Archivio del Tag ‘Naftali Bennett’
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Il sonno di Biden: via libera a Israele, nel mirino l’Iran
Come sempre accade in questo paese, è partita la gara al crucifige del potente decaduto di turno. Joe Biden ormai è trattato come un anziano in preda ad attacchi di narcolessia, incapace di gestire una delle operazioni militari più importanti dal Vietnam in poi e totalmente in preda al panico di fronte alle conseguenze dirette e immediate del suo errore. Il giorno dopo la sua elezione era praticamente Napoleone con residenza nel Delaware. Oggi, un vecchietto che guarda i cantieri con le borse della spesa in mano. In effetti, sic transit gloria mundi. Il carro del vincitore è comodo ma anche rischioso come mezzo di locomozione a lungo termine: in questo caso, peggio di una Tesla con pilota automatico. C’è però un problema, molto serio. La stampa spara su Biden, ma non si pone la domanda più importante. E inquietante: chi comanda davvero in America? Perché è ovvio che non sia Biden a farlo, almeno stando all’ultima settimana.Altrimenti occorrerebbe davvero invocare il ritiro delle sue prerogative presidenziali, visto che avrebbe deciso di testa sua di ritirarsi dall’Afghanistan contro tutte le indicazioni di intelligence e buona parte degli alti papaveri del Pentagono: uno così, meglio che non sia dotato dei codici nucleari. E se invece Joe Biden fosse stato messo a Pennsylvania Avenue proprio perché serviva un pensionato presentabile e innocuo, in servizio permanente ed effettivo? Dopo il ciclone Trump, in grado di garantire una falsa guerra commerciale con la Cina che sostenesse gli indici in attesa che la Fed tornasse a sua volta operativa nel settembre 2019, serviva un normalizzatore che tranquillizzasse il mondo. Occorreva la percezione esterna di una primavera americana, citando il titolo di un incensato libro apologetico invecchiato precocemente. E non particolarmente bene.Già, perché al netto di tutti i difetti di Donald Trump, occorre riconoscergli una certa predisposizione all’essere una mina vagante, proprio come assicurazione sulla vita: difficile mettere in campo strategie parallele con uno così, il rischio che salti tutto all’aria diventa preponderante. E non vale la candela. Joe Biden, invece, è perfetto. È il nonno che comincia i preparativi per il pranzo di Natale già a fine novembre, l’uomo dalla lacrima facile e dall’eloquio talmente soporifero che rende superfluo ogni contenuto espresso. Nessuno lo ascolta. Chi comanda allora? I corpi intermedi, si sa, in America dopo gli insediamenti presidenziali cominciano le loro guerre interne di posizionamento per decidere chi darà le carte almeno fino al voto di mid-term. Agenzie in testa, quindi Fbi e Cia. Più la Dea, quando di mezzo c’è il Sud America. C’è poi il Pentagono, un’idrovora di denaro capace però di garantire storicamente un effetto leva al Pil tramite il warfare, la guerra permanente.Di colpo, terrorismo e Isis – in accezione K, quasi fosse la versione light di una bibita – sono tornati sulla scena a colpi di bombe. Note a tutti, talmente note da essere annunciate. E poi distrutte preventivamente come domenica: peccato che l’auto centrata dai droni fosse una normale utilitaria vuota e i pericolosi terroristi uccisi, solo sei bambini e tre adulti altrettanto disgraziati. Perché altrimenti, se fosse davvero stata imbottita di esplosivo per un attentato devastante, la conta delle vittime sarebbe almeno tripla. C’è però una cosa che la stampa, tutta, si è dimenticata di raccontarvi di queste giornate convulse seguite alla presa di Kabul. Abbandonando in fretta e furia la seconda conferenza stampa sul tema, Joe Biden si è congedato dai giornalisti con un perentorio «ora ho un altro impegno, davvero». Ed era vero. Doveva incontrare il primo ministro israeliano, Naftali Bennett, costretto suo malgrado a un giorno in più di attesa a Pennsylvania Avenue.Ecco le poche parole che Biden, formalmente impegnato h24 nella risoluzione del caos afghano, avrebbe utilizzato come discorso introduttivo al dialogo nello Studio Ovale: «Discuteremo anche della minaccia rappresentata dall’Iran e del nostro impegno per assicurare che Teheran non sviluppi mai un’arma nucleare… Se la diplomazia fallirà, siamo pronti a indirizzarci verso altre opzioni». E che la discussione non fosse puramente un atto di cortesia del presidente Usa verso l’ospite e l’ossessione del suo paese verso gli ayatollah, lo dimostrano le parole dello stesso Bennett sull’argomento, riferite solo pochi giorni prima di imbarcarsi per Washington e riprese dal “New York Times”: «I nostri attacchi clandestini contro l’Iran proseguiranno, continueremo a punire Teheran attraverso attività da zona grigia». Tradotto: spionaggio, sabotaggio e false flags.E se il concetto fosse stato poco chiaro, ecco che il “Jerusalem Post” ha pubblicato un retroscena nel quale il capo di Stato maggiore dell’esercito israeliano (Idf), generale Aviv Kohavi, confermava come «i progressi del programma nucleare iraniano ci hanno spinto ad accelerare i nostri piani operativi e il budget della difesa recentemente approvato garantisce copertura a queste attività». Quindi, con ogni probabilità, nel meeting tenutosi allo Studio Ovale – nel corso del quale Joe Biden si sarebbe appisolato, suscitando ieri l’ilarità sulla prima pagina di un quotidiano italiano (meno pronto nel rendere noti gli intenti bellicosi di Tel Aviv, però) – si sarebbe parlato di una campagna di operazioni militari e para-militari sotto copertura che Israele intende intensificare contro l’Iran e obiettivi iraniani.Il tutto mentre la Russia, player di primo piano rispetto a quanto sta accadendo in Afghanistan, chiedeva l’esatto contrario alla comunità internazionale: ovvero, il ritorno immediato al tavolo delle trattative di Vienna per discutere, appunto, sull’accordo relativo al nucleare di Teheran. Strana coincidenza: forse Israele vuole sabotare quell’accordo ed è andata a comunicare allo storico e potente alleato il via alle operazioni, ottenendo un tacito via libera a colpi di russate? Chissà se Biden avrà capito, viene da chiedersi a questo punto. Soprattutto le conseguenze di una possibile provocazione strutturale e di larga scala contro Teheran, le cui implicazioni geopolitiche e militari renderebbero la presa di Kabul e l’evacuazione di massa una passeggiata nel parco. Sempre casualmente, poi, domenica scorsa un attacco congiunto di artiglieria e droni ha ucciso 30 soldati della coalizione saudita in Yemen, ferendone una sessantina.Ovviamente, la responsabilità è stata immediatamente attribuita ai guerriglieri Houthi, i quali però – a differenza del solito – non hanno immediatamente rivendicato l’atto. Chi finanzia e sostiene i guerriglieri Houthi nella loro lotta contro Ryad? L’Iran. Guarda caso, dopo settimane e settimane di silenzio, la Penisola Arabica torna a far parlare di sé. A colpi di mortai. E questa volta, anche con l’ausilio di droni. Ovviamente, trattasi di mera casualità. Cosa? Ma il fatto è che a pochi giorni, forse solo ore, dalla conferma di Israele – da parte nientemeno che del primo ministro e del capo dell’esercito – di una campagna di “grey actions” contro Teheran, di colpo i rozzi guerriglieri Houthi diventano infallibili perpetratori di attacchi chirurgici. Addirittura contro una base militare saudita. Roba da professionisti. Un po’ come certe operazioni con i droni a Kabul. Chi comanda in America, dunque? Per la seconda volta in pochi giorni, vi rimando al mio articolo del 31 luglio scorso. Sempre più apparentemente profetico, purtroppo.(Mauro Bottarelli, “Il sonno di Biden e il rischio che Teheran sia peggio di Kabul”, dal “Sussidiario” del 31 agosto 2021).Come sempre accade in questo paese, è partita la gara al crucifige del potente decaduto di turno. Joe Biden ormai è trattato come un anziano in preda ad attacchi di narcolessia, incapace di gestire una delle operazioni militari più importanti dal Vietnam in poi e totalmente in preda al panico di fronte alle conseguenze dirette e immediate del suo errore. Il giorno dopo la sua elezione era praticamente Napoleone con residenza nel Delaware. Oggi, un vecchietto che guarda i cantieri con le borse della spesa in mano. In effetti, sic transit gloria mundi. Il carro del vincitore è comodo ma anche rischioso come mezzo di locomozione a lungo termine: in questo caso, peggio di una Tesla con pilota automatico. C’è però un problema, molto serio. La stampa spara su Biden, ma non si pone la domanda più importante. E inquietante: chi comanda davvero in America? Perché è ovvio che non sia Biden a farlo, almeno stando all’ultima settimana.
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Caracciolo: polveriera Gaza, il Medio Oriente è impazzito
Parrebbe la solita storia: Hamas provoca, Israele risponde. Fitti lanci di razzi palestinesi da Gaza dapprima contro località israeliane di confine, poi verso le principali città, Gerusalemme e Tel Aviv incluse. Quindi, aerei con la stella di Davide a sganciare missili “intelligenti” su Gaza, che producono decine di vittime civili. A seguire, spedizione punitiva, stivali per terra, nella Striscia. Ma lo scontro in corso è davvero una replica del tragico refrain scritto dai protagonisti fin dalla crisi del dicembre 2008? Non proprio: è cambiato il contesto, avverte Lucio Caracciolo. Stanno mutando i rapporti di forza all’interno delle leadership palestinesi e israeliana. Soprattutto, «il Grande Medio Oriente si sta disintegrando: dal Nordafrica al Levante e all’Afghanistan, trovare qualcosa che assomigli a uno Stato o anche solo a un numero di telefono contro cui vomitare minacce o con il quale tessere compromessi è impresa assai ardua», dopo le “primavere arabe” e le contro-rivoluzioni di marca saudita che hanno prodotto solo «guerre, miseria, precarietà».Esempio, il golpe egiziano con tentativo tuttora in corso di annegare nel sangue la Fratellanza musulmana. E poi «la disintegrazione della Libia, il massacro permanente sulle macerie della Siria e la mai spenta guerra civile in Iraq», che ora ha visto riemergere «le tribù sunnite e i vedovi di Saddam, insieme ai jihadisti dell’Isis, inventori dell’improbabile “califfato” di Abu Bakr al-Baghdadi». Sullo sfondo, scrive il direttore di “Limes”, c’è il rischio che anche la Giordania, «battuta da cotante onde sismiche», finisca per crollare. Grandi domande: quanto e come potrà tenere l’Arabia Saudita, che stenta a riprendere il controllo dei “suoi” jihadisti e altri agenti scagliati contro il regime di Assad e gli sciiti iracheni, impegnati a liquidare i Fratelli Musulmani? Inoltre, che fine farà il disegno dell’Iran di «rientrare a pieno titolo nella partita internazionale sacrificando le proprie ambizioni nucleari sull’altare di un accordo con gli Stati Uniti?». Di conseguenza, «Obama vorrà portare fino in fondo il suo ritiro dal Medio Oriente, o sarà costretto a smentirsi per non perdere quel che resta della credibilità americana nella regione e nel mondo?».Nel campo palestinese, continua Caracciolo, il riflesso dello tsunami regionale ha una conseguenza strategica: entrambe le sue leadership storiche sono in agonia. «Per questo hanno dovuto inventare un improbabile “governo” di unità nazionale». Abu Mazen «si era ridotto a fare il poliziotto per conto di Netanyahu, venendo per ciò remunerato e vezzeggiato da europei e americani». Ma la “pax cisgiordana” degli ultimi anni, culminata nel record del 2012 (zero morti israeliani in Giudea e Samaria), è stata minata dal recente assassinio dei tre ragazzi israeliani e dalle rappresaglie che ne sono seguite. «In questa vicenda – prosegue il direttore di “Limes” – è venuta in piena luce la crisi di Hamas, che ha perso il controllo di centinaia di gruppuscoli jihadisti o financo “lupi solitari” che agiscono in proprio ma sono in grado di condizionare le agende altrui, Israele incluso». Sicché, «l’atroce uccisione di Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel è stata subito attribuita da Netanyahu a Hamas. Quanto meno, è una semplificazione».A compiere quel crimine si dice siano stati alcuni killer della tribù dei Qawasameh, basata a Hebron, che «si dedica da tempo a compiere attentati per screditare la leadership di Hamas ogni volta che questa cerca di costruirsi una qualche legittimità internazionale». Dunque una scheggia impazzita, non certo un referente militare della «peraltro divisa» leadership di Gaza. La rappresaglia contro la Striscia non potrà dunque portare a risultati duraturi, sottolinea Caracciolo, perché i mille clan jihadisti non sono bersaglio da missile. Favorirà, al contrario, la radicalizzazione di altri giovani palestinesi. «Spirale infinita, ma non uguale a se stessa: a ogni giro di provocazione e rappresaglia, il gioco di violenze e controviolenze diventa più rischioso». La crisi «potrà essere sedata, magari a lungo», ma «non risolta». Così, Netanyahu «rischia di fare i conti con gli effetti imprevisti del machiavellismo con cui lui, come i suoi predecessori, ha pensato di chiudere la partita palestinese giocandone le fazioni una contro l’altra». L’opinione pubblica israeliana, angosciata dalla continua pioggia di razzi, sta spingendo il premier ad alzare il tiro. «L’estrema destra lo accusa di passività, la coalizione di governo perde pezzi (Avigdor Lieberman) e il suo aspirante successore, Naftali Bennett, affila le armi. Risultato: 40 mila riservisti sono mobilitati e una nuova campagna di terra dentro Gaza sembra imminente».Invadere Gaza, dunque. Ma con quale obiettivo? «Una soluzione radicale dovrebbe prevedere la rioccupazione della Striscia: impossibile senza un bagno di sangue, con perdite considerevoli anche fra i soldati israeliani». L’ultima cosa che Gerusalemme vuole, sostiene Caracciolo, è «riaccollarsi la responsabilità di quell’inferno da cui Sharon seppe smarcarsi quasi dieci anni fa». Incognite pericolose: «La storia non si ripete. Massimo, fa rima. E illude. Tutti i contendenti pensano di recitare un copione scritto. Anche volendo, non possono. Dentro e intorno a casa, tutti hanno preso a correre all’impazzata. Verso dove, nessuno sa. Meno che mai quelli che pensano di saperlo».Parrebbe la solita storia: Hamas provoca, Israele risponde. Fitti lanci di razzi palestinesi da Gaza dapprima contro località israeliane di confine, poi verso le principali città, Gerusalemme e Tel Aviv incluse. Quindi, aerei con la stella di Davide a sganciare missili “intelligenti” su Gaza, che producono decine di vittime civili. A seguire, spedizione punitiva, stivali per terra, nella Striscia. Ma lo scontro in corso è davvero una replica del tragico refrain scritto dai protagonisti fin dalla crisi del dicembre 2008? Non proprio: è cambiato il contesto, avverte Lucio Caracciolo. Stanno mutando i rapporti di forza all’interno delle leadership palestinesi e israeliana. Soprattutto, «il Grande Medio Oriente si sta disintegrando: dal Nordafrica al Levante e all’Afghanistan, trovare qualcosa che assomigli a uno Stato o anche solo a un numero di telefono contro cui vomitare minacce o con il quale tessere compromessi è impresa assai ardua», dopo le “primavere arabe” e le contro-rivoluzioni di marca saudita che hanno prodotto solo «guerre, miseria, precarietà».