Archivio del Tag ‘Naomi Klein’
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L’antisionismo non è antisemitismo, follia proibirlo per legge
I vecchi tabù di carattere sessuale e morale, nelle società occidentali, sono caduti e ne sono sorti di nuovi, il più inviolabile dei quali riguarda la questione israelo-palestinese. Il solo chiedere di parlarne, viene visto dai grandi media come una provocazione e quelli che conducono programmi di informazione politica, alla proposta di affrontarlo, reagiscono con un misto di timore e di costernazione di fronte a una richiesta tanto osé, similmente a come avrebbero reagito, al tempo della televisione di Bernabei, all’idea di un programma sui piaceri della pornografia. La parola d’ordine è “evitate l’argomento”. Non si tratta di censura, piuttosto di elusione. Quando poi in rarissime occasioni, per distrazione, se ne parla, si evita accuratamente di far sentire le opinioni e le argomentazioni di coloro che criticano aspramente la politica del governo israeliano e la definiscono colonialismo, oppressione di un intero popolo, segregazionismo e razzismo. Gli oppositori di tale politica, se si esprimono con schiettezza, vengono immediatamente apostrofati e classificati con l’insultante epiteto di antisemita (!). I sedicenti amici di Israele hanno accolto l’equazione “critico del governo di Israele uguale antisionista, uguale antisemita”. Altrettali sono definiti quelli che chiedono piena dignità e diritti per il popolo palestinese.I meno accaniti di questa eletta schiera di sostenitori del sionismo e amici di Israele accusano i sostenitori delle legittime rivendicazioni palestinesi di diffondere l’antisemitismo perché le critiche allo Stato ebraico portano la pandemia antisemita. Falso! Il climax del veleno antisemita si manifestò quando Israele non esisteva e gli ebrei vivevano in diaspora. In Israele, peraltro, alcuni giornalisti coraggiosi e di altissimo profilo si esprimono senza alcun timore, apertis verbis et ore rotundo. Gideon Levy su “Haaretz” (quotidiano israeliano pubblicato in Israele, da un editore israeliano, letto da lettori israeliani) in un suo articolo dal titolo palmare, “In U.S. Media, Israelis Untouchable”, scrive: «You can attack the Palestinians in America uninterrupted, call to expel them and deny their existence. Just don’t dare say a bad word about Israel, the holy of holies». E a proposito della proliferazione dei sentimenti antisemiti nota: «Jews are not as hated as Israel would like: only 10 percent said they had any negative feelings about them». La mia opinione, come quella di autorevoli esponenti della società israeliana, è che le classi dirigenti e il governo Netanyahu utilizzino strumentalmente l’accusa di antisemitismo al solo scopo di ricattare i paesi dell’Occidente per legittimare l’occupazione e la colonizzazione delle terre palestinesi e per annettere terre che la legalità internazionale assegna al popolo palestinese.Così, a proposito dell’equiparazione di antisionismo e antisemitismo, scrive lo storico israeliano Shlomo Sand: «Il tentativo del presidente francese Emmanuel Macron e del suo partito di criminalizzare oggi l’antisionismo come una forma di antisemitismo mostra di essere una manovra cinica e manipolatoria. Se l’antisionismo diventa un crimine, mi sento di raccomandare a Macron di far condannare, con effetto retroattivo, il bundista Marek Edelman, che fu uno dei leader del ghetto di Varsavia e totalmente antisionista. Si potrebbe anche inviare a processo i comunisti antisionisti che, piuttosto che emigrare in Palestina, scelsero di combattere, armi in pugno, contro il nazismo. Se intende essere coerente nella condanna retroattiva di tutti i critici del sionismo, Macron dovrà aggiungere la mia insegnante Madeleine Rebérioux, che ha presieduto la Lega dei diritti umani, l’altro mio insegnante e amico Pierre Vidal-Naquet e, naturalmente, anche Eric Hobsbawm, Edward Said e molte altre eminenti figure, ora scomparse, ma i cui scritti sono ancora autorevoli».«Se Macron desidera attenersi a una legge che reprime gli antisionisti ancora viventi, la cosiddetta futura legge dovrà applicarsi anche agli ebrei ortodossi di Parigi e New York che rifiutano il sionismo, a Naomi Klein, Judith Butler, Noam Chomsky e molti altri umanisti universalisti, in Francia e in Europa, che si autoidentificano come ebrei pur dichiarandosi antisionisti. Si troveranno, naturalmente, molti idioti antisionisti e giudeofobi, come non mancano pro-sionisti imbecilli, pure giudeofobi, ad augurare che gli ebrei lascino la Francia ed emigrino in Israele. Li includerà in questa grande impennata giudiziaria? Stia attento, signor presidente, a non lasciarsi trascinare in questo ciclo infernale, proprio quando la popolarità è in declino!». Personalmente ritengo che debbano cessare retoriche, propagande, calunnie insensate e strumentalizzazioni, che non sia più tollerabile tacere sulla crudele oppressione del popolo palestinese. E’ ora che i paesi occidentali affrontino la questione con coraggio e onestà intellettuale.(Moni Ovadia, “L’antisionismo non è antisemitismo”, dal “Fatto Quotidiano” del 29 marzo 2019; articolo ripreso da “Come Don Chisciotte”).I vecchi tabù di carattere sessuale e morale, nelle società occidentali, sono caduti e ne sono sorti di nuovi, il più inviolabile dei quali riguarda la questione israelo-palestinese. Il solo chiedere di parlarne, viene visto dai grandi media come una provocazione e quelli che conducono programmi di informazione politica, alla proposta di affrontarlo, reagiscono con un misto di timore e di costernazione di fronte a una richiesta tanto osé, similmente a come avrebbero reagito, al tempo della televisione di Bernabei, all’idea di un programma sui piaceri della pornografia. La parola d’ordine è “evitate l’argomento”. Non si tratta di censura, piuttosto di elusione. Quando poi in rarissime occasioni, per distrazione, se ne parla, si evita accuratamente di far sentire le opinioni e le argomentazioni di coloro che criticano aspramente la politica del governo israeliano e la definiscono colonialismo, oppressione di un intero popolo, segregazionismo e razzismo. Gli oppositori di tale politica, se si esprimono con schiettezza, vengono immediatamente apostrofati e classificati con l’insultante epiteto di antisemita (!). I sedicenti amici di Israele hanno accolto l’equazione “critico del governo di Israele uguale antisionista, uguale antisemita”. Altrettali sono definiti quelli che chiedono piena dignità e diritti per il popolo palestinese.
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Israele, guerra e Pil: e i palestinesi diventano schiavi inutili
Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.A sdoganare un linguaggio più che esplicito sono alcuni esponenti dell’establishment di Tel Aviv, come la parlamentare Ayelet Shaked, quella che durante l’ultimo assedio di Gaza esortò a colpire «tutto il popolo palestinese, inclusi gli anziani e le donne, le loro città e i loro villaggi, i loro beni e infrattutture». Anche le donne, colpevoli di allevare «serpenti». Su “The Times of Israel”, Yonahan Gordan spiega «quando si approva un genocidio», e argomenta: «Che altro modo c’è allora per affrontare un nemico di questa natura che non sia lo sterminio completo?». Il vicepresidente del Parlamento israeliano, Moshe Feiglin, membro del partito Likud di Netanyahu, sollecita l’esercito israeliano a uccidere indiscriminatamente i palestinesi di Gaza e a utilizzare ogni possibile mezzo per farli andar via: «Il Sinai non è lontano da Gaza e possono andarsene, questo sarà il limite dello sforzo umanitario di Israele». Questi appelli alla pulizia etnica e al genocidio stanno crescendo di frequenza, scrive Robinson nella sua analisi, ripresa da “Come Don Chisciotte”.Il clima politico in Israele ha continuato a spostarsi a destra: «Quasi la metà della popolazione ebrea di Israele appoggia una politica di pulizia etnica dei palestinesi», scrive Robinson. Secondo un sondaggio del 2012, «la maggioranza della popolazione appoggia la completa annessione dei Territori Occupati e l’istituzione di uno stato di apartheid». Il timore di una crescita del fascismo in Israele ha portato 327 sopravissuti, discendenti di sopravissuti e vittime del genocidio ebreo perpetrato dai nazisti, a pubblicare una lettera aperta sul “New York Times” del 25 agosto che esprimeva allarme per «la estrema disumanizzazione razzista dei palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto un picco febbrile». La carta continuava: «Dobbiamo alzare la nostra voce collettiva e usare il nostro potere collettivo per porre fine a tutte le forme di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo palestinese». Il problema, aggiunge Robinson, è che lo stesso progetto sionista può essere letto come basato sul genocidio della pulizia etnica: testualmente, l’articolo 2 della convenzione dell’Onu del 1948 definisce il genocidio come “azioni commesse con l’intenzione di distruggere totalmente o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.La drammatica escalation degli ultimi anni, rivela Robinson, ha origini economiche: è la globalizzazione a rendere ormai “superflui” i lavoratori palestinesi, ridotti allo status di “umanità eccedente”. «La rapida globalizzazione di Israele a partire dalla fine degli anni ‘80 coincise con le due Intifada (proteste) palestinesi e con gli accordi di Oslo, negoziati dal 1991 al ‘93 e che naufragarono negli anni seguenti». A premere per gli accordi di pace, i poteri forti finanziari: i focolai geopolitici della guerra fredda avevano ostacolato l’accumulazione di capitali e occorreva “stabilizzare” il Medio Oriente. «Il processo di Oslo – spiega Robinson – si può vedere come un pezzo chiave nel puzzle politico provocato dall’integrazione del Medio Oriente nel sistema capitalista globale emergente», il contesto nel quale poi si inserirà la stessa “primavera araba”. Gli accordi di Oslo, naturalmente, rimasero lettera morta: avevano promesso ai palestinesi una soluzione definitiva entro 5 anni, con uno statuto per i rifugiati e il loro diritto al ritorno in Palestina, una definizione delle frontiere e della gestione dell’acqua, nonché la ritirata di Israele dai Territori Occupati. Durante il periodo di Oslo, cioè tra il 1991 e il 2003, «l’occupazione israeliana della Cisgiordania e Gaza si intensificò smisuratamente».Perché fallì il processo di pace? Prima di tutto, perché «non era destinato a risolvere la difficile situazione dei palestinesi espropriati, ma a integrare una dirigenza emergente palestinese nel nuovo ordine mondiale e a dare a questa dirigenza una partecipazione nella difesa di quest’ordine, in modo che assumesse un ruolo nella vigilanza interna delle masse palestinesi nei Territori Occupati». C’è anche un profilo finanziario: l’Anp creata a Oslo doveva servire a integrare il capitale palestinese con quello dell’area del Golfo. E si sperava che l’Anp «servisse per mediare nell’accumulazione di capitali transnazionali nei Territori Occupati, mantenendo il controllo sociale sulla popolazione inquieta». Nel frattempo, la nuova economia israeliana – il complesso militare e di sicurezza, altamente tecnologico – si andava integrando col capitale corporativo transnazionale di Usa, Europa e Asia, proiettando l’economia israeliana anche nelle reti economiche regionali (Egitto, Turchia e Giordania). Infine, in quel periodo Israele «visse un episodio di grande immigrazione transnazionale, tra cui l’afflusso di circa un milione di immigrati ebrei, che indebolì la necessità di Israele di manodopera palestinese durante gli anni ‘90».«Fino a che la globalizzazione non prese vita, verso la metà degli anni ‘80, la relazione di Israele coi palestinesi rifletteva il classico colonialismo, nel quale il potere coloniale aveva usurpato la terra e le risorse dei colonizzati per poi farli lavorare, sfruttandoli», scrive il professor Robinson. «Però l’integrazione del Medio Oriente nell’economia globale e la società basata sulla ristrutturazione economica neoliberale, inclusa la ben conosciuta litania di misure quali la privatizzazione, la liberalizzazione del commercio, la supervisione del Fondo Monetario Internazionale sull’austerità e i prestiti della Banca Mondiale, aiutò a provocare la propagazione di pressioni da parte delle masse di lavoratori e dei movimenti sociali e la democratizzazione delle basi, che si riflette nelle Intifada palestinesi, il movimento operaio attraverso il Nordafrica e il malessere sociale, che si resero più visibili nelle rivolte arabe del 2011. Questa onda di resistenza forzò una reazione da parte dei governanti israeliani e dei loro alleati statunitensi».Integrandosi nel capitalismo globale, continua Robinson, l’economia israeliana visse due grandi ondate di ristrutturazione. La prima, negli anni ‘80 e ‘90, fu una transizione dall’economia tradizionale (agricoltura e industria) verso un nuovo modello basato sull’informatica: Tel Aviv e Haifa divennero le Silicon Valley del Medio Oriente, e nel 2000 il 15% del Pil di Israele e il 50% dell’export avevano origine dal settore dell’alta tecnologia. «Poi, dal 2001 in poi, e soprattutto sulla scia del disastro delle dot-com del 2000, che coinvolse imprese che commerciavano in Internet, e della recessione a livello globale, secondariamente per gli accadimenti del 11 Settembre 2001 e la rapida militarizzazione della politica mondiale, si produsse in Israele un altro spasmo volto a supportare un “complesso globale di tecnologie militari, di sicurezza, di spionaggio e di vigilanza contro il terrorismo”». Israele è divenuto la patria di imprese tecnologiche, pioniere della cosiddetta “industria della sicurezza”. «Di fatto, l’economia di Israele si è globalizzata specificamente attraverso l’alta tecnologia militare: gli istituti di esportazione israeliani stimano che nel 2007 c’erano circa 350 imprese transnazionali israeliane dedite ai sistemi di sicurezza, di spionaggio e controllo sociale, che si situarono nel centro della nuova politica economica israeliana».Le esportazioni israeliane di prodotti e servizi collegati alla “lotta al terrorismo” aumentarono del 15% nel 2006 e si prevedeva che sarebbero cresciute del 20% nel 2007, per un valore di 1,2 miliardi di dollari all’anno, secondo Naomi Klein. Questa crescita esplosiva «fa di Israele il quarto trafficante d’armi del mondo, davanti al Regno Unito». Numeri: Israele ha più azioni tecnologiche quotate al Nasdaq (molte collegate all’industria della sicurezza) che ogni altro paese straniero, e ha più brevetti hi-tech registrati negli Usa di quanti ne abbiano Cina e India messe insieme. Oggi, il 60% delle esportazioni israeliane è collegato alla tecnologia, specie nell’industria della sicurezza. In altre parole, sintetizza Robinson, «l’economia israeliana si è alimentata della violenza locale, regionale e mondiale, dei conflitti e delle disuguaglianze». Le sue principali imprese? «Hanno finito per dipendere dal conflitto». La guerra in Palestina, nel Medio Oriente e in tutto il mondo, è ormai un business che influenza l’intero sistema politico dello Stato israeliano.«Questa accumulazione militare è caratteristica anche degli Usa e di tutta l’economia mondiale globalizzata», annotra Robinson. «Viviamo sempre più in un’economia da guerra mondiale e certi stati, come Usa e Israele, sono ingranaggi chiave di questa macchina. L’accumulazione militarista per controllare e contenere gli oppressi e gli emarginati e per sostenere l’accumulazione nella crisi si prestano a tendenze politiche fasciste o a quello che noi abbiamo definito “il fascismo del XXI secolo”». Questo cambia (in peggio) la sorte della popolazione palestinese, che fino agli anni ‘90 era «una forza lavoro a basso costo per Israele». E’ stata soppiantata innanzitutto dal milione di nuovi arrivi dall’Est Europa, dopo il collasso dell’Urss, che hanno incrementato gli insediamenti coloniali: ebrei sovietici, a loro volta «resi profughi dalla ristrutturazione neoliberale post-sovietica». In più, l’economia israeliana cominciò ad attirare manodopera dall’Africa e dall’Asia, «dato che il neoliberismo produsse crisi con milioni di profughi dalle vecchie regioni del Terzo Mondo».Insieme alla recessione, la nuova mobilità lavorativa transnazionale ha permesso all’élite finanziaria mondiale «la riorganizzazione dei mercati del lavoro e il reclutamento di forze lavoro transitorie, private dei loro diritti e facili da controllare». Un’opzione «particolarmente attraente per Israele, dato che elimina la necessità di manodopera palestinese politicamente problematica». Oltre 300.000 lavoratori immigrati – provenienti da Thailandia, Cina, Nepal e Sri Lanka – ora costituiscono la forza lavoro predominante nell’agroalimentare di Israele, così come la manodopera messicana e centroamericana lo è nell’agroalimentare statunitense, nella stessa condizione precaria di super-sfruttamento e discriminazione. «Il razzismo che molti israeliani hanno mostrato nei confronti dei palestinesi (esso stesso prodotto del sistema di relazioni coloniale) ora si è tramutato in una crescente ostilità verso gli immigrati in generale», osserva Robison, «man mano che il paese si tramuta in una società totalmente razzista».E dato che l’immigrazione globale ha eliminato la necessità di Israele di avere manodopera a basso costo palestinese, quest’ultima si è convertita in una popolazione marginale eccedente. «Prima dell’arrivo dei rifugiati sovietici – scrive Naomi Klein – Israele non poteva neanche per un momento prescindere dalla popolazione palestinese di Gaza o della Cisgiordania; la sua economia non avrebbe potuto sopravvivere senza la mano d’opera palestinese». All’epoca, «circa 130.000 palestinesi abbandonavano le loro case a Gaza e in Cisgiordania ogni giorno e andavano in Israele per pulire le vie e costruire le strade, mentre gli agricoltori e i commercianti palestinesi riempivano camion di mercanzia e le vendevano in Israele e in altre parti dei Territori». Poi, in vista della grande trasformazione strutturale dell’economia israeliana, già nel ‘93 – anno della firma degli accordi Oslo – Tel Aviv inaugurò la politica di chiusura: palestinesi confinati dei Territori Occupati, pulizia etnica e forte aumento degli insediamenti ebraici. Istantaneo il crollo del reddito palestinese, di almeno il 30%, fino al bilancio del 2007, con disoccupazione e povertà al 70%.«Dal ‘93 al 2000, che si pensava dovessero essere gli anni nei quali veniva realizzato l’accordo di “pace” che esigeva la fine dell’occupazione israeliana e lo stabilirsi di uno Stato palestinese – scrive Robinson – i coloni israeliani in Cisgiordania raddoppiarono, arrivando a 400.000, poi a 500.000 nel 2009 e continuarono aumentando. La denutrizione a Gaza è agli stessi livelli di alcune delle nazioni più povere del mondo, con più della metà delle famiglie palestinesi che assumono un solo pasto al giorno. Mano a mano che i palestinesi venivano espulsi dall’economia di Israele, le politiche di chiusura e l’incremento dell’occupazione distrussero a loro volta l’economia palestinese». Il collasso degli accordi di Oslo, insieme a quella che Robinson chiama «la farsa delle negoziazioni di “pace” in corso, nel mezzo di un’occupazione israeliana sempre maggiore», può rappresentare un dilemma politico per i poteri forti transnazionali, che oggi vorrebbero «trovare meccanismi per lo sviluppo e l’assoggettamento dei ricchi palestinesi e dei gruppi capitalisti».In base alla logica perversa dell’élite, quella «del capitale militarizzato, incrostato nell’economia israeliana e internazionale», l’attuale situazione è eccellente: «E’ un’opportunità d’oro per espandere l’accumulazione di capitale per lo sviluppo e la commercializzazione di armi e di sistemi di sicurezza in tutto il mondo, attraverso l’uso dell’occupazione e della popolazione palestinese in cattività come obiettivi d’attacco e prova sul terreno». E’ questa élite affaristica e tecnologico-militare a condizionare oggi la politica di Israele. «La rapida espansione economica per l’alta tecnologia della sicurezza creò un forte desiderio nei settori ricchi e potenti di Israele di abbandonare la pace a favore di una lotta per la continua espansione della “guerra al terrore”», ricorda la Klein. Comodissimo, quindi, il conflitto coi palestinesi: non già come «battaglia contro un movimento nazionalista con mete specifiche al riguardo della terra e dei diritti», ma come «parte della guerra globale al terrorismo, come se fosse una guerra contro forze fanatiche e illogiche basate esclusivamente su obiettivi di distruzione».Israele sa che la pace non rende, scrisse su “Haaretz” nel 2009 Amira Hass, una delle poche voci critiche coraggiose nei media israeliani. L’industria della sicurezza? Fondamentale, per l’export: armi e munizioni si provano tutti i giorni a Gaza e in Cisgiordania. La protezione degli insediamenti? «Richiede uno sviluppo costante della sicurezza, la vigilanza e la dissuasione con strumenti come barriere, fili spinati, videocamere di vigilanza elettroniche e robot». Questi dispositivi «sono l’avanguardia della sicurezza nel mondo sviluppato e servono per le banche, le imprese e i quartieri di lusso a lato dei quartieri malfamati e delle enclavi etniche dove bisogna reprimere le ribellioni». Oggi, i palestinesi “rendono” ancora in un solo modo: come cavie, come bersagli. E se “la pace non rende”, si può immaginare chi investa sulla guerra, il grande business dell’Occidente sfinito dalla crisi e dominato dall’oligarchia globalista, di cui fa parte pienamente anche l’élite israeliana. Quella che ha strappato ai palestinesi le loro terra, ne ha fatto strage (pulizia etnica), ha sfruttato a lungo i superstiti, ma ora li considera “umanità eccedente”, sgradevole, da eliminare in ogni modo. Non c’è più posto, per loro: si accomodino pure sul Sinai, nel deserto.Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.
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Un Piano Marshall: per salvare la Terra, non le banche
Troviamo miliardi per qualsiasi cosa – banche, antiterrorismo – tranne che per il futuro della Terra. «Ho negato il cambiamento climatico più a lungo di quanto mi piaccia ammettere», dichiara Naomi Klein, citando la relazione 2014 dell’Associazione Americana per l’Avanzamento della Scienza, la più importante al mondo. Il problema? Molti di noi non sospettano che, oltre un certo limite, il cambiamento climatico – gas serra e innalzamento del mare – potrebbe precipitare a velocità esponenziale: «Spingere le temperature globali oltre determinate soglie potrebbe innescare dei cambiamenti bruschi, imprevedibili e potenzialmente irreversibili, dagli effetti massicci, dirompenti e su larga scala». A quel punto, anche senza ulteriori incrementi di CO2, alcuni processi potenzialmente inarrestabili si sarebbero già messi in moto: «Possiamo pensare a questo effetto come a quello dell’improvvisa rottura dei freni o dello sterzo di un’auto, quando non possiamo più controllare né il problema né le sue conseguenze».«Sapevo che stava avvenendo, sicuro», ammette la Klein in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, «ma sono rimasta piuttosto sul vago riguardo i dettagli, e ho anche scremato la maggior parte delle notizie, soprattutto quelle veramente spaventose». Molti «si impegnano nella negazione del cambiamento climatico», oppure si limitano a un allarme episodico. «Prendiamo atto del problema, ma poi raccontiamo a noi stessi delle storie confortanti su quanto gli esseri umani siano intelligenti, e che presto realizzeremo un qualche miracolo tecnologico che ci permetterà di “succhiare” tranquillamente il carbonio dai cieli, o di abbassare magicamente il calore del sole». Oppure ci concentriamo innanzitutto sullo sviluppo economico, «come se avere in tasca un paio di dollari in più possa fare molta differenza quando la nostra città sarà sott’acqua». Non ci occupiamo del problema, «anche se sappiamo che nessuno è al sicuro, e i più deboli meno di tutti». Cambiare stile di vita? Utile, ma non basta.Conosciamo il pericolo, ormai, ma restiamo passivi: «Sappiamo che, se permettiamo alle emissioni di continuare a crescere anno dopo anno, le variazioni climatiche finiranno con il cambiare tutto il nostro mondo». Apocalisse: «Le principali città saranno molto probabilmente sommerse dall’acqua, antiche culture saranno inghiottite dai mari, e c’è una probabilità molto alta che i nostri figli debbano trascorrere gran parte della loro vita in fuga da feroci tempeste e siccità estreme». Eppure, esitiamo: nessuna reazione, «come se non avessimo a che fare con una vera e propria crisi». Preferiamo «continuare a negare a noi stessi quanto in realtà siamo impauriti». Per noi, super-consumatori, «si tratta di dover cambiare il modo in cui viviamo, il funzionamento delle nostre economie e anche le storie che raccontiamo riguardo il nostro ruolo sulla Terra». La buona notizia? «E’ che molti di questi cambiamenti sono decisamente di tipo non-catastrofico», ma succede di scoprirlo in ritardo.Naomi Klein ricorda che nell’aprile 2009 conobbe al Wto di Ginevra la giovane Angelica Navarro Llanos, ambasciatrice della Bolivia, «un paese povero, dal piccolo budget internazionale». La Navarro Llanos aveva da poco assunto il portafoglio del clima. «Durante il pranzo in un ristorante cinese vuoto, mi spiegò (usando le bacchette per fare un grafico sull’andamento globale delle emissioni) che vedeva nel cambiamento climatico una terribile minaccia per il suo popolo, ma anche un’opportunità. Ci vedeva una minaccia per ovvie ragioni: la Bolivia è straordinariamente dipendente dai ghiacciai per l’acqua potabile e per l’irrigazione, e quelle bianche montagne innevate che sovrastano la sua capitale stavano diventando di color grigio e marrone ad un ritmo allarmante. L’opportunità, disse la Navarro Llanos, stava invece nel fatto che paesi come il suo non avevano dato quasi alcun contribuito all’impennata delle emissioni, e adesso erano in grado di dichiarare se stessi “creditori climatici”. Potevano rivendicare soldi e supporto tecnologico dai grandi “paesi inquinatori” sia per coprire i costi che dovevano affrontare per i disastri legati al clima, che per potersi sviluppare lungo un percorso energetico “verde”».Alle Nazioni Unite, la Navarro Llanos aveva messo sul tavolo la questione di questa tipologia di “trasferimento di ricchezza”: «Milioni di persone che vivono su piccole isole, in paesi meno sviluppati o senza sbocco sul mare, così come alcune vulnerabili comunità del Brasile, dell’India e della Cina – disse – soffrono per gli effetti di un problema a cui non hanno dato alcun contributo». Se vogliamo ridurre le emissioni nel corso del prossimo decennio, continuò all’Onu la diplomatica boliviana, «abbiamo bisogno della più grande mobilitazione di massa mai avvenuta nella storia». Letteralmente: «Abbiamo bisogno di un Piano Marshall per la Terra». Questo piano «deve mobilitare dei finanziamenti e dei trasferimenti di tecnologia di dimensioni senza precedenti. Per garantire la riduzione delle emissioni e allo stesso tempo un miglioramento della qualità della vita, queste tecnologie devono essere rese disponibili ad ogni paese. Abbiamo a disposizione solo un decennio».Naturalmente un Piano Marshall per la Terra costerebbe centinaia, se non migliaia di miliardi di dollari, precisa Naomi Klein. E qualcuno potrebbe aver pensato che il suo costo avrebbe reso questa proposta fallita in partenza: era il 2009, e la crisi finanziaria globale era in pieno svolgimento. «Ma la logica distruttiva dell’austerità – passando dai banchieri alle persone sotto forma di licenziamenti nel settore pubblico, di chiusura delle scuole e via dicendo – non era ancora stata normalizzata». Invece di rendere meno plausibili le idee della Navarro Llanos, la crisi ha avuto l’effetto opposto: «Tutti avevamo appena visto che migliaia di miliardi di dollari venivano usati in quella specie di “Piano Marshall” concepito per soccorrere il settore finanziario, quando le nostre élites decisero di “dichiarare la crisi”. Se fosse stato permesso alle banche di fallire – ci fu detto – sarebbe crollato anche il resto dell’economia». Era una questione di sopravvivenza collettiva, sicché il denaro doveva essere trovato a tutti i costi. E solo pochi anni prima, aggiunge la Klein, la stessa operazione di mobilitazione finanziaria era stata realizzata di corsa, dopo l’11 Settembre, per «costruire uno “Stato di polizia”» in risposta alla minaccia terroristica.Banche e attentati valgono bene un super-sacrificio, mentre il clima no: «Il cambiamento climatico non ha mai ricevuto un trattamento da “tempo di crisi” da parte dei nostri leader, nonostante che il rischio di distruggere la vita delle persone sia di gran lunga maggiore del crollo di una qualche banca o di un paio di grattacieli», scrive Naomi Klein. «Il taglio delle emissioni di gas serra, che gli scienziati ci dicono sia assolutamente necessario per ridurre in modo considerevole il rischio di una catastrofe, è trattato più che altro come un gentile suggerimento, un qualcosa che può essere rimandato praticamente a tempo indeterminato». Errore fatale. Sappiamo benissimo che «quello che viene dichiarato in “stato di crisi” è una mera espressione del potere, e non una priorità che deriva dalla gravità del problema». E noi? «Non dobbiamo essere solo spettatori di tutto questo: i politici non sono gli unici ad avere il potere di dichiarare una crisi. Anche i movimenti di massa, costituiti da persone normali, possono dichiararne una».Troviamo miliardi per qualsiasi cosa – banche, antiterrorismo – tranne che per il futuro della Terra. «Ho negato il cambiamento climatico più a lungo di quanto mi piaccia ammettere», dichiara Naomi Klein, citando la relazione 2014 dell’Associazione Americana per l’Avanzamento della Scienza, la più importante al mondo. Il problema? Molti di noi non sospettano che, oltre un certo limite, il cambiamento climatico – gas serra e innalzamento del mare – potrebbe precipitare a velocità esponenziale: «Spingere le temperature globali oltre determinate soglie potrebbe innescare dei cambiamenti bruschi, imprevedibili e potenzialmente irreversibili, dagli effetti massicci, dirompenti e su larga scala». A quel punto, anche senza ulteriori incrementi di CO2, alcuni processi potenzialmente inarrestabili si sarebbero già messi in moto: «Possiamo pensare a questo effetto come a quello dell’improvvisa rottura dei freni o dello sterzo di un’auto, quando non possiamo più controllare né il problema né le sue conseguenze».