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Giganti in Sardegna: scheletri di 4 metri spariti nel nulla
«Venivano qui a giocare con lo scheletro, che era mummificato: ossa, nervi e pelle. Afferravamo il braccio, tiravamo un nervo e gli facevamo muovere le dita della mano. Era un gioco, ma durò poco: 5-6 mesi, poi lo presero». A parlare è Luigi Muscas, figlio di pastori, oggi scultore e scrittore. E’ autore di libri come “Il popolo dei giganti figli delle stelle”, edito nel 2008 da La Riflessione. Un evento: l’inizio della riscoperta dei giganti, nel cuore della Sardegna. Una specie di grande segreto, sistematicamente occultato. Qualcosa che ricorda la denuncia del professor Gaetano Ranieri, dell’università di Cagliari, scopritore – mezzo secolo fa – di 38 “giganti di pietra” a Mont’e Prama, nel Sinis, appartenenti a una civiltà sconosciuta. Secondo Ranieri, il georadar rivela la presenza sotterranea di una città estesa su 16 ettari. Ma l’archeologia esita: non vuole scavare. Per paura di trovare altri giganti, ma in carne e ossa, come quello in cui si imbatté nel 1972 nelle campagne di Pauli Arbarei l’allora giovane Luigi Muscas, che all’epoca aveva appena dieci anni?«Nella grotta del gigante ero finito per ripararami da un acquazzone», racconta Muscas, in un reportage trasmesso nel 2009 da “Cinque Stelle Tv”, storica emittente locale di Olbia. «Quel giorno scappai in paese col gregge e raccontai tutto a mio nonno. E il nonno mi disse: ora ti spiego dove sono sepolti tutti gli altri». Il giovane Muscas allora si fece coraggio e tornò in quella grotta, con i suoi amici, a “giocare” con il gigante. «Non era l’unico: altri scheletri emersero dalle campagne, dove cominciavano a essere impiegati potenti aratri, trainati da trattori cingolati, macchine capaci di scavare il terreno in profondità». Ricorda il video-reportage della televisione di Olbia: Pauli Arbarei (Sud Sardegna, 50 chilometri a nord di Cagliari) è al centro della Marmilla, area in cui sopravvive la tradizione della cosiddetta Città Perduta. «Una leggenda – racconta un anziano del paese – dice che qui c’era una cittadina di diecimila abitanti, almeno 10-12.000 anni fa, con un lago, nel quale era solito pescare un gigante solitario». La storia del gigante pescatore la racconta anche Raffaele Cau, pastore di Pauli Arbarei: «Un nostro terreno di famiglia è chiamato la Terra della Pietra del Gigante, perché ha l’impronta delle natiche dell’essere gigantesco che pescava nel lago».Non solo solo suggestioni: «Grandi ossa sono state portate alla luce dagli aratri dei nuovi trattori cingolati», conferma Cau, la cui testimonianza è tra quelle raccolte da Luigi Muscas nel suo libro. L’autore – spiega “Cinque Stelle Tv” – si appassionò al mistero dei giganti sardi scoprendo che Platone, quando parla di quegli esseri colossali, li descrive come di casa in luoghi molto simili alla Sardegna. L’uscita in libreria de “Il popolo dei giganti figli delle stelle” scatenò una vera e propria operazione-memoria: «Tanti testimoni raggiunsero Muscas per raccontargli di analoghi ritrovamenti vicino ai loro paesi, ma poi tutto sparì nel nulla senza lasciare traccia», dice la Tv di Olbia, che ha comunque raccolto alcune testimonianze dirette. «Nella primavera del 1962, ad aprile o maggio – racconta un uomo di Pauli Arbarei – il trattore smosse il terreno e portò allo scoperto un teschio gigante e poi l’intero scheletro, lungo quasi 3 metri». Un caso isolato? Nemmeno per idea: ne saltarono fuori a decine, nel cantiere archeologico (nuragico) di Sant’Anastasia, nel centro storico di Sardara, a due passi da Pauli Arbarei.In quel cantiere, fra pozzi sacri e tombe, l’operaio Giuseppe Serra lavorò dal 1973 al 1996. «Fra il 1982 e il 1983 – racconta – trovammo più di 40 scheletri, alcuni con anelli al dito». La loro lunghezza? Imbarazzante: 4 metri e 20, 4 metri e 80, anche 5 metri e 10. «Il più piccolo era alto 2 metri e 40 centimetri», dice Serra, alla troupe televisiva. «Erano proporzionati. In alcuni, la testa era grande come la ruota di un’auto». Un collega conferma: «A metà degli anni ‘80, alcuni scheletri erano stati deposti in scatole di cartone dietro l’altare della chiesa, che era sconsacrata: c’erano femori lunghi un metro. Fuori, trovammo scheletri sepolti anche l’uno sopra l’altro». E dove sono finiti? «Non si sa». Conferma Giuseppe Serra: «Le ossa erano state raccolte in sacchi e deposte all’interno della chiesa. Poi sono venuti a rititrarle e non si sa dove siano andate a finire». Dice Luigi Muscas: «Non si da chi li prendesse, quegli scheletri. Ma lì poteva entrare solo chi comandava».Nel 2008, ricorda “Cinque Stelle Tv”, il sindaco di Sardara scrisse alla Soprintendenza Archeologica di Cagliari per chiedere un confronto tra i suoi compaesani, testimoni dei ritrovamenti, e gli archeologi che avevano lavorato nel cantiere di Sant’Anastasia. Il primo cittadino rivoleva indietro i “suoi” reperti, ma l’appello non ricevette nessuna risposta (se non la richiesta, ufficiosa, di lasciar perdere). «Ma Muscas è testardo, e non si è mai fermato: non ha mai cessato di cercare testimoni». Giganti? Certo: ne parla anche la Bibbia, li chiama Nephilim. Uno di loro era Golia, avversario di Davide. Altri giganti, “colleghi” di Golia, abitavano le città filistee (palestinesi) come Gaza. La letteratura ebraica considera i giganti come figli dell’unione impropria tra “figli dei dèi” e “figlie degli uomini”. Secondo Zecharia Sitchin, invece, nelle tavolette sumere è scritto che il “popolo dei giganti”, progenitori dell’umanità come gli Anunnaki, proveniva dal pianeta Nibiru. Le testimonianze letterarie sugli esseri giganteschi sono innumerevoli, ma l’archeologia sembra non volersene occupare: come spiegare quelle inquientanti presenze ossee?L’ultima ipotetica scoperta – scrive “L’Unione Sarda” – è molto recente: un femore fuori misura sarebbe stato ritrovato a Mont’e Prama (la terra delle statue giganti) il 15 ottobre 2015. “Spunta uno scheletro gigante ed è subito silenzio”, titola il sito “Sardegna Sotterranea”, facendo notare però che, dopo le iniziali ammissioni di Nello Cappai, sindaco di Guamaggiore, sul caso sarebbe stata fatta calare la solita coltre di riserbo. Per dare un’occhiata a qualche reperto osseo fotografato o filmato vale la pena di visionare il reportage di “Cinque Stelle Tv”, che riporta anche una impressionante selezione delle testimonianze raccolte da Luigi Muscas nel suo famoso libro sul “popolo dei giganti figli delle stelle”. Racconta un uomo di Pauli Arbarei: «Un giorno, mia figlia piccola rincasò spaventata per aver visto degli scheletri giganti», in un cantiere nuragico. «Il capo degli archeologi aveva rimproverato i bambini, intimando loro di non guardarli, perché erano “i diavoli”. Andammo al nuraghe e vidi anch’io gli scheletri». Aggiunge l’uomo: «Ne avevo visti già nel 1958 in Costa Smeralda, ai cantieri dei primi impianti turistici».«Rientrando dalla campagna – ricorda Giorgina Medda, sempre di Pauli Arbarei – mio padre Raimondo (classe 1874) diceva: anche oggi ho trovato un osso di un gigante». Aggiunge la donna: «In un nostro terreno c’era una tomba: da una fessura di notava il luccichio di metalli». Giganti misteriosi anche nell’esperienza di Angelo Ibba, agricoltore di Sardara: «Mi è capitato di vedere un gigante nel 1938. L’aratro si incastrò in una lastra di pietra, che aveva dei fori disposti in modo tale da rappresentare un disegno. Nella buca c’era un teschio enorme. Ricoprimmo tutto: quelle ossa sono ancora là». A volte, le ossa gigantesche vengono allo scoperto nei cantieri edili. Virgilio Saiu, muratore di Pauli Arbarei (classe 1915), racconta: «Nel 1950, nel fare le fondamenta per la casa di Francesco Lai, dietro la chiesa di Sant’Agostino, io e altri trovammo una tomba enorme, grande tre volte me. Rimosso il coperchio di pietra, apparve uno scheletro gigantesco. Aveva sicuramente un vestito: un mantello nero di stoffa, che al contatto con l’aria si deteriorò. Nella tomba, c’erano anche tre monete d’oro. In paese la voce si sparse, arrivò il prete e ritirò lui le monete: disse che le avrebbe consegnate a chi di dovere».Si tratta di un ricordo preciso: «Quelle monete erano d’oro massiccio, lucenti, di dimensioni paragonabili a quelle delle vecchie 100 lire». E le ossa? «Erano grandi: la testa enorme, le narici grandi quanto il mio pugno. La dentatura ancora perfetta, i denti lunghi quanto le dita delle mie mani. Tutte le articolazioni erano ancora intatte. E le dita delle mani erano grosse e lunghe 20 centimetri». Si rammarica, Virgilio Saiu: «Purtroppo, non comprendendone l’importanza, lasciammo le ossa sepolte nella fondazione della casa. E sono ancora lì». Il muratore assicura poi di aver visto altri scheletri, «in località Nuragi De Passeri, nel terreno di Natale Pusceddu, durante i lavori per piantare una vigna». Precisa: «Insieme a me c’erano Candido Toco, Luigi Noaruffu, Sperandiu Scanu e suo fratello, e Angelo Mandis». Le vanghe portarono alla luce 20 lastre di pietra. «Nelle tombe c’erano scheletri enormi, lunghi più di 3 metri, qualcuno anche 4. Il proprietario ci chiese di non dire niente a nessuno, perché altrimenti avrebbero fermato i lavori. E così anche quegli scheletri furono rotti e lasciati nella vigna».Il gigante poteva spuntare anche nel giardino di casa. Lo spiega Eugenio Concu, di Ussaramanna. «Quando avevo 10 anni, nel 1971, facemmo gli scavi per il pozzo nero. E a 50 centimetri di profondità iniziammo a intravedere quattro grosse teste, cinque volte più grandi delle nostre. Scavando, scoprimmo quattro grandi scheletri: erano seppelliti a forma di croce. Erano molto lunghi, avevano mani grandissime e la testa allungata. I denti erano tutti intatti e bianchissimi, lunghi 5-6 centimetri. Ne sono sicuro, perché li lavammo e li misurammo». Aggiunge Eugenio: «Avvisammo il parroco di Ussaramanna: ci disse che gli scheletri erano cartaginesi, e ci chiese di gettarli nella discarica». Detto fatto: «Con l’aiuto dei miei fratelli li facemmo a pezzi e li caricammo nella carriola. E dopo 4-5 viaggi ce ne sbarazzammo. Sfortunatamente, ignoravamo cosa fossero: altrimenti avremmo potuto tenerne almeno uno».Tra le tante storie raccolte da Luigi Muscas, forse la più sconcertante è quella di Salvatore Pilloni, di Gonnoscodina. «Alle elementari – racconta – i maestri scoperchiavano le tombe. Ci portavano con pale e picconi nel Campo degli Aztechi per andare a scavare le tombe. Alcune erano normali, altre gigantesche (oltre i 4 metri: i maestri le misuravano con il metro). Uno scheletro era lungo 3 metri e 86 centimetri, i piedi erano lunghi 60 centimetri, e il femore ben 1 metro e 43 centimetri. La testa era grande quanto quella di un cavallo, solo che le fattezze erano umane». Dice Salvatore: «Avevo solo 9 anni, ma ricordo bene che le ossa erano rivestite da una pellicina, come se fossero mummificate. Infatti avevano tutti i tendini ancora intatti. E quando venivano sollevati, gli scheletri si muovevano come marionette». Che ne fu, di quei resti? «Alla fine li presero i nostri maestri», di cui Pilloni fa anche i nomi. Ufficialmente, i giganti non sono mai esistiti. E i debunker liquidano la faccenda nel solito modo: bufale. Davvero? E perché mai tante persone ormai anziane dovrebbero raccontare frottole così ben documentate? Sugli Ufo, il “cover-up” è finito. A quando, dunque, la verità sui giganti? Tanto per cominciare: dove sono finiti, i maxi-scheletri di Sardara e Pauli Arbarei?«Venivamo qui a giocare con lo scheletro, che era mummificato: ossa, nervi e pelle. Afferravamo il braccio, tiravamo un nervo e gli facevamo muovere le dita della mano. Era un gioco, ma durò poco: 5-6 mesi, poi lo presero». A parlare è Luigi Muscas, figlio di pastori, oggi scultore e scrittore. E’ autore di libri come “Il popolo dei giganti figli delle stelle“, edito nel 2008 da La Riflessione. Un evento: l’inizio della riscoperta dei giganti, nel cuore della Sardegna. Una specie di grande segreto, sistematicamente occultato. Qualcosa che ricorda la denuncia del professor Gaetano Ranieri, dell’università di Cagliari, scopritore – mezzo secolo fa – di 38 “giganti di pietra” a Mont’e Prama, nel Sinis, appartenenti a una civiltà sconosciuta. Secondo Ranieri, il georadar rivela la presenza sotterranea di una città estesa su 16 ettari. Ma l’archeologia esita: non vuole scavare. Per paura di trovare altri giganti, ma in carne e ossa, come quello in cui si imbatté nel 1972 nelle campagne di Pauli Arbarei l’allora giovane Luigi Muscas, che all’epoca aveva appena dieci anni?
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Nibiru ci sta venendo addosso? Shimschuck: è un segreto
Come scienziato, ho trascorso gran parte della mia vita nella ricerca di risposte semplici a domande difficili. Sono votato alla verità, e per lungo tempo ho aiutato a nascondere una verità che potrebbe costare milioni o miliardi di vite. Come molti dei miei colleghi, ho temuto per la mia vita. Ora non ho parenti in vita, e la mia coscienza non poteva sopportare a lungo il peso della colpa. Dovevo rendere pubblica la verità per l’umanità intera.Vogliono mantenere gli occhi e l’attenzione del pubblico su qualsiasi cosa, ovunque, ad eccezione di dove dovrebbero essere concentrati: nello spazio. Il sistema di Nibiru è già naturalmente visibile, attraverso i più potenti telescopi, dall’emisfero Sud del pianeta, ma non è consentita la divulgazione pubblica delle sue immagini. Quel sistema gode inoltre di una sorta di occultamento naturale, consistente nella densa nube di ossido di ferro che lo circonda, estesa per sette milioni di miglia in tutte le direzioni. Se vi sveglierete una mattina e vedrete polvere di ossido di ferro sul vostro parabrezza, Nibiru sarà probabilmente a meno di dodici ore di distanza.Cos’è Nibiru? Si tratta di un termine generico per quello che io e altri conosciamo come “Sistema Nibiru”. In sostanza è un sistema stellare indipendente, che si interseca con il nostro. Al suo cuore ha una stella nana bruna delle dimensioni pari ad un ottavo del nostro Sole. Questa nana bruna ha in orbita attorno a sé sette pianeti, alcuni più piccoli della nostra Luna, altri più grandi della Terra. La preoccupazione maggiore è rappresentata dal terzo pianeta di questo sistema, che ha diverse volte la massa della Terra con un nucleo di nichel-ferro. Si prevede che questo pianeta passerà entro 0,3 UA dalla Terra (una UA, Unità Astronomica, corrisponde alla distanza Terra-Sole, ndr). Lo scenario peggiore? Un evento a livello di estinzione. Niente sul pianeta sopravviverà, nemmeno un batterio. Il migliore: spostamento dei Poli, accompagnato da un innalzamento del livello dei mari, eruzioni vulcaniche, tsunami che invadono per centinaia di miglia l’entroterra. Terremoti di magnitudine 10 lungo le linee di faglia e da sei a otto di magnitudine in molte altre aree. Fondamentalmente, tutte le parti peggiori della Bibbia.Le persone con conoscenza non fanno confessioni se non sul letto di morte: per paura del male che possono fare ai loro cari. Dubito che mi sarei fatto avanti, se altri – come il dottor Eugene Ricks – non avessero fatto quel primo passo, un passo coraggioso. Ormai abbiamo raggiunto un precipizio: cinque, dieci, trenta anni fa, i governi del mondo avevano una “rete di sicurezza” e la convinzione che avrebbero potuto nascondere la verità quasi all’infinito. Ora che il tempo è trascorso, credo che si rendano conto che la verità circa “l’intruso” non possa essere nascosta ancora a lungo. Da quanto tempo si è al corrente del problema Nibiru? Credo che lo conoscessero fin dagli anni ‘50. Ma io personalmente ne sono a conoscenza fin dai primi anni ‘80. Sì, i principali governi del mondo, ognuno a proprio modo, cospirarono contro la popolazione mondiale per mantenere questo segreto, che è quello più accuratamente conservato nella storia dei cosiddetti segreti.Le tre grandi potenze – Stati Uniti, Russia e Cina – hanno da tempo attivato un “protocollo secondario”, il che significa che si sono preparati bunker sotterranei e che “governi secondari e provvisori” sono pronti per essere operativi. Le scie chimiche? E’ decisamente possibile che le irrorazioni aeree di aerosol servano per molteplici finalità. Io davvero non lo so, ma niente mi sorprende più. So per certo che una delle ragioni è di impedire, oscurare e ritardare la visibilità del sistema Nibiru. Questo lo so perché ho visto della documentazione sulla cosa. Stanno spruzzando adesso – lo hanno fatto per anni – perché le scie chimiche (di cui io non ero informato sulla precisa composizione), combinando riflettenti e translucenti nano-fibre con l’ossido di alluminio, un altro loro ingrediente, creano una barriera, una sorta di schermo per offuscare e per limitare la visibilità delle ottiche naturali e artificiali. C’è una degradazione marginale nel corso del tempo, ma il composto persiste nell’atmosfera e continua ad auto-ricostruire se stesso.(Ronald Shimschuck, dichiarazioni rilasciate in un’intervista concessa al sito “Someonesbones.com” e riprese da Nicola Bizzi in un saggio proposto su “Archeomisteri” nel 2016, ora rilanciato anche su Facebook. Astrofisico con dottorato di ricerca al Mit, Shimschuck ha lavorato a lungo per la Nasa. Lo scienziato sostiene di aver appreso dell’esistenza del “problema” mentre era coinvolto con il programma Sts dell’agenzia spaziale statunitense, nel 1985, venendo a conoscenza di un ordine esecutivo segreto, firmato dall’allora presidente Ronald Reagan, che vietava qualsiasi discussione pubblica su Nibiru. Nel timore che l’avvicinarsi del sistema solare “intruso” – ciclicamente vicinissimo all’orbita terrestre – possa causare immani devastazioni al nostro pianeta, Shimschuck dichiara che Usa, Russia e Cina hanno imposto sull’argomento il silenzio più assoluto, proibendo agli scienziati di parlarne. Per il sumerologo Zecharia Sitchin, proprio da Nibiru provennero gli Anunnaki, che avrebbero “fabbricato” geneticamente l’umanità, o almeno una parte di essa, ibridando il loro Dna con quello dell’Homo Erectus).Come scienziato, ho trascorso gran parte della mia vita nella ricerca di risposte semplici a domande difficili. Sono votato alla verità, e per lungo tempo ho aiutato a nascondere una verità che potrebbe costare milioni o miliardi di vite. Come molti dei miei colleghi, ho temuto per la mia vita. Ora non ho parenti in vita, e la mia coscienza non poteva sopportare a lungo il peso della colpa. Dovevo rendere pubblica la verità per l’umanità intera. Vogliono mantenere gli occhi e l’attenzione del pubblico su qualsiasi cosa, ovunque, ad eccezione di dove dovrebbero essere concentrati: nello spazio. Il sistema di Nibiru è già naturalmente visibile, attraverso i più potenti telescopi, dall’emisfero Sud del pianeta, ma non è consentita la divulgazione pubblica delle sue immagini. Quel sistema gode inoltre di una sorta di occultamento naturale, consistente nella densa nube di ossido di ferro che lo circonda, estesa per sette milioni di miglia in tutte le direzioni. Se vi sveglierete una mattina e vedrete polvere di ossido di ferro sul vostro parabrezza, Nibiru sarà probabilmente a meno di dodici ore di distanza.
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Sumeri, fenici e romani in America: la nostra vera storia
Chi siamo? Da dove veniamo? Dobbiamo imparare dai bambini: loro si chiedono sempre il perché di tutto. Io amo Platone, il suo metodo dialogico. Maieutica, in greco, significa ostetricia: farti nascere, stimolarti a trovare le risposte dentro di te. Nessuno di noi ha la verità in tasca, ma ognuno ha la capacità di arrivare a individuare una verità possibile. Il termine “verità” probabilmente è troppo grande, da usare. Però possiamo parlare di menzogna, questo sì. Da storico, ho sempre voluto indagare nei retroscena, della storia e della realtà che viviamo. E mi sono reso conto che tutto ciò che ci è stato insegnato è stato sempre finalizzato ad un solo obiettivo: il mantenimento dello status quo, il potere di chi comanda. Triste realtà: la storia la scrivono sempre i vincitori. I vinti, chiunque siano – i Troiani sconfitti dagli Achei, i Greci sconfitti dai Persiani, gli abitanti dell’Amazzonia sconfitti dalla deforestazione – non riescono mai a scriverla, la verità: vengono ridotti al silenzio. Sbagliatissimo: perché la ricostruzione del nostro passato riguarda tutti noi, sia i vincitori che i vinti, quelli che non hanno avuto la parola. E l’insegnamento della storia è sempre stato finalizzato a salvaguardare il potere di chi ha vinto.Quante bugie ci hanno raccontato, a partire dalla preistoria? Come ci sono state raccontate, le origini dell’umanità? Quante mistificazioni sono state perpetrate? In materia di storia e archeologia, lo Smithsonian Institute è una delle principali istituzioni culturali degli Stati Uniti, dove gestisce decine di musei. Ebbene, di recente è stato condannato da un tribunale federale americano, dopo una serie di denunce, per aver deliberatamente distrutto – nel corso di svariati decenni – migliaia di reperti archeologici “scomodi”. Perché mai distruggere un reperto archeologico? Perché tutto quello che va a infrangere il paradigma dominante è tabù: è vietato. Quest’anno c’è stata una censura terribile, su Internet, che continua tuttora. Ora, abbiamo a che fare con una situazione particolare: e chi mi conosce sa bene che, da un anno, sto combattendo una battaglia per la verità. Perché ci stanno raccontando parecchie bugie, su tanti fronti. Bugie sempre finalizzate al potere, al controllo, al dominio sulle masse. E la censura, purtroppo, fa parte di questo gioco: come nei tempi antichi, e poi nel medioevo e oltre.Fino al Sei-Settecento è rimasta il vigore la cosiddetta Santa Inquisizione: se personaggi come Galileo se la sono cavata abiurando, altri – come Giordano Bruno – hanno pagato con la vita il loro impegno a sostenere delle verità che il potere pretendeva di negare, di nascondere. E’ bene studiare, quindi, la vera origine e il reale percorso delle grandi civiltà. Ma soprattutto, è importante capire perché ci hanno imposto dei dogmi. Come mai la storia è piena di dogmi? Vengono chiamati “paradigmi”, ma in realtà sono veri e propri dogmi di fede. Io mi sono poi laureato in storia, ma la mia grande passione è sempre stata l’archeologia. Eppure faticavo: già ai tempi dell’università io ragionavo con la mia testa, e mi scontravo con i docenti. Mi dicevano: guarda che queste cose non le puoi dire. Non mi hanno mai detto: le tue osservazioni sono sbagliate. Macché: implicitamente mi davano ragione; ma mi spiegavano che certe cose non le potevo dire, perché infrangevano il famoso paradigma. Si deve sempre diffidare di chi pretende di essere un dispensatore di verità, da accettare come dogmi di fede.Si deve poter parlare di tutto: anche di Atlantide, e di altri continenti perduti. Perché mai, specie nella nostra civiltà occidentale, ci è sempre stato negato di conoscere un certo passato? Ho partecipato sul campo a tanti scavi archeologici (in Turchia, in Iran, in vari altri paesi) e conosco bene l’ambiente dell’archeologia. In effetti, tutto quello che non è coerente con i paradigmi vigenti, viene deliberatamente nascosto. Ci sono migliaia di reperti “scomodi” che sono stati distrutti. Ci sono siti “scomodi” che sono stati ricoperti e nascosti, addirittura vietandone l’accesso. E ci sono migliaia di reperti archeologici che vengono tuttora nascosti negli scantinati dei musei. E c’è un perché: danno fastidio. Potrebbero portare le persone a riflettere su altre sfaccettature della verità. Attraverso le civiltà antiche, ad esempio, si può arrivare a capire come si sono imposte le grandi religioni monoteistiche. Non voglio urtare la suscettibilità di nessuno, il mio atteggiamento è di grande rispetto; faccio però notare che Ebraismo, Cristianesimo e Islam hanno un comportamento dogmatico, esclusivistico.Io parlo di tutto: anche di come un’antica civiltà, di impronta matriarcale (presente in Europa fino alla tarda Età del Bronzo), sia stata poi soppiantata da una nuova cultura, di tipo patriarcale, che ha stravolto completamente gli antichi schemi della società. Anche questo viene generalmente omesso, dalla storiografia: viene taciuto, perché “scomodo”. Ancora oggi, infatti, ci troviamo in una società patriarcale, e quindi è diventato scomodo (quasi eretico) parlare di quello che c’era prima, e spiegare perché l’antica società matriarcale sia stata sostituita con il modello patriarcale. La Guerra di Troia è stata una delle vicende più epocali della storia antica. Molti pensano che sia stata semplicemente una guerra commerciale, per il controllo del traffico marittimo tra l’Egeo e il Mar Nero. Niente di più falso: quella fu una guerra di religione, e di cultura. Fu veramente l’apice dello scontro fra matriarcato e patriarcato. La civiltà troiana era fondata sul matriarcato e sul culto delle antiche divinità, gli dèi Titani, mentre gli avversari incarnavano una società patriarcale e bellicosa. Gli Achei si scontrarono con Troia per eliminare una cultura avversa.Il paradigma dominante deforma la storiografia anche riguardo al lungo arco del medioevo, a partire da quelle che sono state considerate eresie. Come mai il Cristianesimo ha considerato eretiche tante altre dottrine? Come mai è stata perseguitata quella che è stata chiamata stregoneria? Alludo a decine di migliaia di donne: non particavano magia, non celebravano oscuri rituali; semplicemente, praticavano ancora un rapporto simbiotico con le forze della natura (come già le loro antenate, per millenni). Conoscevano le proprietà curative delle erbe, secondo una tradizione millenaria: perché sono state torturate e condannate al rogo come streghe? Bisogna riflettere, su tutti questi sconvolgenti aspetti del nostro passato: perché purtroppo non riusciremmo mai a comprenderlo a fondo, il presente che viviamo, e nemmeno il futuro che ci attende, se non conosciamo davvero il nostro passato, cioè tutti gli errori che abbiamo commesso, e soprattutto tutti gli inganni che ci hanno propinato.Vogliamo parlare di quella che è considerata la scoperta dell’America? Il mio ultimo libro si intitola “I Minoici in America e le memorie di una civiltà perduta”. A scuola ci hanno insegnato che l’America è stata scoperta da Cristoforo Colombo nel 1492. Una data simbolica, con la quale si vuole chiudere il medioevo e far iniziare l’età moderna. Ma poi, prove alla mano (dati archeologici), ci accorgiamo che in America ci sono andati tutti, prima di Colombo. Nel Gran Canyon del Colorado hanno trovato addirittura delle tombe egizie. Ovunque, in Brasile, le rocce sono piene di incisioni in lingua fenicia. Un manoscritto custodito nella biblioteca di Rio de Janeiro documenta il ritrovamento di un’antica città greca. Se andiamo in Messico, nel sito di Comalcalco (nella regione del Chiapas), sembra di essere a Ostia antica: è l’unica città dell’area Maya non edificata con pietre, ma con mattoni, secondo le tecniche edilizie romane. Mattoni con impressi i marchi dei fabbricanti, come usavano i costruttori romani (ci sono pure i loro nomi, infatti).Sempre in Messico sono state trovate delle teste di terracotta prettamente romane. Monete romane sono state trovate ovunque, nel territorio americano. Addirittura, un capo indiano dell’importante tribù dei Nasi Forati, sconfitto nel 1878 dal neonato esercito degli Stati Uniti, prima di essere costretto a trasferirsi in una riserva insieme al suo popolo, volle donare un omaggio al generale che l’aveva battuto sul campo: era il ciondolo che portava al collo, con – incastonata – una tavoletta in terracotta di origine sumera, scritta in caratteri cuneiformi. La sua tribù se l’era tramandata, di generazione in generazione, da millenni. Questa tavoletta – oggi esposta in un museo, in America – è stata tradotta. E’ una banalissima tavoletta d’archivio, che contiene una transazione commerciale: è la ricevuta d’acquisto di alcune capre, comprate per compiere un sacrificio propiziatorio alla vigilia di un lungo viaggio. Quindi, qualcuno – in Mesopotamia – ha comprato delle capre e le ha sacrificate, forse per propiziare la fortuna in vista del lungo viaggio che stava per intraprendere; ma questo viaggio l’ha portato dall’altra parte dell’Oceano, insieme alla ricevuta d’acquisto delle capre: quella tavoletta è finita in America.In Bolivia, negli anni ‘80, è stato scoperto un grande vaso rituale in pietra, per libagioni e offerte votive, che al proprio interno ha iscrizioni in sumero: cuneiforme sumerico, come quello della tavoletta del navigatore. Gli esempi analoghi sono centinaia. In Canada, ad esempio, è pieno di iscrizioni celtiche. Poi sappiamo – perché è documentato – di una flotta salpata da Portovenere, vicino a La Spezia, nel 1442: una flotta di navi fiorentine, comandata da Amerigo Vespucci (non quello che conosciamo: era suo nonno, e anche lui si chiamava Amerigo). Il 4 luglio di quell’anno, questa flotta arrivò all’estuario del fiume San Lorenzo, sulla costa atlantica del Canada, cinquant’anni prima del viaggio di Colombo. Di queste cose non troverete notizia, nei libri di storia, perché l’America era uno dei massimi segreti di Stato della famiglia Medici, che a Firenze iniziarono a importare l’oro americano: erano bravi banchieri, sapevano il fatto loro. Io ho trovato le prove di quel viaggio, e anche i nomi delle navi (che erano sette) e dei loro comandanti. La data di arrivo è stata tramandata, dai padri costituenti degli Stati Uniti: la festività del 4 Luglio non l’hanno creata a caso, ma in ricordo dell’arrivo delle navi fiorentine in America.(Nicola Bizzi, dichiarazioni rilasciate nella video-conferenza “Ripensare la storia”, su YouTube il 1° aprile 2021, a cura della Libera Università di Nuova Pedagogia, presso cui lo stesso Bizzi, storico e editore di Aurora Boreale, terrà un corso on line di storia “divergente”, dal titolo “Ripensare la storia: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo”. Un ciclo di 15 incontri per riflettere e per comprendere le nostre origini e il nostro ruolo su questo pianeta, immaginando anche il futuro che ci attende. Per informazioni sulle modalità di partecipazione al corso, basta inviare un’mail a: nuovapedagogia@gmail.com).Chi siamo? Da dove veniamo? Dobbiamo imparare dai bambini: loro si chiedono sempre il perché di tutto. Io amo Platone, il suo metodo dialogico. Maieutica, in greco, significa ostetricia: farti nascere, stimolarti a trovare le risposte dentro di te. Nessuno di noi ha la verità in tasca, ma ognuno ha la capacità di arrivare a individuare una verità possibile. Il termine “verità” probabilmente è troppo grande, da usare. Però possiamo parlare di menzogna, questo sì. Da storico, ho sempre voluto indagare nei retroscena, della storia e della realtà che viviamo. E mi sono reso conto che tutto ciò che ci è stato insegnato è stato sempre finalizzato ad un solo obiettivo: il mantenimento dello status quo, il potere di chi comanda. Triste realtà: la storia la scrivono sempre i vincitori. I vinti, chiunque siano – i Troiani sconfitti dagli Achei, i Greci sconfitti dai Persiani, gli abitanti dell’Amazzonia sconfitti dalla deforestazione – non riescono mai a scriverla, la verità: vengono ridotti al silenzio. Sbagliatissimo: perché la ricostruzione del nostro passato riguarda tutti noi, sia i vincitori che i vinti, quelli che non hanno avuto la parola. E l’insegnamento della storia è sempre stato finalizzato a salvaguardare il potere di chi ha vinto.
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Loggia Ungheria: i media tacciono, le toghe insabbiano?
Diciamo la verità: se non fosse stato per Nino Di Matteo che ha rotto il gioco, tutta questa vicenda delle logge segrete, dei pasticci dentro la magistratura, dei veleni, degli imbrogli, e parallelamente le storie strane dell’ex premier Conte, tutte queste cose qui non le avremmo mai sapute. I migliori campioni della Magistratura Intransigente, e i grandi giornalisti, e i grandi giornali di inchiesta, avevano seppellito tutto sotto la sabbia. Shhh, avevano sibilato. Shhh: omertà. Non è così? Figuratevi se a me, che di Di Matteo ho sempre parlato, scritto e pensato tutto il male possibile, non costa molto questa ammissione: però è il vero. Non cancello neanche una frazione delle critiche che da anni rivolgo a Di Matteo, e tuttavia bisogna riconoscergli che ha dimostrato di essere una persona onesta e che rispetta la legge e che non guarda in faccia a nessuno. È strano? Non dovrebbe essere strano. Nel senso che magari una persona normale dai magistrati si aspetta sempre un comportamento come quello di Di Matteo.
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I Medici e l’Inca: l’America a Firenze prima di Colombo
Lorenzo il Magnifico discendeva direttamente dalla linea di sangue reale Inca. Era un meticcio: metà italiano (fiorentino) e metà andino. E la vera origine – occultata – del gran signore di Firenze, massimo promotore del Rinascimento italiano, dimostra una verità che ancora non si vuole ammettere, anche se sta ormai emergendo. Quale? Eccola: le maggiori signorie italiane rinascimentali (non solo Firenze, ma anche Milano e altre) erano in strettissimo contatto con le potenze d’oltreoceano. Legami pericolosi, per la Chiesa dell’epoca, perché rischiavano di demolire la teologia cristiana e il potere ecclesiastico, ripristinando l’antica conoscenza universale racchiusa nel culto solare, a cui sarebbe ispirata la stessa urbanistica rinascimentale, che nelle piazze italiane avrebbe riprodotto le piazze cerimoniali incaiche. E’ la tesi sostenuta da uno straordinario ricercatore come Riccardo Magnani, autore nel 2020 del saggio “Ceci n’est pas Leonardo” (ovvero, “Quello che non vi dicono su Leonardo da Vinci e il Rinascimento”).La stessa spedizione di Colombo del 1492, da cui si pretende inizi l’era moderna, secondo Magnani sarebbe un’invenzione storica: un escamotage del Vaticano per poi aprire la strada alla sanguinosa conquista cristiana delle Americhe, allo scopo di spezzare il legame con l’élite europea allora incarnata dalle signorie italiane come quella medicea. L’analisi di Magnani, tra le altre cose, ha il pregio di accendere i riflettori su dettagli che, in realtà, sono da sempre sotto gli occhi di tutti, benché sembra che si faccia finta di non vederli. Uno di questi è la presenza della “mascapaicha”, tradizionale copricapo Inca, nei dipinti della corte medicea (ben prima dell’ipotetica missione delle famose caravelle). «Fino ad oggi – scrive Magnani sul “Wall Street International Magazine” – nessuno ha posto l’accento sul fatto che, tra le innumerevoli evidenze contenute nell’arte rinascimentale, a rivelarci l’esistenza di numerosi viaggi in America (di gran lunga anteriori a quello presunto di Cristoforo Colombo) vi sia un antico simbolo regale e sacerdotale del popolo Inca, costituito da tre piume da portare in capo».Ufficialmente, scrive, le tre piume su mazzocchio vengono iscritte tra le imprese familiari del primo Rinascimento a partire da quella personale di Cosimo il Vecchio, che si vuole esser stata inserita per la prima volta nel tempietto del Santo Sepolcro: un edificio collocato nella cappella ancora oggi consacrata e annessa alla ex chiesa di San Pancrazio, accanto alla Basilica di Santa Maria Novella a Firenze. «Il tempietto, posizionato nel Sacello che si ispira al modello della Basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme, è costruito su progetto di Leon Battista Alberti e raccoglie le spoglie del suo committente, Giovanni di Paolo Rucellai, morto nel 1481». Le magnifiche tarsie che decorano le pareti esterne del sacello del Santo Sepolcro – continua Magnani – presentano le formelle istoriate che riportano gli stemmi araldici di Lorenzo il Magnifico, Cosimo il Vecchio e Piero il Gottoso. Lo stemma di Giovanni Rucellai, il committente, «rappresenta una vela spiegata al vento, con le sartie sciolte, forse proprio a intendere l’uso alla navigazione transoceanica».Iniziato nel 1457, il tempietto venne completato nel 1467. Non è neppure la prima volta che le tre piume vengono associate al “Pater Patriæ” fiorentino: esiste infatti un dipinto antecedente al tempietto – spiega lo studioso – in cui ritroviamo Cosimo il Vecchio associato a questo particolarissimo ornamento: siamo nella Cappella dei Magi del palazzo di famiglia, Palazzo Medici Riccardi in Via Larga a Firenze. «Qui, nel 1459 Benozzo Gozzoli dipinge il Corteo dei Magi, un affresco che tra le pieghe della sua rappresentazione risulta celebrativo proprio dei primi viaggi in America». L’opera celebra anche i personaggi che, a vario titolo, «si legarono alla famiglia de’ Medici in questa avventura, che condurrà in seguito Sisto IV e molti suoi alleati a ordire la Congiura dei Pazzi», delinando una palese ostilità tra la potenza romana e quella fiorentina. Il pretesto iconografico di questo decisivo ciclo di affreschi, ricorda Magnani, è quello dei festeggiamenti che la città di Firenze riservò a Mattia Corvino, eletto in quell’anno Re d’Ungheria, che proprio per questo guida il corteo a cavallo.Secondo Magnani, è palesemente errata l’interpretazione data finora dagli storici dell’arte, che lo identificano con un ritratto poco realistico di Lorenzo il Magnifico, forse in un tentativo di esaltarne la bellezza e la magnificenza. «Nonostante la presenza in questi affreschi dei molti bizantini che parteciparono al Concilio di Firenze – dice il ricercatore – è da ritenersi che i Magi a cui il corteo nominalmente si riferisce siano proprio i Magiari», cioè gli ungheresi, «guidati dal neoeletto Mattia Corvino», e quindi non i sacerdoti-astrologi dell’antica religione persiana di Zoroastro, il Mazdeismo, che secondo il Vangelo di Matteo giunsero a Beltemme, condotti dagli astri, per onorare la nascita di Gesù. Nel dipinto dei Medici, i Magi – secondo Magnani – sono idealmente rappresentati dal bizantino Giorgio Gemisto Pletone (riferimento culturale assoluto del primissimo Rinascimento), dal patriarca di Costantinopoli e da Giovanni VIII Paleologo, anch’esso di Bisanzio.«Gli Ungheresi – scrive Magnani – ebbero un ruolo attivo nei primissimi viaggi oltre oceano», tanto da potersi imputare a loro persino la scelta del nome dato al Nuovo Mondo: «Il nome America, infatti, è derivato da Emmerich (Amerigo, in italiano), figlio di Stefano I, primo Re d’Ungheria e fondatore della Chiesa Ungherese». Per lo studioso non deve stupire, dunque, o ritenersi anacronistico, che all’interno dello sviluppo del Corteo che accompagna Mattia Corvino – tra animali, piante, scene di caccia e rappresentazioni geografiche del nuovo mondo – Cosimo il Vecchio venga ritratto da Benozzo Gozzoli nei panni di un imperatore Inca (nello specifico Pachacutéc, che proprio nel 1459 morirà), con la classica pettinatura dei nativi sudamericani, la tipica tunica bordata d’oro del sommo sacerdote Inca e le tre piume in testa. «Sarà proprio questo particolare ad aiutarci a fare maggior chiarezza sul significato intrinseco di queste tre piume, e del perché sono diventate un emblema associabile alle famiglie che per prime, con molti anni di anticipo, ebbero contatti amichevoli con i nativi del Sudamerica».Il copricapo indossato da Cosimo il Vecchio, infatti, è la “mascapaicha” (parola di derivazione quechua), considerata in patria un simbolo assoluto del potere imperiale incaico. La “mascapaicha”, infatti, «garantiva al Sapa Inca il titolo di Governatore di Cusco e, a partire proprio da Pachacutéc (la cui statua da pochi anni è eretta nella Plaza des Armas di Cusco), di tutto il Tahuantinsuyo, ovvero di tutto il Perù, il più grande Impero dell’America precolombiana». Il riferimento a questo oggetto ornamentale, usato per sottolineare uno status di ceto e ruolo nella gerarchia religiosa Inca – spiga Magnani – è importantissimo: non solo per le implicite deduzioni cronologiche che comporta, in ordine ai primi viaggi nelle Americhe (viste le datazioni di cui stiamo parlando), ma anche per la corretta interpretazione del ciclo pittorico di Benozzo Gozzoli all’interno di Palazzo Medici Riccardi a Firenze. «Solo il Sapa Inca, infatti, poteva portare la “mascapaicha” più importante, che veniva tramandata da un sacerdote all’altro soltanto in caso di morte del predecessore».Questo ornamento, ricorda Magnani, era costituito da un filo intrecciato dello spessore di un dito, che veniva poi avvolto quattro o cinque volte attorno alla testa. All’epoca ne esistevano di tre tipi: rosso e blu per gli Incas dominanti, nero per gli Incas inferiori o di poco titolo, e poi il Llautu, una nappa di colore rosso e giallo (come appunto quello indossato da Cosimo il Vecchio) per la famiglia reale. Erano le Acllas (dette anche Vergini del Sole, donne prescelte all’interno della comunità Inca) che tessevano il Llautu, chiamato anche Paicha, «termine che esprime la congiunzione di spazio e tempo, assimilabile come concetto al compendio tra energia maschile e femminile». Il Llautu era costituito da una sottile, lunga treccia di lana rossa intarsiata da fili d’oro, ed era di uso esclusivo della famiglia reale. A completamento dell’ornamento imperiale, tre piume di Corequenque (il caracara andino, un rapace del Sudamerica dal piumaggio nero e bianco) venivano infilate nel Llautu.«Alla luce di tutto ciò – ragiona Magnani – è chiaro quindi che l’impresa considerata appartenente a Cosimo de’ Medici, e inserita nel tempietto del Santo Sepolcro, derivi idealmente da ciò che egli indossa nel dipinto di Benozzo Gozzoli di qualche anno prima: un omaggio a Pachacutéc, il primo imperatore Inca, che evidentemente Cosimo il Vecchio conosceva, se non altro nominalmente». Nello stesso dipinto, a portare la “mascapaicha” sono anche le tre nipoti di Cosimo il Vecchio, ovvero le figlie di Piero il Gottoso, nonché sorelle di Lorenzo il Magnifico. «Quanto descritto finora ci dice essenzialmente due cose: l’origine di questa impresa, che è indiscutibilmente legata ai primi viaggi oltreoceano (ovviamente databili ben anteriormente al 1492), e il fatto che le tre piume non siano sostenute da un mazzocchio, bensì da una “mascapaicha” (anche se, sostanzialmente, il significato sotteso a entrambe è lo stesso: compenetrazione tra il mondo eterico e mondo materico)».Anche l’associazione che sottolinea Benozzo Gozzoli (che proprio sotto l’indio si auto-ritrae) tra Cosimo il Vecchio e Pachacutèc, idealizzata nel segno della “mascapaicha” con cui è raffigurato il potente “Pater Patriæ” fiorentino, per Magnani «è molto importante ai fini di una revisione storica, in quanto narra di un rapporto evidentemente gioviale e amichevole tra i due popoli». Un rapporto «ben diverso da quanto poi la storia ci consegnerà in un secondo tempo, relativamente al genocidio operato dal colonialismo spagnolo post-colombiano e al ruolo interpretato dai frati, domenicani prima e gesuiti poi». La percezione di un rapporto di profonda amicizia tra i due popoli – aggiunge Magnani – ci viene confermata da una ulteriore rappresentazione di questo ornamento regale, anteriore sia all’affresco di Benozzo Gozzoli (1459) e sia all’arma intarsiata nel tempietto del Santo Sepolcro di Firenze (1461-1467). «Sto parlando di un oggetto molto particolare, tipico dell’epoca, oggi conservato presso il Metropolitan Museum of Art di New York».Magnani allude a un “desco da parto”, cioè un tipico vassoio commemorativo (in oro e argento) con cui venivano celebrate le nascite più importanti, da parte delle ricche famiglie del Rinascimento. Un manufatto «evocativo dell’offerta di dolci che tradizionalmente veniva portata alla partoriente». Opera di Giovanni di Ser Giovanni Guidi (detto Scheggia), questo vassoio venne creato nel 1449 per celebrare la nascita di Lorenzo, figlio di Piero de’ Medici e Lucrezia Tornabuoni, nipote prediletto di Cosimo il Vecchio e futuro capo della signoria che diede lustro a Firenze, tanto da meritarsi il soprannome di Magnifico. «Dipinto dal fratello minore di Masaccio, il vassoio fu poi conservato proprio negli alloggi privati di Lorenzo, nel Palazzo Medici Riccardi di Firenze». Attenzione: «L’intreccio ideale tra il popolo Inca e la famiglia de’ Medici qui è rafforzato dal fatto che le tre piume sono associate all’anello mediceo, che si sostituisce al mazzocchio e al Llautu, rafforzato dal motto familiare “semper” (per sempre), mentre gli stemmi delle due famiglie riconducibili ai genitori del nascituro, Medici e Tornabuoni, sono nella parte alta del vassoio stesso».Per Magnani, dunque, emerge sempre più chiaramente come la prima apparizione dell’arma di Cosimo de’ Medici non possa essere considerata quella sul tempietto di Giovanni Rucellai (il cui figlio, Bernardo, sposerà una nipote di Cosimo, Lucrezia, detta Nannina, che insieme alle sorelle Bianca e Maria nel dipinto del Gozzoli porta le tre piume della “mascapaicha”). Anzi, l’esistenza di questo vassoio «metterebbe in dubbio anche il fatto che le tre piume rappresentassero l’arma di Cosimo, lasciando intendere come il vero titolare dell’impresa, mutuata da Pachacutéc, fosse invece proprio Lorenzo, oggetto del “desco da parto” in visione». Oltretutto, il ritrovare le tre piume sia sul capo di Cosimo, nell’evidente atto di richiamare Pachacutéc e la “mascapaicha”, sia sul vassoio commemorativo della nascita di Lorenzo, «forse legittima un dubbio che confermerebbe una volta di più il carattere amichevole sottostante alle relazioni tra alcune famiglie dello schieramento politico ghibellino italiano e le più alte gerarchie dei popoli nativi del Sudamerica».Ragiona Magnani: «Sia Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, sia Ludovico Sforza, non a caso detto il Moro, erano di sangue misto, meticcio, come peraltro confermerebbero le stesse caratteristiche della fisionomia di questi due celebri personaggi». Lo studioso ricorda che il termine “meticcio” deriva proprio dallo spagnolo “mestizo” e dal portoghese “mestiço”. Non a caso: con questo vocabolo «si definivano in origine proprio gli individui che nascevano dall’incrocio fra i coloni europei (perlopiù spagnoli e portoghesi) e le popolazioni amerindie indigene precolombiane». Qualche anno dopo, aggiunge Magnani, a legare ulteriormente l’impresa con le tre piume a Lorenzo il Magnifico è Giorgio Vasari, pittore e biografo di tutti i più grandi pittori, architetti e scultori del Rinascimento, nel celebre dipinto – conservato a Palazzo Vecchio – che ritrae, tra gli altri animali esotici, anche la giraffa di Lorenzo. In un angolo, il quadro «ripropone proprio le tre piume del Magnifico, inserite in un anello gemmato, la stessa impresa raffigurata sul “desco da parto” di Giovanni di Ser Giovanni Guidi».Dagli elementi menzionati, e in particolar modo dalla rappresentazione che fa Benozzo Gozzoli di Cosimo il Vecchio a Palazzo Medici Riccardi, Magnani ricava una certezza: «E’ indubbio il fatto che l’assunzione delle tre piume, da parte degli esponenti della famiglia de’ Medici, sia da porre in strettissima relazione a una frequentazione delle Americhe, anteriore al 1492, ricollegandosi all’uso che di questo ornamento facevano gli esponenti dell’impero Inca». Lo stesso imperatore Pachacutéc era ancora in carica, racconta Magnani, all’epoca in cui le tre piume e la “mascapaicha” fecero la loro prima apparizione nei dipinti, nelle imprese e nelle monete di una delle più importanti famiglie del Rinascimento, attorno alla prima metà del XV secolo. «Questo ornamento, oltretutto, ci testimonia del profondo legame esistente tra la famiglia de’ Medici, la famiglia Sforza e il territorio lariano, che ospiterà a più riprese il giovanissimo Leonardo a metà del XV secolo».In due chiese dell’alto Lario, infatti, nel comune di Gravedona – chiosa Magnani – sono riprese scene riconducibili all’affresco di Benozzo Gozzoli. «In una di queste, in particolar modo, un giovane (con tutta probabilità Galeazzo Sforza, figlio di Francesco) ha il capo cinto dalla “mascapaicha”, mentre con la mano regge dei funghi allucinogeni». Il ricercatore italiano non ha dubbi, sull’operazione di occultamento e depistaggio che avrebbe condotto a non riconoscere quel clamoroso legame (precolombiano) tra Firenze e i signori del Perù. «Il corso della storia, nel lungo cammino che ha portato alla nascita del movimento rinascimentale – afferma Magnani – è stato dirottato a beneficio della Santa Sede e dei suoi alleati, mentre le evidenze di quello che fu sono state abilmente cancellate». Ma attenzione: non tutte le prove sono state distrutte, «e quel che rimane è più che sufficiente per ricostruire il reale corso delle cose». La verità sull’America restituita da un copricapo regale: la “mascapaicha”, che da mezzo millennio – a Firenze – suggerisce la sua verità.Lorenzo il Magnifico discendeva direttamente dalla linea di sangue reale Inca. Era un meticcio: metà italiano (fiorentino) e metà andino. E la vera origine – occultata – del gran signore di Firenze, massimo promotore del Rinascimento italiano, dimostra una verità che ancora non si vuole ammettere, anche se sta ormai emergendo. Quale? Eccola: le maggiori signorie italiane rinascimentali (non solo Firenze, ma anche Milano e altre) erano in strettissimo contatto con le potenze d’oltreoceano. Legami pericolosi, per la Chiesa dell’epoca, perché rischiavano di demolire la teologia cristiana e il potere ecclesiastico, ripristinando l’antica conoscenza universale racchiusa nel culto solare, a cui sarebbe ispirata la stessa urbanistica rinascimentale, che nelle piazze italiane avrebbe riprodotto le piazze cerimoniali incaiche. E’ la tesi sostenuta da uno straordinario ricercatore come Riccardo Magnani, autore nel 2020 del saggio “Ceci n’est pas Leonardo” (ovvero, “Quello che non vi dicono su Leonardo da Vinci e il Rinascimento”).
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Kazari ashkenaziti, l’ebraismo asiatico su cui Israele tace
C’è una storia dimenticata e volutamente occultata. Io sono massone, e appartengo anch’io a una minoranza, quella eleusina: e comprendo il peso che persecuzioni possano avere avuto, nella storia. La cultura tradizionale ebraica è tuttora sconosciuta, ai più: curioso, perché è tra quelle che più hanno permeato la cultura europea, negli ultimi secoli. E’ una cultura che è sempre stata un po’ chiusa. E anche per via delle fortissime tensioni storiche – con la cacciata degli ebrei dalla Spagna a opera di Isabella di Castiglia dopo la Reconquista, poi per opera dell’Inquisizione e dell’azione stessa della Chiesa cattolica, senza contare le tante conversioni forzate al cattolicesimo – non c’è mai stato un dialogo aperto fra la cultura ebraica e quella cristiana, predominanti nell’Europa moderna. E questo ha fatto sì che ci sia sempre stata una grave e lacunosa mancanza di conoscenza reciproca. Ad esempio: si parla pochissimo dell’origine degli ebrei ashkenaziti, che oggi rappresentano la maggioranza, nella popolazione ebrea.Le fonti collocano l’origine della tradizione ebraica in Medio Oriente, in Palestina, in parte anche in Egitto. Ci sono connessioni dirette tra il popolo ebraico e figure come il faraone Akhenaton e personaggi come Mosè. E’ stata invece volutamente occultata l’origine storica di quella grande parte dell’ebraismo che appartiene alla cultura ashkenazita. Le origini non risalgono all’area siro-palestinese (il Regno di Giudea), ma ad un’area geografica diversa e distante, identificabile con il territorio di quello che è storicamente conosciuto come l’Impero Kazaro. Numerose le fonti: cronache arabe, persiane, bizantine e russe (Principato di Kiev). E’ un argomento raramente studiato, cui si tende a non dare risalto, anche per una serie di ragioni politiche. L’Impero Kazaro si sviluppò in un’aera che va dal Caucaso all’odierna Ucraina, la Crimea, le steppe del Kazakhstan e l’Uzbekistan settentrionale: un territorio vastissimo. Trae origini dalle migrazioni di una serie di popoli che, nei primi secoli della nostra era, abitavano l’area della cosiddetta Asia Centrale.Erano popolazioni in una certa misura discendenti dall’antico popolo degli Sciti, storicamente stanziato sull’odierna costa dell’Ucraina e in Crimea, e in parte da popolazioni turcomanne, inizialmente nomadi, stanziate in quest’area già dal III-IV secolo dopo Cristo. Popolazioni storicamente note come Göktürk (”turchi blu”: una caratteristica totemica). Questo ramo delle popolazioni turcomanne, molto affine agli attuali ungheresi e agli unni (che molto interagirono con gli ultimi secoli dell’Impero Romano), attorno al V secolo dette origine a una prima grande forma statale, una struttura organizzata che venne chiamata Kaganato, che deriva dal termine Kagan (”Re dei Re”). Questo primario Kaganato dei Göktürk entrò inizialmente in guerra con tutte le potenze vicine, specie la Cina. Tutta la parte orientale del Kaganato venne sottomessa dai cinesi e annessa ai territori del Celeste Impero. La parte occidentale, destinata a sopravvivere più a lungo, conobbe varie traversie, fino a che non cadde sotto l’egemonia di una particolare dinastia, quella degli Hashina: nome identificato da importanti linguisti americani come derivante dall’antica lingua scita.Risolti i problemi col potente e ingombrante vicino cinese, il Kaganato entrò in rotta di collisione con altre potenze, in primis l’Impero Bizantino (cristiano), e poi con la nascente e preponderante potenza islamica. Siamo ormai nel VII secolo: l’Islam aveva appena iniziato la sua opera di espansione e dominio, e il territorio dei kazari (particolare civiltà turcomanna, di religione politeista con caratteristiche sciamaniche) fu progressivamente attaccato dagli arabi, che avevano già occupato la Persia. Dell’affascinante mitologia di fondazione del clan degli Hashina parla Diego Marin, nel libro “Il sangue degli Illuminati”. Quel clan «era considerato il prescelto dal dio celeste Tengri, associabile all’antico dio delle tempeste Teshup», o anche allo stesso Zeus.Gli Hashina veneravano i propri antenati con cerimonie annuali, che si concludevano in un luogo particolare, chiamato “la Caverna Ancestrale”, da cui si riteneva che lo stesso clan Hashina fosse fuoriuscito. «Il mito racconta la storia di un bambino, l’unico sopravvissuto a un massacro tribale. Famiglia e amici erano stati sterminati. Lui solo era riuscito a scappare, rifugiandosi in una grotta nelle vicinanze. Qui aveva incontrato una lupa, di nome Hasena». La lupa lo aveva adottato (come Romolo e Remo, allattati e salvati). «Una volta cresciuto, il bambino ebbe un’unione sessuale con la lupa, che avrebbe dato alla luce ben 10 figli, tutti gemelli, uno dei quali poi passato alla storia come il capostipite degli Hashina». La lupa Hasena è ancora ben viva, nella tradizione mitologica di tutti i popoli di origine turcomanna, dalla Turchia all’Asia Centrale (Turkmenistan, Tagikishan, Uzbekistan, Kazakhstan, fino agli uiguri dello Xinjang cinese).Ancora oggi, la lupa Hasena è il simbolo di partiti nazionalisti turchi: oggi musulmani, non hanno mai rinunciato a questa raffigurazione mitologica ancestrale che vede nella lupa Hasena l’origine dei turchi, la loro madre. Tornando ai kazari: erano in continuo stato di guerra coi vicini bizantini e arabo-persiani. Poi nell’VIII secolo vengono attaccati attraverso la Persia, vengono sottomessi, e il Kagan dell’epoca, Bulan, accetta di convertirsi formalmente all’Islam. La tregua però dura poco: i kazari contrattaccano, battono gli arabo-persiani e recuperano il loro territorio. Bulan abiura alla fede islamica e, simultaneamente, avviene un fatto incredibile, probabilmente ispirato da ragioni geo-strategiche e interessi commerciali: nel 740 dopo Cristo decide di convertirsi all’ebraismo, imponendo la conversione anche ai sudditi. Un fatto che ha segnato la storia, perché questo impero (che aveva svariati milioni di abitanti) diventa di religione ebraica, pur restando molto lontano dalla culla dell’ebraismo – l’area siro-palestinese – essendo esteso tra il Caucaso, la Crimea e le steppe del Kazakhstan.Sempre scondo le ricerche di Diego Marin, questa conversione sarebbe stata suggellata dal matrimonio tra il principe Bihar Sabriel (figlio di Bulan) e una donna di tradizione ebraica, di nome Serak, che sarebbe stata figlia di Juda Zachai, rabbino di Babilonia, appartenente al casato reale di Marsutra e quindi discendente del primo “esiliarca” di Babilonia. Sarebbe dunque stato questo ramo della tradizione ebraica a favorire la misteriosa conversione dei kazari. Divenuto ebraico, il Kaganato prospera per un po’, soprattutto grazie al commercio, ma poi va a scontrarsi nuovamente con tutti i vicini: bizantini, Impero Arabo e soprattutto con il recente Principato dei Rus’. Quella del Principato di Kiev, primo nucleo embrionale della futura Russia, non è un’origine slava, ma nordica (vichinga, norrena): furono soprattutto mercanti norreni (o variaghi, che dir si voglia) a insediarsi nell’attuale Russia settentrionale, per poi fondare – calando verso sud – l’embrione della futura potenza russa.Il Principato di Kiev, peraltro, era legato a tradizioni sciamaniche. Eppure, Kiev venne appoggiata subito da Bisanzio, nel tentativo di contrastare il Kaganato kazaro. E alla fine, dopo una serie di guerre, con personaggi come Oleg di Kiev e Sviatoslav I, l’Impero Kazaro venne sconfitto: furono occupate le fortezze principali e la stessa capitale, e il vastissimo territorio si disgregò attorno al 960. Da lì, nacquero le prime migrazioni dei kazari verso l’Europa, e il loro insediamento nella valle del Reno. Si dice che “ashkenazita” significhi “tedesco”, e che Ashkenaza fosse una regione franco-tedesca nella Renania. Subito, l’ex Impero Kazaro venne sottomesso dal nascente Stato russo, che non era ancora cristiano: la cristianizzazione della Russia (fatto curioso) fu concomitante con la caduta dell’Impero Kazaro. Il principe Vladimir di Kiev (figlio si Sviatoslav, conquistatore dell’Impero Kazaro) fu il primo regnante russo – in realtà, di origine vichinga – a convertirsi formalmente al cristianesimo. Conversione molto esaltata dai cristiani ortodossi: Vladimir fu santificato, in quanto fondatore del cristianesimo in quella che era la Rus’.Dopo aver sconfitto il potente Impero Kazaro, Vladimir venne avvicinato dagli emissari della Kazaria, che gli suggerirono di convertirsi all’ebraismo. Rifiutò, perché non voleva convertirsi alla religione di un popolo che aveva appena sottomesso. Al che, emissari dell’Impero Arabo (sempre in cambio di alleanze) gli proposero di convertirsi all’Islam. Vladimir rifiutò ancora, spiegando che non avrebbe potuto imporre al suo popolo di rinunciare alle bevande alcoliche. Il principe di Kiev sarebbe poi invece rimasto folgorato dagli emissari bizantini – si racconta – di fronte allo splendore delle chiese cristiane di Costantinopoli. Un racconto chiaramente agiografico. In realtà queste curiose conversioni, da quella del kazaro Bulan all’ebraismo a quella di Vladimir al cristianesimo, sono sempre state frutto di accordi geopolitici: la motivazione non era esattamente spirituale. Così la Russia divenne cristiana, e quello che era il primo, grande impero ebraico (al di fuori del territorio siro-palestinese) si disperse.Iniziò una prima diaspora della popolazione. Ma la vera diaspora non fu causata dal Principato russo di Kiev, che coi kazari mantenne relazioni commerciali e quindi non aveva alcun interesse a disperdere quelle popolazioni appena sottomesse. Qualche secolo dopo, nel 1200, i kazari vennero attaccati dall’Orda d’Oro di Gengis Khan: furono i mongoli, a fare terra bruciata. Travolsero lo stesso Principato di Kiev e sottomisero buona parte del mondo allora conosciuto. Non si limitavano a conquistare e assoggettare: radevano al suolo le città e sterminavano tutti gli abitanti. L’impressionante invasione mongola ha cambiato la storia, e ha stravolto la nascente potenza islamica: la Baghdad dell’epoca era la culla mondiale della conoscenza, l’Islam illuminato aveva fondato una delle più importanti biblioteche della storia, pari a quella di Alessandria d’Egitto. La famosa Casa della Sapienza di Baghdad conteneva l’intera letteratura del mondo, e venne distrutta dai mongoli.Di fronte all’urto dei mongoli, quindi, solo dopo il 1200 i kazari cominciarono a emigrare in massa verso la Russia, la Polonia, la Germania e l’intera Europa orientale, dove cominciarono a chiamarsi ashkenaziti, fino a raggiungere poi anche paesi dell’Europa occidentale, come l’Italia e la Francia. Gli ebrei di origine ashkenazita sono riconoscibili: hanno la carnagione molto chiara e parlano lo yiddish anziché l’ebraico. Nata proprio nell’Est Europa, quella yiddish è una lingua interessantissima, tuttora molto parlata. Ha avuto influenze slave e germaniche, e al suo interno conserva moltissimi vocaboli di origine turcomanna. L’yiddish è la lingua madre di un grande artista come Marc Chagall, reinterpretata da un grande musicista come Moni Ovadia.Invece, gli ebrei sefarditi sono in buona parte di origine spagnola, però hanno una diretta connessione con l’aria siro-palestinese. In più, a cavallo dei Pirenei (col disfacimento dell’Impero Romano) era nato anche il Principato di Settimania, importante realtà statale ebraica con caratteristiche sefardite. Dopo la cacciata degli ebrei dalla penisola iberica, a opera della cattolica dinastina castigliana, ci fu un’altra diaspora (sefardita). Una “diaspora di ritorno”, che interessò tutto il Nord Africa e tutta l’Europa. Quanto agli ashkenaziti, arrivati in epoca medievale in Italia e in Germania, generarono importanti famiglie che – si dice – oggi dominano il pianeta. E’ un’ipotesi da molti sostenuta, tutt’altro che infondata. Ancora all’inizio del 1300, comunque, gli ashkenaziti costituivano solo il 3% della popolazione ebraica mondiale. Raggiunsero il massimo dell’espansione agli inizi del ‘900: nei primi anni Trenta erano diventati il 92% degli ebrei, che oggi in tutto il mondo sono 12-13 milioni.Agli albori del ‘900, avviene un fatto curioso, citato da Mauro Biglino. La grande stampa internazionale anglosassone comincia ad “annunciare” l’imminente strage, in Europa, di 6 milioni di ebrei. Ne scrivono insistenza il “Sun”, il “New York Times”, l’”Atlanta Constitution”, la “Gazzetta di Montreal”. Si chiede ospitalità, in Palestina, per 6 milioni di ebrei che, specie nell’Est Europa, sarebbero allo stremo e starebbero soffrendo un “olocausto europeo”. Dal 1915, quindi, quando Hitler era ancora un ragazzotto, c’era chi “sapeva” che 6 milioni di ebrei sarebbero morti? Poi arriva Hitler, che nel “Mein Kampf” parla di “due stirpi”, quella degli Ariani e quella del Serpente, e infine la Shoah stermina 6 milioni di ebrei. E’ un dato che deve fare riflettere, anche se si tratta di cifre simboliche che hanno una valenza esoterica (parlo dei dati citati da Biglino, cioè i 6 milioni evocati dalla stampa prima della Shoah).Questo utilizzo di numeri è chiaramente funzionale alla nascita e allo sviluppo del movimento sionista, che ha sempre avuto interesse a catalizzare questi dati, per poi agire politicamente fino a creare l’attuale Stato di Israele, che rappresenza la realizzazione del programma politico di Theodor Herzl. Certo è curiosa, all’inizio del ‘900, la ripetizione di quella cifra (6 milioni), che secondo me ha proprio una valenza simbolico-esoterica. Indubbiamente, nella Russia zarista non c’era una situazione felice, per le popolazioni ebraiche ashkenazite, perseguitate dal potere imperiale. Ci furono molti pogrom, ma certo non massacri dall’estensione paragonabile alla Shoah. Oltretutto, in alcune aree come l’attuale Bielorussia, la maggior parte della popolazione era di origine ebraica: sarebbe stato un controsenso, l’annientamento completo di una consistente fetta della popolazione.Insomma, sono questioni su cui riflettere: ma anche facilmente strumentalizzabili. Io poi mi occupo prevalentemente di storia antica, e non voglio entrare nel merito delle cifre: ci sono storici che se ne sono occupati in modo autorevole. Certo, resta il fatto che la stampa internazionale è andata avanti per cinquant’anni, prima di Hitler, a parlare di quei famosi 6 milioni. Qualcuno si stupisce che la popolazione ebraica sia sopravvissuta in modo quasi stabile, sia alle persecuzioni pre-hitleriane che alla stessa Shoah. Ma ripeto: quelli evocati a inizio ‘900 sono numeri “anti-storici”, essenzialmente simbolici. Oggi si sostiene che una parte degli ebrei ashkenaziti sia riuscita, tramite la finanza, a costituire veri e propri imperi, arrivando a condizionare la politica economica di tutti gli Stati del mondo, a partire dagli Usa fino all’ultima creazione europea, l’euro? Ora, si ripete, potenze come quella incarnata da Soros sono impegnate in manipolazioni finanziarie globali. E se ieri la stampa dava conto di certi fenomeni, oggi del mondo ebraico si parla poco, specie dal punto di vista della finanza. Soprattutto, non si approfondisce.Io consiglio un libro inattaccabile, scritto da un professore di religione ebraica di un’università americana, uno storico: si chiama Norman Finkelstein. Il suo libro, “L’industria dell’Olocausto”, storicamente ben documentato, spiega esattamente, nel dettaglio, come la questione della Shoah sia stata interpretata e utilizzata per finalità tutt’altro che religiose o morali – ma per finalità politiche ed economiche – dal movimento sionista. Chiaramente, viene utilizzata una discriminante storica, che giocoforza si è venuta a creare. Nel 1945, in modo simbolico, questa discriminante opera una divisione: il mondo prima della Shoah e il mondo dopo la Shoah. I giornali degli anni Venti e Trenta avevano un’altra libertà di espressione, perché dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale è nata una sorta di tabù storico, di velo, di ininterpretabilità. Norman Finkelstein questa cosa la denuncia in modo molto forte. E spiega come poi, in realtà, nell’immediato dopoguerra non vi fosse tutta questa retorica dell’Olocausto: è una retorica, dice, che è stata portata avanti dalla politica israeliana in concomitanza con le prime guerre con il mondo arabo, in particolare la Guerra dei Sei Giorni (giugno 1967).Fu allora che la vulgata dell’Olocausto, in una chiave molto particolare, è stata spinta e accelarata, fino a diventare una sorta di dogma intoccabile. In realtà la storia è fatta di interpretazioni e ricerche: uno storico dovrebbe sempre avere le mani libere, per analizzare i documenti e confrontarsi. In questo caso, invece, sono stati imposti dei tabù, come fossero dogmi di fede. E questo è sinceramente anti-storico, anti-scientifico: non ha senso. Tutto questo, però, non è assolutamente dovuto alla cultura ebraica, che è una delle culture più belle da studiare (una delle più interessanti, con cui confrontarsi). Questo atteggiamento di chiusura è invece dovuto all’azione di alcuni gruppi di famiglie, che hanno utilizzato a proprio uso e consumo determinate tradizioni, decidendo che cosa dovesse diventare storico e che cosa dovesse diventare un tabù storico. Hanno utilizzato queste questioni per propri fini, politici ed economici: il che, come si vede, non rappresenta affatto la variegata ricchezza culturale del mondo ebraico, che è fatto di voci diversissime tra loro.Il problema semmai è il sionismo: un movimento anche pericoloso, creato e fondato da ashkenaziti, che ha preteso anche la manipolazione della storia a proprio vantaggio. Esistono moltissimi ebrei che sono fortemente anti-sionisti, e addirittura temono il sionismo. Nello stesso Stato di Israele gli ebrei sefarditi sono una minoranza, oggi, e in alcuni casi vengono addirittura discriminati, anche se in Occidente non se ne parla. La stessa rimozione storica dell’Impero Kazaro, che per secoli controllò enormi estensioni di territorio, è dovuta al fatto che tutte le popolazioni che da esso sono derivate, e che poi hanno portato alla nascita dell’ebraismo ashkenazita, non hanno una diretta discendenza dall’area siro-palestinese. La mancanza di un filo diretto con la Palestina è diventata un altro tabù storico: un’altra questione da non affrontare, perché va a delegittimare la nascita dello Stato di Israele.(Nicola Bizzi, video-intervento “L’Impero Kazaro e le origini dimenticate”, da “Come Don Chisciotte” del 1° novembre 2020. Storico, autore di saggi sorprendenti come “Da Eleusi a Firenze”, Bizzi è l’editore di Aurora Boreale).C’è una storia dimenticata e volutamente occultata. Io sono massone, e appartengo anch’io a una minoranza, quella eleusina: e comprendo il peso che persecuzioni possano avere avuto, nella storia. La cultura tradizionale ebraica è tuttora sconosciuta, ai più: curioso, perché è tra quelle che più hanno permeato la cultura europea, negli ultimi secoli. E’ una cultura che è sempre stata un po’ chiusa. E anche per via delle fortissime tensioni storiche – con la cacciata degli ebrei dalla Spagna a opera di Isabella di Castiglia dopo la Reconquista, poi per opera dell’Inquisizione e dell’azione stessa della Chiesa cattolica, senza contare le tante conversioni forzate al cattolicesimo – non c’è mai stato un dialogo aperto fra la cultura ebraica e quella cristiana, predominanti nell’Europa moderna. E questo ha fatto sì che ci sia sempre stata una grave e lacunosa mancanza di conoscenza reciproca. Ad esempio: si parla pochissimo dell’origine degli ebrei ashkenaziti, che oggi rappresentano la maggioranza, nella popolazione ebrea.
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Alieni, Covid, Atlantide: è la “resurrezione” della verità?
Ora non potranno più raccontarci la solita favoletta: l’ammissione della Us Navy ha la portata storica e definitiva di un cambio d’epoca, preceduta di pochissimo dall’annuncio – da parte di Donald Trump – della creazione di una Space Force, unità militare per la difesa aerospaziale. Roberto Pinotti è uno degli ufologi più prestigiosi che esistano: ha collaborato con autorità militari e, negli Usa, ha partecipato al grande progetto internazionale Seti, che ricerca le eventuali “intelligenze non terrestri”. Ha scritto libri tradotti in tutto il mondo, ha fondato e diretto il Cun (centro ufologico nazionale) che ha spesso cooperato con l’aeronautica militare italiana. Quando si parla di Ufo, Pinotti finisce spesso in televisione: nel 2019, ospite della Rai, ha sottolineato il carattere inequivocabile delle esternazioni della Us Navy sugli incontri (frequenti) con oggetti volanti non identificati. Affermazioni poi confermate ufficialmente dal Pentagono nel 2020, mentre il mondo era già intrappolato nel disastro globale chiamato Covid.
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L’Italia perde miliardi nei paradisi fiscali dell’ipocrita Ue
Mentre Di Maio si appresta a vantare grandiosi “risparmi” tagliando i parlamentari (in concreto, lo 0,007% della spesa pubblica) uno studio condotto da ricercatori americani e danesi – segnalato sulla rivista “StartMag” – consente di quantificare il peso del mancato gettito tributario da parte delle multinazionali che spostano i loro profitti verso i paradisi fiscali. In particolare, segnala “Voci dall’Estero”, la scheda sull’Italia mostra come in questa gara all’occultamento dei profitti «il nostro paese perda 7,5 miliardi di gettito tributario, di cui la grande maggioranza a favore dei paradisi fiscali che indisturbati si annidano all’interno dell’Unione Europea». In pole position, l’Olanda sempre ligia al rigore “tedesco” contro l’Italia e naturalmente il Lussemburgo di Juncker. «In questo contesto, la crociata contro l’uso del contante per combattere l’evasione fiscale sembra quanto meno mancare completamente il bersaglio», scrive “Voci dall’Estero”, riferendosi alla campagna di propaganda del Conte-bis. I ricercatori dell’Università della California, di Berkeley e dell’Università di Copenaghen, nel complesso, stimano che ogni anno quasi il 40% dei profitti delle multinazionali (nel 2016 oltre 650 miliardi di dollari) vengano trasferiti in paradisi fiscali. «Questo spostamento riduce il gettito delle imposte sul reddito delle società di quasi 200 miliardi, ovvero il 10% della tassazione globale sulle società».I ricercatori hanno prodotto un database che mostra dove le aziende registrano i loro profitti a livello globale. «Sfruttando questi dati, gli autori hanno sviluppato una metodologia per stimare l’ammontare di profitti trasferiti in paradisi fiscali da società multinazionali», verificando anche «quanto ogni paese perda in profitti e entrate fiscali da tale spostamento».Le grandi multinazionali spostano i profitti nei paradisi fiscali per ridurre il peso globale delle imposte. Si prenda l’esempio di Google: nel 2017, Google Alphabet ha registrato ricavi per 23 miliardi di dollari nelle Bermuda, una piccola isola nell’Atlantico dove l’aliquota dell’imposta sul reddito delle società è pari a zero. Dallo studio è possibile vedere quali paesi attraggono e perdono profitti, in questo “gioco delle tre carte”. Si può verificare «la quantità di profitti spostati in paradisi fiscali e verso quali paradisi i profitti sono stati spostati». È inoltre possibile constatare «la perdita implicita del gettito d’imposta sul reddito delle società».Per i paradisi fiscali, gli esperti segnalano quanti profitti attirano dai paesi ad alta tassazione e qual è l’aliquota d’imposta effettiva sul reddito delle società. La perdita di profitto massima – spiegano gli strudiosi – si ha per i paesi dell’Unione Europea (almeno, quelli che non sono “paesi rifugio”). «Le multinazionali statunitensi spostano relativamente più profitti (circa il 60% dei loro profitti esteri) rispetto alle multinazionali di altri paesi (40% in media)». Gli azionisti delle multinazionali statunitensi sembrano quindi essere «i principali vincitori del trasferimento globale dei profitti». Inoltre, i governi dei paradisi fiscali «traggono notevoli benefici da questo fenomeno: tassando con aliquote basse (meno del 5%) la grande quantità di profitti potenziali che attraggono, sono in grado di generare più entrate fiscali, in proporzione al loro reddito nazionale, rispetto agli Stati Uniti e ai paesi europei (non paradisi fiscali) che hanno aliquote fiscali molto più elevate». Fino a poco tempo fa, aggiungono gli analisti, questa ricerca non sarebbe stata possibile, poiché le imprese di solito non rivelano pubblicamente i paesi in cui sono registrati i loro profitti.Inoltre, i dati dei conti economici nazionali non permettevano di studiare le società multinazionali separatamente dalle altre imprese. Ma negli ultimi anni gli istituti statistici della maggior parte dei paesi sviluppati del mondo (compresi i principali paradisi fiscali) hanno iniziato a pubblicare nuovi dati macroeconomici, noti come statistiche delle consociate estere. «Questi dati consentono di ottenere una visione completa di dove le società multinazionali registrano i loro profitti e in particolare di stimare l’ammontare degli utili registrati nei paradisi fiscali a livello globale». Per approfondire la nostra comprensione di questo problema, ammettono i ricercatori, «avremmo bisogno di altri dati, ancora più precisi». In particolare, «sarebbe auspicabile che tutti i paesi pubblicassero statistiche sulle consociate estere, e che tali statistiche fossero più ampie e includessero sempre informazioni sulle imposte versate».Mentre Di Maio si appresta a vantare grandiosi “risparmi” tagliando i parlamentari (in concreto, lo 0,007% della spesa pubblica) uno studio condotto da ricercatori americani e danesi – segnalato sulla rivista “StartMag” – consente di quantificare il peso del mancato gettito tributario da parte delle multinazionali che spostano i loro profitti verso i paradisi fiscali. In particolare, annota “Voci dall’Estero”, la scheda sull’Italia mostra come in questa gara all’occultamento dei profitti «il nostro paese perda 7,5 miliardi di gettito tributario, di cui la grande maggioranza a favore dei paradisi fiscali che indisturbati si annidano all’interno dell’Unione Europea». In pole position, l’Olanda sempre ligia al rigore “tedesco” contro l’Italia e naturalmente il Lussemburgo di Juncker. «In questo contesto, la crociata contro l’uso del contante per combattere l’evasione fiscale sembra quanto meno mancare completamente il bersaglio», scrive “Voci dall’Estero”, riferendosi alla campagna di propaganda del Conte-bis. I ricercatori dell’Università della California, di Berkeley e dell’Università di Copenaghen, nel complesso, stimano che ogni anno quasi il 40% dei profitti delle multinazionali (nel 2016 oltre 650 miliardi di dollari) vengano trasferiti in paradisi fiscali. «Questo spostamento riduce il gettito delle imposte sul reddito delle società di quasi 200 miliardi, ovvero il 10% della tassazione globale sulle società».
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Livigni: ci governa la cupola che liquidò Kennedy e Mattei
Vorrei tornare su Enrico Mattei, di cui sono stato uno strettissimo collaboratore, per dire che in Italia è avvenuto qualcosa di orrendo, di sporco. Era stata fatta una inchiesta, quando l’aereo precipitò a Bascapè: un’inchiesta vergognosa, fatta da depistaggi e coperture della verità. Un’altra mezza inchiesta era stata subito chiusa. Nel 1994 ho pubblicato un libro con la Mondatori che si chiama “La grande sfida”, e sono riuscito avere documentazioni top secret dagli archivi della Jfk Library di Boston, dall’Eisenhower Library e, con mia sorpresa, ho scoperto che tra Mattei e Kennedy c’era una corrispondenza molto stretta. Dopo la crisi di Suez, quando Inghilterra e Francia erano state invitate dagli Stati Uniti a ritirarsi durante la Guerra di Suez, perché gli Usa temevano uno shock petrolifero, l’Italia avanzò la proposta di coprire un ruolo di nazione strategica, sul Mediterraneo, in sostituzione di Francia e Inghilterra. Kennedy era d’accordo, però bisognava dare stabilità politica al governo italiano, che cambiava ogni due mesi (c’era stata la crisi del governo Tambroni, che durò un mese e mezzo). Per dare stabilità politica bisognava scegliere un uomo e fare riforme. Kennedy esaminò tutti i possibili interlocutori italiani, e li scartò subito: via Fanfani, via Gronchi. E arrivò a Mattei: di lui, Kennedy era affascinato. E iniziarono delle trattative.Una prima trattativa avvenne all’Hotel Excelsior di Roma, in grandissimo segreto. Mattei non si fece assistere da nessuno. Kennedy chiese alle grandi compagnie americane di mettere Mattei in condizioni di fare affari, di offrirgli contratti migliori di quelli che aveva con l’Unione Sovietica. Dopo lunghe trattative, venne fatto un contratto tra l’Eni e la Esso per la fornitura di 12 milioni di tonnellate l’anno di greggio a condizioni veramente migliori di quelle che Mattei aveva con l’Urss. Dopo l’accordo commerciale, segretissimo, si passò alla trattativa politica. Parteciparono il responsabile della politica estera di Kennedy e il futuro capo della Cia in Italia. Mattei doveva andare a dicembre 1962 a incontrare Kennedy. Non ne parlò con nessuno, neanche con me. Era abbastanza teso, in quei giorni: aveva ricevuto minacce. La cosa che mi colpì è che era stato in Sicilia, il 18 ottobre 1962. C’era stato un incontro a Gela, un Cda della Agip Mineraria. Lui transitò da Palermo, mi chiamò e mi disse: «Ti voglio vedere subito in aeroporto». Arrivò con l’aereo aziendale, mi diede indicazioni su fatti che stavamo svolgendo e io gli dissi: «Presidente, venga entro l’anno, perché abbiamo fatto una realizzazione, a Gela, che voleva lei: un grande deposito costiero per importare dalla raffineria di Gela i prodotti sul mercato». Lui disse: «Non posso venire, ho parecchi impegni, ci vediamo il prossimo anno».Dopo sette giorni ricevo una sua telefonata. Io mi trovo a Palermo, avevo un incarico di “scout man”, l’uomo dei servizi segreti nel petrolio che cerca di sapere cosa fanno le altre compagnie. Mi disse: «Sto partendo per Gela». «Presidente, ma… come mai?». «Poi glielo dico». Arrivai a Gela prima di lui, andai al Motel Agip e mi dissero: «Non atterra qui». L’Agip aveva un aeroporto privato, l’aeroporto di Ponte Olivo, con una pista molto sorvegliata. Ma la sera prima avevano messo una carica di tritolo e rotto la pista per non farlo atterrare, per farlo venire con l’elicottero. E lui dovette atterrare a Catania, arrivò intorno alle 13. Abbiamo parlato di problemi in corso che riguardavano l’Iraq. Nessun libro, dei 300 e rotti pubblicati nel mondo su Mattei, ha mai parlato dell’Iraq. Sapevo che c’era una questione in Iran: non si era riusciti a entrare nel consorzio dopo la caduta di Mossadeq, fatto cadere dagli angloamericani perché aveva nazionalizzato il petrolio (fatto cadere con l’uso dei sicari dell’economia). Mossadeq fu denunziato come se fosse un pazzo, e invece era molto saggio: era presidente del Consiglio del primo governo democratico iraniano, un governo eletto dal popolo.Gli americani tornarono con gli inglesi e riaprirono le compagnie angloamericane, fecero un consorzio e noi siamo stati rifiutati. E Mattei disse: «Andiamoci a prendere il petrolio in Iraq». Che cosa era successo? Io ho conosciuto a Taormina Dino Grandi, ex ministro degli esteri del governo Mussolini, che mi ha informato che nel 1934 l’Agip, fondata nel 1926, era riuscita a ottenere in Iraq il più grande giacimento nell’area di Kirkuk, nell’area curda. Era riuscita per l’abilità di Grandi che venne a patti con gli inglesi, che avevano l’85% del territorio iracheno. Una concessione enorme, con una sessantina di concessioni. L’Iraq è un’invenzione di Churchill, che aveva capito che – tirando una linea, un rettangolo, e unificando sciiti, curdi, sunniti e turcomanni – avrebbe creato un paese in eterno confitto, facilmente governabile e dominabile da un punto di vista coloniale. Dino Grandi diede appoggio all’Inghilterra, perché scadeva il protettorato inglese nel 1934, presso la Società delle Nazioni, la futura Onu. In contropartita, l’Inghilterra accettò che l’Agip rilevasse una piccola società petrolifera, e poi accettò che questa si ingrandisse fino a diventare una concessione importante, che si chiama Mossul Oil Field.E però avvenne che nel 1935 le truppe italiane invadono l’Etiopia, gli inglesi ricattano la Agip, dicono: «Se vuoi che noi interveniamo alla Società delle Nazioni per non fare sanzioni e un embargo petrolifero, ci devi cedere la Mossul Oil Field». Grandi trattò, e alla fine trovarono una soluzione: sarebbe andato a inglesi e americani il 51%, però l’Agip avrebbe mantenuto il 39% e una presenza strategica nella “golden share” della società, cioè avrebbe partecipato alle politiche e alle strategie. Quando Grandi tornò a Roma, Mussolini ebbe paura e disse: «No, cediamo la società, perché gli inglesi poi mi possono giocare un brutto scherzo, e io non posso fermare in Etiopia le truppe con un embargo». Mattei sapeva tutto questo, e dopo che fummo rifiutati dal consorzio iraniano disse: «Andiamoci a prendere il petrolio in Iraq». Si formò un gruppo molto ristretto. Io lavorai con l’équipe che andò in Iraq quando Khassem, nel 1958, abbatté la monarchia irachena di Re Faysal. Khassem venne contattato nel mese di agosto, in una caserma, mentre fuori si sparava. Gli fu portata una credenziale di Mattei, in cui diceva: «Vogliamo fare con voi un contratto paritetico, un partenariato, non un contratto in cui vi vede paese esattore di tasse o di royalty. Facciamolo insieme, facciamo una società paritetica che si occuperà anche di altre cose connesse al petrolio». Lui accettò e disse: «Voglio però prima cacciare via l’Iraq Petroleum Company».E così si iniziò a dare assistenza legale a Khassem esaminando, concessione per concessione, l’Iraq Petroleum Company, per vedere dove questa società aveva mancato. Su 60 e rotti concessioni, la società ne aveva sfruttato solo tre, con un atteggiamento di scorrettezza enorme: si era mantenuta come riserva le altre risorse, privando il popolo iracheno di quelle royalty, ancorché irrisorie. Nel 1962 Khassem revocò le concessioni, queste 57 concessioni, all’Iraq Petroleum Company. Era una bomba! Una delle più grandi compagnie del mondo veniva buttata fuori, perché Khassem avrebbe fatto entrare l’Eni. Seguii da vicino la faccenda, ma non eravamo sicuri di essere sfuggiti ai servizi segreti americani e inglesi, perché in Italia c’era parecchia gente che voleva la fine di Mattei – parecchia. Lui aveva rotto con Fanfani: mandò all’opposizione i fanfaniani siciliani, che non erano gente troppo facile – erano Gioia, Lima. Avevano indirizzato i finanziamenti alla Dc, a Fanfani, a Moro. Era rottura totale, e Fanfani era presidente del Consiglio. Poi c’è la questione Cefis: Mattei lo aveva cacciato fuori, il vicepresidente, che era un uomo dei servizi inglesi.Mattei era isolato, e durante la trattativa ho scoperto, con i documenti avuti, che c’erano stati interventi pesantissimi dell’ambasciata americana e inglese a Roma su Fanfani, per fermare Mattei, e Fanfani ha risposto: «Io Mattei non lo posso fermare, non ho il potere». È una cosa gravissima: «Fermare a ogni costo». Khassem fece una società nazionale per creare poi una società paritetica con noi, fece sapere che voleva dare un annunzio al giornalismo internazionale di questo progetto della costizione della compagnia nazionale: non c’era più influenza esterna. Noi abbiamo detto: «Prendi tempo!». Era il 16 settembre del 1962. E Khassem, per la smania di dimostrare al popolo che stava lavorando per il bene dell’Iraq, rilasciò un’intervista che ci fece gelare. Disse: «Io ho revocato le concessioni all’Iraq Petroleum company e sto realizzando una società paritetica con l’Eni». Ci siamo sentiti persi: era grave, gravissimo. Abbiamo detto a Mattei di stare attento, di non viaggiare più in aereo. E quindi arrivò in Sicilia il giorno 26 ottobre. Eravamo terrorizzati. Io ho detto: «Presidente, non riparta questa sera per Milano. Venga con me, andiamo in campagna, mia moglie ha campagne vicino Palermo. Si riposi, non chiami neanche sua moglie. Un amico andrà a Roma e avviserà sua moglie, ma lo farà in modo privato: per un mese, “faccia finta di…”». Lui disse: «No, devo andare. Devo incontrarmi a Milano con l’onorevole Tremelloni questa sera e poi devo partire, devo fare il contratto con l’Algeria».Era un altro contratto molto osteggiato dagli angloamericani, ma soprattutto da Fanfani perché non voleva che Mattei portasse avanti una politica di rottura nei confronti delle Sette Sorelle (fu Mattei a definirle così, in verità all’inizio voleva dire “sorellastre” ma poi i giornalisti l’hanno modificato). E’ voluto partire lo stesso, Mattei. E quella sera l’aereo è caduto. In Italia abbiamo avuto una porcheria degna di nessun paese al mondo. Quando pubblicai “La grande sfida”, il procuratore Vincenzo Calia di Pavia, zona dove l’aereo è caduto, riaprì l’inchiesta perché la novità era il rapporto Mattei-Kennedy. Indagò con molta serietà, Calia. Ho avuto l’onore di collaborare da vicino con l’avanzamento inchiesta, e si accertò l’avvenuto sabotaggio. Si sono riesumati i corpi di Mattei e Bertuzzi, il pilota, e si sono trovate tracce di esplosivo: Compound 200, un esplosivo molto potente. Si è accertato che l’esplosivo era stato messo sotto i comandi del carrello, e si può fare attraverso il ruotino: si infila la carica con una calamita. La notte tra il 25 e il 26, l’aereo era stato portato dentro l’hangar militare della Nato (quello che vi dico è nell’inchiesta), ed è stato sabotato dai servizi: l’ho scritto. L’aereo, quando il pilota azionò la cloche per scendere, è andato in aria, è esploso.Ebbene, quest’inchiesta, che stava arrivando ai mandanti, già individuati (il magistrato stava acquisendo ulteriori elementi per le prove) è stata archiviata nel 2003. Dicono che Mattei non si sa perché è morto, alcuni dicono in un incidente: è una vergogna che una verità sia stata occultata. Se ammazzano un uomo non succede niente: un paese indegno. (Io ci ho perduto la moglie, nel luglio 2007: una macchina ci ha speronato e mia moglie è morta. Ebbene, chi ci ha speronato – che era ubriaco e drogato – sta passeggiando tranquillo, si diverte, va alle feste. Denunziato per omicidio colposo, ma non succederà niente!). Ritorniamo a Mattei. Archiviata l’inchiesta, io ho fatto un libro in 25 giorni, lavorando notte e giorno, che si chiama “Caso Mattei, un giallo Italiano”. Perché giallo italiano? Perché alla fine è stata gestito da italiani, da uomini per cui l’escalation di Mattei nella politica avrebbe dichiarato la fine politica o manageriale. E poi ho messo in evidenza, da una serie di documenti, un rapporto tra l’assassinio di Kennedy e quello di Mattei. A Catania c’era, quel giorno, Carlos Marcello, che è stato implicato nell’assassinio di Kennedy. Il tutto converge sull’oligarchia britannica – sulla Permidex, controspionaggio inglese.Siamo sempre lì: il centro del mondo nella finanza è Londra, e quindi Mattei ha messo in difficoltà gli inglesi. Kennedy lo stesso, perché ha rotto i rapporti con l’oligarchia britannica della politica a fini finanziari, e ha posto fine alla guerra in Corea senza interpellare gli inglesi. Non ci sono prove, ma c’è un legame comune. Quindi Mattei è stato ucciso, anche se tutti quelli che hanno scritto libri, come Bruno Vespa, dicono è caduto per un incidente aereo. Negli anni ‘90 è accaduto qualcosa di grave, ma i giornali italiani non hanno parlato di nulla perché fanno solo propaganda, poi alla fine le verità vengono negate. E’ successo questo: cade il Muro di Berlino, e il ministro Scotti avverte il capo del governo che manovre strane stavano avvenendo da parte di importanti banche d’affari contro l’economia italiana. Poi ribadisce: me lo ha detto Parisi. Mi ha detto pure che potrebbero avvenire stragi o uccisioni. Nel ‘92 avvenne la strage di Capaci, dove la mafia ha avuto solo un ruolo di supporto militare. Invece è una strage con gruppi di potere più o meno occulto, che prepararono una svolta economica e politica: «Vogliamo sedere in Parlamento, vogliamo governare». Allora l’Italia avvia la svendita dell’economia pubblica.Voglio parlare dell’Eni. Quando finì la guerra si avviò un dibattito tra i cattolici sociali e la sinistra italiana, guidata dai comunisti. Dovevano decidere quale struttura economica si doveva dare lo Stato italiano dopo il fascismo. I cattolici sociali hanno rifiutato il liberismo con una grande intuizione, perché il liberalismo penalizza le classi più deboli e spesso anche la vita della gente. Si creò un compromesso con lo Stato imprenditore che opera con le leggi del mercato in concorrenza, indirizzando in aree depresse anche l’economia privata. Viene privatizzato l’Eni, nel 1994 viene privatizzato l’Iri, altre aziende dello Stato nel campo delle telecomunicazioni. Alla fine di questo scempio, di questa carneficina, si sono divisi tutto. E nessuno ha mai parlato. Un pezzo alla sinistra, un pezzo alla destra: un’operazione scellerata di abbrutimento. L’unica denunzia viene fatta dal movimento civile americano di Lyndon LaRouche, ma Ciampi diventò presidente e tutto fu insabbiato. Tutto il patrimonio immobiliare dell’Eni, stimato in 100.000 miliardi, viene svenduto a un fondo Goldman Sachs. Stranamente, l’uomo che ha condotto questa operazione è stato Mario Draghi, che poi è diventato vicepresidente della Goldman. Non si può accettare, si tratta della logica più miserabile. Io l’ho denunziato, ma non è successo niente.Vorrei tornare su Enrico Mattei, di cui sono stato uno strettissimo collaboratore, per dire che in Italia è avvenuto qualcosa di orrendo, di sporco. Era stata fatta una inchiesta, quando l’aereo precipitò a Bascapè: un’inchiesta vergognosa, fatta da depistaggi e coperture della verità. Un’altra mezza inchiesta era stata subito chiusa. Nel 1994 ho pubblicato un libro con la Mondatori che si chiama “La grande sfida”, e sono riuscito avere documentazioni top secret dagli archivi della Jfk Library di Boston, dall’Eisenhower Library e, con mia sorpresa, ho scoperto che tra Mattei e Kennedy c’era una corrispondenza molto stretta. Dopo la crisi di Suez, quando Inghilterra e Francia erano state invitate dagli Stati Uniti a ritirarsi durante la Guerra di Suez, perché gli Usa temevano uno shock petrolifero, l’Italia avanzò la proposta di coprire un ruolo di nazione strategica, sul Mediterraneo, in sostituzione di Francia e Inghilterra. Kennedy era d’accordo, però bisognava dare stabilità politica al governo italiano, che cambiava ogni due mesi (c’era stata la crisi del governo Tambroni, che durò un mese e mezzo). Per dare stabilità politica bisognava scegliere un uomo e fare riforme. Kennedy esaminò tutti i possibili interlocutori italiani, e li scartò subito: via Fanfani, via Gronchi. E arrivò a Mattei: di lui, Kennedy era affascinato. E iniziarono delle trattative.
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Silenzio stampa sulla droga: la strage non è più di moda
Ci inchiodano per giorni e giorni a parlare di due tredicenni che chiamano sporco negro un immigrato e gli sparano a salve con la scacciacani, o di una capotreno che usa parole sconvenienti per far scendere dal treno zingari molesti senza biglietto e magari con portafogli altrui. O perfino di un barista che espone la foto di Mussolini. Tutto il circo è impegnato nell’impresa: dai clown del Pd ai trapezisti dell’ideologia, dai prestigiatori di notizie ai domatori di bufale, fino alle foche ammaestrate dalla sinistra da passeggio e da corteo. Ma nel frattempo passa inosservato un fenomeno quotidiano grave e preoccupante: lo spaccio e il consumo di droga crescente nel nostro paese, il numero di morti all’anno per overdose e in generale per droga, molti più dei femminicidi e di altre emergenze vere e presunte, il numero record di detenuti per reati connessi alla droga, gli incidenti anche mortali a causa di guidatori in stato di ebbrezza o di allucinazione, la scalata dell’Italia ai primi posti dei consumi e della tossicodipendenza. Quasi trecento all’anno: eran trecento, eran giovani e storti, e sono morti… Cresce l’eroina, per non dire delle droghe sintetiche, ottenute chimicamente, oltre quelle più note.Sono migliaia gli episodi di violenza, di minacce, di ricatti per procacciarsi la “signorina” che scorrono come un fiume quotidiano di sangue e di pazzia, e non ci facciamo più caso. Non c’è giorno che io non senta, magari col passaparola, episodi legati alla droga: infanticidi per alterazione mentale, uccisioni brutali di nonni, genitori, zii che non volevano più finanziare il vizio dei loro nipoti scellerati, aggressioni a donne, ex-conviventi, in stati di allucinazione dovuti alla droga, risse mortali davanti e dentro discoteche tra ragazzi in preda a deliri di droga, e potrei continuare… Certe zone, certi luoghi e certe ore sono off limits in tutte le città italiane perché è in corso la sagra dello spaccio, con relativa brutta umanità al seguito e sciame sismico di violenze e abusi. Si sente ogni tanto, a mezza bocca, notizia di partite di droga sequestrate; ma sono solo una piccola parte e solo il segnale di quale movimento, quale giro colossale vi sia dietro. Di tutto questo arriva poco o nulla alla Fabbrica delle Notizie e ai falsificatori di cui sopra, impegnati a denunciare un solo Male sotto mille vesti, il Razzismo.Perché passa sotto silenzio la droga, o si parla solo di qualche episodio ma senza la grancassa mediatica e intellettuale che ne indaga il fenomeno? Perché nella droga il razzismo o il nazionalismo non c’entra ma emerge piuttosto il suo rovescio, confluiscono due piaghe sconvenienti che si devono tacere: da una parte la manovalanza massiccia di migranti, soprattutto neri, nello spacciare e procurare la droga, dall’altro un modello di società libertaria, radical, trasgressiva, anti-proibizionista, che deriva dai piani alti della nostra società, dal nichilismo diffuso e dal cinismo degli imprenditori di morte. Diciamo che sulla droga s’incontra la libertà psichedelica del “tutto è permesso” di matrice sessantottina dove i diritti sconfinano nei desideri e l’accoglienza illimitata di migranti che, per fame ed estraneità al territorio, sono facilmente reclutabili nel racket. I due fattori, shakerati dall’ideologia radical, disegnano la nuova società verso cui andiamo incontro e che ha perso il senso del limite, personale e territoriale, morale e civile.Masse di espiantati, disperati, privi di tutto a disposizione dei racket e dall’altro masse di consumatori, disperati anch’essi, ma benestanti o comunque in grado di mungere soldi, privi di ogni riferimento. La tratta dei pomodori, lo schiavismo nelle campagne, assume – e giustamente – grande rilievo nei media; la tratta della droga, la vendita di morte, invece va in sordina. I caporali nelle campagne sono una brutta bestia ma impallidiscono in confronto ai caporali della droga e ai loro legami con la criminalità organizzata. Sentite mai parlare di campagne contro la droga, di emergenza droga, di educazione civica contro la droga? Macché, solo razzismo, nazismo, sessismo. L’omertà sulla droga e i mali derivati è una forma di complicità mediatica e politica assai grave. È anche un occultamento di cadavere: muore il senso del limite e della realtà e qui si festeggia il mondo global, senza frontiere tra i popoli, tra il bene e il male, tra il lecito e l’illecito. Un’informazione drogata.(Marcello Veneziani, “Silenzio stampa sulla droga”, dal “Tempo” del 14 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Ci inchiodano per giorni e giorni a parlare di due tredicenni che chiamano sporco negro un immigrato e gli sparano a salve con la scacciacani, o di una capotreno che usa parole sconvenienti per far scendere dal treno zingari molesti senza biglietto e magari con portafogli altrui. O perfino di un barista che espone la foto di Mussolini. Tutto il circo è impegnato nell’impresa: dai clown del Pd ai trapezisti dell’ideologia, dai prestigiatori di notizie ai domatori di bufale, fino alle foche ammaestrate dalla sinistra da passeggio e da corteo. Ma nel frattempo passa inosservato un fenomeno quotidiano grave e preoccupante: lo spaccio e il consumo di droga crescente nel nostro paese, il numero di morti all’anno per overdose e in generale per droga, molti più dei femminicidi e di altre emergenze vere e presunte, il numero record di detenuti per reati connessi alla droga, gli incidenti anche mortali a causa di guidatori in stato di ebbrezza o di allucinazione, la scalata dell’Italia ai primi posti dei consumi e della tossicodipendenza. Quasi trecento all’anno: eran trecento, eran giovani e storti, e sono morti… Cresce l’eroina, per non dire delle droghe sintetiche, ottenute chimicamente, oltre quelle più note.
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Inferno negli Usa: migliaia di bambini abusati da 300 preti
C’è una notizia esplosiva che sta rimbalzando su tutti i media mondiali, ma che da noi rischia di essere messa in secondo piano dal giusto clamore del crollo del ponte di Genova: riguarda i ripetuti e sistematici casi di pedofilia nella Chiesa cattolica statunitense della Pennsylvania, a metà strada tra Washington e New York. Lo scorso 14 agosto, scrive Riccardo Pizziriani su “Luogo Comune”, la Corte Suprema della Pennsylvania ha pubblicato infatti un corposo report di 1.300 pagine che descrive in dettaglio gli abusi sessuali nel clero cattolico locale, accusando oltre 300 sacerdoti. Il gran giurì della Pennsylvania, riunitosi nel 2016, ha intervistato decine di testimoni e esaminato più di 500.000 pagine di documenti provenienti da ogni diocesi dello Stato eccetto Philadelphia e Altoona-Johnstown, già indagate in precedenza. Risultato: orrore, raccapriccio. Una smisurata quantità di abusi, violenze, vessazioni. Questa storica inchiesta, scrive Pizziriani, ha rilevato che più di 1.000 bambini sono stati abusati dai membri di sei diocesi, in Pennsylvania, negli ultimi 70 anni. Dopo 18 mesi di indagini, gli investigatori denunciano «sistematici occultamenti, da parte della Chiesa».«Oltre mille bambini erano vittime identificabili, dagli archivi della Chiesa», afferma il gran giurì nel suo esplosivo rapporto: «Crediamo che il numero reale di bambini i cui “record” sono stati persi o che avevano paura di farsi avanti sia nell’ordine delle migliaia». Il documento afferma che il clero ha abusato bambini, bambine e anche degli adolescenti. «Tutti questi casi – si legge nel rapporto – sono stati messi da parte dai leader della Chiesa, che hanno preferito proteggere soprattutto i colpevoli e la loro istituzione». A causa dei presunti tentativi di copertura da parte degli alti funzionari ecclesiastici, aggiunge Pizziriani, la maggior parte dei casi sono troppo vecchi per essere portati a processo. Nonostante ciò, gli investigatori avvertono: potrebbero esserci ulteriori incriminazioni, mentre l’inchiesta continua. Il report parla di centinaia di preti: alcuni nomi rimangono oscurati, nel timore che la loro identificazione pubblica possa violare i loro diritti costituzionali. Ma il procuratore generale Josh Shapiro ha dichiarato che il suo ufficio sta lavorando per rimuovere questa autocensura che, di fatto, protegge gli autori dei reati.«I funzionari della Chiesa descrivevano abitualmente e deliberatamente questi abusi come “giocare a cavalluccio”, “fare wrestling”, o come “condotta inappropriata”. Non erano affatto quelle cose: erano abusi sessuali su minori, compreso lo stupro», sottolinea Shapiro. Molte vittime hanno affermato di esser state drogate o comunque manipolate. Alcuni hanno ricordato di essere stati picchiati da membri della famiglia che non credevano alle loro storie. Shapiro afferma infatti che «in Pennsylvania la fede è stata trasformata in arma per tenere le vittime in silenzio». Racconta la rete “Abc News”: «Ai bambini è stato insegnato che questo abuso non era solo normale, ma anche era sacro». Stiamo parlando di bambini violentati da sacerdoti, per decenni: gli abusi «vanno dalla masturbazione allo stupro anale, orale e vaginale». Un ragazzo fu persino costretto a farsi confessare allo stesso prete che lo abusava sessualmente. Un altro sacerdote «ha molestato cinque sorelle per un periodo superiore a 10 anni e, in un accordo con la loro famiglia, la diocesi ha richiesto un accordo di riservatezza». Ancora: un gruppo di preti di Pittsburgh, scrive sempre Pizziriani citando il “Telegraph”, è accusato di aver ordinato a un chierichetto di spogliarsi nudo e di posare crocifisso come Gesù sulla croce, mentre gli facevano foto. Gli scatti «sono poi circolati negli ambienti della Chiesa, dove la pornografia infantile veniva condivisa».Sempre nel report si legge che un prete «ha stuprato una bambina di sette anni, mentre la piccola era in ospedale per farsi rimuovere le tonsille». Un altro bambino è stato drogato con sostenze presenti in un succo d’arancia, prima di essere violentato. Un altro, di appena nove anni, «è stato costretto a praticare sesso orale, e poi il prete ha usato l’acqua santa per “purificare” la sua bocca». E’ praticamente infinita, la galleria degli orrori che emerge dall’indagine condotta in Pennsylvania: «Un gruppo di pedofili ha frustato i ragazzini, permettendo ad altri uomini di violentarli a pagamento. Un altro prete, che cercava di convicere gli studenti delle scuole medie a praticargli del sesso orale, insegnava loro di come Maria doveva leccare Gesù per pulirlo dopo che era nato». Poi ci sono o sacerdoti che hanno avuto figli: «Usavano croci d’oro per marcare chi di loro era stato maltrattato». Una ragazza «è stata violentata da un certo numero di sacerdoti, che in seguito le hanno detto che questo era il modo in cui Dio mostrava l’amore». Racconta il “Daily Mail” che un prete di Scranton «ha aggredito sessualmente una ragazza minorenne, l’ha messa incinta e poi le ha organizzato l’aborto».Diverse presunte vittime sono state attirate con alcol o pornografia, aggiunge Pizziriani: in seguito si sono rifugiate nell’abuso di sostanze. Qualcuno è crollato, preferendo suicidarsi. «Una di queste vittime include Joey, un bambino di 7 anni che è stato più volte violentato da padre Edward Graff ad Allentown». Graff, un uomo fisicamente imponente, «ha usato tanta forza per sottomettere il ragazzo che ha danneggiato gravemente la spina dorsale della vittima», secondo il procuratore Shapiro. «I medici hanno dovuto somministrargli pesanti antidolorifici, ma il ragazzo ne è divenato dipendente e alla fine è morto di overdose». Prima di soccombere, la vittima ha scritto alla diocesi di Allentown dicendo che Graff l’aveva più che violentato: «Ha ucciso il mio potenziale e, così facendo, ha ucciso l’uomo che avrei dovuto diventare», ha ammesso il giovane, secondo quanto riportato da “Nbc Philadelphia”. La permanenza di Graff alla diocesi di Allentown è durata 35 anni. E ora, conferma il “Daily Mail”, quel sacerdote è accusato di aver violentato decine di ragazzi.«Sorprendentemente, la leadership della Chiesa ha tenuto traccia degli abusi e della copertura: questi documenti, dagli “archivi segreti” propri delle diocesi, hanno costituito la spina dorsale di questa indagine», afferma Shapiro. Pagine che affondano in storie di abominio, come quella del reverendo David A. Soderlund, accusato di avere avuto rapporti sessuali con almeno tre giovani ragazzi all’inizio degli anni ‘80. «La diocesi di Allentown, di cui era sacerdote, conosceva le accuse, ma non le riferì alle autorità», scrive Pizziriani: il piccolo era un chierichetto di 7° grado (aveva 12 anni), e padre Soderlund aveva un caravan negli Appalachi Trail Sites, a Shartlesville. «Ce l’ha portato lì quasi ogni settimana, per un periodo di circa 5 anni, a fare sesso», ha riferito alle autorità ecclesiastiche nel 1997 una delle presunte vittime di Soderlund: «Ha detto che non partecipava di sua scelta, ma padre David aveva minacciato di ferirlo o ucciderlo. Ha anche scattato delle foto alla vittima impegnata in atti sessuali e ha minacciato di usarle per metterla in imbarazzo», si legge sempre sul “Daily Mail”.Il rapporto d’indagine critica apertamente anche l’arcivescovo di Washington Dc, cardinale Donald Wuerl, già a capo della diocesi di Pittsburgh, per il suo ruolo nel nascondere gli abusi. Prima della pubblicazione del rapporto, l’alto prelato si era difeso giurando di aver «agito con diligenza, con preoccupazione per i sopravvissuti e per prevenire futuri atti di abuso». La “Bbc” rivela che, il mese scorso, il cardinale Theodore McCarrick, ex arcivescovo di Washington e leader cattolico di alto profilo, si è dimesso tra le accuse di aver abusato sessualmente di bambini e adulti per decenni. Secondo Shapiro, l’inchiesta ha confermato «un sistematico insabbiamento, da parte di alti funzionari ecclesiastici in Pennsylvania e in Vaticano». Il “New York Post” scrive che, secondo Shapiro, lo schema era «abuso, negazione e insabbiamento». Conferma l’agenzia “Ansa”, citando sempre Shapiro: «I preti hanno violentato ragazzini e ragazzine. E i loro superiori non solo non fecero niente, ma hanno nascosto tutto».I sacerdoti che avevano molestato i bambini? «Venivano abitualmente trasferiti di parrocchia in parrocchia» e rimanevano tranquillamente attivi per 40 anni. «Il gruppo di investigatori – aggiunge Pizziriani – ha concluso che una successione di vescovi cattolici e altri dirigenti diocesani ha cercato di proteggere la Chiesa da cattiva pubblicità e responsabilità finanziaria. Non hanno denunciato il clero accusato alla polizia, hanno usato accordi di riservatezza per mettere a tacere le vittime e inviato i sacerdoti colpevoli di abusi alle cosiddette “strutture di trattamento”, che “riciclavano” i preti». Così, conferma il “New York Times”, «hanno permesso a centinaia di molestatori riconosciuti di tornare ad operare liberamente». Un parroco è addirittura andato a lavorare a DisneyWorld «utilizzando una accorata lettera di raccomandazione da parte della Chiesa, dopo che costui era stato costretto a lasciare la tonaca dietro le accuse di aver abusato di bambini». Congiura del silenzio, anche oltre la Chiesa: polizia e pubblici ministeri – accusa il “New York Times” – a volte non indagavano sulle accuse, per deferenza verso i religiosi. Oppure ignoravano le denunce, considerandole di competenza di altri uffici. E la strage degli innocenti, nel frattempo, proseguiva.C’è una notizia esplosiva che sta rimbalzando su tutti i media mondiali, ma che da noi rischia di essere messa in secondo piano dal giusto clamore del crollo del ponte di Genova: riguarda i ripetuti e sistematici casi di pedofilia nella Chiesa cattolica statunitense della Pennsylvania, a metà strada tra Washington e New York. Lo scorso 14 agosto, scrive Riccardo Pizziriani su “Luogo Comune”, la Corte Suprema della Pennsylvania ha pubblicato infatti un corposo report di 1.300 pagine che descrive in dettaglio gli abusi sessuali nel clero cattolico locale, accusando oltre 300 sacerdoti. Il gran giurì della Pennsylvania, riunitosi nel 2016, ha intervistato decine di testimoni e esaminato più di 500.000 pagine di documenti provenienti da ogni diocesi dello Stato eccetto Philadelphia e Altoona-Johnstown, già indagate in precedenza. Risultato: orrore, raccapriccio. Una smisurata quantità di abusi, violenze, vessazioni. Questa storica inchiesta, scrive Pizziriani, ha rilevato che più di 1.000 bambini sono stati abusati dai membri di sei diocesi, in Pennsylvania, negli ultimi 70 anni. Dopo 18 mesi di indagini, gli investigatori denunciano «sistematici occultamenti, da parte della Chiesa».
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Uranio impoverito, sono malati oltre 1.100 marinai italiani
Oltre mille soldati italiani colpiti da malattie collegate all’amianto. La novità? Lo ammette il Parlamento: ci sono dei morti, e solo nella marina i militari colpiti patologie absesto-correlate sono 1.100. Sono le «sconvolgenti criticità» nella salute dei nostri militari, in Italia e nelle missioni all’estero, scoperte dalla commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito, presieduta da Gian Piero Scanu, deputato uscente del Pd (non ricandidato). «Risultati imbarazzanti, per i vertici militari e il governo», scrive il “Fatto Quotidiano”. Una frase per tutte: la «diffusa inosservanza degli obblighi» risulta «perfettamente funzionale a una strategia di sistematica sottostima, quando non di occultamento, dei rischi e delle responsabilità effettive». Scondo la relazione, queste criticità «hanno contribuito a seminare morti e malattie». Dai vertici la risposta è stato il «negazionismo», al quale si aggiungono gli «assordanti silenzi generalmente mantenuti dalle autorità di governo», che hanno ingenerato il dilagare, «tra le vittime e i loro parenti», di uno «sconfortante senso di giustizia negata». Eppure, sottolinea la relazione, gli esperti ascoltati hanno riconosciuto il nesso tra esposizione all’uranio impoverito e tumori.Raccomandando al prossimo Parlamento di «vigilare con il massimo scrupolo sulle modalità di realizzazione della missione in Niger» anche «per quanto attiene alla valutazione dei rischi, all’idoneità sanitaria e ambientale dei luoghi di insediamento del contingente, alla congruità delle pratiche vaccinali adottate e alle pratiche di sorveglianza sanitaria», la commissione definisce «singolare» la «scarsa conoscenza» circa l’uso, durante le missioni all’estero, di «armamenti pericolosi, eventualmente impiegati dai paesi alleati». Per la commissione d’inchiesta, le procedure «convergono nel produrre il duplice effetto di offuscare i rischi incombenti e di arginare le responsabilità dei reali detentori del potere». La vigilanza su salute e sicurezza è «svolta esclusivamente dai servizi sanitari e tecnici della difesa», la cui azione «si è dimostrata insufficiente». Aggiungono i commissari: «La diffusa inosservanza degli obblighi risulta perfettamente funzionale a una strategia di sistematica sottostima, quando non di occultamento dei rischi e delle responsabilità effettive».Basti pensare che i responsabili del servizio di prevenzione e protezione, nonché i medici competenti, «in alcuni siti sono risultati addirittura assenti». Critiche anche alla magistratura penale, riporta il “Fatto”: gli interventi dei giudici a tutela della salute dei militari «non appaiono sistematici», e dunque nell’amministrazione della difesa «continua a diffondersi un deleterio senso d’impunità», che porta a un «risultato devastante». Ovvero: «L’idea che le regole c’erano, ci sono e ci saranno, ma che potevano, si possono e si potranno violare senza incorrere in effettive responsabilità». I rischi non si limitano solo alle missioni, visto che «rischi minacciosi» riguardano anche «caserme, depositi, stabilimenti militari», sia per «deficienze strutturali» (particolarmente critiche «nelle zone a maggiore sismicità»), sia per carenze di manutenzione che per la permanenza di «materiali pericolosi». La presenza di amianto, spiegano i commissari, «ha purtroppo caratterizzato navi, aerei, elicotteri».In relazione a tre specifici casi emersi nel corso dell’inchiesta, la commissione ha trasmesso i suoi atti alle procure. Un militare, Antonio Attianese, ammalatosi in Afghanistan, ha denunciato «l’atteggiamento ostruzionistico e le minacce di alcuni superiori», mentre il tenente colonello medico Ennio Lettieri, impegnato in Kosovo (infermeria del comando Kfor) ha denunciato una fornitura idrica «altamente cancerogena», destinata al contingente italiano. Segnalato alla magistratura anche il caso del generale Carmelo Covato, dello stato maggiore: «I militari italiani impiegati nei Balcani – ha detto alla commissione – erano al corrente della presenza di uranio impoverito nei munizionamenti utilizzati ed erano conseguentemente attrezzati». Affermazioni che i commisari giudicano «in contrasto con le risultanze dei lavori e con gli elementi conoscitivi acquisiti nel corso dell’intera inchiesta».Oltre mille soldati italiani colpiti da malattie collegate all’amianto. La novità? Lo ammette il Parlamento: ci sono dei morti, e solo nella marina i militari colpiti patologie absesto-correlate sono 1.100. Sono le «sconvolgenti criticità» nella salute dei nostri militari, in Italia e nelle missioni all’estero, scoperte dalla commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito, presieduta da Gian Piero Scanu, deputato uscente del Pd (non ricandidato). «Risultati imbarazzanti, per i vertici militari e il governo», scrive il “Fatto Quotidiano”. Una frase per tutte: la «diffusa inosservanza degli obblighi» risulta «perfettamente funzionale a una strategia di sistematica sottostima, quando non di occultamento, dei rischi e delle responsabilità effettive». Scondo la relazione, queste criticità «hanno contribuito a seminare morti e malattie». Dai vertici la risposta è stato il «negazionismo», al quale si aggiungono gli «assordanti silenzi generalmente mantenuti dalle autorità di governo», che hanno ingenerato il dilagare, «tra le vittime e i loro parenti», di uno «sconfortante senso di giustizia negata». Eppure, sottolinea la relazione, gli esperti ascoltati hanno riconosciuto il nesso tra esposizione all’uranio impoverito e tumori.