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Archivio del Tag ‘no profit’

  • Indagine-choc: fibre di plastica nell’acqua del rubinetto

    Scritto il 07/9/17 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Quanta plastica beviamo? Molte ricerche ormai mostrano la presenza di fibre plastiche, praticamente ovunque: negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria. E oggi uno studio americano prova l’esistenza di una contaminazione da plastica persino nell’acqua corrente domestica, spiegano Dan Morrison e Chris Tyree in un report su “Repubblica”. «Dai rubinetti di casa di tutto il mondo, da New York a Nuova Delhi, sgorgano fibre di plastica microscopiche», secondo una ricerca originale di “Orb Media”, un sito di informazione no-profit di Washington. Insieme ai ricercatori dell’università statale di New York e dell’università del Minnesota, “Orb Media” ha testato 159 campioni di acqua potabile di città grandi e piccole nei cinque continenti. L’83% dei campioni contiene microscopiche fibre di plastica: compresa l’acqua che esce dai rubinetti del Congresso degli Stati Uniti. E se la plastica è nell’acqua di rubinetto, probabilmente sarà presente anche nei cibi preparati con l’acqua, come pane, pasta, zuppe e latte artificiale. «È una notizia che dovrebbe scuoterci», dice Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace 2006. «Sapevamo che questa plastica tornava da noi attraverso la catena alimentare. Ora scopriamo che torna da noi attraverso l’acqua potabile. Abbiamo una via d’uscita?».
    Yunus, il fondatore della banca di microcredito Grameen Bank, progetta di lanciare un’iniziativa contro lo spreco di plastica nei prossimi mesi. Ricerche sempre più numerose, aggiungono Morrison e Tyree, dimostrano la presenza di microscopiche fibre di plastica negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria: «Questo studio è il primo a provare l’esistenza di una contaminazione da plastica nell’acqua corrente di tutto il mondo». Attenzione: «Gli scienziati non sanno in che modo le fibre di plastica arrivino nell’acqua di rubinetto, o quali possano essere le implicazioni per la salute. Qualcuno sospetta che possano venire dai vestiti sintetici, come gli indumenti sportivi, o dai tessuti usati per tappeti e tappezzeria. Il timore è che queste fibre possano veicolare sostanze chimiche tossiche, come una sorta di navetta che trasporta sostanze pericolose dall’acqua dolce al corpo umano». Negli studi su animali, «era diventato chiaro molto presto che la plastica avrebbe rilasciato queste sostanze chimiche, e che le condizioni dell’apparato digerente avrebbero facilitato un rilascio piuttosto rapido», racconta Richard Thompson, direttore della ricerca all’università di Plymouth, Gran Bretagna.
    Dalle osservazioni sulla fauna selvatica e l’impatto che sta avendo questa cosa abbiamo dati a sufficienza per essere preoccupati, aggiunge Sherri Mason, una delle pioniere della ricerca sulla microplastica, che ha supervisionato lo studio della “Orb Media”: «Se sta avendo un impatto sulla fauna selvatica, come possiamo pensare che non avrà un impatto su di noi?». La contaminazione, scrive “Repubblica”, sfida le barriere geografiche e di reddito: il numero di fibre trovate nel campione di acqua di rubinetto prelevato nei bagni del Trump Grill, il ristorante della Trump Tower a New York, è uguale a quello dei campioni prelevati a Quito, la capitale dell’Ecuador. “Orb Media” ha rilevato fibre di plastica persino nell’acqua in bottiglia, e nelle case in cui si usano filtri per l’osmosi inversa. Le autorità sono spiazzate: gli Usa non hanno nemmeno inserito le particelle di plastica nella lista delle possibili sostanze contaminanti rintracciabili nell’acqua di rubinetto. Dei 33 campioni d’acqua prelevati in varie città degli Stati Uniti, il 94% è risultato positivo alla presenza di fibre di plastica. E’ la stessa media dei campioni raccolti a Beirut, Libano. Fra le altre città monitorate figurano Delhi (India, 82%), Kampala (Uganda, 81%), Giacarta (Indonesia, 76%), nonché Quito (Ecuador, 75%) e varie città europee (72%).
    La ricerca, precisa “Repubblica”, è stata progettata dal dipartimento di geologia e scienza ambientale dell’università statale di New York, e i test sono stati eseguiti dalla ricercatrice Mary Kosuth, della scuola di salute pubblica dell’università del Minnesota. «E’ la prima indagine a livello globale sull’inquinamento da plastica nell’acqua di rubinetto», afferma la Kosuth. I risultati rappresentano «un primo sguardo sulle conseguenze dell’uso e dello smaltimento della plastica». I campioni sono stati raccolti da scienziati, giornalisti e volontari addestrati, seguendo i protocolli stabiliti. «Questa ricerca si limita a scalfire la superficie, ma ha l’aria di essere una questione molto seria», ammette Hussan Hawwa, amministratore delegato della società di consulenze ambientali Difaf, che si è occupata della raccolta dei campioni in Libano. «La ricerca sulle conseguenze per la salute umana è appena agli inizi», dice Lincoln Fok, studioso dell’ambiente presso l’Education University di Hong Kong. In ogni caso, la ricerca «solleva più interrogativi di quelli che risolve», secondo Albert Appleton, già commissario alle acque del Comune di New York. «C’è un bioaccumulo? Influisce sulla formazione delle cellule? È un vettore per la trasmissione di agenti patogeni nocivi? Se si scompone, che cosa produce?».
    Il mondo, riassume “Repubblica”, sforna ogni anno 300 milioni di tonnellate di plastica. Oltre il 40% di questa massa «viene usato una volta soltanto, a volte per meno di un minuto, e poi buttato via». Ma la plastica «rimane nell’ambiente per secoli». Secondo un recente studio, dagli anni ‘50 a oggi sono stati prodotti in tutto il mondo oltre 8,3 miliardi di tonnellate di plastica. Sono migliaia di miliardi le scorie plastiche disseminate sulla superficie dell’oceano: fibre di plastica sono state ritrovate «dentro i pesci venduti nei mercati, nel Sudest asiatico, nell’Africa orientale e in California». E la plastica dal rubinetto di casa? «È una cosa brutta: si sentono così tante cose sul cancro», ha detto Mercedes Noroña, 61 anni, dopo essere stata informata che un campione di acqua prelevato dal suo rubinetto di casa, a Quito, conteneva fibre di plastica. «Forse esagero, ma ho paura delle cose che ci beviamo con l’acqua». Non è sola, nella sua inquietudine: un recente sondaggio Gallup svela che il 63% degli americani è «fortemente preoccupato» per l’inquinamento dell’acqua potabile.
    Tra le fonti inquinanti, aggiungono Dan Morrison e Chris Tyree, c’è anche l’abbigliamento: gli indumenti sintetici emettono fino a 700.0006 fibre a lavaggio, ma gli impianti di depurazione delle acque ne intercettano solo la metà (il resto finisce nei corsi d’acqua, per un totale di 29 tonnellate di microfibre di plastica al giorno, secondo l’università di Plymouth). E poi l’aria: uno studio del 2015 calcolava che a Parigi, ogni anno, si depositano sulla superficie fra le 3 e le 10 tonnellate di fibre sintetiche. Laghi e fiumi possono essere contaminati da deposizioni atmosferiche cumulative, afferma Johnny Gasperi, professore dell’università di Parigi-Est Créteil: «Nelle ricadute atmosferiche è presente un’enorme quantità di fibre». Questo, osserva “Repubblica”, potrebbe spiegare perché si trovano fibre di plastica anche in sorgenti idriche sperdute, in tutto il mondo. Ma la “Orb” ha trovato fibre di plastica anche in acque di rubinetto provenienti da falde sotterranee. Tante le incognite: quanto è grande il pericolo se le fibre di plastica assorbono “perturbatori endocrini” che alterano i nostri sistemi ormonali? «Non abbiamo mai veramente preso in considerazione questo rischio prima», ammette Tamara Galloway, ecotossicologa all’università di Exeter.
    Le città stanno appena cominciando a fare i conti con l’inquinamento da fibre di plastica e con il ruolo che giocano in tutto questo le lavatrici di casa, continua il report su “Repubblica”. Rallentare il processo di trattamento delle acque reflue consentirebbe di intercettare una maggior quantità di fibre di plastica, dice Kartik Chandran, ingegnere ambientale della Columbia University. Ma potrebbe anche accrescere i costi. «I grandi marchi dell’abbigliamento dicono che stanno lavorando per migliorare i loro tessuti sintetici in modo da ridurre l’inquinamento da fibre. E sta venendo fuori tutta una serie di filtri, di prodotti da inserire nel cestello della lavatrice durante il lavaggio e di altri prodotti per ridurre le emissioni di fibre durante i lavaggi. Test indipendenti mostreranno quale di questi metodi è più efficace». Sherri Mason, la prima ricercatrice a scoprire la forte presenza di inquinamento da microplastica nella regione americana dei Grandi Laghi, si dice «sconvolta» dai risultati dei test sull’acqua potabile: «La gente mi chiedeva sempre: “Ma queste cose ci sono anche nell’acqua che beviamo?”. Io rispondevo sempre che non lo sapevo». Ora invece, purtroppo, lo sa.

    Quanta plastica beviamo? Molte ricerche ormai mostrano la presenza di fibre plastiche, praticamente ovunque: negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria. E oggi uno studio americano prova l’esistenza di una contaminazione da plastica persino nell’acqua corrente domestica, spiegano Dan Morrison e Chris Tyree in un report su “Repubblica”. «Dai rubinetti di casa di tutto il mondo, da New York a Nuova Delhi, sgorgano fibre di plastica microscopiche», secondo una ricerca originale di “Orb Media”, un sito di informazione no-profit di Washington. Insieme ai ricercatori dell’università statale di New York e dell’università del Minnesota, “Orb Media” ha testato 159 campioni di acqua potabile di città grandi e piccole nei cinque continenti. L’83% dei campioni contiene microscopiche fibre di plastica: compresa l’acqua che esce dai rubinetti del Congresso degli Stati Uniti. E se la plastica è nell’acqua di rubinetto, probabilmente sarà presente anche nei cibi preparati con l’acqua, come pane, pasta, zuppe e latte artificiale. «È una notizia che dovrebbe scuoterci», dice Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace 2006. «Sapevamo che questa plastica tornava da noi attraverso la catena alimentare. Ora scopriamo che torna da noi attraverso l’acqua potabile. Abbiamo una via d’uscita?».

  • Crisi economica, i neurologi: la povertà ci cambia il cervello

    Scritto il 05/8/17 • nella Categoria: segnalazioni • (8)

    Quali sono gli effetti sul nostro cervello del vivere in particolari condizioni di povertà socio-economica? Ci dà risposta una recente ricerca condotta dall’università di Harvard. Sembra proprio che lo stress prolungato scaturito da problemi economici interferisca col nostro “circuito decisionale”. Una recente ricerca americana, commissionata da Economic Mobility Pathways (EmPath), una no-profit di Boston che dal 2006 lavora nella promozione di strumenti sociali contro la povertà, mette in luce un collegamento diretto tra meccanismi neuronali che coinvolgono sistema limbico e corteccia prefrontale e alcune contingenze pratiche della vita, come le condizioni socio-economiche in cui ci si trova. Di cosa sono responsabili il sistema limbico e la corteccia prefrontale? A grandi linee, si può dire che la corteccia prefrontale (parte più “recente” del cervello) medi e sia responsabile delle capacità di problem-solving, goal-setting e task execution; presiede quindi alla pianificazione dei comportamenti, alla capacità di prendere decisioni ed eseguirle e, secondo molti studiosi, anche all’espressione della personalità.
    Essa lavora in concerto col sistema limbico (parte più “antica” del cervello), che si trova nella parte centrale dell’encefalo, precisamente nel tronco encefalico. Il sistema limbico si occupa del processamento dei segnali emotivi e dell’elaborazione delle risposte emotive, in parte per via del suo collegamento con la memoria a lungo termine. Un ampio corpus di ricerche, dopo aver analizzato il cervello tanto di adulti quanto di bambini che vivono in condizioni di povertà, ha evidenziato che «quando una persona vive a lungo in condizioni di povertà, dal sistema limbico partono costantemente messaggi di paura e di stress che poi vengono inviati alla corteccia prefrontale. Quest’ultima influenzerebbe la capacità di un individuo di risolvere problemi, raggiungere obiettivi e fronteggiare le situazioni della vita quotidiana e varie richieste ambientali nei modo più efficaci possibili». E’ vero che questo può succedere a chiunque ad un certo punto della propria vita, indipendentemente dalla classe sociale. E’ vero però anche che le persone in condizione di povertà rischiano di essere “abituate” a dover fronteggiare uno stress continuo e duraturo nel tempo.
    Questo può generare condizioni di “strain” (stress negativo) che più facilmente possono portare a modi di agire e re-agire alle richieste ambientali disadattivi e disfunzionali. Lo stress, inoltre, sarebbe spesso acutizzato dal dover combattere contro i pregiudizi della società nei confronti di chi è più povero. La scienza è chiara su questo: l’energia cerebrale utilizzata per far fronte alle paure e agli “stressors” di tutti i giorni, riferiti al soddisfacimento dei bisogni primari (sbarcare il lunario, vestirsi, potersi permettere un’istruzione, ecc…), viene completamente “assorbita” da queste impellenze e diventa inefficiente e non utilizzabile per cambiamenti di prospettiva, di valutazione delle situazioni e di se stessi in relazione ad esse. Ne risentono inoltre l’immagine di sé, l’autostima e l’autoefficacia, oltre che le abilità di problem solving e di “insight”.
    Elisabeth Babcock, presidente dell’EmPath, sostiene che, in questo modo, le persone in povertà tenderebbero a divenire vittime, col tempo, di un vero e proprio “circolo vizioso” che si auto-rinforzerebbe (come un serpente che si morde la coda) basandosi sull’idea per la quale le persone povere non possono cambiare e migliorare le proprie condizioni di vita. Lo studio più recente, in merito, afferma che questo meccanismo passa dall’essere un evento occasionale che inibisce temporaneamente alcune facoltà intellettive al diventare una routine che trasforma il cervello dei soggetti interessati. È possibile interrompere questa spirale negativa che si auto-alimenta? La risposta è: sì! E’ stata spiegata da Atlantic Al Race, condirettore del Centro di sviluppo del bambino dell’Università di Harvard: «È vero che gli stress e i rischi costanti cui la povertà espone cambiano il cervello delle persone. Ma è vero anche che le sezioni cerebrali interessate dal fenomeno preso in esame si caratterizzano per essere particolarmente “plastiche”, cioè possono essere rafforzate e ri-sviluppate in modo positivo anche nell’età adulta».
    Facendo leva sulla plasticità neurale, la funzione di “rigenerazione” e “riorganizzazione” dei circuiti neurali del cervello, presente anche in età adulta, gli studiosi hanno rilevato che questi modi appresi e disadattivi di immagine di sé, problem solving e task execution che col tempo hanno trasformato il cervello, possano essere ri-costruiti e “corretti” tramite tecniche di psicoterapia rivolte a singoli adulti, minori e ad interi nuclei familiari. Ha detto Elisabeth Babcock: «Il segreto per rompere il meccanismo è aiutare queste persone a portare a termine anche un solo obiettivo che non credevano di poter raggiungere». Gli stessi autori della ricerca infatti spiegano che questa spirale può essere rappresentata metaforicamente come «un ponte in cui basta far venire giù un pilastro per fare cadere l’intera struttura». Si potrebbe concludere che le capacità che abbiamo di ri-generazione e cambiamento sono infinite, e queste sono date dalla complessità che ci caratterizza. La stessa complessità che ci porta a cadere in spirali negative, è la stessa che ci porta a rialzarci e guardare con “nuovi occhi” noi stessi e il mondo.
    (Carlotta Cadoni, “Crisi economica e neuroscienze: come la povertà cambia il cervello”, dal blog “Il Sapere” dell’8 luglio 2017).

    Quali sono gli effetti sul nostro cervello del vivere in particolari condizioni di povertà socio-economica? Ci dà risposta una recente ricerca condotta dall’università di Harvard. Sembra proprio che lo stress prolungato scaturito da problemi economici interferisca col nostro “circuito decisionale”. Una recente ricerca americana, commissionata da Economic Mobility Pathways (EmPath), una no-profit di Boston che dal 2006 lavora nella promozione di strumenti sociali contro la povertà, mette in luce un collegamento diretto tra meccanismi neuronali che coinvolgono sistema limbico e corteccia prefrontale e alcune contingenze pratiche della vita, come le condizioni socio-economiche in cui ci si trova. Di cosa sono responsabili il sistema limbico e la corteccia prefrontale? A grandi linee, si può dire che la corteccia prefrontale (parte più “recente” del cervello) medi e sia responsabile delle capacità di problem-solving, goal-setting e task execution; presiede quindi alla pianificazione dei comportamenti, alla capacità di prendere decisioni ed eseguirle e, secondo molti studiosi, anche all’espressione della personalità.

  • Kill the Children, la grande ipocrisia dei signori della guerra

    Scritto il 09/5/17 • nella Categoria: idee • (4)

    In mezzo alle polemiche sulle organizzazioni non governative internazionali che traghettano verso l’Italia i disperati raccolti sulle coste libiche, la mia attenzione è stata attratta dal profilo dei componenti del Consiglio Direttivo italiano di una di esse, Save The Children. Nella lista ho notato in particolare un nome, quello di Marco De Benedetti, che – oltre ad essere il figlio dell’oligarca italiano naturalizzato svizzero Carlo De Benedetti – ricopre la carica di Managing Director e Co-Presidente Europa di The Carlyle Group. Ora, The Carlyle Group non è un’azienda qualsiasi, ma un gigante mondiale nella gestione degli attivi di aziende di tanti settori, incluse le industrie del complesso militare-industriale. Carlyle ha sede al centro dell’Impero, a Washington, e vive di una perenne commistione politica-affari, tanto che ha reclutato fra i suoi super-faccendieri anche ex direttori Cia ed ex presidenti Usa come George Bush padre e l’ex primo ministro britannico John Major. Nel 2008-2016 il suo direttore dei servizi finanziari globali è stato un pezzo grosso di Wall Street, Olivier Sarkozy, fratellastro dell’ex presidente francese Nicolas, mentre fra gli amministratori di Carlyle c’è anche il numero uno della General Motors, Dan Akerson.
    Insomma, parliamo di un architrave del capitalismo globalizzato, che gestisce “asset” per centinaia di miliardi dollari, di quel capitalismo al centro delle rapine finanziarie, delle guerre mediorientali e di un’altra serie di fenomeni che potremmo ribattezzare “Kill The Children”. Vediamo così adesso i bambini fuggiti da una casa perduta per via di una bomba aeronautica o di una bomba finanziaria ricollegata a imprese partecipate da Carlyle, mentre sono raccolti in mare da un’azienda dell’assistenza che incrocia la sua orbita con la Carlyle, e magari fornirà loro farmaci e cibo di aziende partecipate da Carlyle. Il capitalismo è tentacolare, apre e chiude cicli, è completo, e si fa anche bello, con tanto di riviste patinate e siti cinguettanti che vantano i buoni rapporti dei pezzi grossi del non profit con le multinazionali quotate nelle grandi borse del generoso Occidente.
    Nel 2014, l’ex primo ministro britannico Tony Blair fu insignito di un premio istituito dall’influente ramo statunitense di Save the Children, il Global Legacy Award, durante una cena di gala a New York. Proprio lui, Blair, non esattamente il salvatore dei bambini iracheni e afghani. L’industria della filantropia compie gesti buoni. Ma la muovono salotti esclusivi che incrociano le loro strategie con quelle dei padroni della geopolitica, cioè i signori delle guerre e delle ondate di profughi. Nella statistica delle singole vite salvate, che fanno un bel rumore, scompaiono le masse sommerse e silenziate dai grandi media, a loro volta pilotati dagli stessi salotti.
    (Pino Cabras, “Kill the Children”, da “Megachip” del 3 maggio 2017).

    In mezzo alle polemiche sulle organizzazioni non governative internazionali che traghettano verso l’Italia i disperati raccolti sulle coste libiche, la mia attenzione è stata attratta dal profilo dei componenti del Consiglio Direttivo italiano di una di esse, Save The Children. Nella lista ho notato in particolare un nome, quello di Marco De Benedetti, che – oltre ad essere il figlio dell’oligarca italiano naturalizzato svizzero Carlo De Benedetti – ricopre la carica di Managing Director e Co-Presidente Europa di The Carlyle Group. Ora, The Carlyle Group non è un’azienda qualsiasi, ma un gigante mondiale nella gestione degli attivi di aziende di tanti settori, incluse le industrie del complesso militare-industriale. Carlyle ha sede al centro dell’Impero, a Washington, e vive di una perenne commistione politica-affari, tanto che ha reclutato fra i suoi super-faccendieri anche ex direttori Cia ed ex presidenti Usa come George Bush padre e l’ex primo ministro britannico John Major. Nel 2008-2016 il suo direttore dei servizi finanziari globali è stato un pezzo grosso di Wall Street, Olivier Sarkozy, fratellastro dell’ex presidente francese Nicolas, mentre fra gli amministratori di Carlyle c’è anche il numero uno della General Motors, Dan Akerson.

  • Aiutarli a casa loro? Finora li abbiamo solo rapinati, sempre

    Scritto il 14/6/16 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    La propaganda anti immigrati ricorre spesso ad un argomento apparentemente ragionevole: aiutiamoli sì, ma a casa loro. Personalmente non credo affatto alla buona fede di chi lo dice (secondo me è solo un modo ipocrita di dire “fuori dai piedi”)  ma facciamo conto che sia un discorso serio ed entriamo nel merito. In effetti, lo sviluppo dei paesi africani, asiatici, latino americani sarebbe il modo migliore sia per rallentare la pressione su Europa e Usa, sia per evitare molte sofferenze a chi emigra e magari preferirebbe restare nel suo paese, se ci fossero condizioni di vita accettabili. Dunque sarebbe ragionevole farlo. Aiutiamoli a casa loro? Facile a dirsi, molto meno a farsi, perché ci sono non pochi ostacoli per realizzare i vari “piani Marshall per l’Africa” di cui spesso qualcuno blatera. Per la verità, già oggi ci sono cospicui aiuti internazionali da parte dei paesi più ricchi, ma, a quanto pare, i risultati non sono particolarmente brillanti e la riflessione dovrebbe partire proprio da questo punto: come mai, nonostante decenni di aiuti, ci sono paesi in cui i risultati sono così scarsi? Il problema è che dovremmo aumentare le sovvenzioni? Quelle attuali sono insufficienti? Non è solo questo ed il problema è molto più complesso.
    In primo luogo, ci sono non poche situazioni di guerra o guerra civile (Iraq, Siria, Libia, Mali, Afghanistan eccetera) o con forti turbolenze (Sudan, Somalia, Zaire, Sri Lanka, Indonesia, eccetera) che hanno ostacolato, quando non hanno reso del tutto irrealistico, ogni piano del genere. E questa condizione perdura. Poi c’è una seconda ragione: molti di questi paesi (direi la netta maggioranza) hanno governi corrottissimi che usano gli aiuti internazionali per metterseli in tasca, o meglio, nei loro pingui conti off shore. E, peraltro, più di qualche rivolo di quel fiume di denaro, torna al paese di partenza, dove qualche vispo politico lo indirizza verso il proprio conto off shore. E questo senza tener conto della “mano morta” di tante Onlus che tutto sono, meno che “no profit”. Poi c’è il ruolo delle multinazionali che speculano sugli aiuti, fornendo prodotti scadenti o fortemente sovraprezzati, in parte per la complicità dei governi corrotti, in parte per le condizioni di monopolio in cui operano.
    Ma, sin qui, stiamo parlando della superficie del problema: tutte cose emendabili o eliminabili sol che lo si voglia davvero. Ma ci sono dati strutturali più profondi, in parte dovuti alle condizioni particolari di alcuni contesti (dalla scarsità di infrastrutture, alle percentuali altissime di analfabetismo, dall’assenza di strutture sanitarie alla permanenza di metodi di coltura primitivi ecc.) ma in parte ancora più significativa, dalle condizioni del commercio internazionale che ostacolano lo sviluppo di molto paesi. Lo scambio ineguale fra prezzi delle materie prime e dei semi-lavorati da un lato e tecnologie e costo del denaro dall’altro, è stata la principale ragione che ha impedito il decollo dei paesi del sud del Mondo dalla fine del colonialismo ai primi anni novanta. Poi, mentre paesi come Cina, Brasile, India, e poi via via Turchia, Vietnam, Messico, Indonesia ecc iniziavano a decollare in parte grazie alle delocalizzazioni industriali, in parte alla rivalutazioni del mercato delle commodities, è subentrato un nuovo ostacolo allo sviluppo dei paesi che erano rimasti indietro: gli accordi di Marrakesh e la particolare disciplina dei brevetti, per cui multinazionali occidentali hanno “brevettato” (cioè ottenuto l’esclusiva della produzione) specie vegetali ed animali che, in realtà esistevano da sempre ed appartenevano a quei popoli.
    Far sviluppare i paesi africani arretrati, oggi, imporrebbe un riallineamento della divisione mondiale del lavoro e questo potrebbe proporre indesiderate concorrenze: il libero mercato è una delle più clamorose balle della storia umana. E le politiche di landgrabbing non vengono fuori dal nulla: sono il riflesso di un ordine mondiale che riserva all’Africa due funzioni, deposito di materie prime (della terra in primo luogo) a basso costo e serbatoio di forza lavoro di riserva per quando il costo del lavoro dovesse crescere troppo nei paesi attualmente emergenti. E’ molto facile dire “aiutiamoli a casa loro”, ma una vera politica di sviluppo dei paesi africani implica l’abbattimento di questo ordine mondiale, l’azzeramento della rete di accordi sottoscritti da Marrakesh in poi, la fine dell’ordine neo liberista. Siete ancora a dirlo?
    (Aldo Giannuli, “Aiutiamoli a casa loro?”, dal blog di Giannuli del 7 giugno 2016).

    La propaganda anti immigrati ricorre spesso ad un argomento apparentemente ragionevole: aiutiamoli sì, ma a casa loro. Personalmente non credo affatto alla buona fede di chi lo dice (secondo me è solo un modo ipocrita di dire “fuori dai piedi”)  ma facciamo conto che sia un discorso serio ed entriamo nel merito. In effetti, lo sviluppo dei paesi africani, asiatici, latino americani sarebbe il modo migliore sia per rallentare la pressione su Europa e Usa, sia per evitare molte sofferenze a chi emigra e magari preferirebbe restare nel suo paese, se ci fossero condizioni di vita accettabili. Dunque sarebbe ragionevole farlo. Aiutiamoli a casa loro? Facile a dirsi, molto meno a farsi, perché ci sono non pochi ostacoli per realizzare i vari “piani Marshall per l’Africa” di cui spesso qualcuno blatera. Per la verità, già oggi ci sono cospicui aiuti internazionali da parte dei paesi più ricchi, ma, a quanto pare, i risultati non sono particolarmente brillanti e la riflessione dovrebbe partire proprio da questo punto: come mai, nonostante decenni di aiuti, ci sono paesi in cui i risultati sono così scarsi? Il problema è che dovremmo aumentare le sovvenzioni? Quelle attuali sono insufficienti? Non è solo questo ed il problema è molto più complesso.

  • Qualcuno ci liberi dal grande sonno governato da Facebook

    Scritto il 25/1/15 • nella Categoria: idee • (1)

    Facebook ha ucciso Internet e sono sicuro che la maggior parte delle persone non se ne è nemmeno accorta. Vedo gli sguardi sulle vostre facce e sento i vostri pensieri. Qualcuno si sta lamentando di nuovo di Facebook. Sì, so che è un ente massiccio, ma è la piattaforma che noi tutti usiamo. E’ un po’ come lamentarsi di Starbucks. Considerando che tutti i bar indipendenti sono stati buttati fuori dalle città e siete tutti diventati dipendenti dal caffè espresso, cos’altro si può fare? Che cosa si intende quando si dice che Facebook ha “ucciso” Internet? Chi è stato ucciso? Mi spiego. Parto dal presupposto che non so quale possa essere la soluzione. Però penso che ogni soluzione debba iniziare dalla solida identificazione della natura del problema. Innanzitutto, Facebook ha ucciso Internet, ma se non fosse stato Facebook sarebbe stato qualcos’altro. Probabilmente l’evoluzione dei social network era inevitable proprio come lo sviluppo degli smartphone. Era la direzione verso cui Internet sarebbe necessariamente dovuto andare.
    Ed è appunto per questo che il problema è così difficile da risolvere. Perché la soluzione non è Znet o Ello. Non è un social network migliore, un algoritmo migliore o ancora un social network diretto da una società no profit invece che da un ente multimiliardario. Proprio come la soluzione dell’alienazione sociale causata dal fatto che tutti hanno una loro macchina privata non sta nella costruzione di veicoli elettrici. Ed esattamente come la soluzione dell’alienazione sociale causata dalla fissazione con gli smartphone non è la nascita di una compagnia di cellulari utilizzabili collettivamente. Molte persone, dalla classe di fondo alle élites, sono appassionate dal fenomeno dei social network. Sicuramente tra le poche persone che leggeranno questo articolo ce ne saranno alcune. Diffondiamo frasi come “la rivoluzione di Facebook” e celebriamo queste piattaforme che hanno il potere di unire persone provenienti dalle più disparate parti del mondo. E non è mia intenzione affermare che ciò non abbia aspetti positivi. Né tantomeno credo che dovremmo smettere di usare questi social network, incluso Facebook. Sarebbe come dire a qualcuno in Texas di andare a  lavorare in bicicletta, quando tutte le infrastrutture nelle città sono costruite per veicoli utilitari sportivi.
    Ma dovremmo capire la natura di ciò che ci sta succedendo. A partire da quando i giornali sono diventati un fatto ordinario fino al 1990, per la vasta maggioranza della popolazione sul pianeta, il massimo a cui si poteva aspirare era scrivere una lettera all’editore. Una piccola, piccolissima parte di popolazione diventava invece autore o giornalista e aveva un forum pubblico aggiornato occasionalmente o regolarmente. Alcuni scrivevano anche ciò che oggi sarebbe considerato un blog annuale di Natale che poi fotocopiavano e mandavano a qualche dozzina di amici e parenti. Numerose agenzie giornalistiche indipendenti iniziarono a svilupparsi attorno al 1960 in modo occulto nelle città e paesini negli Stati Uniti e altri paesi. Si svilupparono, inoltre, diverse opinioni e informazioni di semplice accesso per tutti quelli che abitavano vicino alle università e quindi potevano recarsi a incontri di scambio di informazioni e avevano soldi in più da spendere.
    Negli anni ‘90, con lo sviluppo di Internet – siti web, liste di email – ci fu letteralmente un’esplosione della comunicazione che rese le agenzie giornalistiche degli anni ’60 nemmeno lontanamente comparabili. Sono molti negli Stati Uniti coloro che hanno deciso di smettere di usare il telefono in modo virtuale (perché preferiscono parlare faccia a faccia) e parlo per esperienza. Molti altri che non avevano mai scritto lettere prima o cose di questo genere iniziarono a usare computer e scriversi email, e anche a più persone alla volta. Quei pochi che invece erano abituati ai tempi prima di Internet a inviare notiziari in modo regolare informando dei propri pensieri e impegni futuri, prodotti e servizi intesi per la vendita eccetera, furono esaltati dall’avvento dell’email e della possibilità di inviare notiziari in modo così semplice, senza spendere una fortuna per le marche da bollo né sprecare tempo a imballare pacchi postali. Per un breve periodo di tempo, il numero di lettori rimase invariato, ma grazie a Internet ora possono comunicare con loro virtualmente e gratuitamente. Questo, infatti, fu il periodo di massimo sviluppo di Internet, altresì chiamato “età dell’oro” – circa tra il 1995 e il 2000. Sussisteva in modo sempre più incisivo il problema degli spam di vario genere. Inutili email venivano inviate in modo sempre più consistente. I filtri per gli spam iniziarono a diventare più accurati ed eliminarono il problema per molti di noi.
    I list server che qualcuno si prendeva la briga di leggere erano semplici liste di annunci. I siti web più usati erano certamente interattivi ma moderati, come Indymedia. In alcune città del mondo, grandi o piccole che fossero, c’erano pagine locali Indymedia. Chiunque poteva pubblicare post, ma c’erano responsabili che decidevano se ed eventualmente dove lo si poteva pubblicare. Come in ogni pagina web, il processo per prendere determinate decisioni risulta difficile, ma molti la sentivano come una sfida per cui valeva la pena sforzarsi. Come risultato di questi list server e siti moderati come Indymedia, avevamo tutti l’abilità inaudita di trovare e discutere idee ed eventi che avvenivano nella nostra città, paese o più generalmente, nel mondo. Sono poi sopravvenuti i blog e i social network. Ogni individuo con un blog, una pagina Facebook o un profilo Twitter, eccetera, diventava il trasmettitore di se stesso. Crea dipendenza, non è vero? Sapere di avere un pubblico globale di dozzine o centinaia, o ancora, migliaia di persone (se sei famoso, tanto per iniziare, altrimenti la situazione diventa alquanto critica) tutte le volte che pubblichi un post.
    Avere conversazioni nella sezione dei commenti con persone provenienti da tutto il mondo che non si incontreranno mai fisicamente. Davvero fantastico. Da allora però molti smisero di ascoltare. La maggior parte delle persone smise di visitare Indymedia tanto che morì, globalmente, per quasi tutti. Giornali – di destra, sinistra o centro che fossero – cessarono, e stanno tuttora cessando, la loro attività, cartacei e non. I list server smisero di esistere. Gli algoritmi sostituirono i moderatori. La gente iniziava già a pensare che le librerie fossero un fenomeno antiquato. Oggi come oggi, a Portland, in Oregon, una delle città più “connesse” a livello politico negli Stati Uniti, non ci sono list server o siti web che spieghino in modo comprensibile o in un formato leggibile come vadano le cose in città. Infatti, ci sono diversi gruppi su vari siti web, pagine Facebook e list server ma nulla che riguardi l’andamento progressivo della comunità in generale. Nulla di funzionale. Perlomeno nulla che si avvicini alla funzionalità e utilità delle liste di annunci che esistevano nelle città e paesi 15 anni prima.
    Viste le limitazioni tecniche di Internet avvenute per un breve periodo di tempo, si riuscì a trovare una connessione tra le piccole élites che fornivano contenuti scritti, letti dalla maggior parte della popolazione nel mondo, e la situazione in cui ci troviamo oggigiorno: l’affondare nella troppa informazione, la maggior parte di cui insensate sciocchezze, rumore bianco, nebbia che non ci permette di vedere ciò su cui le luci scarse fanno chiarezza in un dato momento. Era l’età dell’oro ma fu perlopiù un caso e durò molto poco. Dato che creare un nuovo sito web, un blog, una pagina Facebook o Myspace, pubblicare aggiornamenti ecc… diventava sempre più semplice, la nuova era contribuiva inevitabilmente alla naturale evoluzione della tecnologia. E molti non si rendevano nemmeno conto di ciò che stava avvenendo. Perché mi ritrovo a doverlo dire? Innanzitutto non è da poco che ho iniziato a rendermi conto di questa merda. Ho parlato con svariate persone in molti anni e molte di queste pensano che i social network siano l’invenzione migliore dopo il pane affettato. E perché non dovrebbero pensarlo?
    Il succo del discorso è che per nessun motivo avrebbero potuto rendersi conto della “morte” di Internet, dato che nessuno di loro era un fornitore di contenuti (come vengono chiamati autori, artisti, musicisti, giornalisti, organizzatori, animatori, insegnanti ecc.. oggigiorno) nel periodo pre-Internet, o nel primo decennio di Internet, inteso come fenomeno popolare . E se in quegli anni non eri un fornitore di contenuti, perché dovresti renderti conto che qualcosa cambia? Lo sappiamo io e gli altri come me – perché coloro che leggevano e rispondevano a ciò che pubblicavo sono spariti. Non aprono più le loro email e, se lo fanno, non le leggono. E non importa cosa utilizzino – blog, Facebook, Twitter ecc… Ovviamente alcuni le leggono ancora, ma la maggior parte fa altro. E cosa, allora? Ho passato gran parte della scorsa settimana a Tokyo, girando per la città, trascorrendo ore e ore sui treni ogni giorno.
    La maggior parte di quelli seduti sul treno quando visitai il Giappone per la prima volta dormiva, come dorme ora. Ma sette anni fa quasi tutti quelli che dormivano leggevano libri. Ora è diventato difficile vederne uno. Quasi tutti guardano il cellulare. E non leggono libri sul telefono (sì, ho sbirciato. Tanto). Giocano. Oppure, più spesso, guardano le notifiche di Facebook. E lo stesso vale per gli Stati Uniti e tutti gli altri paesi che ho avuto l’occasione di visitare. Vale davvero la pena di sostituire algoritmi a moderatori? Rumore bianco agli editori? Foto del gatto ai giornalisti investigativi? Una moltitudine di podcast mal registrati a case discografiche indipendenti? Milioni di aggiornamenti Facebook e notifiche Twitter? Non penso. Ma non è questo il punto. Come faremo a uscire da questa situazione e liberarci della nebbia? E quando torneremo a usare i nostri cervelli? Mi piacerebbe saperlo.
    (David Rovics, “Facebook ha ucciso Internet”, da “Counterpunch” del 24 dicembre 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”).

    Facebook ha ucciso Internet e sono sicuro che la maggior parte delle persone non se ne è nemmeno accorta. Vedo gli sguardi sulle vostre facce e sento i vostri pensieri. Qualcuno si sta lamentando di nuovo di Facebook. Sì, so che è un ente massiccio, ma è la piattaforma che noi tutti usiamo. E’ un po’ come lamentarsi di Starbucks. Considerando che tutti i bar indipendenti sono stati buttati fuori dalle città e siete tutti diventati dipendenti dal caffè espresso, cos’altro si può fare? Che cosa si intende quando si dice che Facebook ha “ucciso” Internet? Chi è stato ucciso? Mi spiego. Parto dal presupposto che non so quale possa essere la soluzione. Però penso che ogni soluzione debba iniziare dalla solida identificazione della natura del problema. Innanzitutto, Facebook ha ucciso Internet, ma se non fosse stato Facebook sarebbe stato qualcos’altro. Probabilmente l’evoluzione dei social network era inevitable proprio come lo sviluppo degli smartphone. Era la direzione verso cui Internet sarebbe necessariamente dovuto andare.

  • Arrivano i Buoni: filantropia finanziaria, business del dolore

    Scritto il 30/12/14 • nella Categoria: idee • (0)

    Geldof, Bono Vox, Soros e compagnia filantropica cantante hanno scoperto cosa significa “investire 1 euro e ottenerne 2,74 euro in un anno”. Quale investimento vi garantisce oggi un rendimento del 174%? Conseguentemente hanno investito un bel po’ di soldi in quelle operazioni di “tanto cuore, poco cervello”. O forse sono operazioni di “tutto cervello e niente cuore”? Non so, fate voi. Non credo che la truffa di One (Bono) o di Band Aid sia molto diversa dalla truffa dell’Open Society (Soros). Fatto sta che venendo meno lo Stato di diritto, sostituito dallo Stato di dovere (ve ne eravate accorti?), al cittadino viene imposto l’obbligo morale di fare ciò che fino a prima lo Stato faceva, ovvero normare la perequazione e finanziare il diritto. L’imperativo morale che ci sovrasta è fornire montagne di soldi a carrozzoni che dovrebbero (notate il condizionale) aiutare le persone o i popoli in difficoltà, dando così la possibilità agli squali della finanza di lucrare quel 174% sulla nostra buona fede e sui nostri sensi di colpa. Eppure paghiamo già abbondanti tasse e balzelli, il nostro dovere lo facciamo ogni giorno.
    Forse avete già intuito che tutti quei soldi vanno a finire nel salvataggio delle banche, o giù di lì. La novità consiste nel donare alla filantropia per permettere guadagni scandalosi alla finanza. Da Tares, Tari, Tasi a Telethon o Band Aid, cosa cambia quindi? L’idea, selvaggia e perversa al tempo stesso, è che noi cittadini dobbiamo salvare il mondo: Stati, banksters e filantropi compresi. Siamo perseguitati dalla tv del dolore che non perde occasione per farci vedere un’umanità sofferente che necessita del nostro aiuto. Sono tempi bui, e, come diceva un utile idiota, «non chiederti cosa lo Stato può fare per te, chiediti cosa TU puoi fare per lo Stato». Era il New Deal, o giù di lì, il massimo dell’espansione dello Stato. Figuriamoci oggi, che lo Stato è in totale recessione: cosa dovremmo fare per soddisfare gli insaziabili appetiti di Ong, Onlus e associazioni umanitarie varie?
    Ma poi di chi sarebbe la colpa di tutta questa oscena morale? Sono «le regole che hanno permesso agli speculatori di fare quel che hanno fatto» (e che continueranno a fare) dice il buon Soros, aggiungendo che «non è colpa degli speculatori». E ci mancherebbe! Che colpa ne hanno se lo Stato “consiglia” di donare soldi alla speculazione filantropica? Eppoi non facciamone una questione personale: nessun miliardario che si rispetti evita la filantropia, neanche Gates, secondo cui investire in Africa contro malattie e povertà è del tutto simile all’innovazione tecnologica. E porta ai medesimi risultati. L’uomo più ricco del pianeta (66 miliardi di dollari) è convinto che non solo sia giusto interessarsi dei bisogni non recepiti dai mercati, ma anche economicamente interessante. Ecco la nuova frontiera della finantropia (acronimo tra finanza e filantropia): unisci le tecniche del venture capital agli obiettivi del non profit e avrai “venture philanthropy”. La nuova filantropia mette da parte il paternalismo e tenta la sfida degli investimenti finanziari.
    E’ tutto un proliferare di attività finantropiche, ve ne siete accorti? Il mondo ha bisogno della nostra collaborazione, perchè il mondo sta finalmente cambiando. In questo nuovo quadro che si va delineando il ruolo storico dell’intermediazione e della consulenza finanziaria deve essere ridisegnato. Lo scopo non può essere soltanto quello di massimizzare il rapporto rendimento/rischio del cliente, è invece imperativo un allargamento del processo di investimento che, dal binomio rischio-rendimento, deve estendersi al trinomio sostenibilità-rischio-rendimento. Sappiate che le prestazioni dotate di buon senso e che creano valori sostenibili conferiscono energia al denaro, così che questo genera altro denaro e benessere per tutti allo stesso modo: per i filantropi e per chi riceve il capitale investito o i doni, per le organizzazioni, i collaboratori in seno al progetto e per il fundraiser.
    Lo Stato di dovere ci impone l’obbligo di aiutare i paesi poveri, e al microcredito è andato addirittura un Nobel. Sapete perchè? Ma perchè dalla filantropia al business il passo è breve, ammesso che esista: il credito a breve – erogato ai piccolissimi imprenditori dei paesi in via di sviluppo – è remunerativo e sicuro. Capito? Come sono stati raccolti questi capitali? Per esempio da fondi pensione svizzeri interessati a diversificare il loro portafoglio cercando investimenti che da una parte offrono un rendimento superiore a quelli di mercato, dall’altra rispondono a requisiti di responsabilità sociale. «Possiamo dire che la trasformazione della microfinanza in asset class investibile è nata in Svizzera, soprattutto a Ginevra». Non vi piacciono i neutrali banchieri svizzeri? Tranquilli che Unicredit ha ciò che fa per voi: “il mio dono” ovvero la rete della solidarietà di Unicredit.
    Date un’occhiata, ci sono ben 105 pagine di organizzazioni non-profit da scegliere perchè è «giusto interessarsi dei bisogni non recepiti dai mercati», come dice Gates. Cioè il Mercato va allargato a ciò che non è tecnicamente Mercato, come la solidarietà. Insomma la finantropia. Li avete già dati i due osceni euro? Avete già fatto quel fetente Sms per collaborare con quell’importantissimo progetto che salverà migliaia di vite? State dando una mano a Soros e fratelli in affari per diffondere finalmente benessere, democrazia, salute e non ultima della sana felicità nel mondo? NO? FATE SCHIFO! Ps: adesso vi regalo anche un passatempo per le festività: provate a distinguere il mio sarcasmo da ciò che gli avvoltoi finantropici spacciano per verità. Se avete dubbi seguite i link, poi fatemi sapere. Buon Natale, e siate sempre più buoni, mi raccomando. Che loro ci tengono.
    (Tonguessey, “Finantropia”, da “Come Don Chisciotte” del 24 dicembre 2014)

    Geldof, Bono Vox, Soros e compagnia filantropica cantante hanno scoperto cosa significa “investire 1 euro e ottenerne 2,74 euro in un anno”. Quale investimento vi garantisce oggi un rendimento del 174%? Conseguentemente hanno investito un bel po’ di soldi in quelle operazioni di “tanto cuore, poco cervello”. O forse sono operazioni di “tutto cervello e niente cuore”? Non so, fate voi. Non credo che la truffa di One (Bono) o di Band Aid sia molto diversa dalla truffa dell’Open Society (Soros). Fatto sta che venendo meno lo Stato di diritto, sostituito dallo Stato di dovere (ve ne eravate accorti?), al cittadino viene imposto l’obbligo morale di fare ciò che fino a prima lo Stato faceva, ovvero normare la perequazione e finanziare il diritto. L’imperativo morale che ci sovrasta è fornire montagne di soldi a carrozzoni che dovrebbero (notate il condizionale) aiutare le persone o i popoli in difficoltà, dando così la possibilità agli squali della finanza di lucrare quel 174% sulla nostra buona fede e sui nostri sensi di colpa. Eppure paghiamo già abbondanti tasse e balzelli, il nostro dovere lo facciamo ogni giorno.

  • Susan George: è il golpe dei super-ricchi, ribellatevi all’Ue

    Scritto il 18/9/13 • nella Categoria: idee • (2)

    L’establishment economico e finanziario non ha sensi di colpa per quello che è accaduto nel mondo negli ultimi sei-sette anni, nemmeno un dubbio. È uno dei paradossi di quest’epoca: i neoliberisti hanno capito il significato del concetto di egemonia culturale di Antonio Gramsci e l’hanno applicato benissimo. La loro ideologia è penetrata negli Stati Uniti, poi si è diffusa in tutte le organizzazioni internazionali e vanta un supporto intellettuale mai visto. Prendiamo l’Ue. Sono riusciti a ottenere consenso e supporto proponendo misure di austerità per uscire dalla crisi convincendo tutti che il bilancio di uno Stato e quello di una famiglia sono la stessa cosa, per cui si può spendere solo in base alle entrate. Non è così: il debito pubblico storicamente finanzia la crescita, è altra cosa dagli sprechi. Per fare un esempio, due economisti della Bocconi di Milano, Alesina e Ardagna, a mio avviso hanno fornito una errata base teorica alla Banca centrale europea, ai governi e alle istituzioni europee, proponendo l’austerità per fronteggiare la depressione. E la gente è stata convinta dell’ineluttabilità delle scelte. La prova? In Grecia non hanno fatto la rivoluzione.

  • Colonizzati dal dollaro, dopo che l’euro ci avrà rovinati?

    Scritto il 22/6/13 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    L’anno diplomatico 2013 ha visto come primo significativo evento il comunicato congiunto di Washington e Bruxelles del 13 febbraio sul comune proposito di avviare dei negoziati per dar vita al Ttip, cioè ad una partnership per il commercio transatlantico e per gli investimenti. Si tratterebbe di una vera e propria unione finanziaria e commerciale delle due sponde dell’Atlantico. Il comunicato congiunto però non ha avuto alcuna risonanza sui media ufficiali, anzi sembrerebbe che ci sia stata una vera e propria congiura del silenzio. Ha fatto parzialissima eccezione la testata online “Wall Street Italia”; ma il fatto davvero strano è che una testata specializzata in notizie economico-finanziarie per procurarsi del materiale a riguardo abbia dovuto far ricorso al rilancio di un articolo di Michel Collon, che era stato tradotto e pubblicato su un sito di opposizione, “Come Don Chisciotte”.

  • Sapelli: lavoro, non profitto. E bastano tre ore al giorno

    Scritto il 29/11/12 • nella Categoria: idee • (40)

    Tre ore di lavoro al giorno? «Sono più che sufficienti», purché si tratti di «lavoro liberato» dalla schiavitù del profitto. Giulio Sapelli concorda con Keynes: ridurre l’orario di lavoro è possibile, eccome. «E sarebbe una grande liberazione». Parola d’ordine: cooperazione, al posto dell’attuale – fallimentare – competitività. Sembra l’annuncio di morte del capitalismo moderno, dopo oltre due secoli di industria. Lo pronuncia, senza imbarazzi, uno dei maggiori storici italiani dell’economia: professore alla London School of Economics e poi a Barcellona, Sapelli è un big di prima grandezza nel panorama economico e finanziario italiano: già consulente dell’Olivetti e consigliere di amministrazione dell’Eni, è stato presidente della fondazione del Monte dei Paschi di Siena e membro del Cda di Unicredit. Rappresentante per l’Italia di Transparency International, organizzazione che lotta contro la corruzione economica, dal 2002 è tra i componenti del World Oil Council e dal 2003 fa parte dell’International Board dell’Ocse per il settore no-profit.

  • Amoroso: la volpe a guardia del pollaio ci trascina in guerra

    Scritto il 06/6/12 • nella Categoria: idee • (8)

    Attenti, stiamo entrando in guerra: e sarà una nuova, terribile guerra fredda. Provate a pensarci: perché gli architetti dell’Eurozona vogliono indebolirci, massacrando l’Europa del Sud? Perché confina col Mediterraneo, l’Africa e il Medio Oriente, cioè il forziere energetico del mondo. Oltre la frontiera nevralgica dell’Iran, avanza l’impero della Cina, che “ragiona” come gli altri paesi emergenti: non tollera più il monopolio privilegiato degli Stati Uniti. L’Europa meridionale? Pericolosa e “inaffidabile”, come l’Italia: meglio tenerci sotto controllo, con l’acqua alla gola, commissariati e stretti nella morsa della crisi e del debito artificiale, creato apposta dalla mafia della finanza criminale. Aprite gli occhi: è proprio per questo che hanno messo “la volpe a guardia del pollaio”. Draghi alla Bce, al servizio dello strapotere della Germania: funziona, per impedire all’Europa di smarcarsi e sviluppare una sua politica economica democratica, aperta al futuro.

  • Fini: serve finanza etica, capitalismo democratico

    Scritto il 20/9/09 • nella Categoria: idee • (1)

    Finanza etica, economia sociale di mercato. E’ la ricetta del presidente della Camera, Gianfranco Fini, formulata attraverso il webmagazine della fondazione “Farefuturo”. Una lunga riflessione, nella quale il fondatore di An mette a fuoco il rapporto tra capitalismo e società, alla luce della crisi globale. L’anello mancante? L’etica. Da ripristinare ad ogni costo, facendo tesoro della grande esperienza del welfare europeo, modello di mediazione tra profitto e garanzie sociali.  Per Fini, si tratta di utilizzare la crisi per riscrivere le regole, abbandonare l’idologia della crescita illimitata e costruire un capitalismo più equo e democratico.

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