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Archivio del Tag ‘Nord Italia’

  • Abruzzo, Caporetto 5 Stelle: più vicina la fine del governo

    Scritto il 11/2/19 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    «Nel decennale del tragico terremoto dell’Aquila parte dall’Abruzzo un terremoto di altro genere, meno cruento, ma destinato a far sentire le proprie onde sussultorie sino a Roma». Lo scrive Anselmo Del Duca sul “Sussidiario”, di fronte al risultato delle regionali in Abruzzo: vittoria del centrodestra e tracollo dei 5 Stelle, che vedono dimezzare il 40% ottenuto alle politiche meno di un anno fa. Quello che ha più colpito chi ha potuto osservare l’andamento del consenso attraverso i sondaggi – osserva Del Duca – è stato il progressivo indebolimento dei grillini, rimontati persino dal Pd. «La batosta grillina appare ancora più evidente di fronte a un’ottima tenuta del centrodestra unito, che stravince con un candidato targato Fratelli d’Italia», Marco Marsilio, ma soprattutto «grazie a una Lega straripante». Per la maggioranza gialloverde «non ci poteva essere un campanello d’allarme più rumoroso». Nell’immediato è probabile che non succeda nulla, aggiunge Del Duca, anche perché Salvini si è affrettato a spiegare che a Roma non cambia nulla. «Ma fra due settimane, se il trend abruzzese dovesse essere confermato nelle elezioni regionali della Sardegna, allora davvero si potrebbero aprire scenari imprevedibili».
    Secondo il “Sussidiario”, la sconfitta in Abruzzo potrebbe avviare la resa dei conti dentro il Movimento 5 Stelle, con Di Maio sul banco degli imputati. «E una seconda solenne sconfitta in terra sarda potrebbe costituire per la sua leadership il colpo di grazia». Del resto, annota Del Duca, l’elenco dei fronti caldi per i grillini si allunga giorno dopo giorno: la Tav, la Francia e da ultimi la polemica di Di Battista contro Napolitano e quella contro la Banca d’Italia. «Per di più, solo in quest’ultimo caso si è registrata una perfetta identità di vedute con l’alleato leghista. Per il resto la distanza è siderale». Si pensi alla crisi venezuelana, all’autonomia delle Regioni del Nord, alla legittima difesa o all’autorizzazione a procedere contro Salvini per il caso Diciotti. «Unica speranza di invertire il trend, il reddito di cittadinanza». Il Movimento 5 Stelle «vive con apprensione l’isolamento crescente che verifica intorno a sé, compreso il crescente pressing del Quirinale, che ormai non perdona passi falsi. «Alla Lega, al contrario, si rivolgono in tanti, ad esempio sindacati e imprenditori, come l’unica forza ragionevole, in grado di stoppare le leggerezze di un governo giudicato del tutto inadeguato».
    Finora, prosegue Del Duca, il rapporto personale fra Salvini e Di Maio ha puntellato il traballante governo Conte. Presto però potrebbe non bastare, «se l’ala dura dei grillini dovesse pretendere di più». Allo stesso modo, Salvini «potrebbe non riuscire più a resistere alle sirene di chi gli chiede di staccare la spina». Per prendere una decisione sul futuro il tempo stringe: a fine maggio ci sono le europee, ma soprattutto – in prospettiva – si preannuncia «una legge di bilancio drammatica, con la necessità di trovare una cifra enorme, 23 miliardi, solo per evitare l’aumento automatico dell’Iva». Sarà quindi una manovra “lacrime e sangue”, «di quelle che si possono fare solo in una fase immediatamente successiva a un turno elettorale, non subito prima». Secondo Del Duca, infatti, “zoppica” l’ipotesi che questo governo possa arrivare a fine anno, e poi portare il paese alle elezioni a inizio 2020. Mattarella si convincerà che il voto è il male minore per il paese? «Dall’Abruzzo però potrebbe davvero essere partita una valanga in grado di travolgere l’esecutivo gialloverde».

    «Nel decennale del tragico terremoto dell’Aquila parte dall’Abruzzo un terremoto di altro genere, meno cruento, ma destinato a far sentire le proprie onde sussultorie sino a Roma». Lo scrive Anselmo Del Duca sul “Sussidiario”, di fronte al risultato delle regionali in Abruzzo: vittoria del centrodestra e tracollo dei 5 Stelle, che vedono dimezzare il 40% ottenuto alle politiche meno di un anno fa. Quello che ha più colpito chi ha potuto osservare l’andamento del consenso attraverso i sondaggi – osserva Del Duca – è stato il progressivo indebolimento dei grillini, rimontati persino dal Pd. «La batosta grillina appare ancora più evidente di fronte a un’ottima tenuta del centrodestra unito, che stravince con un candidato targato Fratelli d’Italia», Marco Marsilio, ma soprattutto «grazie a una Lega straripante». Per la maggioranza gialloverde «non ci poteva essere un campanello d’allarme più rumoroso». Nell’immediato è probabile che non succeda nulla, aggiunge Del Duca, anche perché Salvini si è affrettato a spiegare che a Roma non cambia nulla. «Ma fra due settimane, se il trend abruzzese dovesse essere confermato nelle elezioni regionali della Sardegna, allora davvero si potrebbero aprire scenari imprevedibili».

  • Sechi: il governo è finito, ma durerà. Mancano alternative

    Scritto il 06/2/19 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    «Non stiamo facendo una bella figura», ha detto Salvini al Movimento 5 Stelle che sta bloccando il riconoscimento di Guaidó come presidente del Venezuela. Il ministro dell’interno non ha perso l’occasione per replicare all’alleato di governo dopo che Di Maio ha sonoramente bocciato le aperture sulla Tav del collega vicepremier. «Che si tratti di Venezuela, di Torino-Lione o di caso Diciotti – scrive Federico Ferraù sul “Sussidiario” – tra M5S e Lega sembra si sia toccato un punto di non ritorno». Ma secondo Mario Sechi, direttore di “List”, è la mancanza di alternative a consolidare, almeno per ora, la coabitazione a Palazzo Chigi. Con tre variabili: la crisi, l’autonomia differenziata e i voti al Sud. Davvero non c’è tregua: «C’è tanto rumore: per nulla, aggiungerei», dice Sechi, intervistato da Ferraù. «In un sistema normale i governi vanno in crisi, ma qui di normale c’è ben poco». Ovvero: «Siamo in una situazione eccezionale, con un governo di necessità». Realismo: «Questo esecutivo è l’unico “format” disponibile, non ci sono alternative».
    Dunque Di Maio e Salvini non possono aprire una crisi? «Per andare dove e con chi? Il governo – sostiene Sechi – dal punto di vista della coesione delle forze che lo compongono, è finito. Questo non significa che sia morto». Coabitazione forzata: «Una coabitazione necessaria», secondo Sechi. «In questo quadro, M5S e Lega possono litigare su cose molto serie, ma sapendo che alla fine conviene ad entrambi trovare un accordo». Eppure, sottolinea Ferraù, sul progetto Tav Torino-Lione la tensione è alta. «Se la Lega non porta a casa la Tav è un problema. Per il M5S invece è un problema se la Tav si fa. Però sarebbe un problema ancora maggiore, per entrambi, aprire una crisi di governo». Stallo completo, dunque. Eppure, si domanda Ferraù, perché i sondaggi continuano a premiare l’esecutivo? «La gente non è soddisfatta della politica economica di M5S e Lega, ma li voterebbe ancora – secondo Sechi – perché hanno mantenuto intatta la capacità di alimentare la speranza di cambiamento. Le due cose non sono in contraddizione».
    Che rischio corrono i pentastellati? «Che il reddito di cittadinanza non funzioni e che alla fine siano assunti soltanto i “navigator”». E la Lega? Il pericolo, per Sechi, è che salti l’autonomia: «La “constituency” del M5S sono gli italiani in cerca di reddito e protezione, quella della Lega sono le imprese del Nord. Autonomia, nei fatti, significa secessione dolce». Lombardia e Veneto, dopo un referendum dirompente che tutti hanno sottovalutato, secondo Sechi vogliono l’autonomia differenziata per avere il controllo delle risorse. «Questo fa ancora parte dell’immaginario del Nord ed è anche il patto fondativo della prima Lega di Bossi con il suo elettorato di riferimento. Salvini lo sa e deve fare presto». Ma quella Lega non s’era pensato che non esistesse più? «Al Nord esiste, eccome. Alle imprese di Lombardia e Veneto non importa nulla o molto poco del partito nazionale che ha in mente Salvini». La nuova Lega sembra importare a Salvini, «ma per altre ragioni, che non interessano i ceti produttivi». E cioè: «Salvini prende i voti del Sud sulla sicurezza e sull’idea di una leadership forte. Per il Nord l’autonomia differenziata è un’assicurazione sulla vita in tempo di recessione, una salvaguardia contro lo spreco di soldi al Sud».
    L’eventuale statuto autonomo del Nord-Est spaccherebbe l’Italia? «Ma l’Italia è già spaccata», risponde Sechi: «Basta scendere sotto Firenze per vedere un altro paese. Anzi, la vera riuscita del governo gialloverde sarebbe proprio quella di tenere insieme il Sud in cerca di occupazione e il Nord produttivo. La novità, semmai, è un’altra ed è lo scontro generato dalla gestione condominiale». Dovuto a che cosa? «A un imprevisto che ha cambiato i piani iniziali: i voti di Salvini sono destinati a crescere anche al Sud». E sono cifre importanti, sottolinea Sechi. «Ma siccome il voto ravvicinato Salvini non lo avrà, e forse segretamente nemmeno lo vuole perché è troppo rischioso, si tratterà di vedere se e come il suo consenso al Sud si consolida nel tempo». E poi, ricorda Ferraù, per andare al voto occorre un capo dello Stato disposto a sciogliere le Camere. Infatti: «Senza il sì del Quirinale è da pazzi lanciarsi in una crisi al buio». Quindi, conclude Sechi, in queste condizioni «a Salvini resta solo una cosa da fare, perdere tempo per prendere tempo. Il tempo che gli serve per dare l’autonomia al Nord».
    E con le europee, si domanda Ferraù, cosa potrà cambiare? Il voto di maggio, dice Sechi, «può essere lo spartiacque se le cose vanno molto male ai 5 Stelle, anche se – aggiunge – non credo che accadrà». I grillini potrebbero avere una flessione, «ma non eccessiva, perché tutto il Sud sta aspettando il reddito». Altra mina, l’autorizzazione a procedere contro Salvini per lo sbarco ritardato dei migranti della Diciotti. «Mi auguro che venga respinta», dichiara Sechi, perché «per i pentastellati, votarla sarebbe un suicidio politico». Però, aggiunge, «è vero che sono capaci di tutto». E la Tav valsusina? Alla fine si farà o resterà nel congelatore? Dipende, ragiona Sechi: «I grillini avevano detto che avrebbero chiuso l’Ilva e l’Ilva è aperta; il Tap non si doveva fare e si fa». Insomma, «non mi sorprenderei se anche sulla Tav si trovasse un compromesso». Da parte sua, «Salvini ci starebbe». E con la Francia si può sempre trattare. «Il tema vero – insiste Sechi – è cosa succede nella base a 5 Stelle con il sì alla Tav e nel voto pro-Lega al Nord con il no all’opera. Il rischio del cortocircuito è molto grande, ma torniamo all’inizio: nessuno apre una crisi se non è certo di poterla condurre».

    «Non stiamo facendo una bella figura», ha detto Salvini al Movimento 5 Stelle che sta bloccando il riconoscimento di Guaidó come presidente del Venezuela. Il ministro dell’interno non ha perso l’occasione per replicare all’alleato di governo dopo che Di Maio ha sonoramente bocciato le aperture sulla Tav del collega vicepremier. «Che si tratti di Venezuela, di Torino-Lione o di caso Diciotti – scrive Federico Ferraù sul “Sussidiario” – tra M5S e Lega sembra si sia toccato un punto di non ritorno». Ma secondo Mario Sechi, direttore di “List”, è la mancanza di alternative a consolidare, almeno per ora, la coabitazione a Palazzo Chigi. Con tre variabili: la crisi, l’autonomia differenziata e i voti al Sud. Davvero non c’è tregua: «C’è tanto rumore: per nulla, aggiungerei», dice Sechi, intervistato da Ferraù. «In un sistema normale i governi vanno in crisi, ma qui di normale c’è ben poco». Ovvero: «Siamo in una situazione eccezionale, con un governo di necessità». Realismo: «Questo esecutivo è l’unico “format” disponibile, non ci sono alternative».

  • Carpeoro: siamo nei guai, grazie ai soliti italiani traditori

    Scritto il 24/12/18 • nella Categoria: idee • (23)

    “Siamo nella merda”. Così Paolo Villaggio firmò, per Mondadori, le sue ultimissime “pillole di saggezza di una vecchia carogna”. Ricorre allo stesso concetto Massimo Mazzucco, nel vedere il governo gialloverde ridotto a mendicare un accordo (ben poco dignitoso) con l’Unione Europea, per evitare la procedura d’infrazione per eccesso di deficit, dopo essersi rimangiato il 2,4% strombazzato settimane fa. E non è ancora detto che fili liscia, aggiunge Gianfranco Carpeoro: non è ancora finita, la partita con Bruxelles, e non è affatto scontato che l’Italia non venga costretta all’esercizio provvisorio di bilancio. In web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Mazzucco sintetizza: «Teoricamente, Lega e 5 Stelle erano i nostri “centravanti”, gli unici possibili: se hanno fallito loro, nel difendere l’Italia di fronte all’Ue, non c’è nessun altro che possa farlo». Sempre in video-chat con Frabetti, Carpeoro rincara la dose: forse, non abbiamo ancora visto niente. Domani potremmo persino assistere alla nuova vita di Giuseppe Conte, l’attuale mediatore con Bruxelles: domani, il premier potrebbe essere chiamato a guidare un governo ridisegnato e ancora più allineato ai diktat del potere europeo, coi gialloverdi più defilati e magari altri appoggi, non esattamente nobili, come quelli dei “responsabili” che Berlusconi e il Pd starebbero cercando di mettere in piedi, incoraggiando leghisti e pentastellati dissidenti.
    Un pericolo del quale, secondo Carpeoro, Di Maio e Salvini sono perfettamente al corrente: alla montatura giudiziaria dei 49 milioni di cui si chiede conto alla Lega salviniana si è infatti aggiunto lo scandaletto del padre di Di Maio, accusato di utilizzare lavoratori in nero. «E’ ovvio che si tratta di avvertimenti preliminari, dietro ai quali poi potrebbero uscir fuori storie anche più “simpatiche”», sostiene Carpeoro. L’unica notizia è che i leader gialloverdi si sono, tecnicamente, arresi. E l’hanno fatto prima ancora di cominciare a combattere. Carpeoro l’aveva annunciato: contro i sovragestori di Bruxelles, l’Italia può spuntarla solo se resta unita. E invece: «Nei 5 Stelle sta crescendo la fronda interna contro Di Maio. E nella Lega, anche se ancora non se ne parla, sta montando l’opposizione intestina contro Salvini, al quale la vecchia guardia – capitanata da Bossi – rimprovera di non aver ottenuto abbastanza soldi per il Nord». Ma questo è niente, secondo Carpeoro: «Il fatto è che l’opposizione – destra e sinistra – pur di contrastare il governo in carica si è prontamente coalizzata, come al solito, con i nemici della patria. A qual punto, Di Maio e Salvini si saranno chiesti perché mai andare allo scontro con Bruxelles, se poi l’Italia è questa qui».
    Niente di nuovo sotto il sole: «Era già così nel Rinascimento: una signoria si metteva d’accordo con potenze straniere per combattere contro la signoria rivale». Ed è andata avanti così per tutta la Prima Repubblica: «Persino nella Dc e nel Psi c’erano esponenti pronti ad allearsi con stranieri pur di far fuori i leader in carica». Grande occasione perduta, quella gialloverde? Secondo Carpeoro, sì: «L’Italia non è la Grecia. Tutti, a Bruxelles, sapevano perfettamente che non avrebbero mai potuto fare carne di porco, dell’Italia, così come invece è stato fatto della Grecia». Solo che, appunto, servivano coraggio e coesione: la capacità di tener duro, innanzitutto a tutela degli italiani. Una vertenza condotta fino in fondo a testa alta avrebbe fatto da apripista, in Europa, per contribuire ad abbattere il Muro di Bruxelles, il dogma del rigore impugnato dall’élite neoliberista. Invece, paradossalmente, sembra aver ottenuto più risultati, in Francia, la rivolta di strada dei Gilet Gialli. L’Italia è stata rapidamente rimessa in riga. E secondo Carpeoro, la “purga” non è ancora finita. Dipenderà da quali accordi verranno presi, più o meno sottobanco. E magari da quali altre garanzie lo stesso Conte arriverà a fornire, ai sovragestori dell’Ue, che sono riusciti a domare il governo italiano dopo aver azzoppato Di Maio e minacciato lo stesso Salvini.

    “Siamo nella merda”. Così Paolo Villaggio firmò, per Mondadori, le sue ultimissime “pillole di saggezza di una vecchia carogna”. Ricorre allo stesso concetto Massimo Mazzucco, nel vedere il governo gialloverde ridotto a mendicare un accordo (ben poco dignitoso) con l’Unione Europea, per evitare la procedura d’infrazione per eccesso di deficit, dopo essersi rimangiato il 2,4% strombazzato settimane fa. E non è ancora detto che fili liscia, aggiunge Gianfranco Carpeoro: non è ancora finita, la partita con Bruxelles, e non è affatto scontato che l’Italia non venga costretta all’esercizio provvisorio di bilancio. In web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Mazzucco sintetizza: «Teoricamente, Lega e 5 Stelle erano i nostri “centravanti”, gli unici possibili: se hanno fallito loro, nel difendere l’Italia di fronte all’Ue, non c’è nessun altro che possa farlo». Sempre in video-chat con Frabetti, Carpeoro rincara la dose: forse, non abbiamo ancora visto niente. Domani potremmo persino assistere alla nuova vita di Giuseppe Conte, l’attuale mediatore con Bruxelles: domani, il premier potrebbe essere chiamato a guidare un governo ridisegnato e ancora più allineato ai diktat del potere europeo, coi gialloverdi più defilati e magari altri appoggi, non esattamente nobili, come quelli dei “responsabili” che Berlusconi e il Pd starebbero cercando di mettere in piedi, incoraggiando leghisti e pentastellati dissidenti.

  • Cadaveri in aula, processi post-mortem: uccise anche suore

    Scritto il 16/12/18 • nella Categoria: Recensioni • (5)

    Singolare è stato scoprire come il mondo ecclesiale non sia stato indenne dalle accuse di eresia e stregoneria, anche le monache hanno dovuto scontare le loro colpe al pari delle streghe. Nei conventi, in particolar modo in quelli di clausura dove la disciplina gerarchica imponeva l’obbedienza assoluta, per le suore era ammesso un unico comportamento: trascorrere l’intera esistenza sottomesse alle regole monastiche cancellando la propria identità e sottostando al controllo psicologico totale. Frequenti furono anche i casi di misticismo religioso portato all’estremo, come nel caso di Suor Maria Margherita Alacoque (1647- 1690) che arrivò a leccare il vomito di una malata dal pavimento in segno di devozione a Gesù Cristo. Così scrisse nella sua biografia: «Una volta, volendo pulire il vomito d’una malata, non riuscii a impedirmi di farlo con la lingua e di mangiarlo, dicendogli: Se avessi mille corpi, mille amori, mille vite, io li immolerei per esservi schiava». Proprio in virtù di certe esternazioni di fede, molte suore vennero proclamate sante. A fronte di tutto ciò, molte religiose crollarono sotto il muro di una disciplina assoluta che snaturava ogni forma di individualità.
    Esaurimenti nervosi e crisi isteriche, umana conseguenza di tanta sottomissione, furono il pretesto per tacciarle di collusione con il demonio. L’Inquisizione non si fece alcuno scrupolo nel condannarle al rogo senza pietà. Come scrive Gian Paolo Prandstraller per la rivista “Etruria Oggi” in un articolo intitolato “L’edonismo organico e il crollo dello spirito ascetico”, «il convento è una tipica istituzione totale, oltre il convento sono esempi di questa organizzazione le prigioni, i campi di concentramento, i manicomi, varie forme di organizzazione militare nelle quali le attività delle persone che vi sono ospitate sono strettamente controllate in ogni ora della giornata». Per capire la ferocia delle istituzioni religiose contro le suore, guardiamo cosa successe a Suor Francesca Fabbroni, la cui vita era legata a un sottile filo che la divideva tra la santità e l’accusa di essere un’invasata. Il suo cadavere fu riesumato per un processo post mortem e quindi bruciato, una prassi piuttosto comune nel medioevo.
    La stessa sorte era toccata ai resti di Papa Formoso (816 – 896), accusato di ambizione smodata, il cui cadavere venne dissotterrato dopo circa otto mesi dalla sua morte. Fu poi rivestito con i paramenti pontifici, collocato su un trono per essere processato e per rispondere a tutte le accuse che erano state avanzate da Giovanni VIII. Un diacono fu incaricato di porre le domande al cadavere che, per ovvi motivi silente, ammetteva tutte le sue colpe. Non dimentichiamo mai che la Chiesa, santa e infallibile fautrice di verità e della parola del Signore, è stata anche questo. Si arrivò infine al verdetto: il deceduto era stato indegno del pontificato. Così, per seguire un copione di divina sentenza, le vesti papali gli vennero strappate di dosso, le tre dita della mano destra, utilizzate per le benedizioni, gli vennero tagliate. Il cadavere fu infine gettato nel Tevere dopo aver attraversato in bella mostra la città di Roma: ciò accrebbe l’autorità del neo-eletto Papa Stefano VI. Lo stesso trattamento riservato a Papa Formoso toccò in sorte ai resti di Suor Francesca Fabbroni la quale, dopo aver trascorso la sua vita in odore di santità, vide le sue doti mistiche trasformarsi in un’accusa di stregoneria.
    Le ragioni sono ignote, probabilmente generate da un moto di invidia; questo non ci è dato saperlo. Il cambiamento di vedute, all’epoca, era molto frequente. La suora fu ossequiata in vita e resa consigliera da alcuni regnanti del tempo, vista come guaritrice e santona dal popolo poiché asseriva di parlare direttamente con Dio, i Santi e gli Angeli. Allontanata dal monastero di S.Benedetto di Pisa di cui era badessa, venne spogliata della veste e mandata in esilio nel convento di Santa Caterina a San Gimignano, dove morì nel 1681 senza rinnegare le manifestazioni mistiche di cui era protagonista. Fu perciò seppellita in terra sconsacrata. Ricorre anche qui lo storico pensiero misogino della Chiesa: l’“esibizione” di santità era un concetto in linea generale non ammesso, la presunzione che Dio potesse avere un filo diretto con un’umile suora, anziché con gli alti prelati, assolutamente intollerabile. Il corpo putrefatto della religiosa fu riportato in chiesa una domenica mattina, tre frati lessero a turno i capi di imputazione. Terminata questa ignobile farsa, i suoi resti furono bruciati sulla pubblica piazza come da copione.
    Vi segnalo adesso una storia che mi ha sconvolto, non troppo nota poiché opportunamente relegata nei polverosi libri delle antiche biblioteche. Mi riferisco al caso di Agueda Azzolini, appartenente a una facoltosa famiglia siracusana, la quale prese i voti giovanissima, come Suor Gertrude di Gesù e Maria. La sua imputazione scaturì da presunti comportamenti immorali e si generò in merito alla sua adesione a un gruppo religioso che si riuniva nel cosiddetto “Fondaco dell’Abate”, nel convento di San Nicolò da Tolentino a Palermo. I religiosi si radunavano in un cenacolo costituito principalmente da frati mistici agostiniani, fra i membri della congregazione erano presenti anche delle suore. Fu rinchiusa nelle carceri del Sant’Ufficio perché avrebbe preso troppo spesso la comunione e abbracciato con calore i suoi confratelli. Comportamento sessualmente illecito, questa fu l’accusa. Non venne giudicato colpevole di alcuna nefandezza l’amministratore del carcere, fra’ Pedro Cicio, il quale tentò più volte di violentarla. Agueda riuscì a salvarsi grazie all’ intervento di una compagna di cella, ma non riuscì a evitare una morte per stenti. La famiglia della suora pagò due tarì al giorno per il suo mantenimento in cella, diaria che scomparve misteriosamente. Fu magari Pedro Cicio, padrone dei registri carcerari, a far sparire quel denaro? Il dramma finale di questa suora innocente, giovane e carina, avverrà perciò in carcere e non su una pira.
    La fine di Agueda Azzolini, seppur con modalità diverse, ricorda quella di Caterina Medici e del capitano Vacallo: la “suorina”, che si era ribellata allo stupro, morirà di fame. Caterina, che non volle cedere alle insidie del suo padrone, bruciata viva. Uno dei casi più eclatanti, anche perché rappresentò l’ultimo rogo in Baviera e nella stessa Germania, fu quello di suor Maria Renata, accusata di aver evocato il demonio allo scopo di fargli possedere le consorelle nel proprio convento. Davanti al rogo, il gesuita Padre Gaar pronunciò un monito caustico contro la condannata a morte e le sue consorelle. Non ancora pago, pubblicò il libro “Ragionamento” che fu tradotto e diffuso anche in Italia. Accusare un uomo di praticare la stregoneria, in particolar modo un sacerdote, era una pratica piuttosto rara. Nonostante ciò, nei pressi di Pruem – nel Palatinato – il parroco cattolico Michael Campensis fu incriminato e giustiziato per impiccagione. Tutti i battesimi da lui amministrati furono considerati nulli, il rito replicato da altri officianti. In Germania, in Svizzera e nel nord Italia la repressione contro le streghe e gli stregoni fu molto più efferata rispetto ad altre regioni. La casistica è nota perché gran parte della documentazione non è andata perduta.
    (“Anche le monache erano accusate di eresia e stregoria”, estratto dal volume “Inquisizione” di Fabio Fornaciari, ripreso dal blog di Mauro Biglino. Il libro: Fabio Fornaciari “Inquisizione. Un crimine contro l’umanità”, UnoEditori, 220 pagine, euro 13,90).

    Singolare è stato scoprire come il mondo ecclesiale non sia stato indenne dalle accuse di eresia e stregoneria, anche le monache hanno dovuto scontare le loro colpe al pari delle streghe. Nei conventi, in particolar modo in quelli di clausura dove la disciplina gerarchica imponeva l’obbedienza assoluta, per le suore era ammesso un unico comportamento: trascorrere l’intera esistenza sottomesse alle regole monastiche cancellando la propria identità e sottostando al controllo psicologico totale. Frequenti furono anche i casi di misticismo religioso portato all’estremo, come nel caso di Suor Maria Margherita Alacoque (1647- 1690) che arrivò a leccare il vomito di una malata dal pavimento in segno di devozione a Gesù Cristo. Così scrisse nella sua biografia: «Una volta, volendo pulire il vomito d’una malata, non riuscii a impedirmi di farlo con la lingua e di mangiarlo, dicendogli: Se avessi mille corpi, mille amori, mille vite, io li immolerei per esservi schiava». Proprio in virtù di certe esternazioni di fede, molte suore vennero proclamate sante. A fronte di tutto ciò, molte religiose crollarono sotto il muro di una disciplina assoluta che snaturava ogni forma di individualità.

  • Gilet Gialli di tutto l’Occidente, impoveriti dal neoliberismo

    Scritto il 08/12/18 • nella Categoria: idee • (15)

    Dagli anni ’80 in poi è risultato chiaro che c’era un prezzo che le società occidentali avrebbero dovuto pagare per adattarsi a un nuovo modello economico e che tale prezzo consisteva nel sacrificio della classe lavoratrice. Nessuno ha pensato che la ricaduta avrebbe colpito anche il grosso della classe medio-bassa. Ora è ovvio, comunque, che il nuovo modello non ha indebolito solo le fasce proletarie ma la società nel suo insieme. Il paradosso è che questo non è il risultato del fallimento del modello economico globalizzato ma del suo successo. Nelle ultime decadi l’economia francese, come quella dell’Europa e degli Stati Uniti, ha continuato a creare ricchezza. Così siamo mediamente più ricchi. Il problema è che contemporaneamente sono aumentate anche la disoccupazione, l’insicurezza e la povertà. La questione centrale, dunque, non è se un’economia globalizzata sia efficiente ma cosa fare quando questo modello non riesce a creare e sviluppare una società coerente. In Francia, come in tutti i paesi occidentali, si è passati nel giro di poche decadi da un sistema che economicamente, politicamente e culturalmente integrava la maggioranza a una società disomogenea che, pur creando sempre più ricchezza, avvantaggia solo quelli che sono già ricchi.
    Il cambiamento non è dovuto a una cospirazione, a una scelta deliberata di far fuori i poveri, ma a un modello in cui l’occupazione è sempre più polarizzata. Questo si verifica insieme a una nuova geografia: l’occupazione e la ricchezza sono sempre più concentrate nelle grandi città. Le regioni deindustrializzate, le aree rurali, le città di medie e piccole dimensioni sono sempre meno dinamiche. Ma è in questi luoghi – nella Francia periferica (come pure in un’America periferica e in un’Inghilterra periferica) – che vive la maggior parte della classe lavoratrice. Così, per la prima volta, i “lavoratori” non vivono più nelle aree dove si crea l’occupazione, generando uno shock sia sociale che culturale. I “lavoratori” non vivono più nelle aree dove si crea l’occupazione, generando uno shock sia sociale che culturale. E’ in questa Francia periferica che è nato il movimento dei Gilets Jaunes. Come è in queste regioni periferiche che è nato il movimento populista occidentale. L’America periferica ha portato Trump alla Casa Bianca. L’Italia periferica – il Mezzogiorno, le aree rurali e le piccole città industriali del nord – hanno generato l’ondata populista. Questa protesta è condotta dalle classi che nei tempi passati erano il punto di riferimento fondamentale del mondo politico e intellettuale che le ha dimenticate.
    Così se l’aumento del costo del carburante è stata l’occasione per la nascita del movimento dei giubbotti gialli, non ne è stata la causa determinante. La rabbia ha radici più profonde, è il risultato di una recessione economica e culturale che ha avuto inizio negli anni ’80. Nello stesso tempo logiche economiche e territoriali hanno fatto sì che il mondo delle élites si chiudesse in se stesso. Questo isolamento non è solo geografico ma anche intellettuale. Le metropoli globalizzate sono le nuove cittadelle del 21° secolo – ricche e disuguali, dove anche per la vecchia classe media non c’è più posto. Invece, le grandi città globali funzionano su una doppia dinamica: invecchiamento e immigrazione. E’ questo il paradosso: la società aperta si risolve in un mondo sempre più chiuso alla maggioranza dei lavoratori. Il divario economico tra la Francia periferica e le metropoli corrisponde alla separazione fra una élite e il suo entroterra popolare. Le élites occidentali hanno gradualmente dimenticato un popolo che non vedono più. L’impatto dei Gilets Jaunes, e il supporto che trovano nell’opinione pubblica (otto su dieci francesi approvano le loro iniziative), hanno sorpreso i politici, i sindacati e gli intellettuali, come se avessero scoperto una nuova tribù amazzonica.
    La funzione del giubbotto giallo, si rammenti, è quella di rendere visibile sulla strada chi lo indossa. E qualunque sia l’esito del conflitto, i Gilets Jaunes lo hanno vinto sul piano di quello che veramente conta: la guerra della rappresentanza culturale. Gli individui appartenenti alla classe lavoratrice e alla classe medio-bassa sono di nuovo visibili e, accanto a loro, i luoghi in cui vivono. Il loro bisogno è in primo luogo quello di essere rispettati, di non essere più considerati “deplorable”. Michel Sandel è nel giusto quando sottolinea l’incapacità delle élites di prendere in seria considerazione le aspirazioni dei più poveri. Queste aspirazioni in fondo sono semplici: salvaguardia del loro capitale culturale e sociale e salvaguardia del loro lavoro. Perché questo abbia successo bisogna porre fine alla “secessione” delle élites e adattare l’offerta politica della destra e della sinistra alle loro richieste. Questa rivoluzione culturale è un imperativo democratico e sociale – nessun sistema può sopravvivere se non integra la maggioranza dei suoi cittadini più poveri.
    (Christophe Guilluy, “La Francia è profondamente spaccata. I Gilet Gialli sono solo un sintomo”, dal “Guardian” del 2 dicembre 2018; articolo tradotto da Maria Grazia Cappugi per “Come Don Chisciotte”. Guilluy è l’autore di “Twilight of the Elites: Prosperity, Periphery and the Future of France”).

    Dagli anni ’80 in poi è risultato chiaro che c’era un prezzo che le società occidentali avrebbero dovuto pagare per adattarsi a un nuovo modello economico e che tale prezzo consisteva nel sacrificio della classe lavoratrice. Nessuno ha pensato che la ricaduta avrebbe colpito anche il grosso della classe medio-bassa. Ora è ovvio, comunque, che il nuovo modello non ha indebolito solo le fasce proletarie ma la società nel suo insieme. Il paradosso è che questo non è il risultato del fallimento del modello economico globalizzato ma del suo successo. Nelle ultime decadi l’economia francese, come quella dell’Europa e degli Stati Uniti, ha continuato a creare ricchezza. Così siamo mediamente più ricchi. Il problema è che contemporaneamente sono aumentate anche la disoccupazione, l’insicurezza e la povertà. La questione centrale, dunque, non è se un’economia globalizzata sia efficiente ma cosa fare quando questo modello non riesce a creare e sviluppare una società coerente. In Francia, come in tutti i paesi occidentali, si è passati nel giro di poche decadi da un sistema che economicamente, politicamente e culturalmente integrava la maggioranza a una società disomogenea che, pur creando sempre più ricchezza, avvantaggia solo quelli che sono già ricchi.

  • Onu: italiani in via di estinzione, nel 2050 saremo 40 milioni

    Scritto il 02/3/18 • nella Categoria: segnalazioni • (24)

    Arrivano ogni anno e sono come un bollettino di guerra. Sono i rapporti dell’Istat sulla popolazione: mai così basso il numero delle nascite. Nel 2016 l’Italia è “dimagrita” di 134.000 persone: come avessimo perso una città delle dimensioni di Salerno. La fecondità è scesa a 1,34 figli per donna: nessun paese al mondo fa meno figli dell’Italia. Secondo lo storico francese Pierre Chaunu, nei paesi europei la disaffezione a procreare ha conseguenze simili alla peste nera che sterminò un terzo della popolazione del continente. A differenza dell’epidemia del medioevo che riempiva i cimiteri, scrive Giulio Meotti sul “Foglio”, l’epidemia di sterilità volontaria svuota i reparti di maternità. Persino per l’Onu, gli italiani sono un gruppo etnico in via di estinzione: nel nostro paese, il rapporto fra nascite e decessi è negativo dal 1990 (per inciso, l’epoca in cui il paese – con il collasso della Prima Repubblica – ha imboccato la via delle privatizzazioni, dell’euro e dell’Unione Europea). I dati per l’Italia – meno di 60 millioni di persone, inclusi però gli immigrati – per le Nazioni Unite sono ancora più terribili se consideriamo il rapporto fra nascite e decessi: indicatore che ha appena raggiunto il valore peggiore di sempre. Dieci anni fa, su “Le Monde”, il sociologo Henri Mendras scrisse che, di questo passo, la popolazione dello Stivale si sarebbe ridotta da 60 a 40 milioni nel 2050.
    «Nessun popolo può sopportare un evento così traumatico e l’equilibrio generale dell’Europa ne sarebbe scosso», scriveva Mendras. «L’Italia del nord, oggi così opulenta, ha il più basso tasso di fecondità in Europa: in media, meno di un bambino per donna». Le grandi città italiane “resistono” soltanto grazie all’immigrazione, continua Meotti nella sua analisi sul “Foglio” pubblicata nel 2017. «Prendiamo Venezia: 2.102 nuovi nati nell’ultimo anno, a fronte di 2.878 morti. Nel giro di quindici anni, a Bologna nasceranno il 10% di bambini in meno, il 20% in provincia. Gli anziani tra 65 e 79 anni cresceranno del 15%. Senza immigrazione, l’Emilia Romagna in vent’anni perderebbe 871.000. Si passerebbe dai quattro milioni e 454.000 residenti emiliano-romagnoli del 2016 a tre milioni e 583.000. Una contrazione del 20%». E’ un trend nazionale. Crollano le nascite a Milano: 17.681 nel 2006, 13.682 nel 2014, 12.688 nel 2015 e poco oltre le diecimila nel 2016. Genova è diventata la “città più vecchia d’Europa”. In Val d’Aosta, dal 2008 al 2015 la natalità è diminuita del 24%, il dato peggiore in Italia. «Nel ricchissimo Veneto le nascite sono calate del 20%». Sta “dimagrendo” la Toscana, meno 5,8%. Per Mendras, siamo di fronte a «una rivoluzione ideologica che rischia di mettere in pericolo la civiltà italiana».
    Una rivoluzione “culturale”: «Nascerà un nuovo tipo di famiglia: senza fratelli, zii, cugini». Un’Italia composta per due terzi da anziani e con pochissimi bambini. E’ esplicito l’economista americano Nicholas Eberstadt: «Ci sarete ancora domani? Un popolo può scomparire». Perché accade questo? Per soldi: «Una delle ragioni è che i figli sono bellissimi, ma non sono economicamente convenienti», afferma Eberstadt. «E in una società che premia ciò che è conveniente, non è una buona idea costruire una nuova famiglia». Se ieri non avere figli era una tragedia, oggi è anche uno stile di vita: si è più “liberi”. Secondo Eberstadt, continua il “Foglio”, «in una società grigia il welfare diventerà insostenibile: dovrete aumentare l’età pensionabile a 72, 73, 74 anni». Continundo su questa strada, «non penso che la società italiana sopravvivrà così come è oggi», aggiunge Eberstadt: «E’ possibile che l’Italia sarà osservata dal resto del mondo come un esperimento, per capire come una società sopravvive a questo terremoto. Sarete una cavia per il resto del genere umano». Sarà un’Italia di centenari, sostiene il noto demografo James Vaupel, già a capo dell’Istituto tedesco Max Planck: «La maggior parte delle persone vive oggi in Italia sarà probabilmente ancora viva nel 2050». La popolazione dell’Italia? «Potrebbe essere di 10 milioni alla fine del XXI secolo, un quinto della popolazione oggi».
    «Non conosco nessuna società pre-moderna che ha smesso di avere figli», dichiara al “Foglio” lo storico Bruce Thornton, studioso di antichità alla California State University e autore di “Decline and fall of Europe”. «Si vede questo fenomeno tra le élite, per esempio nella Roma tardo-repubblicana, con Augusto che ha cercato di incoraggiare gli aristocratici romani ad avere più figli. Prima dell’età moderna, la gente ha visto i bambini come risorsa più importante di ogni cultura. Solo i moderni possono essere così stupidi da ignorare questa saggezza». Entrerà in crisi la democrazia, in una simile spirale di invecchiamento e sterilità. «La democrazia sarà in pericolo», afferma Thornton, perché welfare sanitario, assistenza e pensioni dipendono dai lavoratori più giovani che pagano le tasse. «Cosa succede quando una maggioranza di vecchi voterà per averne sempre di più, a scapito dei giovani ormai ridotti al lumicino?». Troviamo difficile sacrificarci per le generazioni successive, dice Thornton: «Per questo abortiamo così tanti bambini. Per questo non distribuiamo più la ricchezza dai ricchi ai poveri, ma dai non nati ai vivi». Un paese di vecchi, geopoliticamente irrilevante e vulnerabile. In Francia, gli immigrati islamici – con alto tasso di natalità – sono il 10% della popolazione francese: avranno «il potere politico per iniziare a cambiare la cultura del paese ospitante».
    Per Thornton, «vedremo grandi investimenti per aumentare la lunghezza della vita, con la produzione ad esempio di reni e cornee artificiali». Esisteranno ancora le pensioni? «Lavorerete di più, come vediamo in America dal 2008. Ma chi pagherà le pensioni? Qui sorgeranno i conflitti». Che cultura produrremo? «Già oggi non ne produciamo più. Ci sarà molta cultura popolare per intrattenere gli anziani». E la religione? «Se n’è andata dall’Occidente: quando i baby boomers saranno vecchi, l’edonismo avrà vinto completamente». Dice il celebre psichiatra inglese Anthony Daniels: «La situazione in Italia mi sembra senza precedenti», simile a quelle di Spagna, Germania e Giappone. «Questa Italia prevalentemente di anziani avrà difficoltà a difendersi dalle popolazioni più giovani. I capelli saranno grigi, ma le persone saranno molto più vigorose di quelle di una volta. Ci saranno adolescenti geriatrici o una geriatria di adolescenti. La gente cercherà un qualche tipo di trascendenza, la troverà nella cosiddetta ‘spiritualità’, paganesimo, culto della natura, il potere curativo dei cristalli, candele, carillon tibetani. La piramide della popolazione tradizionale sarà invertita, gli anziani dovranno lavorare fino a tardi nella vita e saranno assistiti da robot importati dal Giappone».
    In questo quadro, la Chiesa romana latita. Dovrebbe usare la crisi demografica per una rinascita. Lo sostiene George Weigel, saggista cattolico. «Una nazione che non si riproduce versa in una crisi morale e culturale», dice Weigel al “Foglio”. «La Chiesa dovrebbe prestare attenzione a questo, ma significherebbe rimuovere la polvere dalla propria mentalità museale». Pochi prelati oggi parlano della catastrofe demografica. «Penso che in Occidente abbiamo un desiderio di morte», dice Rod Dreher, giornalista conservatore americano: «Abbiamo scelto il comfort sulla vita». Ratzinger ha detto che ci troviamo di fronte a una crisi spirituale: una grande crisi di civiltà, peggiore di qualsiasi altra dalla caduta di Roma. «Ratzinger è un profeta», sostiene Weigel. «Siamo diretti verso giorni molto bui. I musulmani che arrivano in Europa oggi credono in qualcosa. Troppi di noi occidentali non credono in niente, non nel Dio della Bibbia, ma neanche in se stessi».  Per l’americano David Goldman, editore di “Asia Times”, «il declino della popolazione è l’elefante nel salotto del mondo. E’ una questione di aritmetica, sappiamo che la vita sociale della maggior parte dei paesi sviluppati si romperà entro due generazioni. Due italiani su tre e tre giapponesi su quattro saranno anziani nel 2050».
    Se gli attuali tassi di fertilità continuano, dice Goldman, il numero di tedeschi scenderà del 98% nel corso dei prossimi due secoli. «Nessun sistema pensionistico e sanitario è in grado di supportare tale piramide rovesciata della popolazione». Aritmetica, appunto: «Il tasso di natalità di tutto il mondo sviluppato è ben al di sotto del tasso di sostituzione, e una parte significativa di essa ha superato il punto di non ritorno demografico». La teoria geopolitica convenzionale, dominata da fattori materiali quali il territorio, le risorse naturali e la tecnologia, «non affronta il problema di come i popoli si comporteranno sotto questa minaccia esistenziale, in cui la questione cruciale è la volontà o mancanza di volontà di un popolo che abita un determinato territorio di sfornare una nuova generazione». Il declino demografico, inesorabile, nel XXI secolo «porterà a violenti sconvolgimenti nell’ordine del mondo». E l’Italia? «E’ sulla buona strada, secondo le Nazioni Unite: il numero di donne in età fertile si ridurrà di due terzi nel corso di questo secolo, e diminuirà di circa la metà dal mezzo secolo in poi», Ciò implica «una riduzione della popolazione paragonabile al declino di Roma nel Quinto e Settimo secolo». La causa immediata? E’ la crisi economica, dice Goldman. «L’Italia sarà simile a una casa di riposo, con il 45% popolazione sopra i sessant’anni». Conseguenza: «Il ruolo internazionale dell’Italia si ridurrà con la sua economia».
    Mentre l’economia continuerà a contrarsi, conclude Goldman, il rapporto deficit-Pil aumenterà. «L’Italia richiederà acquirenti stranieri per le sue attività, il che significa prima di tutto la Cina. L’Italia, insomma, si trasformerà in un parco a tema». Se il Giappone sarà abitato da filippine e indonesiane «pagate da una oligarchia di vecchi», agli italiani resterà il turismo per i cinesi: Roma, Firenze e Venezia. Secondo Goldman, il suicidio demografico italiano ha a che fare anche con il declino della religione. «I più bassi tassi di fertilità si incontrano tra le nazioni dell’Europa orientale, dove l’ateismo è stato l’ideologia ufficiale per generazioni». Al contrario, «Israele avrà più giovani dell’Italia o della Spagna. Un secolo e mezzo dopo l’Olocausto, lo Stato ebraico avrà più uomini in età militare e sarà in grado di mettere in campo un esercito di terra più grande di quello della Germania. Quando la fede scompare, la fertilità svanisce». La spirale di morte in gran parte del mondo industriale, aggiunge Goldman, ha costretto i demografi a pensare anche in termini di fede. «Decine di nuovi studi documentano il legame tra fede religiosa e fertilità. La religione ha cessato di svolgere un ruolo significativo nella società italiana. La metà dei seminaristi di Roma sono africani. Non c’è un Papa italiano da quarant’anni. Ci sarà sempre un nucleo di cattolici in Italia, ma la religione non è ora e non sarà un fattore significativo».
    Eppure, osserva Meotti, in Italia nessuno parla di suicidio demografico. «Due guerre mondiali – dice ancora Goldman – hanno mostrato agli europei che la loro cultura era deperibile e, per certi versi, costruita su illusioni di superiorità nazionale, e quando queste illusioni sono state chiamate in causa, gli europei hanno visto che non c’era alcuna ragione di sacrificare i piaceri per la cultura». Ancora: «Gli individui intrappolati in una cultura di morte vivono in un crepuscolo del mondo. Abbracciano la morte attraverso l’infertilità, la concupiscenza e la guerra». I membri di una cultura “malata” «cessano di avere figli, si stordiscono con l’alcool e la droga, diventano scoraggiati e spesso la fanno finita con se stessi». Una buona parte del mondo sembra aver perso il gusto per la vita, sostiene Goldman. «La fertilità è scesa finora in alcune parti del mondo industriale in maniera tale che lingue come ucraino ed estone saranno in pericolo in un secolo, e l’italiano nel giro di due». Le culture di oggi «stanno morendo di apatia, non per le spade dei nemici». E l’apatia europea «è il rovescio della medaglia dell’estremismo islamico». Potrà la geriatria italiana essere democratica? «Certamente», conclude Goldman. «Potrete votare democraticamente per chiedere all’ultima persona di spengere la luce».

    Arrivano ogni anno e sono come un bollettino di guerra. Sono i rapporti dell’Istat sulla popolazione: mai così basso il numero delle nascite. Nel 2016 l’Italia è “dimagrita” di 134.000 persone: come avessimo perso una città delle dimensioni di Salerno. La fecondità è scesa a 1,34 figli per donna: nessun paese al mondo fa meno figli dell’Italia. Secondo lo storico francese Pierre Chaunu, nei paesi europei la disaffezione a procreare ha conseguenze simili alla peste nera che sterminò un terzo della popolazione del continente. A differenza dell’epidemia del medioevo che riempiva i cimiteri, scrive Giulio Meotti sul “Foglio”, l’epidemia di sterilità volontaria svuota i reparti di maternità. Persino per l’Onu, gli italiani sono un gruppo etnico in via di estinzione: nel nostro paese, il rapporto fra nascite e decessi è negativo dal 1990 (per inciso, l’epoca in cui il paese – con il collasso della Prima Repubblica – ha imboccato la via delle privatizzazioni, dell’euro e dell’Unione Europea). I dati per l’Italia – meno di 60 millioni di persone, inclusi però gli immigrati – per le Nazioni Unite sono ancora più terribili se consideriamo il rapporto fra nascite e decessi: indicatore che ha appena raggiunto il valore peggiore di sempre. Dieci anni fa, su “Le Monde”, il sociologo Henri Mendras scrisse che, di questo passo, la popolazione dello Stivale si sarebbe ridotta da 60 a 40 milioni nel 2050.

  • Dezzani: Draghi punta sui 5 Stelle, scommette contro di noi

    Scritto il 30/11/17 • nella Categoria: idee • (2)

    Mario Draghi e l’élite economica italiana puntano ormai sui 5 Stelle e scommettono contro l’Italia, per ultimare la svendita dell’industria: il nostro futuro si fa sempre più minaccioso man mano che il 2018 si avvicina. All’incertezza elettorale si somma un quadro europeo ostile: la Germania non ha alcuna intenzione di concederci sconti. Forse Berlino è disposta a sobbarcarsi la Francia per ragioni geopolitiche, mentre dell’Italia le interessa solo il Veneto. Si avvicina «un commissariamento esplicito o subdolo, sulla falsariga del governo Monti», scrive Federico Dezzani. E se in Germania dovesse prevalere una linea ancora più rigorista, «non si potrebbe neanche escludere l’imposizione di un “default ordinato”». Di fronte a questo scenario, sostiene l’analista, l’Italia sarà costretta a scegliere: capitolazione o uscita dall’euro. Un soccorso, per sottrarsi all’attacco della Germania, «può venire soltanto dalle potenze emergenti». I prossimi 12-18 mesi saranno cruciali per il futuro del nostro paese e della stessa Europa, insiste Dezzani: il “nuovo sacco di Roma” è stato già preparato da Germania e Francia. L’Italia deve quindi «stringere una serie di alleanze internazionali per evitare un tristissimo epilogo». Anche perché gli “Stati Uniti d’Europa”, ammesso che qualcuno li abbia mai davvero presi in considerazione, «sono stati ormai scartati da anni».
    Il vertice a Deauville dell’ottobre 2010, cui parteciparono Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, secondo Dezzani può essere considerato lo spartiacque che separa il progetto dell’Europa allargata da quello dell’Europa franco-tedesca, moderna riproposizione dell’Impero Carolingio. È un disegno che non soddisfa pienamente gli Usa (Dezzani lo deduce dagli attacchi al sistema-Germania, come Volkswagen e Deutsche Bank), ma ha il probabile assenso della Gran Bretagna (da cui il tentativo di fondere Lse-Deutsche Boerse e l’uscita dall’Unione Europea per facilitare i piani federativi di Angela Merkel e Macron). All’interno della coppia franco-tedesca, la posizione dominante spetta ovviamente alla Germania, la cui prestazioni economiche e finanziarie surclassano quelle della Francia. Probabilmente Berlino, se ragionasse in termini meramente egoistici – continua Dezzani – procederebbe con l’integrazione politica della sola area euro-marco (Austria, Olanda, Slovenia, Lussemburgo, Slovacchia, Estonia, Finlandia). «Ma ragioni di natura geopolitica la inducono a sobbarcarsi anche la storica rivale: la Francia dispone ancora di un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, è dotata di testate atomiche e, se abbandonata a se stessa, rischia di scivolare verso pericolose posizioni revanchiste-nazionaliste».
    In ogni caso, qualsiasi proposta di ulteriore integrazione europea, come l’introduzione di eurobond, è ormai circoscritta all’asse franco-tedesco. «E gli ultimi sviluppi politici in Germania, dove la destra nazionalista è in forte crescita, chiudono la porta a qualsiasi integrazione a 27 (complicando persino la convergenza tra Emmanuel Macron e Angela Merkel)», continua Dezzani. Il “resto” dell’Europa, invece, nell’ottica franco-tedesca ha un valore modesto: «Non dispiacerebbe, se possibile, annettere al neo-impero carolingio la Catalogna, regione sviluppata e contigua alla Francia. Farebbe gola anche quella “Padania” che Gianfranco Miglio sognava di federare alla Germania: il Triveneto, in particolare, è il naturale sbocco della Germania sul Mar Adriatico». E non è un caso se Luca Zaia, esponente della vecchia Lega Nord, «abbia presentato il recente referendum sull’autonomia come “una risposta al plebiscito del 18662”, che separò Venezia ed il suo retroterra all’orbita germanica». La penisola italiana nel suo complesso, però – aggiunge l’analista – non è nei desideri di Berlino. E l’improvvisa ricomparsa dei secessionismi “insulari”, in primis quello sardo, testimonia che altre cancellerie europee (Londra in testa) sono interessate allo “spezzatino” dell’Italia.
    «Se la Germania non ha intenzione di spendere un centesimo perché Roma rimanga agganciata all’Eurozona – ragiona Dezzani – è solo questione di tempo prima che la situazione dell’Italia, sottoposta a letali dosi di austerità (perché “smetta di vivere al di sopra dei propri mezzi”), si faccia insostenibile». In prossimità del 2018, a distanza di sette anni dall’imposizione delle ricette della Troika, l’Italia è  allo stremo: «Il rapporto debito pubblico/Pil ha raggiunto livelli record», mentre «la caduta verticale dell’attività economica ha gonfiato i bilanci delle banche di crediti inesigibili». Gli indicatori occupazionali e demografici, poi, sono drammatici: «Il Sud Italia e alcune aree del Nord stanno sperimentando un vero processo di desertificazione». Se la Germania avesse interesse a tenere la penisola nell’euro, continua Dezzani, dovrebbe immediatamente invertire marcia. «Invece, tutti i segnali che provengono dal Nord vanno nella direzione di un ulteriore inasprimento dell’austerità: il testamento politico di Wolfgang Schäuble, lasciato al prossimo ministro delle finanze (un liberale ultra-rigorista?), contempla apertamente il “default ordinato” per i membri dell’Eurozona». E pesa anche il recente “ammonimento” del vicepresidente della Commissione Europea, il finlandese Jyrki Katainen, sulla «necessità di varare una manovra-bis subito dopo le elezioni». Una conferma: «Berlino non intende fare alcuno sconto all’Italia in materia di riduzione/contenimento del debito».
    Nel 2018, quindi, per Dezzani l’Italia avrà di fronte due strade: «La capitolazione di fronte all’asse franco-tedesco o l’uscita dall’Eurozona». La prima soluzione equivarrebbe ad inasprire ulteriormente le politiche sul lato dell’offerta (tagli alla sanità e pensioni, licenziamenti). Vorrebbe dire «taglieggiare il risparmio privato (prelievo sui conti o patrimoniale), saccheggiare quel che rimane del patrimonio pubblico (riserve di Bankitalia, immobili e partecipate) e lasciare che le ultime medie-grandi imprese italiane passino in mano straniera». Secondo Dezzani, a premere per questa soluzione è il “partito Draghi” (o “partito Bilderberg”) «che annovera, oltre al governatore della Bce, Ignazio Visco, Giorgio Napolitano, Eugenio Scalfari, Ferruccio De Bortoli, Carlo De Benedetti, Paolo Mieli, Mario Monti, Romano Prodi, gli Agnelli-Elkann». Sempre secondo Dezzani, in viste delle politiche 2016 il “partito Draghi” «punta sulla vittoria elettorale del Movimento 5 Stelle, cui andrebbe sommata in Parlamento la sinistra “prodiana”: il reddito di cittadinanza o provvedimenti analoghi sarebbero ottimi paraventi per completare con discrezione la definitiva spoliazione dell’Italia».
    La seconda opzione, invece, prevede l’abbandono dell’Eurozona di fronte ai diktat franco-tedeschi sempre più gravosi e umilianti. «L’uscita dalla moneta unica sarebbe emergenziale, dettata dal semplice istinto di sopravvivenza del nostro paese: non esiste al momento “un partito dell’uscita dall’euro” analogo a quello che preme per il commissariamento», osserva Dezzani: «Formazioni come la Lega Nord si sono appropriate della causa anti-euro per meri fini elettorali, senza possedere né prevedere alcun programma concreto per l’Italexit». Se non altro, «la vittoria della destra alle politiche del 2018 favorirebbe senza dubbio questa strada», secondo l’analista, che fa notare che «l’unico “boiardo di Stato” ad aver apertamente contemplato un “piano B” è stato l’economista Paolo Savona, ex-ministro del governo Ciampi». Eppure, nonostante il “partito dell’uscita dall’euro” sia ancora in gestazione, «c’è da scommettere che cresca in fretta nel corso del 2018 e, entro la fine dell’anno, prenda il sopravvento».
    Il progetto federativo europeo «è ormai morto», ribadisce Dezzani. E quindi, «arrendersi al commissariamento franco-tedesco significherebbe soltanto abbandonare l’Eurozona con 2-3 anni di ritardo, spogliati di ogni ricchezza residua (proprio come i governi Monti-Letta-Renzi hanno favorito il saccheggio del paese, anziché risanare le finanze)». Gli squilibri sul mercato interbancario europeo (ben visibili dai saldi dal sistema Target 2), secondo l’analista «lasciano pensare che nel mondo della finanza continentale ci si stia preparando per una Italexit nel corso dei prossimi dodici mesi». Osserva Dezzani: «Mai le banche tedesche hanno accumulato così tanto denaro presso la Bundesbank e mai, specularmente, le banche italiane si sono indebitate in maniera così alta presso Bankitalia». Un’imminente uscita dall’euro, quindi, per non essere schiacciati: contando su quali alleanze internazionali? «Evaporate in fretta le speranze riposte in Donald Trump, totalmente paralizzato dagli intrighi di Washington, solo le potenze emergenti hanno interesse a sostenere la svolta italiana: un terremoto finanziario, quindi, e geopolitico».

    Mario Draghi e l’élite economica italiana puntano ormai sui 5 Stelle e scommettono contro l’Italia, per ultimare la svendita dell’industria: il nostro futuro si fa sempre più minaccioso man mano che il 2018 si avvicina. All’incertezza elettorale si somma un quadro europeo ostile: la Germania non ha alcuna intenzione di concederci sconti. Forse Berlino è disposta a sobbarcarsi la Francia per ragioni geopolitiche, mentre dell’Italia le interessa solo il Veneto. Si avvicina «un commissariamento esplicito o subdolo, sulla falsariga del governo Monti», scrive Federico Dezzani. E se in Germania dovesse prevalere una linea ancora più rigorista, «non si potrebbe neanche escludere l’imposizione di un “default ordinato”». Di fronte a questo scenario, sostiene l’analista, l’Italia sarà costretta a scegliere: capitolazione o uscita dall’euro. Un soccorso, per sottrarsi all’attacco della Germania, «può venire soltanto dalle potenze emergenti». I prossimi 12-18 mesi saranno cruciali per il futuro del nostro paese e della stessa Europa, insiste Dezzani: il “nuovo sacco di Roma” è stato già preparato da Germania e Francia. L’Italia deve quindi «stringere una serie di alleanze internazionali per evitare un tristissimo epilogo». Anche perché gli “Stati Uniti d’Europa”, ammesso che qualcuno li abbia mai davvero presi in considerazione, «sono stati ormai scartati da anni».

  • Scappare da Madrid? Ovvio: la storia della Spagna è feroce

    Scritto il 13/10/17 • nella Categoria: idee • (1)

    Barcellona vorrebbe smarcarsi da Madrid ma non da Bruxelles, che deprime le autonomie nazionali, ma bisogna capire la rivolta contro il centralismo iberico, imposto sempre e solo con brutalità della peggior monarchia europea e poi dal franchismo, una dittatura persino più feroce di quella nazista. Lo afferma il politologo Aldo Giannuli, osservando la crisi catalana in precaria evoluzione, fra richieste di dialogo e minacce di repressione. «La questione catalana sembra essersi impantanata, ma emergono i primi segni di cedimento del fronte indipendentista», scrive Giannuli nel suo blog. «Non sappiamo come andrà a finire, ma l’episodio ha comunque una sua gravità». Giusta la pretesa di autodeterminazione e la rivendicazione di indipendenza, ma resta un problema non sciolto alla base, ovvero: chi è il soggetto titolare di questo diritto? E come delimitarlo? Se era puro delirio quello di Bossi sul “popolo padano”, in un Nord Italia rappresentato da piemontesi, liguri, emiliani e lombardo-veneti più milioni di meridionali e importanti minoranze anche linguistiche (valdostani, altoatesini, ladini, friulani e occitani), perché invece uno spagnolo dovrebbe pensarla diversamente, a proposito della Catalogna?
    «Certo il caso catalano è molto più definito, e il popolo catalano è una entità decisamente più omogenea e storicamente fondata del popolo padano, che non esiste», premette Giannuli. Ma questo “distinguo” potrebbe valere anche per i baschi, per gli andalusi o per i galiziani, «che hanno una identificabilità più o meno netta», a cominciare proprio dai baschi. E allora, si domanda lo storico dell’ateneo milanese, dov’è la soglia oltre la quale possiamo identificare un popolo-nazione demarcato rispetto agli altri? Ad applicare la formula di Pasquale Stanislao Mancini (comunità di lingua, di religione, di cultura, di storia) nessuno degli Stati nazionali oggi esistenti risulterebbe conforme ad essa, «e tantomeno nel tempo della globalizzazione, basato su un intenso nomadismo». Peraltro, aggiunge Giannuli, la costruzione dell’Unione Europea «ha indebolito fortemente sia i poteri che la legittimazione degli Stati nazionali, risvegliando antichi separatismi più o meno dormienti», anche se «quello catalano non è stato mai davvero dormiente». Di fatto, l’Ue «ha messo a nudo tutte le debolezze della costruzione dei vari Stati nazionali». In particolare, sottolinea Giannuli, «la Spagna non è mai esistita se non come dominio brutale della Castiglia su tutte le altre parti del paese».
    Brutta, l’architettura statuale iberica: «Una costruzione priva di ogni reale consenso e giustificata solo da un disegno imperiale, peraltro naufragato da secoli e sopravvissuto solo nell’immaginario legato ad una delle monarchie più squalificate d’Europa», sostiene Giannuli. «E’ sintomatico che le spinte indipendentiste si siano attenuate durante le due brevi parentesi repubblicane (1873-74 e 1931-39) quando si posero le basi di un ordinamento di tipo para-federalista». Al contrario, «il centralismo monarchico ha sempre ravvivato le spinte alla separazione». Anche lo Stato italiano è nato come prodotto dell’espansionismo sabaudo? Vero, ma con enormi differenze: il Risorgimento ebbe anche una componente democratica e repubblicana, poi battuta dal “partito moderato” di cui parla Gramsci. Blocco moderato che comunque «ebbe un ruolo che ha caratterizzato in parte lo Stato italiano». Nel caso spagnolo, invece non c’è traccia di questa spinta dal basso: nel XV secolo «tutto è stato deciso solo come conquista castigliana». Da noi, Torino cedette il ruolo di capitale: Firenze, poi Roma. Quello italiano «fu sempre un centralismo imperfetto», in equilibrio coi vari regionalismi.
    In Italia, continua Giannuli, hanno giocato un ruolo i mutevoli equilibri fra i diversi “partiti regionali”. «Ne è conseguito che il “partito moderato” ha sempre avuto caratteristiche più sociali (blocco delle classi possidenti, monarchia, esercito, burocrazia) che territoriali: l’esercito restava a lungo a preminenza piemontese ma la burocrazia divenne ben presto interregionale ed a centralismo romano, mentre le classi possidenti avevano la loro capitale nel sud (quelle agrarie) e in Lombardia, Toscana e Piemonte (quelle industriali e finanziarie)». Al contrario, in Spagna esiste un unico blocco sociale dominante, quello della Castiglia: e questo attizza i risentimenti regionali. Se quella dell’Italia è «una storia di tipo inclusivo», fondata sulla mediazione, la Spagna «viene da una storia terribile» basata sullo sterminio ricorrente: i Moriscos andalusi, i Marrani ebrei, il bagno di sangue della guerra civile. Ben raramente Madrid ha incluso e mediato, osserva Giannuli, denunciando il franchismo: «Contro l’immagine corrente, fu un fascismo non più moderato ma più feroce del nazismo». Hitler colpì i socialdemocratici e i comunisti, «ma cercò (e in buona parte riuscì) a riassorbire la base socialdemocratica e comunista nel suo sistema di consenso: nei campi di sterminio finirono ebrei, omosessuali, zingari, ma solo in minima parte comunisti e socialisti». Viceversa, il franchismo «procedette all’insegna della “limpieza”, pulizia non etnica ma politica e ideologica».
    La ferocia delle esecuzioni disgustò persino Galeazzo Ciano, ricorda Giannuli. E ancora dopo la fine della guerra civile, il regime del “caduillo” continuò per quasi 10 anni con la repressione, il cui conto finale è ignoto, ma si parla di 400.000 vittime. Cifra forse esagerata? Non importa: anche se le vittime sono state la metà o un quarto, bastano e avanzano a definire la guerra civile spagnola come «la più feroce della storia moderna d’Europa». E questo, conclude Giannuli, ha un peso anche sul presente: perché la storia, anche quella più lontana, non è mai priva di conseguenze, «a maggior ragione nel caso di un paese che non ha mai fatto i conti con il suo passato dittatoriale». In questa situazione oggi «arriva la globalizzazione, che dice che gli Stati nazionali non hanno più senso». E in Europa «questo si accompagna a uno sconclusionato disegno di unità continentale che, in realtà, è l’alleanza dei sistemi nazionali di potere nella loro staticità e trasferisce poteri ad un centro tecnocratico». E’ ovvio, annota lo storico, che questo «si traduce in una delegittimazione degli Stati nazionali, in una messa a nudo delle illegittimità dei loro sistemi di potere». Risultato: «Si producono irrefrenabili spinte centrifughe», come dimostra il caso di Barcellona.

    Barcellona vorrebbe smarcarsi da Madrid ma non da Bruxelles, che deprime le autonomie nazionali, ma bisogna capire la rivolta contro il centralismo iberico, imposto sempre e solo con brutalità della peggior monarchia europea e poi dal franchismo, una dittatura persino più feroce di quella nazista. Lo afferma il politologo Aldo Giannuli, osservando la crisi catalana in precaria evoluzione, fra richieste di dialogo e minacce di repressione. «La questione catalana sembra essersi impantanata, ma emergono i primi segni di cedimento del fronte indipendentista», scrive Giannuli nel suo blog. «Non sappiamo come andrà a finire, ma l’episodio ha comunque una sua gravità». Giusta la pretesa di autodeterminazione e la rivendicazione di indipendenza, ma resta un problema non sciolto alla base, ovvero: chi è il soggetto titolare di questo diritto? E come delimitarlo? Se era puro delirio quello di Bossi sul “popolo padano”, in un Nord Italia rappresentato da piemontesi, liguri, emiliani e lombardo-veneti più milioni di meridionali e importanti minoranze anche linguistiche (valdostani, altoatesini, ladini, friulani e occitani), perché invece uno spagnolo dovrebbe pensarla diversamente, a proposito della Catalogna?

  • Il fantasma di Soros: buonismo migrante, guerre e affari

    Scritto il 10/10/17 • nella Categoria: idee • (8)

    Una presenza ectoplasmatica si aggira per l’Europa: George Soros, il miliardario ottuagenario la cui longa manus rattrappita sta dietro tutti i movimenti (contro)rivoluzionari del pianeta, le novità pseudoculturali, l’umanitarismo di facciata che nasconde interessi economici inconfessabili. Osannato dal mondo della cooperazione, dalle Ong e dai partiti progressisti europei, l’arzillo nonnino è ormai diventato in Europa un’icona della filantropia,  il difensore per eccellenza dei diritti umani e delle minoranze straniere e di genere. Ma sotto una crosta superficiale di santità questo personaggio nasconde ben altro, essendo il principale finanziatore a livello mondiale della sovversione controiniziatica che sta portando il mondo alla deriva. Poco noti al grande pubblico sono infatti gli intrecci loschi tra Soros e gli agenti della sovversione. Ma andiamo per ordine, cominciando col rivelare i legami torbidi tra Soros e il mondo della cooperazione, anche italiana. Stando al quotidiano “Il Sole 24 Ore” Soros avrebbe di recente investito sui titoli di alcune cooperative rosse del Nord Italia diventando, con il 5% del capitale sociale, il terzo azionista di alcuni colossi che fanno capo alla Lega delle Cooperative, quella presieduta dal pacioccone Poletti, ministro del lavoro dell’attuale governo.
    L’ingresso di Soros svela il passaggio del mondo della cooperazione italiana da un modello economico di tipo solidale a un modello capitalistico tout court, già da anni adottato dalle cooperative, che ancora oggi si ammantano di un idealismo e di una purezza che non hanno mai posseduto. Insomma, le mani del nonnino Soros sulla cooperazione italiana porta alla luce del sole quel che già si sapeva da tempo e che era sottaciuto da molti: la trasformazione di quel mondo in un potere forte in grado di esercitare pressioni lobbistiche sui governi (e la nomina di Poletti alla guida del ministero del lavoro ne è una prova tangibile). Soros finanzia anche la cooperazione bianca, di matrice cattolica. Ben documentata è infatti la partecipazione di Soros alle attività filantropiche della Compagnia delle Opere, che fa capo al colosso cattolico Comunione e Liberazione. In concomitanza con l’aumento dei flussi migratori verso il nostro paese, molte cooperative bianche e rosse hanno di recente riconvertito le loro attività nel sociale, precedentemente concentrate in settori quali i servizi educativi e sanitari, in attività di accoglienza e di gestione dei profughi. E’ quindi nata negli ultimi anni una costellazione di strutture residenziali e di comunità per accogliere e integrare i clandestini portati in Italia dalle Ong che operano nel Mediterraneo per il salvataggio di costoro.
    Altro aspetto, questa volta più noto, dell’intraprendenza “filantropica” di Soros è il suo legame a doppio filo con le Ong, specialmente con quelle che si occupano della promozione dei diritti umani, in paesi dove vengono a loro dire calpestati. Attraverso la Open Society Foundation, Soros ha creato in pochi anni una vera e propria ragnatela in cui sono state attirate migliaia di Ong, spesso politicizzate e ideologizzate in senso radical progressista, che operano come agenti di disturbo verso i governi legittimamente eletti di paesi non allineati. Il caso della Siria è emblematico: attraverso una machiavellica propaganda mediatica queste Ong hanno creato a tavolino la fola della Siria violatrice di diritti umani e diffuso l’immagine demoniaca di Assad dittatore sanguinario che tortura i suoi cittadini. Altro aspetto veramente inquietante della rete labirintica creata da Soros per destabilizzare il mondo è il generoso finanziamento che egli elargisce alle associazioni Lgbtq. Secondo i documenti desecretati da Wikileaks, l’organizzazione di Julian Assange, è Soros il principale finanziatore del movimento delle Pussy Riots, un gruppo punk di donne russe sciamannate che contesta con atti provocatori Putin e l’attaccamento del popolo russo alle tradizioni patrie, e le laide Femen ucraine, sospettate di simpatie naziste. Come è lo stesso Soros a finanziare, solo per fare un esempio tra i tanti, l’Arcigay e tante altre associazioni gay e gender.
    Il filo rosso che unisce Soros alle Ong che operano nel Mediterraneo è poi noto a tutti (o quasi). E’ lui che finanzia le navi che solcano il Mediterraneo per soccorrere i clandestini caricati nelle carrette degli scafisti. Anche se più che di soccorso bisognerebbe parlare di complicità vera e propria tra gli operatori Ong e gli scafisti, come alcune recenti indagini della magistratura italiana hanno rivelato. D’altra parte i referenti delle Ong non nascondono, con un certo autocompiacimento, la loro stretta collaborazione con la Open Society Foundation sorosiana, e i bilanci di tali Ong palesano il finanziamento diretto da parte di essa. Il legame tra il magnate ungherese e le Ong dei “profughi” è così stretto che quando il mese scorso il governo libico ha deciso di vietare alle navi Ong di accostarsi alle coste libiche per caricare i clandestini, Soros ha avuto un’esplosione di rabbia, tempestando di telefonate tutti i big della politica internazionale, Onu compresa, per bloccare la decisione del governo libico.
    E per sensibilizzare l’opinione pubblica occidentale Soros ha già pronto l’avvio di un nuovo movimento di protesta pro migrates, i No Borders, che si attiveranno con manifestazioni e provocazioni di ogni tipo in tutti i paesi europei. Solita strategia della manipolazione dell’opinione pubblica a suon di slogan e attivismo a pagamento, insomma. Cambiamo gli attori ma la trama e il regista restano uguali. Che dire, per concludere, di questo magnate con il chiodo fisso della democrazia a tutti i costi? Ma che cosa intenderà mai il filantropo Soros con il termine “democrazia”? Potere al popolo, come l’etimologia suggerisce, o potere alle élite illuminate che sovrastano il popolo prendendo decisioni non condivise che peggiorano la qualità della vita? Democrazia come solidarietà e difesa delle fasce più deboli della cittadinanza o democrazia del denaro? Rispetto dell’autodeterminazione dei popoli o imposizione della democrazia attraverso campagne di demonizzazione o campagne militari? Lascio ai più lungimiranti l’ardua risposta.
    (Federica Francesconi, “Un ectoplasma si aggira per l’Europa: Soros e la sua mania di onnipotenza”, dal blog della Francesconi del 10 settembre 2017).

    Una presenza ectoplasmatica si aggira per l’Europa: George Soros, il miliardario ottuagenario la cui longa manus rattrappita sta dietro tutti i movimenti (contro)rivoluzionari del pianeta, le novità pseudoculturali, l’umanitarismo di facciata che nasconde interessi economici inconfessabili. Osannato dal mondo della cooperazione, dalle Ong e dai partiti progressisti europei, l’arzillo nonnino è ormai diventato in Europa un’icona della filantropia,  il difensore per eccellenza dei diritti umani e delle minoranze straniere e di genere. Ma sotto una crosta superficiale di santità questo personaggio nasconde ben altro, essendo il principale finanziatore a livello mondiale della sovversione controiniziatica che sta portando il mondo alla deriva. Poco noti al grande pubblico sono infatti gli intrecci loschi tra Soros e gli agenti della sovversione. Ma andiamo per ordine, cominciando col rivelare i legami torbidi tra Soros e il mondo della cooperazione, anche italiana. Stando al quotidiano “Il Sole 24 Ore” Soros avrebbe di recente investito sui titoli di alcune cooperative rosse del Nord Italia diventando, con il 5% del capitale sociale, il terzo azionista di alcuni colossi che fanno capo alla Lega delle Cooperative, quella presieduta dal pacioccone Poletti, ministro del lavoro dell’attuale governo.

  • Suicidio demografico: l’Europa perderà 1/3 dei suoi abitanti

    Scritto il 06/10/17 • nella Categoria: segnalazioni • (34)

    Civiltà fantasma globalizzata. In Giappone le scuole elementari chiudono, dato che il numero dei bambini è sceso a meno del 10% della popolazione. Il governo sta convertendo queste strutture in ospizi: il 40% della popolazione è di età superiore ai 65 anni. In Giappone, «la nazione più vecchia e più sterile del mondo», l’espressione “civiltà fantasma” è diventata ormai di uso comune, scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”. Secondo stime ufficiali, entro il 2040 la maggior parte delle città più piccole del paese vedrà un drammatico calo della popolazione, dal 30 al 50%. I consigli dei villaggi spariscono, insieme ai ristoranti: nel ‘90 erano 850.000, ora si sono ridotti a 350.000. «Le previsioni suggeriscono che in 15 anni il Giappone avrà 20 milioni di case vuote. È forse anche questo il futuro dell’Europa? Probabile, perché tra gli esperti di demografia c’è una tendenza a definire l’Europa il nuovo Giappone». Da parte sua, il paese del Sol Levante sta affrontando questa catastrofe demografica con le proprie risorse e vietando l’immigrazione musulmana. Ma «anche l’Europa sta subendo una sorta di suicidio demografico», che lo storico britannico Niail Ferguson definisce «la più grande riduzione sostenuta della popolazione europea dopo la peste nera del XIV secolo».
    Un segnale sintomatico del nuovo trend socioculturale, per esempio, secondo Spadini sta nel fatto che gli esponenti europei del grande esclusivo club globale, il G7, sono privi di figli: Angela Merkel, Theresa May, Paolo Gentiloni e Emmanuel Macron, cui aggiungiamo il primo ministro olandese Mark Rutte e il primo ministro gay del Lussemburgo, Xavier Bettel. I musulmani europei sembrano sognare di colmare questo vuoto? L’arcivescovo di Strasburgo, Luc Ravel, nominato da Papa Francesco lo scorso febbraio, ha di recente dichiarato che i fedeli musulmani sono ben consapevoli del fatto che la loro fertilità è tale che oggi chiamano “Grand Remplacement” il loro inserimento nella società europea. Quanto all’Italia, il Centro Machiavelli rileva che, se l’attuale tendenza dovesse continuare, «entro il 2065 la quota di immigrati di prima e seconda generazione supererà i 22 milioni di persone, ossia sarà più del 40% della popolazione totale». Il tasso di fertilità dell’Italia è inferiore della metà di quello che era nel 1964, spiega il centro studi, attraverso un dossier firmato da Daniele Scalea (“Come l’immigrazione sta cambiando la demografia italiana”).
    L’Europa (e l’Italia in particolare) stanno affrontando un periodo di flussi migratori in entrata senza precedenti, osserva Rosanna Spadini. «Ciò dipende in primis dalla concomitanza tra declino demografico europeo (dal 22% della popolazione mondiale nel 1950 al 7% nel 2050) ed esplosione demografica africana (dal 9% al 25% della popolazione mondiale in cento anni). Il tasso di natalità è sceso da 2,7 bambini per donna a appena 1,5 bambini per donna, un tasso ben al di sotto del minimo consentito per una rigenerazione sana della popolazione». Inoltre, aggiunge l’analista di “Come Don Chisciotte” citando una recente relazione di “Zerohedge”, si assiste a una maggiore omogeneità dell’immigrazione: le prime dieci nazionalità rappresentano oggi il 64% degli immigrati totali, mentre negli anni ‘70 erano appena il 13%. Tutto ciò non si discosta da quanto sta accadendo in diversi paesi dell’Europa occidentale. «Intorno al 2065 in Gran Bretagna l’etnia britannica dovrebbe perdere la maggioranza assoluta nel proprio paese. Oggi in Germania i minori di 5 anni sono al 36% figli di immigrati, lasciando presagire un grande mutamento nella composizione etnica della prossima generazione».
    A partire dal 2017, l’Italia ha registrato oltre 5 milioni di stranieri che vivono come residenti: «Una crescita del 25% rispetto al 2012 e un enorme 270% rispetto al 2002. All’epoca, gli stranieri costituivano solo il 2,38% della popolazione. Quindici anni dopo la percentuale è quasi triplicata fino all’8,33% della popolazione». Inoltre, la natalità degli immigrati è notevolmente superiore a quella degli italiani nativi: «Non è quindi sorprendente che le regioni italiane con i tassi di fertilità più alti non siano più nel sud, come è sempre accaduto, ma nel nord italiano e nella regione del Lazio, dove c’è una concentrazione maggiore di immigrati». In confronto, solo nel 2001 la percentuale degli stranieri che vivevano in Italia aveva  attraversato la soglia dell’1%, cosa che rivela la velocità e l’entità delle trasformazioni demografiche che si stanno verificando in Italia, un fenomeno senza precedenti. Un’ulteriore preoccupazione avanzata dalla relazione di Scalea è «l’elevata concentrazione delle popolazioni immigrate da pochi paesi d’origine, che spesso produce fenomeni di ghettizzazione».
    Lo scorso anno, in 13 dei 28 paesi membri dell’Unione Europea, il saldo tra nascite e decessi è stato negativo: senza i flussi migratori, le popolazioni di Germania e Italia dovrebbero diminuire rispettivamente del 18% e del 16%. «L’impatto della situazione demografica in caduta libera è più visibile nei paesi dell’ex blocco sovietico, come Polonia, Ungheria e Slovacchia, per distinguerli da quelli della cosiddetta “vecchia Europa”, come Francia e Germania». Questi paesi dell’Est, continua Spadini, sono ora quelli più esposti al fenomeno dello spopolamento e al «devastante crollo del tasso di natalità» che il giornalista e scrittore Mark Steym ha definito «il principale problema del nostro tempo». Alla fine del secolo, «l’Europa potrebbe ritrovarsi come colpita da una bomba al neutrone: gli edifici in piedi, ma senza bambini», si legge in “America Alone”, un pamphlet su crollo demografico, islamismo, sindrome di Stoccolma, solitudine americana e disastri del multiculturalismo. «Se gli occidentali vogliono godere delle benedizioni della vita in una società libera devono capire che la vita che abbiamo vissuto dal 1945 è stato un momento rarissimo nella storia dell’umanità».
    La distanza fra Usa ed Europa sta crescendo: «L’America è l’ultima nazione a sostenere un tasso di crescita riproduttivo, l’ultima grande società religiosa in Occidente, l’ultima a mantenere un esercito in grado di difenderla in qualunque parte del mondo e l’ultima a conservare una tradizione attiva di libertà individuale, incluso il diritto di portare armi». Per una popolazione stabile, si calcola che serva un tasso di crescita del 2,1%, cioè il tasso dell’America, contro l’1,38 dell’Europa, l’1,32 del Giappone e l’1,14 del Canada. A preoccupare sono, ancora, i giapponesi: «Non c’è precedente nella storia per questa crescita economica e crollo del capitale umano: per la prima volta, nel 2005 in Giappone ci sono state più morti che nascite». E’ un paese «di geriatri, senza immigrazione, né minoranze e senza desiderio di niente: solo invecchiare e affievolirsi». Per Steym, anche l’Europa alla fine del secolo sarà come un continente dopo lo scoppio di una bomba al neutrone: «Ci saranno ancora edifici in piedi, ma la popolazione sarà scomparsa. Il tedesco sarà parlato giusto da Hitler, Himmler e Göring durante la seratina di poker all’inferno».
    «Una parte del pianeta sta optando per il suicidio di fronte al surriscaldamento», aggiunge Steym. «L’Europa sarà semi-islamica nel carattere politico e culturale entro due generazioni, forse una. Nel XV secolo la Morte Nera fece fuori un terzo della popolazione. Nel XXI scomparirà per scelta. Stiamo assistendo alla lenta estinzione della civiltà in cui viviamo». Il “New York Times” si è chiesto perché «nonostante la popolazione diminuisca, i paesi dell’Europa orientale non vogliono accettare i migranti». Inoltre, gran parte dell’Europa orientale ha già vissuto l’esperienza dell’occupazione musulmana per centinaia di anni sotto l’Impero Ottomano, «e questi paesi sono tutti consapevoli che ciò potrebbe accadere di nuovo». Ma anche l’Africa sta esercitando pressioni sull’Europa, «come una bomba demografica a tempo». Per il nazionalista olandese Geert Wilders, «nei prossimi trent’anni l’Africa avrà un miliardo di persone in più, cioè il doppio della popolazione dell’intera Unione Europea». Al che, la pressione demografica sarà enorme: «Un terzo degli africani vuole spostarsi all’estero e molti vogliono venire in Europa. Lo scorso anno più di 180.000 persone sono partite dalla Libia a bordo di imbarcazioni fatiscenti. E questo è solo l’inizio».
    Secondo l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, solo al 2,65% dei migranti arrivati in Italia (4.808) è stato riconosciuto il diritto di asilo, «mentre 90.334 migranti non hanno chiesto l’asilo ma sono scomparsi nell’economia del mercato nero». Secondo il greco Dimitris Avramopoulos, responsabile per le migrazioni in seno alla Commissione Europea, «in questo periodo tre milioni di africani pianificano di entrare in Europa». Michael Moller, direttore dell’ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra, avverte che il processo di migrazione «sta accelerando». I giovani hanno tutti i cellulari e possono vedere sul web che cosa sta succedendo in altre parti del mondo. «Infatti – annota Rosanna Spadini – possono vedere sui loro telefoni che, mentre meno del 3% degli immigrati dello scorso anno erano legittimi richiedenti asilo, quasi nessuno viene rispedito indietro», dal momento che i migranti «sono accolti con generosi benefici sociali, alloggi sovvenzionati e sistemi sanitari pubblici».
    Anche l’Europa orientale si sta assottigliando sempre più, e la demografia è diventata un problema per la sicurezza, aggiunge “Come Don Chisciotte”. «Diminuisce il numero delle persone che prestano servizio nell’esercito e operano nell’assistenza sociale: un tempo i paesi dell’Europa orientale temevano i carri armati sovietici, ora temono le culle vuote». Le Nazioni Unite stimano che nel 2016 l’Est Europa fosse abitata da circa 292 milioni di persone, 18 milioni in meno rispetto agli inizi degli anni Novanta. «Questa cifra equivale alla scomparsa dell’intera popolazione dei Paesi Bassi». Il “Financial Times” definisce la situazione est-europea come «la perdita più importante di popolazione della storia moderna». Neppure la Seconda Guerra Mondiale, con i suoi massacri, le deportazioni e i suoi esodi di massa, era giunta a tanto. Entro il 2050, la Romania perderà il 22% della sua popolazione, seguita da Moldavia (20%), Lettonia (19%), Lituania (17%), Croazia (16%) e Ungheria (16%). «Romania, Bulgaria e Ucraina sono i paesi in cui il calo demografico sarà più drastico. Si stima che nel 2050 la popolazione della Polonia conterà 32 milioni di abitanti rispetto ai 38 milioni attuali. Circa 200 scuole sono state chiuse».
    In Europa centrale, la proporzione della popolazione “over 65” è aumentata di un terzo tra il 1990 e il 2010, continua Spadini. La popolazione ungherese ha toccato il punto più basso degli ultimi cinquant’anni. Il numero degli abitanti è sceso dai 10 milioni e 709.000 del 1980 agli attuali 9 milioni e 986.000. «Nel 2050, in Ungheria, ci saranno 8 milioni di abitanti e uno su tre avrà più di 65 anni. L’Ungheria oggi ha un tasso di fecondità di 1,5 figli per donna. Se si esclude la popolazione Rom, questa cifra scende a 0,8, la più bassa del mondo, il motivo per il quale il premier Orbán ha annunciato nuove misure per risolvere la crisi demografica». In Bulgaria, addirittura, «tra il 2015 e il 2050 si registrerà il più veloce calo demografico del mondo». La popolazione bulgara è tra quelle che dovrebbero diminuire di oltre il 15%, insieme a Bosnia Erzegovina, Croazia, Ungheria, Giappone, Lettonia e Lituania, imsieme a Moldavia, Romania, Serbia e Ucraina. «Si stima che la popolazione bulgara, che ammonta a circa 7,15 milioni di abitanti, scenderà a 5,15 milioni entro 30 anni – un calo del 27,9% per cento».
    Secondo dati ufficiali, in Romania sono nati 178.000 bambini. «A titolo di confronto, nel 1990, il primo anno dopo la caduta del regime comunista, ci furono 315.000 nascite. Lo scorso anno in Croazia si sono registrate 32.000 nascite, un calo del 20% rispetto al 2015. Lo spopolamento della Croazia potrebbe portare alla perdita di 50.000 abitanti l’anno». Quando la Repubblica Ceca faceva ancora parte del blocco sovietico (come Cecoslovacchia), il suo tasso di fecondità era opportunamente prossimo al tasso di sostituzione (2,1%). «Oggi è il quinto paese più sterile del mondo». Analoga la situazione della Slovenia: ha il Pil pro capite più alto dell’Europa orientale, ma un tasso di fecondità molto basso. «Alla fine – conclude Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte” – l’immigrazione di massa probabilmente riempirà le culle vuote, ma poi anche l’Europa diventerà una “civiltà fantasma”». Sembra sia solo questione di tempo: «Uno strano tipo di suicidio programmato».

    Civiltà fantasma globalizzata. In Giappone le scuole elementari chiudono, dato che il numero dei bambini è sceso a meno del 10% della popolazione. Il governo sta convertendo queste strutture in ospizi: il 40% della popolazione è di età superiore ai 65 anni. In Giappone, «la nazione più vecchia e più sterile del mondo», l’espressione “civiltà fantasma” è diventata ormai di uso comune, scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”. Secondo stime ufficiali, entro il 2040 la maggior parte delle città più piccole del paese vedrà un drammatico calo della popolazione, dal 30 al 50%. I consigli dei villaggi spariscono, insieme ai ristoranti: nel ‘90 erano 850.000, ora si sono ridotti a 350.000. «Le previsioni suggeriscono che in 15 anni il Giappone avrà 20 milioni di case vuote. È forse anche questo il futuro dell’Europa? Probabile, perché tra gli esperti di demografia c’è una tendenza a definire l’Europa il nuovo Giappone». Da parte sua, il paese del Sol Levante sta affrontando questa catastrofe demografica con le proprie risorse e vietando l’immigrazione musulmana. Ma «anche l’Europa sta subendo una sorta di suicidio demografico», che lo storico britannico Niall Ferguson definisce «la più grande riduzione sostenuta della popolazione europea dopo la peste nera del XIV secolo».

  • Catalogna? Dezzani: tremo per l’Italia, il Nord-Est scapperà

    Scritto il 30/9/17 • nella Categoria: idee • (9)

    Come in Catalogna, così in Lombardia e Veneto: secessione? Dopo le aspirazioni di Barcellona, ecco i due referendum per l’autonomia regionale che si terranno il 22 ottobre nel lombardo-veneto: tra Milano e Venezia sarebbero in azione «gli stessi poteri che sferrarono l’assalto del 1992-1993», poteri stranieri «che hanno oggi condotto l’Italia al default e mirano a smembrare il paese». Lo afferma un analista geopolitico indipendente come Federico Dezzani, che attribuisce a potenze extra-italiane la vera regia del crollo della Prima Repubblica, con il ciclone Mani Pulite ma anche gli attentati terroristici eseguiti da Cosa Nostra tra Roma, Milano e Firenze, senza contare le stragi costate la vita a Falcone e Borsellino. «L’Italia deve osservare da vicino quanto accade in Spagna e prepararsi al peggio», ammonisce Dezzani. «Nell’autunno del 2017 è ufficialmente subentrata la penultima fase dell’eurocrisi: sovraccaricata l’Europa meridionale di tensioni economiche-sociali e portato l’indebitamento pubblico a livello critico grazie alla moneta unica, si fomentano le spinte secessionistiche in seno ai membri più deboli, in vista di un default più o meno ordinato e lo smembramento dei medesimi».

  • Di Maio e Gentiloni, Salvini con Silvio: Italia, non pervenuta

    Scritto il 20/9/17 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Non una parola sui vaccini, silenzio assoluto sull’euro, eppure (o meglio: e quindi) Luigi Di Maio si candida a premier, rispolverando l’antico refrain gandhiano (“prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci”), come se i 5 Stelle avessero davvero combattuto qualche epica battaglia contro il potere responsabile della grande crisi, anche italiana. «Era il segreto di Pulcinella», annota Antonio Fanna sul “Sussidiario” commentando la “discesa in campo” del vicepresidente della Camera, che «ha avviato da tempo il giro delle sette chiese per accreditarsi negli ambienti che contano, perché con gli elettori bisogna mostrare la faccia antisistema ma con i potenti si deve apparire affidabili». Il newsmagazine accusa i grillini: «Il copione ipocrita non cambia: antisistema davanti agli elettori, e codice etico interno addio, modificato a uso e consumo di chi decidono i capi», decisi a proteggersi, come nel caso della Raggi, del sindaco livornese Nogarin e dello stesso Di Maio, denunciato dall’ex candidata genovese dei 5 Stelle. «Sulle proteste contro la magistratura e chi dà seguito alle “querele sul nulla”», per il “Sussidiario” Di Maio «si allinea con Matteo Salvini e la Lega dalle tasche svuotate».

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