venduto in dollari ma in monete diverse. E questo è uno dei motivi della rapida ripresa russa dal 1998 in poi.In questo quadro, la diversificazione energetica ha avuto oggettivamente un ruolo di contrappeso al progetto di ordine mondiale monopolare degli Usa, alimentando le tendenze centrifughe verso un ordine policentrico. Le stesse guerre mediorientali degli Usa erano il tentativo di affermare il proprio progetto egemonico guadagnando una posizione di controllo della più importante area petrolifera mondiale. Ma, come è noto, le cose sono andate in modo diverso dal previsto e le tendenze dal policentrismo se ne sono rafforzate, garantendo il ritorno della Russia fra i grandi protagonisti della scena mondiale, insieme a Usa e Cina. Questo quadro ha subito una prima destabilizzazione fra il 2006-2010: in un primo momento si era temuto un rapido avvicinarsi del pick oil a causa dei forti consumi cinesi (quel che aveva fatti impazzire il prezzo del petrolio salito sino a 170 dollari al barile), ma dopo, per effetto della crisi bancaria del 2007-8 e delle prospettive offerte dal petrolio di scisti e dallo shale gas con la tecnica del fracking, la situazione si è in gran parte normalizzata, ma scontando nel frattempo un rafforzamento del gas e, pertanto, della Russia da cui la Ue, ormai, dipendeva largamente.Di qui partiva la “guerra dei gasdotti”, complicata dall’attraversamento ucraino dei gasdotti euro-russi. L’Ucraina, oltre che onerosi diritti di passaggio, esercitava massicci prelievi aggiuntivi, che peraltro non pagava. Di qui la decisione russa di costruire gasdotti che la aggirassero: Northstream, dalla Russia alla Germania via Baltico, e South Stream dalle coste russe meridionali all’Italia. Questo progetto fu sottoscritto dall’Eni nel 2009, sotto l’aperta protezione di Berlusconi (siamo nel momento della grande amicizia con Putin con lo scambio di regali come il famoso lettone ed altro). Gli americani non presero bene la cosa, anche perché stavano cercando di realizzare un progetto concorrente, Nabucco, che avrebbe portato il gas centroasiatico sulle sponde del mediterraneo e poi, di lì, in Europa che così sarebbe stata sottratta al temuto magnete russo. La guerra dei gasdotti venne vinta, in un primo momento, dai russi, e sembrò per un attimo che Europa e Russia fossero destinate ad una fatale integrazione crescente (“Eurussia: è il nostro destino?” si chiedeva una copertina di “Limes” del 2009).Oggi questo quadro subisce un attacco frontale a seguito dei fatti ucraini e dell’annessione della Crimea da parte dei russi. Gli Usa sono stati rapidi nell’approfittare dell’ondata (peraltro largamente strumentale) di condanna dell’iniziativa russa e nello spingere la Ue in rotta di collisione con Mosca, che, a sua volta, ha reagito minacciando ritorsioni proprio sul gas. Gli americani si sono fatti avanti offrendo la sostituzione delle forniture russe. In realtà, agli americani preme la creazione di un mercato del gas regolato in dollari, così come è per tutto il resto, e la manovra americana va capita insieme alla questione del negoziato per l’area di libero scambio Usa-Ue. Ovviamente, se gli americani riuscissero nel loro intento, ai russi non resterebbe che offrire il loro gas alla Cina ed, in prospettiva, all’India. Pertanto assisteremmo alla nascita di due blocchi energetici: da un lato la tradizionale alleanza euro-americana cui corrisponderebbe, per reazione, il blocco euro-asiatico cino-russo, suscettibile di diventare cino-russo-indiano. E la competizione fra i due blocchi si sposterebbe rapidamente sull’accaparramento dei mercati mediorientali dove, abbiamo detto, la Cina è già entrata e con tutti due i piedi.Peraltro, è ragionevole aspettarsi un comportamento non omogeneo dei paesi di quell’area: realisticamente l’Iran si orienterebbe verso il blocco asiatico, mentre l’Arabia Saudita resterebbe il tradizionale alleato degli americani, ma con la fastidiosa spina irritativa del Qatar. Sull’altro fianco, l’evolvere della situazione potrebbe portare alla “normalizzazione” del Venezuela chavista. La Cina, che ha trovato spazio in Iraq (e ha la prospettiva del gas russo) potrebbe essere sempre meno generosa con il suo debitore latinoamericano e perdere interesse alle sue forniture, anche in ragione della precaria situazione politica. Viceversa, gli Usa stanno palesemente certando di compattare l’asse ispano-pacifico del continente meridionale, lungo l’asse Messico-Cile per isolare il Brasile (ed eventualmente l’Argentina); il Venezuela è dalla parte dell’Atlantico, ma sarebbe una gran bella posizione da occupare per il controllo del Sud America. Dunque, è facile prevedere che gli Usa cercheranno di approfittare dell’attuale situazione per destabilizzare il regime chavista (motivo di più per comporre subito il conflitto in atto con la piazza, cercando una via di uscita politica).Si profilano, pertanto, mutamenti geopolitici di grande rilievo, ad esempio il ritorno ad una logica di blocchi tendenzialmente bipolare. Beninteso: la globalizzazione ci ha abituato a tendenze fortemente reversibili, per cui più di un disegno è abortito strada facendo (a cominciare da quello monopolare americano) ed è possibile che anche questa volta intervengano controtendenze che scombinino in tutto i in parte il gioco iniziato. Anche perché rivedere l’assetto energetico mondiale, rifare gasdotti nuovi ed abbandonarne di vecchi non sono cose che si fanno in pochi mesi, durante i quali di cose possono succederne. Ma è anche vero che questa situazione di forte reversibilità del quadro non può durare all’infinito e, prima o poi, in modo naturale o cruento, un qualche ordine stabile finirà con affermarsi. Sicuramente una parte di questa battaglia sarà combattuta in Italia e ne vedremo i segni molto presto, con la nuova governance dell’Eni e le conseguenti decisioni su South Stream, che ormai può saltare da un momento all’altro.(Aldo Giannuli, “Si sta profilando una frattura strategica nel campo dell’energia”, dal blog di Giannuli dell’11 aprile 2014).Negli ultimi mesi si sono prodotti una serie di avvenimenti che hanno investito pesantemente il mondo dell’energia: la crisi di Crimea, che sta profilando una crisi nella vendita di gas russo alla Ue, con conseguente arresto del progetto South Stream e parallela proposta americana di forniture sostitutive; la forte penetrazione dei cinesi nel mercato mediorientale, dove sono diventati i primi acquirenti del petrolio iracheno; la destabilizzazione sociale e finanziaria del Venezuela (terzo produttore mondiale); l’inasprimento della crisi libica, dove le forniture sono sempre più a rischio; la crescente tensione fra il Qatar (detentore di fortissime riserve di gas e petrolio) e l’Arabia Saudita, che non approva l’appoggio ai Fratelli Musulmani e le pretese egemoniche quatarine sul Golfo. Il tutto mentre prosegue la guerra civile siriana e l’embargo euro-americano contro l’Iran.
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Kiev, la strana Padania atomica di Yulia Tymoshenko
Chi dovrà essere “rieducato” – e chi invece eliminato – nella strana Padania orientale di Yulia Tymoshenko? «Gli italiani potrebbero immaginare una situazione in cui Bossi avesse raggiunto il potere, sul serio. Dopo una ventina d’anni il discorso, per quanto ridicolo, della Padania, avrebbe potuto produrre una generazione che avrebbe creduto di essere di etnia padana e di antica origine celtica, o altre fesserie del genere». Lo scrive il russo Igor Glushkov, in una lettera che Giulietto Chiesa pubblica su “Megachip”. Tema: la storica russofobia che anima gli anglosassoni, vittime di una sorta di «paranoia ossessiva» che li porta a credere che l’avanzata dei russi in Europa «comporti la catastrofe per il dominio britannico». Di qui la guerra senza quartiere, condotta dal monopolio Usa della disinformazione, per presentare la rivolta di Kiev come una sollevazione del “popolo ucraino” contro il giogo di Mosca. Dando per scontato, tra l’altro, che l’Ucraina sia molto diversa dalla famosa Padania di Bossi.Pietra dello scandalo, l’intercettazione telefonica in cui è incappata l’ex oligarca Yulia Timoshenko, promossa “pasionaria” anti-russa dal mainstream occidentale, che in una conversazione privata dichiara che vorrebbe sterminare, con la bomba atomica, gli 8 milioni di russi che popolano l’Est ucraino. «Non li chiama neppure russi, ma “izgoi”, banditi, fuorilegge», osserva Glushkov, che vive in Italia e ricorda come l’Ucraina non sia «un territorio etnicamente definito da una nazionalità», bensì «una specie di puzzle, che si è venuto componendo in tappe diverse della storia». L’“ucrainizzazione” forzata degli ultimi vent’anni non è tale «da poter mobilitare un esercito di ucraini contro i russi», e addirittura «non c’è nemmeno una polizia disponibile a soffocare le manifestazioni del sud-est: è per questo che sono stati costretti a chiamare i mercenari dall’esterno», cioè «gruppi di guerriglia armata composti da nazisti, preparati ad azioni violente dagli Stati Uniti in veri e propri lager».Il resto del paese, continua Glushkov, per adesso è impaurito, blindato dalla manipolazione di una Tv ucraina che sta bombardando la gente con informazioni false. «Gente che, comunque, non è disponibile ad accettare una guerra aperta contro la Russia. Perché? Perché la stragrande maggioranza si sente parte della nazione russa! Questo dimostra il referendum di Crimea e le precedenti elezioni». Naturalmente, però, i nostri media si sono tenuti a debita distanza dalla verità. «Il pubblico italiano, grazie all’ignoranza storica, politica, di quasi tutti i commentatori (nel silenzio, peraltro, del mondo accademico e universitario), ha ricevuto un’informazione completamente distorta», sostiene Giulietto Chiesa. Così, «la russofobia anglosassone ha dettato le notizie», nobilitando «i nazisti di Maidan». E la Russia, «che ha subito per vent’anni la penetrazione americano-tedesco-polacca praticamente senza reagire (perché guidata da idee filo-occidentali), ha di fatto soltanto reagito, difendendo il popolo russo di Crimea. Ed è stata rappresentata come l’aggressore, sebbene fosse stata aggredita».Questa, ribadisce Giulietto Chiesa – autore di numerosi video-editoriali su “Pandora Tv” – è una crisi di gravità senza precedenti nella storia, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: gli equilibri europei sono stati modificati, la sicurezza europea è stata distrutta. «Tutto questo non sarebbe stato possibile se l’informazione giunta ai cittadini italiani ed europei fosse stata decentemente vicina alla realtà, ma noi invece viviamo ormai dentro Matrix, prigionieri dell’illusione dell’Occidente di continuare a dominare il mondo». Resta, intanto, l’imbarazzo per le esternazioni stragiste della Tymoshenko, la cui carriera politica – scrive Igor Glushkov – è stata «molto simile a quella di quasi tutti gli oligarchi russi e ucraini: fatta rubando». Di sicuro, conferma Giulietto Chiesa, oggi la Tymoshenko rappresenta «un dato negativo, agli occhi dell’Europa». Dopo aver gettato il sasso, «usando i nazisti», adesso gli europei vorranno «ripulirsi dagli schizzi di fango». La stessa Yulia Tymoshenko «è uno schizzo di fango: ricattabile, certo, ma anche in grado di ricattare». Tutto molto prevedibile: «Quando si porta al potere una banda di criminali bisogna mettere in conto che, per normalizzare la situazione, li si deve rieducare, o eliminare. Resta da vedere se la Tymoshenko sarà in grado di essere rieducata, oppure se la dovranno eliminare».Chi dovrà essere “rieducato” – e chi invece eliminato – nella strana Padania orientale di Yulia Tymoshenko? «Gli italiani potrebbero immaginare una situazione in cui Bossi avesse raggiunto il potere, sul serio. Dopo una ventina d’anni il discorso, per quanto ridicolo, della Padania, avrebbe potuto produrre una generazione che avrebbe creduto di essere di etnia padana e di antica origine celtica, o altre fesserie del genere». Lo scrive il russo Igor Glushkov, in una lettera che Giulietto Chiesa pubblica su “Megachip”. Tema: la storica russofobia che anima gli anglosassoni, vittime di una sorta di «paranoia ossessiva» che li porta a credere che l’avanzata dei russi in Europa «comporti la catastrofe per il dominio britannico». Di qui la guerra senza quartiere, condotta dal monopolio Usa della disinformazione, per presentare la rivolta di Kiev come una sollevazione del “popolo ucraino” contro il giogo di Mosca. Dando per scontato, tra l’altro, che l’Ucraina sia molto diversa dalla famosa Padania di Bossi.