Archivio del Tag ‘Oceano Atlantico’
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Biglino: “custodi della Terra” minacciati, come aiutarli
Un libro non può cambiare il mondo, ma può dare un contributo concreto a una piccola parte di umanità che ha grande rilievo per il mondo. Il libro è “La Bibbia Nuda”, nel quale Giorgio Cattaneo intervista lo scrittore e studioso esperto di religioni Mauro Biglino; la comunità è quella degli indios del villaggio Jenipapo-Kanindé in Brasile. Due mondi distanti, resi vicini dalla volontà di Biglino di donare il ricavato derivato dai diritti editoriali a un progetto di sostegno alla comunità indigena. Quello voluto da un gruppo di donne italiane: il medico Elisabetta Soro, l’imprenditrice alberghiera Emanuela Piazza, entrambe residenti in Italia, e Paola Panzeri, insegnante di yoga in Brasile e braccio operativo sul territorio dell’organizzazione. I popoli indigeni sono i migliori “custodi della Terra” perché da millenni vivono in armonia con la natura preservandone l’integrità. Un’umanità variegata costituita dal 5-6% della popolazione mondiale (circa 400 milioni di persone) capace di tutelare nel loro territorio l’80% della biodiversità mondiale.Nel Ceará (Nordest del Brasile) vivono 14 popoli, tra i quali gli indios del villaggio Jenipapo-Kanindé. Una realtà nata intorno alla Lagoa Encantada, la laguna incantata sacra ai nativi, dalla quale si dirama una foresta che si arrampica sulle dune fino ad approdare alle spiagge senza fine dell’Oceano Atlantico. Una sorta di paradiso terrestre, dove vivono 476 persone in armonia con la natura. A capeggiarle è stata fino a poco tempo fa Maria de Lourdes Conceição, meglio conosciuta come “Cacique Pequena”, capo di tutte le tribù indigene della regione e prima donna a ricoprire tale ruolo nell’intero Sud America. Una signora carismatica e piena di energia, capace di preservare le antiche tradizioni indigene sviluppatesi nel corso dei secoli e a trasmetterle alla comunità anche tramite l’insegnamento della lingua d’origine a scuola. Giunta a 75 anni, ha ceduto lo scettro di responsabile comunitaria a un’altra donna, “Cacique Irè”.Di recente sono arrivate la riduzione dei contributi governativi alla comunità e le politiche ostili di Jair Bolsonaro, il presidente del Brasile. Atteggiamento avverso agli indios, che ha accentuato i tentativi di “conquistare” le terre indigene da parte di speculatori, desiderosi di profittare della bellezza del luogo per farne un resort di lusso o per sfruttarne le risorse naturali. Azioni condotte per lo più con la seduzione del denaro e di promesse di vita felice in città, a volte con arroganza sfociata in alcuni casi in vere e proprie minacce di morte. Secondo l’Articolazione dei Popoli Indigeni del Brasile (Apib) la politica anti-indigena «ha incitato e facilitato le invasioni di terre indigene» da parte di gruppi interessati nell’estrazione di materie preziose e legname, «causando deforestazione e contaminazione da mercurio e minerali pesanti o Covid-19, colpendo così la vita, la salute, l’integrità e l’esistenza stessa delle popolazioni indigene in Brasile». Un obiettivo perpetrato anche cercando di smantellare enti destinati alla tutela degli indios, come il Funai (Dipartimento agli Affari Indigeni del Brasile) o il Sesai, il sistema sanitario indigeno.La situazione critica ha indotto Elisabetta, Emanuela e Paola a escogitare via alternative per supportare il villaggio nella vita quotidiana e a preservare il territorio. In particolare, nel 2020 è stata avviata una raccolta fondi a sostegno degli studenti della scuola elementare della comunità. Iniziativa sfociata nell’acquisto di materiale didattico, della divisa scolastica (obbligatoria in Brasile), delle mascherine e di borracce in fibra di cocco. Parte del ricavato della raccolta ha finanziato le iniziative per la tutela delle culture indigene. In particolare, ha contribuito al viaggio a Brasilia, distante oltre 2.000 chilometri, di 50 donne rappresentanti delle varie comunità indios del Ceará per protestare contro le leggi volute da Bolsonaro per togliere i diritti agli indigeni. Attivismo sfociato lo scorso agosto con la presentazione presso il Tribunale penale internazionale dell’Aja, nei Paesi Bassi, di una denuncia per genocidio e crimini contro l’umanità a carico del presidente brasiliano.Un dossier dove si evidenzia come il governo abbia agito per «sterminare in tutto o in parte» i popoli indigeni, «sia attraverso la morte delle persone per malattia o omicidio, sia attraverso l’annientamento della loro cultura, risultante da un processo di assimilazione». L’impegno delle tre italiane è proseguito nel tempo per fare fronte alle necessità della comunità, come l’appello per recuperare coperte e indumenti pesanti per la trasferta a Brasilia o la lotteria organizzata per raccogliere i soldi per comprare un cellulare a Cacique Irè per mantenere la rete sociale con le altre comunità indigene. A volte l’offerta è arrivata da privati, come la donazione di materiale scolastico da parte di una struttura ricreativa locale o di libri per l’infanzia forniti da amici e cittadini comuni. Ora si stanno riprogrammando le visite di scuole al piccolo museo locale e di piccoli gruppi per escursioni nella natura o le degustazioni di cibo locale.L’obiettivo è di raccogliere fondi per realizzare e consegnare tavoli e sedie per la mensa scolastica, sempre realizzate con il riciclo di materiali, in questo caso i pallet per il trasporto delle merci. Da fare c’è pure l’ampliamento del tetto della mensa utilizzando elementi naturali come legno e paglia. Le ambizioni, però, sono molte: creare un’area multifunzionale culturale con computer e proiettori, graduale ampliamento della scuola, miglioramento delle strutture igieniche, costruzione di un ambulatorio medico per controlli periodici dei bambini e degli adulti, attivazione di corsi di formazione volti alla consapevolezza ambientale, ecologia, alimentazione e salute. Un serie di finalità per il quale Mauro Biglino sta fornendo, come anticipato, il proprio apporto devolvendo alla causa i diritti d’autore del suo ultimo libro.(Estratti dall’articolo “A difesa dei custodi della Terra”, pubblicato da “Slow Revolution” il 25 ottobre 2021).Un libro non può cambiare il mondo, ma può dare un contributo concreto a una piccola parte di umanità che ha grande rilievo per il mondo. Il libro è “La Bibbia Nuda”, nel quale Giorgio Cattaneo intervista lo scrittore e studioso esperto di religioni Mauro Biglino; la comunità è quella degli indios del villaggio Jenipapo-Kanindé in Brasile. Due mondi distanti, resi vicini dalla volontà di Biglino di donare il ricavato derivato dai diritti editoriali a un progetto di sostegno alla comunità indigena. Quello voluto da un gruppo di donne italiane: il medico Elisabetta Soro, l’imprenditrice alberghiera Emanuela Piazza, entrambe residenti in Italia, e Paola Panzeri, insegnante di yoga in Brasile e braccio operativo sul territorio dell’organizzazione. I popoli indigeni sono i migliori “custodi della Terra” perché da millenni vivono in armonia con la natura preservandone l’integrità. Un’umanità variegata costituita dal 5-6% della popolazione mondiale (circa 400 milioni di persone) capace di tutelare nel loro territorio l’80% della biodiversità mondiale.
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1439: perché la Cina cedette a Firenze la via dell’America?
In cambio di che cosa, esattamente, i cinesi “cedettero” alla famiglia Medici l’accesso all’America, nel 1439? Se lo domanda Nicola Bizzi, nella trasmissione web-streaming “Il Sentiero di Atlantide”, sul canale YouTube “Facciamo Finta Che”, di Gianluca Lamberti. Cioè: la Cina e l’America a Firenze, mezzo secolo prima dell’impresa ufficiale di Cristoforo Colombo? Sembra una storia surreale. Ma del resto, c’è qualcosa di più surreale del Green Pass e del regime di segregazione cui è sottoposta l’Italia, da quasi due anni, in virtù della più grande “pandemia di asintomatici” della storia dell’umanità? Sicché, il Celeste Impero avrebbe consegnato alla Firenze medicea le chiavi del continente americano? E ricevendo quale contropartita? «Evidentemente era qualcosa di enorme, che però non è mai trapelato». Un altro ricercatore italiano – Riccardo Magnani – si spinge addirittura a capovolgere il quadro: non sarebbe stata Firenze a mettere le mani sull’America, ma (al contrario) era il continente americano a candidarsi a guidare l’Europa. Come? Insediando a Firenze nientemeno che un esponente della famiglia reale incaica: Lorenzo il Magnifico.
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Atlantide, la scienza convalida Platone: cataclisma nel 9500
Aveva ragione Platone: Atlantide esisteva davvero e fu sommersa dall’oceano attorno al 9.600 avanti Cristo. La causa? L’impatto di una “pioggia cometaria” catastrofica. A confermarlo non è l’archeologia, ma la geologia: grazie a Richard Firestone e James Kennett, ora sappiamo che il pianeta fu sconvolto da una sequenza impressionante di cataclismi di origine cosmica, come dimostrano i sedimenti di nano-diamanti “extraterrestri” rinvenuti nelle aree degli impatti. Nel “Crizia” e nel “Timeo” il sommo filosofo greco aveva parlato di una civiltà superiore, preesistente alla nostra, spazzata via da una specie di diluvio universale? E’ andata proprio così, dicono i geologi dal 2014 a questa parte. O meglio: gli scienziati spiegano che proprio 12.000 anni fa – nel periodo indicato da Platone – ci fu un azzeramento planetario. E questo spiazza gli archeologi, che ancora si ostinano a far risalire le nostre origini a un’epoca assai più recente, benché vengano smentiti, di giorno in giorno, dalle scoperte della “rivoluzione archeologica” ormai in atto, difficilmente arrestabile. Lo sostiene Graham Hancock, massimo divulgatore mondiale in materia. E lo sottolinea Nicola Bizzi, autore dell’originalissimo saggio “Da Eleusi a Firenze”.Il lavoro di Bizzi, edito da Aurora Boreale, conferma in modo impressionante come le ultime rivelazioni scientifiche non siano mai state un segreto per gli iniziati ai “misteri eleusini”, comunità di cui lo stesso Bizzi fa parte, per via familiare, essendo stata ben radicata – sottotraccia – nella fiorentissima Firenze dei Medici. Il cosiddetto “mito” eleusino nasce alle porte di Atene, quando la dea Demetra – ultima discendente dei Titani, sconfitti dagli dei olimpici – mette a parte i seguaci del “segreto” dell’origine umana: saremmo stati “fabbricati” dalle divinità titaniche come Poseidone. Da allora (1300 avanti Cristo), il santuario di Eleusi diventa il presidio di questa “verità misterica”, custodita dai sacerdoti di Demetra, eredi di quell’antica rivelazione. Suggestioni vertiginose: per volere di Augusto, il poeta Virgilio celebra la nascita di Roma ad opera di Enea, ultimo eroe di Troia. La guerra omerica dell’“Iliade” sarebbe la traccia letteraria della resa dei conti finale tra i Titani e Zeus, di cui parla anche Esiodo nella sua “Teogonia”.Attenti ai simboli: per la tradizione misterica, la stessa Demetra arrivò a Eleusi partendo da Enna, in Sicilia. In queste tre fonti (Omero, l’“Eneide” e il culto eleusino) ricorre la radice “En’n” (inizio). Non casuale, quindi, il nome di Enea: il troiano fondatore di Roma sarebbe stato l’erede della civiltà “atlantidea”, estesasi nel Mediterraneo prima del grande cataclisma “cometario” che stravolse la Terra. Ma in realtà, anziché “atlantidea”, quella civiltà-madre (nord-atlantica e poi anche minoica, basata a Creta e poi in tutto l’Egeo fino all’Asia Minore) era chiamata “ennosigea”, dal nome di una delle principali di quelle sette macro-isole, chiamata appunto En’n. Questa possibile verità parallela – tranquillamente esposta da Platone – fu tollerata per quasi duemila anni, fino allo sciagurato Editto di Tessalonica del 380 dopo Cristo, quando l’imperatore Teodosio trasformò il neonato Cristianesimo in religione di Stato, l’unica autorizzata, mettendo fuorilegge tutte le altre e dando il via alla feroce persecuzione del paganesimo.A partire da quell’anno, scrive Bizzi nel suo affascinante saggio, tutti i templi eleusini fuorno distrutti – tranne quello di Eleusi, che venne semplicemente abbandonato. Da allora, la “comunità eleusina” si rassegnò a sopravvivere in clandestinità, con esiti spesso clamorosi come il Rinascimento italiano, promosso da principi illuminati del calibro di Lorenzo il Magnifico, espressione della tradizione eleusino-pitagorica. Stando a Bizzi, in possesso di documenti inediti e gelosamente conservati per secoli, erano “eleusini” anche i grandi architetti della Roma rinascimentale, ingaggiati dai Papi medicei. E sempre a Firenze, alla fine del Trecento, si svolse il più incredibile dei summit: alla corte dei Medici si sarebbero confrontati i rappresentati vaticani e persino gli emissari del Celeste Impero cinese, per decidere se e come diffondere la notizia della spedizione navale dello scozzese Henry Sinclair, conte delle Orcadi, sbarcato in America (cent’anni di prima di Colombo) con 40 navi templari sulle coste del Rhode Island.Siamo alla vigilia di scoperte sensazionali sulla vera storia della nostra civiltà? Certo non ci è d’aiuto l’archeologia ufficiale, scrive Bizzi in un’accurata ricostruzione su Facebook, in cui spiega le ragioni dell’assurda reticenza della disciplina archeologica accademica, oggi quotidianamente scavalcata dai nuovi ricercatori, archeologi e non, disposti a procedere incrociando i loro dati con quelli dei geofisici, dei climatologi, dei paleontologi, degli astrofisici. «Considerata in passato come scienza ausiliaria della storia, adatta a fornire documenti materiali per quei periodi non sufficientemente illuminati dalle fonti scritte – ragiona Bizzi – l’archeologia è stata sempre considerata come una delle quattro branche dell’antropologia (insieme all’etnologia, la linguistica e l’antropologia fisica)». I suoi difetti? «Ottusità, malafede, e soprattutto anti-scientificità». Dice Bizzi: «È doloroso doverlo affermare, ma l’archeologia è oggi una delle poche discipline scientifiche (o con pretesa di scientificità) che non procedono secondo un metodo “scientifico”».Una disciplina, l’archeologia, «corrosa e inquinata da pesanti rivalità professionali, da miopia e da ristrettezza di vedute», nonché «minata da una cronica mancanza di fondi per gli scavi e per la preservazione del patrimonio finora scoperto». Soprattutto, «anziché comportarsi da vera disciplina “complementare”, come dovrebbe essere», l’archeologia «si rifiuta di accettare i dati di supporto della geologia, della chimica, della biologia, dell’astronomia e di altre discipline, e resta chiusa in sé stessa e nel suo immobilismo». Risultato: «Tutte le scoperte “scomode”, che rischiano di alterare o stravolgere il “paradigma” comunemente accettato, vengono sistematicamente nascoste, occultare: ne viene negata la pubblicazione e la conoscenza da parte dell’opinione pubblica». Così, a forza di “questo non si può dire”, il sapere «si riduce a dogma di fede». Nel testo “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, lo storico della scienza Thomas Kuhn definisce il paradigma scientifico «un risultato universalmente riconosciuto che, per un determinato periodo di tempo, fornisce un modello e soluzioni per una data comunità di scienziati».Solo le discipline più mature, non a caso, possiedono un paradigma stabile, osserva Bizzi. «E il paradigma prevalente rappresenta spesso una forma specifica di vedere la realtà o le limitazioni di proposte per l’investigazione futura». In altre parole, «un freno e un limite talvolta inaccettabile». Lo stesso Hancock, parlando di “paradigma archeologico”, sostiene che l’archeologia ortodossa si basa su «presupposti aprioristici riguardo a ciò che accadde in passato», e li usa come pretesto «per non effettuare indagini ad ampio raggio su ciò che effettivamente accadde». Scarsa cultura, stupidità o malafede? E’ Kuhn il primo a sostenere che, in modo complementare, «una rivoluzione scientifica sia necessariamente caratterizzata da un cambiamento di paradigma». E questa “rivoluzione”, archeologica e non solo, secondo Bizzi è ormai in corso da vent’anni. Cambio di paradigma, appunto: «Benché persistano all’interno degli ambienti accademici una grande miopia e una malcelata ottusità, stiamo assistendo fortunatamente ad un ricambio generazionale, alla crescita professionale e all’avvento di una nuova generazione di giovani storici e archeologi con uno spettro di vedute un po’ più ampio della precedente, e soprattutto con più determinazione e con una maggiore apertura verso la multidisciplinarietà».Certo, «sono ancora pochi quelli disposti a rischiare, magari a compromettere le loro carriere pur di portare avanti teorie innovative». Ma comunque «quei pochi ci sono, e sono sempre di più». Aggiunge Bizzi: «Questa rivoluzione è ormai partita e ritengo che niente possa più fermarla». Un dato sicuramente a favore dei pochi coraggiosi “pionieri” di questo nascente revisionismo storico-archeologico – spiega Nicola Bizzi – è sicuramente il rinnovato interesse da parte dell’opinione pubblica, indubbiamente favorito dall’avvento e dalla diffusione di Internet, che ha potenzialmente ampliato in maniera esponenziale l’accesso ai dati e alle notizie. «Inoltre, grazie alla pubblicazione e alla diffusione a livello mondiale di libri rivoluzionari di studiosi come Robert Bouval, Graham Hancock, John Antony West, Alan Alford, e alla nascita di importanti testate giornalistiche e riviste specializzate a larga diffusione, come l’italiana “Archeomisteri”, sta sempre più crescendo nell’opinione pubblica l’interesse per l’archeologia, e soprattutto la voglia di sapere, di conoscere, di non limitarsi alle apparenze e alle verità ufficiali e di comodo».Bizzi cita il ricercatore italiano Mauro Quagliati, secondo cui «la rivoluzione archeologica parte dall’Egitto». È infatti proprio grazie a tutta una serie di nuove scoperte inerenti alla Sfinge e alle piramidi, che questa “rivoluzione” ha potuto finalmente aprirsi un varco nell’immobilità degli accademici. Nonostante le negazioni a oltranza di certe “autorità”, proprio dall’Egitto sono emersi dei dati estremamente importanti. Recenti scoperte hanno dimostrato ad esempio, con il supporto della geologia, che la Sfinge è stata scolpita non meno di 12.000 anni fa. Il suo corpo è stato infatti eroso da millenni di piogge tropicali, quando l’Egitto aveva un clima ben diverso dall’attuale. Molte altre nuove scoperte tenderebbero a datare alla stessa epoca le tre piramidi di Giza, il Tempio della Valle e molti altri monumenti egizi. «A chi mi chiede se la mitica Atlantide descritta da Platone sia realmente esistita o se si tratti solo di una leggenda – scrive Bizzi – solitamente ribadisco che prima di rispondere dobbiamo partire dalla constatazione di quella che è una realtà oggettiva: la storia della civiltà umana sulla Terra si spinge molto più indietro nel passato di quanto ci venga oggi insegnato sui banchi di scuola».Fino a pochi anni fa, il passato dell’uomo sembrava non avere misteri: sulla base di alcuni rinvenimenti gli scienziati credevano di poter stabilire, a grandi linee, la storia della nostra evoluzione, di essere in grado cioè di seguire lo sviluppo della civiltà attraverso le Età della Pietra, del Bronzo e del Ferro. Ma lo schema fissato da questi studiosi era troppo semplicistico per rispecchiare la realtà. Lo dimostrarono migliaia di successive scoperte che, lungi dal completare il mosaico, lo ampliarono, estendendone le tracce in ogni direzione e rendendolo più incomprensibile che mai. «Oggi ci troviamo di fronte a tracce di grandi culture fiorite in epoche che avrebbero dovuto essere caratterizzate da un’assoluta primitività, almeno secondo le teorie canoniche della “scienza ufficiale”. Segni evidenti ci attestano l’esistenza di importanti baluardi di civiltà là dove non li avremmo mai sospettati». In sostanza, «oggi gli storici e gli scienziati avrebbero in mano dati, nozioni e prove ormai certe tali da poter retrodatare di migliaia di anni la storia della civiltà umana», come dimostra la rivoluzionaria scoperta di Göbekli Tepe, nella Turchia orientale: un sito archeologico imponente e straordinario, fino ad oggi solo in minima parte portato alla luce, la cui datazione ufficiale si attesta oltre il 9.500 avanti Cristo.Per non parlare di altri siti come quello bosniaco di Visoko, le cui impressionanti piramidi sono state datate addirittura al 29.000 avanti Cristo. «Penso sinceramente che, se non assisteremo a una “manipolazione” di questa rivoluzione archeologica – sostiene Bizzi – il castello di carte degli storici accademici sia destinato inesorabilmente a crollare». Sarà allora, aggiunge lo storico, che il “paradigma” sarà finalmente rovesciato. Quel giorno, «la verità inizierà a venire alla luce in tutto il suo splendore». Per ora, resta “pericoloso” mettere in discussione, dal punto di vista storico, persino alcuni eventi della Seconda Guerra Mondiale, «quindi possiamo immaginarci quanto pericoloso possa essere mettere in discussione l’intera cronologia ufficiale della storia dell’uomo». Per Bizzi, «esistono dei “poteri forti”, delle vere e proprie “lobby” che pretendono di decidere sulle teste dei cittadini di questo mondo in tutti campi, non soltanto nella politica e nell’economia, ma anche nella storia: lobby di potere che hanno sempre attuato una sistematica e deliberata soppressione delle informazioni relative alle scoperte archeologiche più “scomode”, operando simultaneamente, oltre al taglio dei fondi e delle risorse, al discredito professionale degli archeologi impegnati in determinate ricerche e in determinati scavi».Francamente, ammettere l’esistenza di una civiltà avanzata prima dell’inizio della nostra era «comporterebbe una vera rivoluzione dei parametri storici: tutto sarebbe da riscrivere e molti ostinati negatori di certe realtà perderebbero la faccia». Per gli studiosi “ortodossi” è molto più facile attenersi al vecchio “paradigma” e ignorare le nuove scoperte, piuttosto che «intraprendere ricerche archeologiche e subacquee che si rivelerebbero costosissime ed estremamente difficoltose». Ma alla fine, «anche i più miopi e ostinati non potranno farlo ancora a lungo». Queste nuove scoperte “scomode” infatti si susseguono, sempre più numerose, con un ritmo ormai impressionante. «E gli argini della diga del “paradigma” mostrano crepe e spaccature ogni giorno più grandi». Come evidenzia Graham Hancock nel suo libro “Il ritorno degli Dei”, una casa costruita sulla sabbia rischia sempre di crollare. «E le prove dimostrano con sempre maggiore evidenza che l’edificio del nostro passato eretto dagli storici e dagli archeologi poggia su fondamenta difettose e pericolosamente instabili». Tra il 10.800 e il 9.600 il nostro pianeta «venne sconvolto da un cataclisma di dimensioni apocalittiche». Si trattò, come sottolinea Hancock, di «un evento che ebbe conseguenze globali e che influì molto profondamente sul genere umano», restando vivo nella memoria, nei miti e nelle tradizioni di tutti i popoli.Un evento sul quale molto è stato scritto, dibattuto e teorizzato, dal medioevo fino ad oggi. Ma soltanto fra il 2007 e il 2014 è stato pienamente confermato dalle prove e dalle testimonianze scientifiche, afferma lo storico fiorentino. Il lavoro divulgativo di Hancock, basato su rigorose ricerche scientifiche, riporta tutti i riscontri oggettivi del cataclisma che sconvolse il mondo tra 12.800 e 11.600 anni fa. «Ci fornisce le tanto attese prove che ci permettono di far uscire una volta per tutte questo evento di portata apocalittica dal calderone delle ipotesi e dalle nebbie del mito, contestualizzandolo cronologicamente e geograficamente». Come ha scritto Randall Carlson in “My Journey to Catastrophism”, «il nostro è un pianeta terribilmente dinamico, che ha subito cambiamenti profondi su una scala che supera di gran lunga qualsiasi cosa accaduta in un arco di tempo a noi prossimo». Quello che chiamiamo “la nostra storia”, dice Carlson, «è semplicemente la testimonianza di eventi umani che si sono verificati a partire dall’ultima grande catastrofe planetaria».Eppure, i popoli con i quali solitamente si vuol fai iniziare la storia “ufficiale”, ovvero i Sumeri e gli Egiziani, ci hanno lasciato documenti scritti che parlano di migliaia di anni della loro storia, precedenti a quella che conosciamo: migliaia di anni di storia precedenti al grande evento apocalittico che, in tutte le culture, fa da cerniera temporale fra il “prima” e il “dopo”. Come osserva lo stesso Hancock, alla luce delle nuove scoperte ci troviamo nel mezzo di un profondo “cambiamento di paradigma” per quanto riguarda il modo in cui guardiamo l’evoluzione della civiltà umana. Gli archeologi? Hanno la pessima abitudine di considerare gli impatti cosmici come fossero lontani milioni di anni, e in più «sostanzialmente irrilevanti nell’arco dei 200.000 anni di esistenza dell’uomo anatomicamente moderno». Finché si credeva che l’ultimo grande impatto fosse stato quello con l’asteroide che 65 milioni di anni fa si ritiene che abbia spazzato via i dinosauri, aveva ovviamente poco senso cercare di correlare gli incidenti cosmici su questa scala quasi inimmaginabile con l’arco di tempo molto più breve della storia dell’umanità. Ma a cambiare tutto, scrive Bizzi, è «lo scenario da incubo emerso dalle ricerche di quel gruppo di scienziati che ha recentemente dimostrato il devastante impatto del Dryas Recente, vale a dire quell’evento sconvolgente di dimensioni apocalittiche che ha sconvolto il nostro pianeta solo 12.800 anni fa, alle porte della nostra storia “ufficiale”».Significa «rovesciare il tavolo con tutto quello che c’è sopra», come si intuisce osservando «le tenaci e disperate resistenze dell’establishment accademico, fin dall’inizio rivolte verso gli studi rivoluzionari di Joseph Harlen Bretz prima e verso le scoperte di Jim Kennett e del suo team di scienziati poi». Resistenze paradossali, visto che ora emerge le nostra civiltà non nasce affatto nel Neolitico, ma assai prima. Ovvio: il vecchio “paradigma”, semplicemente, ignorava il cataclisma planetario. Si scatenò nel Dryas Recente (tra i 12.800 e gli 11.600 anni fa) e venne immediatamente seguito da grandi e importanti segnali di civiltà, come quella di Göbekli Tepe in Turchia. «Non si trattava di civiltà primitive appena uscite dalle caverne, bensì di popoli con strutture sociali complesse e già evolute, con alto senso artistico e religioso e con conoscenze astronomiche e architettoniche chiaramente riscontrabili negli imponenti edifici e monumenti che ci hanno lasciato». Oggi, ormai costretti dall’evidenza e dalle datazioni, gli archeologi definiscono i resti di Göbekli Tepe «primi esperimenti di vita civilizzata», che ebbero luogo subito dopo il “punto di interruzione” rappresentato dal Dryas Recente. «Ma non tengono conto del trauma immane e della distruzione globale messi in moto dagli impatti cosmici che causarono il Dryas Recente». E questo, per Bizzi, «rappresenta una vera e propria carenza nei metodi di ricerca e di valutazione».Peggio ancora: «Non si è pensato di considerare anche solo per un momento la possibilità che capitoli cruciali della storia umana, forse persino una grande civiltà della remota preistoria, possano essere stati cancellati (anche se ciò non è avvenuto nella memoria storica e nei miti di tutti i popoli antichi) da questi impatti e dalle inondazioni, dalle piogge nere bituminose, dall’oscurità e dal freddo indescrivibile che ne seguirono». Fino a non molti anni fa gli studiosi e i ricercatori indagavano su questo cataclisma apocalittico, di cui esitevano molteplici evidenze, ma non ancora le prove scientifiche delle sue cause. Ipotizzavano l’impatto di un meteorite di considerevoli dimensioni, sul modello di quello che si ritiene abbia provocato la scomparsa dei dinosauri. Con l’inizio del nuovo millennio, invece, si è fatta strada un’ipotesi «assai più inquietante, corroborata dalla massa crescente di indizi attestanti che 12.800 anni una cometa gigante, in viaggio su un’orbita che la portò a intersecare il Sistema Solare interno, si frantumò in una miriade di frammenti». Molti dei quali, con un diametro anche superiore ai 2 chilometri, colpirono la Terra.Epicentro del disastro: il Nord America. Luogo dell’impatto: la calotta glaciale nord-americana. Conseguenze: «Lo scioglimento di colossali masse di ghiaccio causò spaventose alluvioni e maremoti, proiettando grandi nuvole di polvere nell’alta atmosfera, avvolgendo l’intero pianeta e impedendo per lungo tempo ai raggi del Sole di raggiungere la superficie». Era stata finalmente individuata la vera causa, che negli anni successivi sarebbe stata corroborata da solide prove scientifiche, del misterioso e repentino periodo di congelamento globale che i geologi chiamano Dryas Recente. «In sostanza, stava emergendo una verità a lungo solo ipotizzata e da molti, in ambito scientifico ed accademico, temuta e rifiutata». L’ultima conferma viene da “The Journal of Geology”, che riporta «la scoperta di un grandissimo quantitativo di nanodiamanti, rilevati in una vasta aerea ritenuta quella dei principali impatti». Si tratta di «diamanti microscopici che si formano in condizioni estremamente rare di pressione e calore di livelli altissimi, e sono ritenuti le impronte caratteristiche – proxy, o indicatori diretti, nel linguaggio scientifico – di potenti impatti di comete o asteroidi».E il team di scienziati guidato da Richard Firestone e da James Kennett, nel 2014, dopo sette anni di accese discussioni e dibattiti, spiegò che i campioni di sedimento sui quali si fondavano le prove contenevano, oltre ai nanodiamanti, diversi altri tipi di detriti che potevano avere unicamente un’origine extraterrestre, riconducibili a una cometa o a un asteroide. Tra i detriti, «minuscole sferule di carbonio che si formano quando goccioline di materiale organico fuso si raffreddano rapidamente a contatto con l’aria e molecole di carbonio contenenti il raro isotopo Elio-3, molto abbondante nel cosmo, ma non sulla Terra». Il team arrivò poi alla conclusione che la causa della devastazione fosse da imputare a una cometa, e non a un asteroide, dal momento che nello strato principale dei sedimenti esaminati erano del tutto assenti gli alti livelli di Nichel e Iridio che caratterizzano gli impatti degli asteroidi. «Si delineavano così con chiarezza le cause scatenanti del Dryas Recente: l’impatto dei frammenti di una super-cometa che avrebbero colpito la calotta glaciale nord-americana in più punti e una vasta aerea dell’emisfero settentrionale, arrivando a toccare il Mediterraneo, la Turchia e la Siria».Riassumendo: gli autori dello studio immaginano «un’onda d’urto devastante e di altissima temperatura che provocò un picco di sovrapressione, seguito da un’onda di pressione negativa, che diede luogo a venti intensi che spazzarono il Nord America viaggiando a centinaia di chilometri orari, accompagnati da potenti vortici generati dagli impatti». Non solo: «Una sfera di fuoco rovente avrebbe saturato la regione vicina agli impatti». E a distanze maggiori, il rientro in atmosfera ad altissima velocità del materiale surriscaldato (espulso al momento delle collisioni) avrebbe provocato «enormi incendi che avrebbero decimato foreste e praterie, distruggendo le riserve di cibo degli erbivori e producendo carbone, fuliggine, fumi tossici e cenere». E in che modo tutto ciò avrebbe potuto causare il drammatico congelamento del Dryas Recente? Gli autori dello studio propongono varie concause: la più rilevante sarebbe stata «l’enorme pennacchio di vapore acqueo proveniente dallo scioglimento della calotta glaciale». Sarebbe stato scagliato nell’atmosfera, combinato a immense quantità di polvere e detriti composti da frammenti dei corpi impattanti, dalla calotta glaciale e dalla crosta terrestre sottostante, oltre al fumo e alla fuliggine prodotta dagli incendi che devastarono l’intero continente.Nel complesso, come rileva Hancock, risulta abbastanza facile capire in che modo una tale quantità di detriti proiettata nell’atmosfera potesse aver portato ad un rapido raffreddamento, bloccando il passaggio della luce solare. L’insieme di vapore acqueo, fumo, fuliggine e ghiaccio – continua Bizzi – avrebbe generato una cortina persistente di nubi “nottilucenti”, con conseguente diminuzione della luce solare e raffreddamento della superficie, riducendo in tal modo l’insolazione alle alte latitudini, aumentando l’accumulo nevoso e causando un ulteriore abbassamento delle temperature in un ciclo continuo di retroazione. Per quanto devastanti, questi fattori diventano quasi insignificanti se paragonati alle conseguenze che gli impatti possono aver avuto sulla calotta glaciale: «Il maggiore effetto potenziale sarebbe stata la destabilizzazione e quindi lo scioglimento parziale della calotta glaciale in seguito all’impatto. Nel breve periodo ciò avrebbe liberato repentinamente acqua di disgelo e enormi blocchi di ghiaccio negli oceani del Nord Atlantico e dell’Artico, abbassando la salinità con conseguente raffreddamento superficiale».«Gli effetti di congelamento a lungo termine – aggiungono gli studiosi – sarebbero derivati in gran parte dal successivo indebolimento della circolazione termoalina nell’Atlantico Settentrionale, mantenendo un clima freddo nel Dryas Recente per più di 1.000 anni, fino a quando i meccanismi ciclici ripristinarono la circolazione oceanica». I risultati pubblicati su “Proceedings of the National Academy of Science” il 4 giugno 2013 beneficiarono inoltre dei più recenti progressi nella tecnologia del radiocarbonio per raffinare la datazione dell’impatto cosmico da 12.900 a 12.800 anni fa e resero possibile una mappatura molto più particolareggiata dell’area di dispersine del materiale da impatto, che incluse quasi 50 milioni di chilometri quadrati del Nord, Centro e Sud America, una grande sezione dell’Oceano Atlantico e gran parte dell’Europa, del Nord Africa e del Medio Oriente. E il fatto che i calcoli, presenti negli studi del 2013, indicassero il deposito di oltre dieci milioni di tonnellate di sferule all’interno di questo vasto campo di caduta, uniti agli studi presentati l’anno successivo sulla presenza nell’area interessata di enormi quantità di nanodiamanti, fece sì da togliere dalla mente dei ricercatori ogni dubbio sul fatto che al centro di tutto questo vi fosse un impatto cosmico, e nello specifico l’impatto di una supercometa.Sono stati, infine, individuati con chiarezza anche diversi punti d’impatto: la depressione di Charity Shoal nel Lago Ontario, la conca di Bloody Creek nella Nuova Scozia, il cratere di Corossol nel Golfo di San Lorenzo in Canada e l’area di Quebacia Terrain, sempre in Canada, ad Ovest di Corossol. E questi elencati, aggiunge Bizzi, sono i punti d’impatto che è stato possibile individuare grazie alle evidenze geologiche, mentre si ritiene che quelli maggiori e più devastanti, dovuti a frammenti della cometa di dimensioni nell’ordine di due chilometri e mezzo di diametro, abbiano riguardato la calotta di ghiaccio in punti più a Nord e più a Ovest. Ciò che colpisce in special modo, nel risultato di queste scoperte, secondo Hancock è il fatto che i cambiamenti climatici (avvenuti sia all’inizio che alla fine del Dryas Recente) abbiano avuto estensione planetaria e si compirono entrambi nell’arco di una generazione umana: 12.800 anni fa, una forza esplosiva combinata (10 milioni di megatoni) avrebbe sollevato nell’atmosfera sufficiente materiale da far piombare la Terra in una lunga, prolungata oscurità simile ad un inverno nucleare, cioè quel “periodo di oscurità” di cui parlano tanti antichi miti.Poi, il repentino riscaldamento verificatosi 11.600 anni fa, che pose fine al Dryas Recente, sarebbe sì in parte spiegabile con la dispersione finale della nuvola di materiale espulso. Ma vi sarebbe, a completare il quadro, anche un’altra spiegazione complementare: secondo gli scienziati, molti frammenti della cometa (anche enormi) sarebbero rimasti in orbita, fino a impattare nuovamente con il nostro pianeta nel 9.600 avanti Cristo. «La Terra, quindi, avrebbe nuovamente interagito 11.600 anni fa con la scia di detriti della medesima cometa frammentata che aveva causato l’inizio del Dryas Recente, determinandone una repentina fine». Stavolta, anziché nell’Artico, l’impatto di sarebbe verificato nell’Atlantico Settentrionale: cosa che avrebbe provocato «l’innalzamento di enormi pennacchi di vapore acqueo» capaci di creare un effetto serra, «dando il via ad una rapida fase di riscaldamento globale». Gli scienziati, aggiunge Bizzi, stimano che questa seconda ondata di impatti abbia determinato – nel giro di appena cinquant’anni – un aumento delle temperature medie di oltre 7 gradi centigradi, con il conseguente scioglimento di enormi masse di ghiacci e il repentino aumento, in tutto il mondo, del livello dei mari e degli oceani di decine e decine di metri. Era il grande diluvio, o diluvio universale?Sicuramente, scrive Bizzi, le aree del secondo impatto «erano abitate e popolate dall’uomo». Su di esse, «probabilmente fiorivano diverse civiltà». Gli archeologi “ortodossi” si sono sforzati per anni nel sostenere che Platone si fosse inventato tutto. Nei suoi dialoghi “Timeo” e “Crizia”, è datata 9.000 anni prima di Solone la scomparsa di Atlantide per via di un terribile cataclisma di fuoco. Da Platone, per l’ufficialità, ci è giunta solo «un’opera di fantasia o di mera speculazione metaforica e filosofica». Ma gli “ortodossi” hanno sempre ignoranto deliberatamente «l’esistenza di centinaia di miti e antiche tradizioni che, in tutto il mondo, dalle Americhe al Mediterraneo, dall’Africa all’Asia, confermano, direttamente o indirettamente, la narrazione platonica», ora corroborata dalla scienza. «Narrazione che, peraltro, è pienamente avvalorata dal corpo dei testi della Disciplina Arcaico Erudita tramandati dalle scuole misteriche eleusine, i quali – rivela Bizzi – ci raccontano la storia di una civiltà evolutasi su quelle che vengono menzionate come “le Sette Grandi Isole del Mar d’Occidente”».Cos’erano? Testualmente: «Un insieme di vaste terre che sorgevano nell’Atlantico Settentrionale e che si sarebbero inabissate esattamente nel 9.600 avantio Cristo». Quei testi, spiega lo storico fiorentino, «ci descrivono una società avanzata, con grandi conoscenze scientifiche». Evolutasi nell’arco di circa 10.000 anni, quella civiltà «sarebbe arrivata, all’apice del suo splendore, a conquistare e colonizzare l’America Centrale e Meridionale, il bacino mediterraneo, l’Europa Meridionale, il Medio Oriente e parte dell’Asia e dell’Africa, portandovi la propria cultura e le proprie tradizioni». Una civiltà che non chiamava se stessa “atlantidea”, bensì “ennosigea”, dal nome di una delle principali di queste sette terre, chiamata appunto En’n. Proprio la terra di En’n, situata ad Ovest dello stretto di Gibilterra (le mitiche Colonne d’Ercole dell’antichità) era grande quanto Francia e Spagna messe insieme. E stando sempre ai testi eleusini, a En’n «esisteva una regione, collocata in posizione nord-orientale, denominata Hathlanthivjea», un tempo «fiorente Stato indipendente, prima della conquista ennosigea avvenuta attorno al 12.000 avanti Cristo».Hathlanthivjea, cioè Atlantide? «Il suo nome, composto da quattro diversi geroglifici, significherebbe “la Grande Madre venuta dal Mare”», spiega Bizzi, che premette: «I testi delle scuole misteriche eleusine non costituiscono una “prova”»; anche se attribuiti ad autori dell’antichità, «sono stati oggetto di più trascrizioni attraverso il medioevo e i secoli successivi, e non se ne possiedono più gli originali». Tuttavia, «non si può escludere che Platone, nelle sue narrazioni, faccia proprio riferimento alla regione di Hathlanthivjea». Tornando a Hancock, l’autore scozzese ha ragione quando sostiene che le riserve su Platone alludono al fatto che il filosofo abbia forse basato il suo racconto su un cataclisma molto più recente avvenuto nel Mediterraneo, come ad esempio l’eruzione di Thera (Santorini) attorno al 1500 avanto Cristo. «Ma si tratta di una visione miope e di convenienza, del resto ormai superata e surclassata dal pieno riconoscimento scientifico dell’impatto cometario del Dryas Recente», taglia corto Bizzi.Il concetto di un disastro globale verificatosi più di 11.000 anni fa, e in particolare l’idea eretica che esso abbia potuto spazzare via una grande civiltà evoluta esistente in quell’epoca, è sempre stato strenuamente respinto e ridicolizzato dall’archeologia “ufficiale”. Chiaro il motivo, dice Hancock: «Ovviamente gli archeologi dichiarano di “sapere” che non vi fu, e non avrebbe mai potuto esistere in nessuna circostanza, una civiltà altamente sviluppata in quel periodo. Lo “sanno” non grazie a prove inconfutabili che permettano di escludere l’esistenza di una civiltà tipo Atlantide nel Paleolitico Superiore, ma piuttosto basandosi sul principio generale che il risultato di meno di duecento anni di archeologia “scientifica” rappresenti una linea temporale accettata per il progresso della civiltà, che vede i nostri antenati uscire lentamente dal Paleolitico Superiore per entrare nel Neolitico intorno al 9.600 e da lì in poi evolvere attraverso lo sviluppo e il perfezionamento dell’agricoltura nei millenni successivi».Tirando le somme, a Bizzi sembra evidente che stiamo ormai assistendo alla fine dell’attuale “paradigma” e che la rivoluzione archeologica in atto sia ormai incontenibile e irreversibile. «È stato geologicamente provato, grazie alle ricerche condotte da numerose spedizioni oceanografiche, che vaste aree di quello che è oggi l’Atlantico Settentrionale si trovavano in stato di emersione, fino a circa 12.000 anni fa». E non solo: «Il fondale atlantico, proprio in quelle aree – che vanno dai Carabi fino alle Azzorre e a Gibilterra – è cosparso di rovine, di mura, di strutture piramidali e di veri e propri resti di città, estese anche numerosi ettari, con strade che si intersecano perfettamente ad angolo retto». Attenzione: «Stiamo parlando di strutture la cui origine non può essere assolutamente attribuita alla natura. Si tratta di opere dell’uomo realizzate in un’epoca ovviamente precedente alla sommersione di questi tratti di fondale. Sommersione che, grazie a campioni di tectiti, di fossili e di lava vulcanica prelevati dai fondali e opportunamente analizzati, è databile grosso modo al 9.600 avanti Cristo: guarda caso, si tratta della stessa data fornitaci da Platone in merito all’affondamento della “sua” Atlantide».Senza insistere necessariamente su Atlantide, conclude Bizzi, occorre prendere atto che di “Atlantidi” ne sono esistite numerose, in ogni angolo del globo. Quantomeno, sono esistite diverse “civiltà madri” precedenti alla nostra: «E ci hanno lasciato le loro testimonianze inconfutabili, dal Perù ai fondali dell’Atlantico, dal Medio Oriente alla Siberia, dall’Amazzonia all’Indonesia, dal Pacifico all’Antartide». Mentre la gran parte dell’archeologia universitaria continua a tacere, rifiutando di accettare le logiche conclusioni delle ultime rivoluzionarie scoperte, «le prove scientifiche dell’impatto cometario del Dryas Recente», che decretò la scomparsa di quelle antiche civiltà, «costituiscono quello che in gergo poliziesco si chiama “pistola fumante”». Chiosa Nicola Bizzi: «La Storia è ormai da riscrivere, da riscrivere completamente, e non ci sarà “paradigma” che possa impedire di farlo».(Il libro: Nicola Bizzi, “Da Eleusi a Firenze. La trasmissione di una conoscenza segreta”, vol. 1, Aurola Boreale, 800 pagine, 35 euro).Aveva ragione Platone: Atlantide esisteva davvero e fu sommersa dall’oceano attorno al 9.600 avanti Cristo. La causa? L’impatto di una “pioggia cometaria” catastrofica. A confermarlo non è l’archeologia, ma la geologia: grazie a Richard Firestone e James Kennett, ora sappiamo che il pianeta fu sconvolto da una sequenza impressionante di cataclismi di origine cosmica, come dimostrano i sedimenti di nano-diamanti “extraterrestri” rinvenuti nelle aree degli impatti. Nel “Crizia” e nel “Timeo” il sommo filosofo greco aveva parlato di una civiltà superiore, preesistente alla nostra, spazzata via da una specie di diluvio universale? E’ andata proprio così, dicono i geologi dal 2014 a questa parte. O meglio: gli scienziati spiegano che proprio 12.000 anni fa – nel periodo indicato da Platone – ci fu un azzeramento planetario. E questo spiazza gli archeologi, che ancora si ostinano a far risalire le nostre origini a un’epoca assai più recente, benché vengano smentiti, di giorno in giorno, dalle scoperte della “rivoluzione archeologica” ormai in atto, difficilmente arrestabile. Lo sostiene Graham Hancock, massimo divulgatore mondiale in materia. E lo sottolinea Nicola Bizzi, autore dell’originalissimo saggio “Da Eleusi a Firenze”.
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I fisici: energia dalle piramidi egizie. L’ombra di Atlantide?
Ma non dovevano essere gigantesche tombe, le piramidi egizie? Così almeno si racconta, ancora oggi, nei libri scolastici e non solo: persino l’egittologia ufficiale continua ad attribuire alle piramidi una funzione essenzialmente funeraria. Peccato che oggi i fisici abbiano scoperto che, in realtà, le grandi piramidi sono “macchine” in grado di concentrare energia. Al punto da spingerli a progettare in forma piramidale addirittura le celle solari del futuro. La piramide di Cheope «è stata studiata con i metodi della fisica», rivela l’agenzia Ansa, «ed è emerso che riesce a concentrare l’energia elettromagnetica, e precisamente le onde radio, sia nelle camere interne sia nella base». Si potrebbero così progettare nanoparticelle ispirate alla struttura di questo edificio, che siano in grado di riprodurre un effetto analogo nel campo dell’ottica, da utilizzare per ottenere celle solari più efficienti. Lo indica la ricerca pubblicata sul “Journal of Applied Physics”, condotta dai fisici russi della Itmo University di San Pietroburgo e dal tedesco Laser Zentrum di Hannover. I ricercatori hanno condotto lo studio perché interessati alla struttura della tomba del faraone Cheope dal punto di vista fisico. In particolare, «hanno voluto vedere come le onde radio si distribuiscono» nella complessa conformazione dell’edificio.Sulla base di queste ipotesi è stata messa a punto una simulazione matematica, che rivela come la Grande Piramide «può concentrare le onde radio nelle sue camere interne e sotto la base, un po’ come una parabola». Questo avviene perché «la lunghezza d’onda delle onde radio, compresa 200 e 600 metri, è in un certo rapporto rispetto alle dimensioni della piramide», spiega Tullio Scopigno, fisico della Sapienza di Roma. Significa che, per avere lo stesso effetto con altri tipi di radiazioni che hanno lunghezze d’onda diverse (come la luce) sono necessarie strutture di dimensioni differenti: precisamente, occorrono dispositivi in miniatura. «Ecco perché i ricercatori prevedono di progettare nanoparticelle, delle dimensioni di qualche milionesimo di millimetro, e a forma di piramide, in grado di riprodurre effetti simili nel campo ottico, da usare nelle celle solari». Della presenza di una «strana energia» parla anche l’antropologo bosniaco Semir Osmanagich, già docente a Houston, scopritore delle Piramidi di Visoko a due passi da Sarajevo. Sono 5 piramidi di dimensioni ragguardevoli, la maggiore delle quali – battezzata Piramide del Sole – è assai più grande di quella di Cheope. E attenzione: è costruita con giganteschi mattoni di calcestruzzo. Ma l’aspetto più clamoroso è la datazione, confermata dal radiocarbonio: la piramide bosniaca risale al 29.000 avanti Cristo.Buio pesto: per l’ufficialità accademica, la nostra civiltà risalirebbe ad appena 6.000 anni fa, cioè all’epoca della scrittura cuneiforme mesopotamica. Più recente la scoperta della civiltà Arappa della valle dell’Indo, risalente a 11.000 anni fa. Quasi allo stesso periodo è attribuita la scrittura “danubiana” (di origine sconosciuta) identificata in Romania. Lo ricorda lo storico Nicola Bizzi, autore del volume “Da Eleusi a Firenze” nonché di un rivoluzionario saggio sull’Atlantide, basato su fonti antecedenti a quelle tradizionali, per lo più letterarie, attribuite a Platone. Utilizzando materiali inediti, custoditi in Toscana e riprodotti in epoca rinascimentale, Bizzi data l’origine della presunta “civiltà atlantidea” attorno al 19.000 avanti Cristo. Sarebbe stata letteralmente cancellata da due devastanti cataclismi, il primo attorno al 10.800 e il secondo nel 9.500, innescati entrambi da una pioggia di comete. Il livello dei mari si sarebbe alzato di 150 metri, cambiando la geografia del mondo. Le attuali isole Azzorre sarebbero quel che resta di En, la maggiore delle 7 entità macro-insulari di Atlantide: un continente oceanico esteso da Gibilterra al Golfo del Messico. Secondo i testi della tradizione sacerdotale eleusina – racconta Bizzi, intervistato a “Forme d’Onda” – la casta dominante del continente insulare chiamato En aveva adottato il simbolo del leone.Di recente, il giornalista ed etnografo Graham Hancock ha citato studi geologici che confermano che la Sfinge di Giza avrebbe almeno il doppio degli anni che le vengono attribuiti dall’egittologia. E’ stata erosa da millenni di piogge: secondo i climatologi, può essere avvenuto 10.000 anni fa, quando l’Egitto non era ancora un’area desertica e aveva un regime climatico tropicale, con precipitazioni quotidiane. Il guaio, dice Bizzi, è che l’archeologia si rifiuta di incrociare i suoi dati con le altre discipline, dalla mineralogia alla geologia, fondamentali per determinare le datazioni. L’ennesima conferma del fatto che la nostra storia sia da riscrivere proviene dal sito archeologico turco di Gobekli Tepe, risalente al 10.000 avanti Cristo: un monumentale complesso di culto con statue e templi, decorazioni e iscrizioni. Quanto a Giza, i ricercatori contemporanei sostengono che, in origine, la Sfinge avesse la testa di un leone. Era la “firma” dei signori di En, padroni dell’Atlantide? Dunque i faraoni se le ritrovarono già fatte, le piramidi, senza sapere chi le avesse costruite? Tuttora, l’egittologia non sa come possano esser state edificate. E i fisici russi e tedeschi adesso scoprono che sono “macchine” perfette per concentrare energia.Suggestioni: a livello simbologico, come ricorda l’esperto Gianfranco Carpeoro, autore di saggi come “Summa Symbolica”, l’associazione tra il leone e l’acqua ha percorso millenni. Siamo pieni di fontane in cui l’acqua fuoriesce dalla bocca di un leone, che non è esattamente un animale acquatico. E a proposito: qual è la città più acquatica d’Italia? Venezia. Il cui simbolo è, guardacaso, il leone (alato). Carpeoro pensa soprattutto all’Egitto: gli egizi, spiega, ornarono con statue a forma di testa leonina le chiuse dei canali irrigui con cui sfruttavano le benefiche piene del Nilo. Nel cielo dell’Egitto, durante l’inondazione, campeggiava la costellazione del Leone. Ma al British Museum, aggiunge sempre Carpeoro, è custodita una statuetta antichissima e misteriosa, che raffigura un uomo dalla testa di leone. Indizio di una civiltà pre-diluviana? A leggere Bizzi, potrebbe essere. Il “grande diluivio” (citato in tutti i testi antichi, fino alla Bibbia) avrebbe sommerso vastissimi territori, inghiottendo intere civiltà costiere. Sarebbe stato originato dalla doppia “grandinata” di comete tra il 10.800 e il 9.500 avanti Cristo: la prima avrebbe colpito il Nord America, scatenando i vulcani fino a oscurare il sole, e generando così una glaciazione. La seconda avrebbe investito il Nord Atlantico, facendo sciogliere i ghiacci e innescano il gigantesco tsunami.A sconcertare, rilevano in molti, è il perdurante silenzio sulle scoperte acheologiche che si vanno susseguendo in questi anni, al punto da spingere i più critici a parlare di “storia proibita”. Tanto per dire: l’esistenza delle Piramidi di Visoko non è ancora stata “digerita” dall’intera comunità scientifica, nonostante i 1.500 giovani archeologi che le stanno esplorando, a turno, da anni. Lo stesso Osmanagich rivela che le piramidi, nel mondo, sono migliaia – ma è come se non se ne volesse parlare. Bizzi menziona qualcosa come 90 piramidi presenti addirittura in Europa, di cui almeno 15 in Italia. Una specie di tabù: le piramidi – non certo monumenti funerari, ora lo si è capito – rinviano inevitabilmente alla misteriosa identità dei loro costruttori, evidentemente in possesso di conoscenze (fisiche) molto avanzate. Credevamo di conoscerla bene, la Piramide di Cheope, ma ora sappiamo che così non è. Viene anch’essa da Atlantide, l’altro grande tabù della nostra archeologia? Per Bizzi, secondo la tradizione misterica eleusina – perseguitata dal Cristianesimo e costretta alla clandestinità dopo l’Editto di Tessalonica voluto da Teodosio nel 380 – veniva proprio da Atlantide-En la civiltà minoica che colonizzò il Mediterraneo. Era la cultura egea a saper innalzare le piramidi, che ancora oggi nessuno sa spiegare come furono costruite, né cosa fossero davvero e a cosa servissero?Ma non dovevano essere gigantesche tombe, le piramidi egizie? Così almeno si racconta, ancora oggi, nei libri scolastici e non solo: persino l’egittologia ufficiale continua ad attribuire alle piramidi una funzione essenzialmente funeraria. Peccato che oggi i fisici abbiano scoperto che, in realtà, le grandi piramidi sono “macchine” in grado di concentrare energia. Al punto da spingerli a progettare in forma piramidale addirittura le celle solari del futuro. La piramide di Cheope «è stata studiata con i metodi della fisica», rivela l’agenzia Ansa, «ed è emerso che riesce a concentrare l’energia elettromagnetica, e precisamente le onde radio, sia nelle camere interne sia nella base». Si potrebbero così progettare nanoparticelle ispirate alla struttura di questo edificio, che siano in grado di riprodurre un effetto analogo nel campo dell’ottica, da utilizzare per ottenere celle solari più efficienti. Lo indica la ricerca pubblicata sul “Journal of Applied Physics”, condotta dai fisici russi della Itmo University di San Pietroburgo e dal tedesco Laser Zentrum di Hannover. I ricercatori hanno condotto lo studio perché interessati alla struttura della tomba del faraone Cheope dal punto di vista fisico. In particolare, «hanno voluto vedere come le onde radio si distribuiscono» nella complessa conformazione dell’edificio.
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Piano Usa: guerra, per rovesciare Maduro (e frenare la Cina)
A Donald Trump non pare vero di poter contribuire al crollo del governo di Caracas, ultimo baluardo in Sudamerica contro lo strapotere statunitense dopo la caduta dell’Argentina e del Brasile, tornate saldamente sotto il dominio imperiale neoliberista. Scontata la debolezza dell’entourage di Maduro, votato nel 2018 da appena 6 milioni di elettori (i venezuelani sono 30 milioni). Alcuni analisti sottolineano il carattere endogeno del declino “bolivariano”, non imputabile alle recenti sanzioni: Hugo Chavez non seppe sfruttare il fiume di petrodollari, incamerato in tanti anni, per differenziare l’economia nazionale. Il Venezuela, tenuto in piedi dalla sola rendita petrolifera, ha perso la sua capacità di produrre beni essenziali: per questo, oggi, è facile stritolarlo nella morsa a cui lavorano attivamente gli Usa, che con Chavez – quasi certamente assassinato, avvelenato con agenti radioattivi – si sono liberati dell’ultimo grande produttore di petrolio nazionalizzato. Gli altri oustider furono Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi, che collaborarono con Chavez, in sede Opec, per tenere alto il prezzo del barile. Oggi il Venezuela è nel baratro, soprattutto per colpa del regime militare di Maduro. E quindi è una preda più facile per i poteri che da vent’anni cospirano per la caduta del governo socialista. Caduta forse imminente, drammatica e sanguinosa, alla quale gli Usa stanno lavorando attivamente, con ogni mezzo. Anche per tagliare la strada alla Cina, che in un altro paese “ribelle” della regione – il Nicaragua sandinista – sta costruendo un grande canale transoceanico, capace di far concorrenza a quello di Panama.A fornire gli elementi di questa analisi geopolitica è il giovane Giacomo Gabellini, redattore di “Scenari Internazionali” e collaboratore di “Eurasia”, rivista di studi geopolitici. Gabellini è autore di diversi volumi, in cui si analizzano questioni storiche ed economiche, il più recente dei quali è “Eurocrack”, sul disastro politico-economico e strategico dell’Europa, uscito nel 2015 per Anteo Edizioni. Sul sito di Arianna Editrice, ora Gabellini inquadra le grandi manovre del fronte statunitense per accelerare il collasso del regime di Maduro. «La decisione di Trump – e dei suoi alleati nel continente latino-americano (Brasile, Argentina, Paraguay, Colombia), a cui si è aggiunto l’immancabile presidente canadese Justin Trudeau – di riconoscere come legittimo leader di Caracas il capo dell’Assemblea Nazionale Juan Gaidò – premette Gabellini – rischia di far scivolare la situazione venezuelana sul piano inclinato della guerra civile, rendendola sempre più affine a quella delineatasi in Siria nel 2011». Un’analogia che emerge anche dal pesante coinvolgimento degli Stati Uniti nell’escalation, fino al recente embargo finanziario, al congelamento dei beni venezuelani in territorio Usa e al declassamento del debito di Caracas.Nel momento in cui il governo venezuelano ha cercato di difendersi svincolando la propria economia dal dollaro attraverso la creazione del “petro”, criptovaluta ancorata alle ricchezze minerarie ed energetiche, l’amministrazione Trump ha reagito vietando qualsiasi transazione nella nuova moneta all’interno degli Stati Uniti ed estendendo le sanzioni al settore dell’oro, minerale di cui il Venezuela è particolarmente ricco. «Una mossa, quest’ultima, che ha impedito al Venezuela di ricevere certificazioni straniere sulla qualità del proprio metallo prezioso, con conseguente interruzione o forte limitazione dei rapporti commerciali con le imprese operanti nel settore aurifero venezuelano». Simultaneamente, aggiunge Gabellini, Trump ha imposto pesanti sanzioni contro otto magistrati del Tribunal Supremo de Justicia (Tsj), con lo scopo di colpire quegli apparati istituzionali venezuelani ritenuti colpevoli di aver bloccato la proposta di intervento militare contro l’esecutivo, avanzata dal Parlamento controllato dall’opposizione. «In precedenza, una delegazione senatoriale Usa aveva sondato il terreno con il presidente colombiano Manuel Santos, maggiore alleato degli Usa in America Latina, per lanciare un’operazione militare congiunta atta a «permettere alla Colombia di difendersi dalle provocazioni venezuelane».Proprio in Colombia, ricorda Gabellini, staziona il più corposo contingente militare di cui gli Stati Uniti dispongano in tutto il continente. E accanto ai soldati americani operano le formazioni paramilitari di estrema destra vicine all’ex presidente Alvaro Uribe, «resesi responsabili di innumerevoli scorribande in territorio venezuelano». In quest’ambito rientrano anche operazioni sotto falsa bandiera: «In passato, alcuni miliziani colombiani erano stati arrestati dalle forze dell’ordine di Caracas con indosso divise della polizia venezuelana». Circostanze, osserva Gabellini, che rendono il ruolo svolto dalla Colombia nella crisi venezuelana «molto simile a quello esercitato dalla Turchia rispetto al conflitto siriano». Il presidente colombiano Manuel Santos ha infatti fornito «supporto attivo alle frange paramilitari annidate nella giungla colombiana in funzione anti-bolivariana». Sono le stesse milizie che, scrive l’analista, nella scorsa primavera presero d’assalto una stazione della polizia venezuelana al confine con la Colombia, «al fine di assumere il controllo di alcune aree strategicamente fondamentali per condurre operazioni di sabotaggio verso le regioni più interne».Ma le analogie con la crisi siriana non finiscono qui: già nel 2002, le forze venezuelane di opposizione tentarono un colpo di Stato contro Hugo Chavez, nel corso del quale «cecchini mai identificati aprirono il fuoco tanto sui civili quanto sulle forze di polizia, con lo scopo di invelenire il clima e destabilizzare l’ordine pubblico». Stesso schema in Romania nel 1989, in Russia nel 1993, in Thailandia e Kirghizistan nel 2010. Poi in Tunisia, Egitto, Libia e Siria nel 2011, e in Ucraina nel 2014. «Tutte manovre finalizzate al cambio di regime, dietro le quali si è intravista in controluce la longa manus degli Stati Uniti». In molte di esse, il clima preparatorio era stato predisposto tramite l’infiltrazione di Ong «riconducibili a George Soros o direttamente al Dipartimento di Stato», le quali «allacciarono contatti con partiti di opposizione e gruppi organizzati». Sotto questo aspetto, aggiunge Gabellini, il caso del Venezuela appare paradigmatico, se anche una fonte insospettabile come “The Independent” è arrivata a riconoscere che «oltre ad appoggiare le forze che arrestarono Chavez nel 2002, gli Usa hanno inviato centinaia di migliaia di dollari ai suoi avversari attraverso la National Endowment for Democracy».Le manovre di Washington però non si limitano a questo, rivela Gabellini: lo conferma un documento di 11 pagine firmato già nel 2018 dall’ammiraglio Kurt Tidd, comandante del SouthCom (Southern Command), in cui si dichiara apertamente che gli Usa «hanno già predisposto un piano operativo finalizzato al rovesciamento del presidente Nicolas Maduro». Un’analisi spietata: la tenuta della “dittatura chavista” è ormai minata da problemi interni, a partire dalla scarsità di cibo e dalla caduta dei proventi petroliferi, oltre che dalla corruzione dilagante. Ma il problema, per l’ammiraglio Tidd è che le forze d’opposizione «che combattono per la democrazia e il ripristino di livelli di vita accettabili per la popolazione» cioè gli uomini di Juan Guaidò, «non sono in grado di porre fine all’incubo in cui il paese è sprofondato». Motivo? Gli oppositori di Mauduro, secondo l’ammiraglio, scontano tra le loro fila il peso di «una corruzione comparabile a quella dei loro nemici». Corruzione che «impedisce loro di prendere le decisioni necessarie a ribaltare la situazione».Ecco perché, se questo è lo scenario, non resta che «l’entrata in scena negli Sati Uniti», sottolinea Gabellini, «per “recuperare” il Venezuela e reinserirlo nel novero dei paesi latino-americani alleati di Washington». Un club in cui hanno appena fatto ritorno nazioni di grande rilevanza, dall’Argentina del neoliberista Mauricio Macrì al Brasile del parafascista Jair Bolsonaro. Per far cadere anche il Venezuela, prosegue Gabellini, secondo il documento di Tidd, occorre «indebolire le strutture politiche su cui si basa il movimento “bolivariano” collegandole al narcotraffico», nientemeno. Poi bisognerebbe “lavorare ai fianchi” il regime di Maduro per favorire la diserzione dei tecnici più qualificati, alienandogli così il favore della borghesia di lingua spagnola, la stessa su cui fecero perno gli Usa durante il tentato golpe contro Chavez del 2002. Per Tidd, si tratta di agire «fomentando discordia e insoddisfazione popolare, minando l’ordine pubblico, lavorando per aggravare la penuria di cibo, esacerbando le divisioni interne alla struttura di potere chavista», nonché ovviamente «screditando il presidente Maduro, presentandolo come un leader incapace, degradato al grado di fantoccio di Cuba». Attenzione: è necessario anche «provocare vittime, stando attenti a far ricadere la responsabilità sul governo», e inoltre «ingigantire agli occhi del mondo le proporzioni della crisi in atto».L’ammiraglio Tidd raccomanda di far ulteriormente esplodere l’inflazione attraverso nuove sanzioni, così da incoraggiare una fuga di capitali dal paese, scoraggiare eventuali investitori stranieri e far colare a picco la quotazione della moneta nazionale. Occorre inoltre avvalersi di «tutte le competenze acquisite dagli Usa in materia di guerra psicologica», per orchestrare una campagna di disinformazione mirata a screditare le iniziative finalizzate all’integrazione continentale – quali l’Alba e il Petrocaribe – promosse da Caracas nel corso degli ultimi anni. «Tutto il necessario, insomma – scrive Gabellini – per scatenare lo sdegno della popolazione e indirizzarlo contro le autorità, secondo uno schema già palesatosi con le “rivoluzioni colorate” in Georgia, Ucraina e anche nello stesso Venezuela». Come già nel 2002, si suggerisce di mettere in crisi il rapporto di fedeltà che lega le forze armate al governo. Come agire? Utilizzando «gli alleati interni», incoraggiandoli a «organizzare manifestazioni e fomentare disordini e insicurezza, mediante saccheggi, furti, attentati e sequestro di mezzi di trasporto, in modo da mettere a repentaglio la sicurezza dei paesi limitrofi».Dal punto di vista statunitense, continua Gabellini, esacerbare le tensioni tra il Venezuela e i suoi vicini rappresentava un fattore determinante a garantire il conseguimento del “regime change”, nel caso in cui la rivolta interna fomentata dall’estero non si rivelasse sufficiente a scalzare Maduro dal potere. Nel documento si sottolinea infatti l’importanza di approfittare del crescente attivismo dell’Esercito di Liberazione Nazionale colombiano, che sta rapidamente colmando la voragine apertasi con la cessazione delle attività da parte delle Farc. Altra pedina menzionata cinicamente da Tidd: i narcos del Cartello del Golfo, utili per alimentare la tensione lungo il confine con la Colombia, «così da provocare incidenti con le forze di sicurezza schierate lungo il confine venezuelano». Occorrerebbe inoltre favorire «la moltiplicazione delle incursioni armate da parte di gruppi paramilitari», i cui ranghi dovrebbero essere rinfoltiti attraverso «reclutamenti presso i campi che ospitano i rifugiati della Cúcuta, della Huajira e nel nord della provincia di Santander», vaste aree abitate da cittadini colombiani che emigrarono in Venezuela e ora intendono rientrare nel loro paese.Il tutto, con l’obiettivo finale di «gettare le basi per il coinvolgimento delle forze alleate in appoggio agli ufficiali venezuelani» eventualmente disertori. Fondamentale, a questo riguardo, risulta ingraziarsi «il supporto e la cooperazione delle autorità dei paesi amici (Brasile, Argentina, Colombia, Panama e Guyana)», ma anche organizzare l’approvvigionamento delle truppe e l’appoggio logistico, di concerto con Panama. E quindi: dislocare «aerei da combattimento, elicotteri e blindati», oltre a installare «centri d’intelligence destinati ad ospitare anche unità militari specializzate nell’ambito della logistica». Per dare una parvenza di legalità all’intervento, si suggerisce di ottenere l’avallo dell’Organizzazione degli Stati Americani e di adoperarsi affinché si stabilisca una «unità di intenti da parte di Brasile, Argentina, Colombia e Panama», paesi «la cui posizione geografica e la cui collaudata capacità ad operare in scenari non convenzionali come la giungla assumono un’importanza capitale». La dimensione internazionale dell’operazione «verrà rafforzata dalla presenza di forze speciali Usa, che andranno ad affiancarsi alle unità da combattimento degli Stati summenzionati». È bene, a questo proposito, «far sì che le operazioni scattino prima che il dittatore abbia il tempo di consolidare il proprio consenso e il controllo sullo scacchiere interno».Tutto ciò, osserva Gabellini, si inscrive alla perfezione nel disegno strategico dell’amministrazione Trump, «che ambisce in tutta evidenza a riportare saldamente l’America Latina nella sfera egemonica statunitense attraverso l’appoggio a tutta una serie di clientes locali». Tra questi Lenin Moreno (Ecuador), Enrique Peña Neto (Messico) e Luis Almagro (Uruguay), oltre ai già citati Macrì e Bolsonaro. Attori continentali «con i quali concordare il ripristino di una sorta di nuova Operazione Condor rivisitata e corretta». Affidando le redini del potere nei vari Stati dell’America Latina a questi nuovi e ben più concilianti interlocutori, aggiunge Gabellini, Washington «prevede di realizzare un’integrazione economica su scala continentale, concepita appositamente per contrastare la penetrazione cinese». Ecco il punto: negli ultimi anni, osserva l’analista, la Cina ha infatti investito qualcosa come 50 miliardi di dollari per la costruzione di un canale interoceanico in Nicaragua. Sarebbe in grado di rivaleggiare con quello di Panama, controllato dagli Stati Uniti. Pechino ha inoltre messo in cantiere una ferrovia per collegare Pacifico e Atlantico attraverso Brasile e Perù.Un anno fa, il ministro degli esteri cinese Wang Yi ha presenziato al vertice annuale della Communiy of Latin American and Caribbean States tenutosi a Santiago del Cile, per estendere ai 33 Stati membri l’invito a partecipare al progetto della Belt and Road Initiative, con lo scopo di «costruire collegamenti attraverso il continente, farli convergere verso le coste affacciate sul Pacifico e agganciarli ai porti locali da cui si diramano le linee di rifornimento marittimo verso la costa cinese». Una sorta di “Via della Seta Pacifica”. Nessuna competizione geopolitica, aveva sostenuto Wang Yi: «Il progetto è conforme al principio di raggiungere una crescita condivisa attraverso la discussione e la collaborazione». Ma gli Stati Uniti non sono dello stesso avviso. Dal canto suo, l’ammiraglio Tidd ha ricordato a una commissione del Senato che la Cina ha già investito 500 miliardi di dollari in progetti per lo sviluppo dell’America Latina, e ha in programma di mettere sul piatto altri 250 miliardi entro il 2030. Tidd ha inoltre aggiunto che «la più grande sfida strategica posta dalla Cina in questa regione non è ancora una sfida militare: è una sfida di tipo economico, che potrebbe richiedere un nuovo approccio da parte nostra, che ci permetta di affrontare efficacemente gli sforzi coordinati della Cina nelle Americhe».La raccomandazione di Tidd, accolta con entusiasmo da Trump, secondo Gabellini era quindi quella di rispolverare e riadattare alle esigenze del momento la cara, vecchia Dottrina Monroe, che all’epoca in cui fu enunciata (1823) contemplava la chiusura totale del cosiddetto “emisfero occidentale” a qualsiasi ingerenza europea. «Oggi, a differenza di allora, si tratta di sbarrare alla Cina la porte dell’America Latina, attraverso il collegamento di quest’ultima alla comunità economica nordamericana costituita pochi mesi fa con la radicale ristrutturazione del Nafta». In questo senso, conclude l’analista, «lo scatenamento del caos in Venezuela si configura come una tappa cruciale in vista della “risistemazione” definitiva dell’America Latina». In altre parole: il governo Maduro sembra avere le ore contate. Si trova nei guai anche per gravi errori nella sua gestione della politica economica. Ma il giorno che cadesse, non sarà per un moto spontaneo del popolo venezuelano ridotto all’esasperazione: i piani sono pronti – e non da oggi – per tornare a far sventolare la bandiera americana sul paese dove crebbe, a furor di popolo, il sogno indipendentista di Hugo Chavez.A Donald Trump non pare vero di poter contribuire al crollo del governo di Caracas, ultimo baluardo in Sudamerica contro lo strapotere statunitense dopo la caduta dell’Argentina e del Brasile, tornate saldamente sotto il dominio imperiale neoliberista. Scontata la debolezza dell’entourage di Maduro, votato nel 2018 da appena 6 milioni di elettori (i venezuelani sono 30 milioni). Alcuni analisti sottolineano il carattere endogeno del declino “bolivariano”, non imputabile alle recenti sanzioni: Hugo Chavez non seppe sfruttare il fiume di petrodollari, incamerato in tanti anni, per differenziare l’economia nazionale. Il Venezuela, tenuto in piedi dalla sola rendita petrolifera, ha perso la sua capacità di produrre beni essenziali: per questo, oggi, è facile stritolarlo nella morsa a cui lavorano attivamente gli Usa, che con Chavez – quasi certamente assassinato, avvelenato con agenti radioattivi – si sono liberati dell’ultimo grande produttore di petrolio nazionalizzato. Gli altri oustider furono Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi, che collaborarono con Chavez, in sede Opec, per tenere alto il prezzo del barile. Oggi il Venezuela è nel baratro, soprattutto per colpa del regime militare di Maduro. E quindi è una preda più facile per i poteri che da vent’anni cospirano per la caduta del governo socialista. Caduta forse imminente, drammatica e sanguinosa, alla quale gli Usa stanno lavorando attivamente, con ogni mezzo. Anche per tagliare la strada alla Cina, che in un altro paese “ribelle” della regione – il Nicaragua sandinista – sta costruendo un grande canale transoceanico, capace di far concorrenza a quello di Panama.
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Nessuno può sperare di fermare il cambiamento climatico
Il dibattito sulla questione ambientale negli ultimi anni va sempre più focalizzandosi sui pericoli del cambiamento climatico e finalmente anche l’informazione alternativa comincia ad approfondire l’argomento. In questo contesto, però, c’è una sorta di pregiudizio che rende sterile la discussione. Siccome la controinformazione su Internet è nata e ha tratto la sua forza dal mettere in dubbio le versioni ufficiali di eventi storici come l’11 Settembre e lo sbarco sulla Luna, c’è la tendenza a diffidare a priori di qualsiasi notizia proveniente dai media di regime. Quello che viene definito complottismo ha il merito di mettere sulla graticola la narrazione ufficiale del potere, ma spesso scade in polemiche senza capo né coda; e non solo su argomenti che sfiorano la paranoia come scie chimiche, armi psicotroniche o maremoti artificiali. Io non posso essere matematicamente certo che sia in atto un cambiamento climatico con o senza aumento della temperatura, perché i dati scientifici a cui posso accedere provengono da istituzioni governative quali la Nasa, il Noaa o l’Iccp. Grandi istituzioni su cui io, povero diavolo qualunque, non ho alcun controllo. Mi devo fidare. Tuttavia, dopo che l’ente spaziale americano, molto probabilmente, ci ha rifilato uno finto sbarco sulla Luna, prendere per veritiere le sue dichiarazioni diventa problematico.Le cospirazioni esistono e so che anche i paranoici hanno nemici. Di conseguenza non posso escludere che anche in questo frangente ci sia un secondo fine con lo scopo di inchiappettare l’umanità per l’ennesima volta. Il mio stesso subconscio cospira costantemente contro di me, mi sabota, e io inciampo e non ho certezza alcuna. Questa è l’epoca in cui viviamo, la realtà si è frammentata in miriadi di cocci impalpabili, ma ancora ci sono cercatori di Verità che spesso hanno seguaci pugnaci. Terrapiattisti ed altri poveracci impauriti sono sintomo di un reale vanificarsi di ogni punto di riferimento per interpretare l’esistente. Si è costretti a dubitare di tutto. Insomma, non mi sorprenderei se scoprissi di essere di fronte ad un ulteriore frode planetaria. E questo sarebbe un atteggiamento tutto sommato salutare, se non si rischiasse di essere vittime di quegli stessi interessi che controllano i media di regime, ma che non possiamo essere sicuri che non siano anche dietro molte fonti alternative. In questo caso, però, la versione ufficiale, apparentemente sostenuta da una percentuale altissima di specialisti del settore, è parecchio sensata: l’attività dell’uomo sta sconvolgendo in tempi rapidissimi tutta la biosfera e di conseguenza anche il clima. Ciò sta avendo ed avrà sempre più conseguenze catastrofiche. Tutto qui, ed è incredibilmente ragionevole.Eppure lo scetticismo, giustificatissimo, nei confronti della narrazione del potere dominante ha fatto sì che questo fatto lapalissiano e preoccupante fosse annacquato da mille dubbi inconsistenti. L’aumento di CO₂ determina un aumento di temperatura? Non lo so, non sono uno scienziato. Ma so che la CO₂ fa crescere le piante. Non c’è nessun aumento della temperatura, quelli dell’Iccp si sono inventati tutto. L’aumento della temperatura c’è, ma è dovuto alle macchie solari e l’attività umana non c’entra niente… non sono uno scienziato, ma ne sono convinto. Basta un Trump infinocchiante qualsiasi, eroe proletario che si batte contro le menzogne dei potenti, per finire a fare il gioco proprio di quei poteri che la controcultura dovrebbe smascherare. Continuiamo così, il ciclo produzione-consumo è salvo e siamo tutti più sollevati. Ci siamo ben resi conto che smantellare il sistema è abbondantemente al di sopra delle nostre possibilità. In realtà, dare la colpa ad impalpabili poteri occulti, sedicenti illuminati e cupole segrete, fa molto comodo. È pieno di zombie di nome Giovanni e Giuseppe che non rinuncerebbero mai alla loro auto per raggiungere il tabacchino all’angolo. Ma anche questo è irrilevante.Ammettiamolo, per quante prove si trovino in favore di una tesi, su Internet se ne possono trovare alrettante in favore della tesi opposta. Comprensibile in politica, se parliamo di scienza un po’ meno. Eppure ci sono indizi che, pur non essendo forse scientificamente validi, in quanto basati su percezioni limitate e soggettive, mi inducono ad essere scettico piuttosto nei confronti di chi nega il cambiamento climatico di origine antropica. Per esempio, i miei genitori mi dicevano che decenni fa il clima era più stabile, nel senso che si sapeva che a fine agosto, dopo la festa del santo patrono arrivavano i temporali che segnavano la fine dell’afa. E accadeva ogni anno immancabilmente. Nelle rare eccezioni, bastava mettere una sarda salata in bocca a sant’Oronzo e quello per la sete faceva piovere. Semplice. Ora i nuvoloni arrivano, ma non è detto che piova. Del resto, la vita di quelle popolazioni contadine dipendeva da quelle piogge, noi ne possiamo fare tranquillamente a meno. Forse è per questo che cominciano a disertarci.Magari la pioggia si presenta con un bel po’ di ritardo e ne cade un ettolitro per centimetro quadrato. Si dice addirittura che uno scienziato pazzo in vena di conquistare il mondo stia usando una macchina di sua invenzione per controllare il tempo a dispetto di Occam e del suo rasoio. La neve era un’altra visitatrice abituale. Pare che ogni inverno ne cadesse tanta e gli anni senza erano piuttosto sporadici, ma già quando io ero piccolo era il contrario. L’inverno con la neve era un’eccezione. Me lo ricordo bene perché appena vedevamo qualche fiocco decidevamo che non si poteva andare a scuola, ma era perfettamente praticabile la strada per andare a scivolare dalle colline con le buste di plastica sotto il sedere. Inoltre, in tutti i miei viaggi ho notato effetti sull’ambiente, evidentemente frutto di manomissioni umane. In Tanzania, la mia prima volta fuori dall’Europa, scalai la vetta del Kilimangiaro insieme ad altre centinaia di turisti e vidi che il ghiacciaio rimane ormai solo sulla porzione più alta della cresta del vulcano. Pare che in cento anni sia regredito dell’85%. Uno scioglimento un po’ troppo veloce per essere dovuto ai normali cicli cosmici.Il fenomeno non è direttamente attribuibile all’aumento della temperatura globale o locale, ma piuttosto alla deforestazione alla base della montagna che ha causato una diminuzione della traspirazione e quindi del vapore acqueo che poi si trasformava in precipitazioni nevose. Quella volta capii che scalare montagne, soprattutto se in compagnia di una mandria di occidentali in cerca d’avventura Alpitur, non faceva per me, quindi non ho informazioni di prima mano su altri ghiacciai in altre zone del pianeta, ma pare che lo stesso stia accadendo un po’ ovunque. Qualche anno dopo mi trovavo ancora in Africa ma dall’altro lato e i locali mi raccontarono che il mare in pochi anni aveva mangiato una quindicina di metri di spiaggia. Non posso essere certo della causa, ma consiglio di non fare mai un bagno nell’Oceano Atlantico al largo delle coste dell’Africa Occidentale. Ci buttano di tutto. Per quanto riguarda il livello del mare, anche dalle mie parti qualche spiaggia si è ristretta misteriosamente negli ultimi anni, ufficialmente a causa di una non meglio specificata ‘erosione’. Ma io non sono uno scienziato.In Giappone visitai una spiaggia nei pressi di Suzuka, dove fanno il moto-Gp, un paio d’anni dopo lo tsunami e il disastro di Fukushima. Una vista apocalittica. Questo non c’entra niente col cambiamento climatico. Era giusto per dire. Quest’anno mi trovavo in Amazzonia e, per il secondo anno consecutivo, a quanto mi è stato riferito, il periodo delle piogge e la relativa piena dei fiumi stagionale, che per quelle popolazioni segna l’arrivo dell’inverno, è arrivata con due mesi di ritardo. Al momento mi trovo in Svizzera per la prima volta. Mi sono sentito un po’ come Totò e Peppino che arrivano a Milano incappottati aspettandosi un tempaccio artico, invece è stato un ottobre fenomenale che, a sentire chi vive qui da molti anni, non si era mai visto. Ma un ottobre eccezionale non sarà di certo la fine del mondo. Con tutto questo bighellonare in lungo e in largo per il pianeta avrò contribuito in maniera sostanziale al casino climatico-ambientale. Non lo nego. Merito la lapidazione. Chi non ha peccato inizi pure. Ma non c’è da avere sensi di colpa. Non è proprio colpa di nessuno. Non c’è colpa. Faccio un esempio: 49 milioni di anni fa, millennio più millennio meno, accadde ciò che gli scienziati chiamano The Azolla Event. Nel mezzo dell’eocene, l’oceano artico aveva temperature ed ecosistemi tropicali. Una serie di condizioni idriche e geologiche favorirono la crescita esplosiva di una felce chiamata appunto azolla. Per circa 800.000 anni questa pianta prosperò su 4 milioni di km² sequestrando l’80% della CO₂ dall’atmosfera sul fondo anaerobico del mare, dove si trova tuttora sedimentata in uno strato geologico esteso lungo tutto il bacino artico.La concentrazione di CO₂ nell’atmosfera passò da 3.500 ppm a 650 ppm. La temperatura si abbassò da 13°C agli attuali -9. Forse per la prima volta nella storia della Terra ci fu una calotta di ghiaccio al polo nord. Ehi, questa è l’ipotesi di un gruppo di scienziati olandesi dell’università di Utrecht che potrebbero benissimo far parte del complotto. Tra l’altro, tutto ciò ha implicazioni geopolitiche, perché proprio in questi depositi organici può essersi formato il gas e il petrolio che le superpotenze si contendono, ora che quei luoghi diventano accessibili. E quegli scienziati magari lavorano per la Shell. Che mondo… Prendo per vera l’ipotesi solo per esplicitare un concetto: l’azolla ha sconvolto il suo stesso habitat in accordo con la natura o contro la natura? Per inciso, l’azolla non si è estinta, continua a prosperare a latitudini più basse. Ovviamente, l’episodio fu un evento del ciclo della natura. Si crearono le condizioni per una crescita eccezionale dell’azolla, la quale scatenò un cambiamento climatico epocale. Niente di innaturale in tutto ciò. L’azolla ha solo svolto la sua parte. Perché invece quelle stesse dinamiche sono innaturali se protagonista è l’uomo?Dall’inizio dell’era industriale la CO₂ nell’atmosfera è aumentata di quasi il 40%. Questo ha prodotto cambiamenti a livello climatico? Non lo so, ma probabilmente sì, non me ne stupirei. L’era geologica in cui viviamo si chiama antropocene. Cioè, la nostra specie altera l’ambiente così profondamente da caratterizzarne l’epoca a livello geologico. Oltre a riprocessare l’atmosfera, abbiamo alterato il corso dei fiumi, spianato colline e sventrato montagne, stravolto gli ecosistemi di interi continenti, alterato la radioattività di fondo, saturato lo spazio di elettrosmog. E volete che tutto questo non abbia alterato il clima? E perché, di grazia? Perché quel signore onnipotente che abita in cielo ha detto che potevamo fare il cazzo che ci pareva in eterno, tanto il clima l’avrebbe tenuto costante lui, perché gli siamo simpatici e proteggerà sempre e comunque il divino ordine capitalista? Si dice che il battito di una farfalla in Cina possa far scoreggiare un alieno insettoide in una dimensione parallela, figuriamoci se la superloffa della specie umana non sia capace di modificare il clima del pianeta. Quindi abbiamo fatto una cazzata immane? Probabilmente sì, ma non avevamo scelta.Non siamo diversi dall’azolla, proprio perché non ci abbiamo pensato due volte a cacciarci in questo guaio e non abbiamo la più pallida idea di come uscirne. Perché non ne siamo responsabili. Agiamo secondo le direttive della natura di cui non siamo consci per permettere alla terra di iniziare un nuovo ciclo di vita. Giovanni che prende la macchina per andare a comprare le sigarette contribuisce a cuor leggero. È questa la nostra hubris: illuderci di essere al di fuori ed al di sopra dei cicli naturali ed addirittura capaci di alterarli. Non è così, noi facciamo parte di questo scorrevole tutto e non possiamo che recitare la nostra minuscola comparsata in uno spettacolo i cui atti durano milioni di anni. Non possiamo fare proprio nulla. Secondo gli scienziati più pessimisti, come per esempio Guy McPherson e i suoi “abrupt climate change” e “near term extinction”, anche se fermassimo tutte le attività umane domani, la temperatura schizzerebbe alle stelle; infatti, oltre ad immettere gas serra nell’atmosfera che inducono un riscaldamento nel lungo termine, immettiamo anche particolato (non so se si riferisca anche alle scie chimiche), che fermando i raggi solari ne blocca l’effetto nel breve periodo. Se ci fermassimo, questo particolato cadrebbe al suolo e la schermatura che fornisce verrebbe meno, facendo salire la temperatura oltremodo.Per altro, fermare tutto l’ambaradan dall’oggi al domani è irrealizzabile, non solo praticamente, ma perché il caos sociale che ne deriverebbe sarebbe assolutamente distruttivo e quindi controproducente. McPherson prevede il collasso entro dieci anni. Hai voglia a proporre soluzioni innovative e trabiccoli succhiacarbonio con scappellamento triplo carpiato. Ormai da anni non mi occupo più di iperborei, rettiliani e altri argomenti à la Martin Mystère, ma ricordo di aver letto su un loro testo che i Rosacroce credono che nella storia della Terra si siano succedute sei civiltà evolute con esseri intelligenti più o meno simili a noi, ognuna sviluppatasi dopo la catastrofe che segnò la fine della precedente. Secondo loro siamo vicini all’avvento della settima razza e di conseguenza alla fine della sesta, cioè noi. C’è qualcosa di simile nella scienza ufficiale che ci dice che ci sono state cinque estinzioni di massa sul pianeta, e stiamo avvicinandoci con estrema velocità alla sesta. Mio padre, classe ’24, diceva che rispetto a quando era piccolo lui c’era stato un crollo impressionante nel numero degli animali che abitavano il paese e le campagne.Non sappiamo cosa ci riserva il futuro. Del resto nemmeno di ciò che sia successo nel passato possiamo essere tanto certi e molti di noi vagano in un presente ovattato. Non si può sapere se gli allarmisti abbiano edificato un castello di falsità per poter un giorno lucrare sullo scambio di quote di emissioni o se invece dobbiamo credere a quell’amico del popolo di Trump, che non è amico dei petrolieri, ci mancherebbe, che ci assicura che tutto va a meraviglia. Una cosa però a me sembra certa. Se non fosse ormai troppo tardi, ci sarebbe un solo obbiettivo da perseguire: dovremmo smettere di ritenerci nel bene o nel male al di fuori della natura. Per secoli è stato il nostro sogno proibito, perché la natura ci dava sostentamento, ma allo stesso tempo portava carestie, epidemie e tutto doveva essere ottenuto col sudore della fronte. Come sarebbe stato bello finalmente dominarla, la natura, anzi meglio, semplicemente tirarsene fuori. Non dover sottostare alle stagioni, alle piogge e alle siccità, alla grandine che poteva distruggere un anno di lavoro in un pomeriggio, alle cavallette, alla peste bubbonica. Anche a costo poi di dover vivere col senso di colpa e la paura che la natura si vendicasse. Abbiamo creduto di riuscirci. Ma non è possibile. Ci siamo dentro, nel bene e nel male, e non c’è via d’uscita. Parafrasando l’esimio Bill Clinton: it’s nature, stupid!(“Il cambiamento climatico è del tutto naturale”, post pubblicato da “Amago” su “Come Don Chisciotte” il 9 dicembre 2018).Il dibattito sulla questione ambientale negli ultimi anni va sempre più focalizzandosi sui pericoli del cambiamento climatico e finalmente anche l’informazione alternativa comincia ad approfondire l’argomento. In questo contesto, però, c’è una sorta di pregiudizio che rende sterile la discussione. Siccome la controinformazione su Internet è nata e ha tratto la sua forza dal mettere in dubbio le versioni ufficiali di eventi storici come l’11 Settembre e lo sbarco sulla Luna, c’è la tendenza a diffidare a priori di qualsiasi notizia proveniente dai media di regime. Quello che viene definito complottismo ha il merito di mettere sulla graticola la narrazione ufficiale del potere, ma spesso scade in polemiche senza capo né coda; e non solo su argomenti che sfiorano la paranoia come scie chimiche, armi psicotroniche o maremoti artificiali. Io non posso essere matematicamente certo che sia in atto un cambiamento climatico con o senza aumento della temperatura, perché i dati scientifici a cui posso accedere provengono da istituzioni governative quali la Nasa, il Noaa o l’Iccp. Grandi istituzioni su cui io, povero diavolo qualunque, non ho alcun controllo. Mi devo fidare. Tuttavia, dopo che l’ente spaziale americano, molto probabilmente, ci ha rifilato uno finto sbarco sulla Luna, prendere per veritiere le sue dichiarazioni diventa problematico.
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Mare d’erba: dalla Mongolia all’Europa, a cavallo. Da sola
Mare d’erba. Qualcosa su cui il vento distende le sue onde, rimescolando epoche e leggende, condottieri barbarici e luminose civiltà come quelle che eressero il palazzo blu di Tamerlano a Samarcanda. Se ce l’hai dentro da sempre, il mare d’erba, potrebbe venirti voglia di andarlo a cercare fuori, lontanissimo da te, nelle steppe asiatiche dei cavalli preistorici che sopravvivono ai millenni, agli inverni, alle temperature più crudeli dell’emisfero boreale. Non è uno sport per signorine, il mare d’erba, e Paola Giacomini è l’eccezione che conferma la regola: partirà da Harahorin, antica capitale mongola dello sterminato impero di Gengis Khan, per raggiungere la Polonia dopo qualcosa come 500 giorni, in sella. Meta intensamente simbolica, Cracovia: dove la melodia bruscamente interrotta di una tromba ricorda ancora, ogni giorno alla stessa ora, la drammatica irruzione dei cavalieri tartari, nel 1241. «Donerò alla città una freccia mongola come quella che fece tacere per sempre il trombettiere polacco, di guardia sul campanile della cattedrale: quella freccia avrà fatto con me tutta la strada dei cavalieri di allora». Più di diecimila chilometri – una trentina al giorno, per 350 giornate di marcia – attraverso Mongolia e Siberia, Kazakhstan e Russia, Bielorussia e Polonia. Dalla primavera 2018 all’estate-autunno 2019. Unico orizzonte: l’eternità del mare d’erba, superando le acque dell’Irtys, dell’Ural, dell’immenso Volga.Fa impressione, tanto amore per il mare d’erba, in un’Italia mediocre e stagnante, incagliata tra elezioni sbilenche e declino sociale inesorabile, palazzi europei abitati da banchieri alieni. Fa impressione, tanta ostinazione nel voler naufragare per un anno e mezzo, in solitudine, nell’infinita memoria ventosa dell’Eurasia: ogni fiato vale secoli, nella vertiginosa perdizione delle latitudini orizzontali. Un universo quasi inaccessibile al passo corto del nostro dimesso quotidiano digitale, fatto di “like” su Facebook, in un pianeta dove è in vendita ogni politico, è in offerta qualsiasi sogno, si compra a rate ogni centimetro di terra. Il mare d’erba, invece, vive di solo cielo: è primordiale, ci parla di qualcosa che non ricordiamo più. Risale all’infanzia dell’umanità, precede la civilizzazione agricola. Lo ricorda il grande intellettuale triestino Francesco Saba Sardi: il potere che ci sovrasta, in forma di dominio, nacque a partire dal neolitico, con la scoperta delle coltivazioni. L’improvvisa importanza del territorio, i primi villaggi. Sorse allora l’inedita necessità di esseri umani non più liberi, trasformati in lavoratori docili. L’invenzione della religione come strumento per ottenere l’obbedienza degli schiavi, contadini e soldati: guerra, frontiere. Il cavaliere tartaro, nella sua arcaica fierezza già intaccata dal morbo sanguinoso della conquista, resta forse il più diretto discendente dell’uomo paleolitico, innocuo per i suoi simili, pronto a usare l’arco solo per la caccia, in un mondo senza confini da difendere.Libertà nomade, grazie all’antica alleanza col cavallo. Quello di Paola – valsusina, laureata in agraria, esperta di equitazione alpina – si chiama Isotta Raminga. Una creatura straordinaria, rimasta senza un occhio. Con Paola ha percorso migliaia di chilometri, in solitaria: dalla Sacra di San Michele alle onde dell’Atlantico, nel vasto tramonto di Capo Finisterre, alla fine del Camino de Santiago, da cui lo struggente diario “Campo di Stelle”. E poi, nell’estate 2017, l’intera catena alpina, da Lubiana a Cuneo, lungo i “Sentieri da lupi” che sono diventati un libro (Blu edizioni). Questa volta, Isotta dovrà restare a casa: non reggerebbe al volo Roma-Pechino, né alle temperature del deserto bianco che ricopre il mare d’erba nell’inverno russo. La missione è affidata ad altri equini, cavalli mongoli temprati dal vento dell’oriente estremo. Saranno loro a attraversare il mare d’erba, insieme a Paola, che ogni sera monterà un bivacco e dormirà sotto le stelle. Popoli e lingue, foreste di betulle, laghi e paludi. I fiumi dei cosacchi, il canto sovrumano (diplofonico) degli ultimi pastori-sciamani nei loro accampamenti mobili, tra mandrie di renne ruminanti. Bambini e cani, falconieri alati con l’aquila a cavallo per cacciare i lupi. Sapore di latte appena munto, birre in lattina con l’effigie del Gran Khan.Il mare d’erba come sfida: per chi ha globalizzato tutto, tranne la sincerità. L’incedere a cavallo, il passo lento di chi fiuta e guarda, fotografa il frasario universale di una fraternità fatta di gesti: il codice del dono, un piatto di minestra, il benvenuto sacro che si deve allo straniero errante. Cielo e stelle in ascolto, per migliaia di chilometri. Parole forestiere, monosillabi, il fuoco di un saluto prima della notte. Prendere il largo in mezzo al mare d’erba: vuol dire perdere di vista ogni orizzonte conosciuto, nel dubbio che niente ci appartenga veramente, qui, dove la massima fortuna starebbe proprio nel contrario: nello scoprire un giorno che forse siamo noi, semmai, che apparteniamo al tutto. C’è chi lo sa da sempre, come i Sufi, che si tengono ai margini del tempo. C’è chi lo va cercando, l’infinito, là dove il mondo fa perdere le tracce, riuscendoci benissimo.(Paola Giacomini è sul web, sia su Facebook che sul sito “Sellarepartire”. E’ possibile contribuire concretamente alla sua onerosa missione partecipando al crowdfunding del progetto “Mare di Erba” sulla piattaforma Eppela. Tra le ricompense, anche l’opportunità di condividere con Paola, al suo ritorno, una giornata speciale attorno alla Gher, la tenda mongola – Yurta, per i russi – che ha già montato in valle di Susa, nel prato dove pascola l’inseparabile cavalla Isotta).Mare d’erba. Qualcosa su cui il vento distende le sue onde, rimescolando epoche e leggende, condottieri barbarici e luminose civiltà come quella che eresse il palazzo blu di Tamerlano a Samarcanda. Se ce l’hai dentro da sempre, il mare d’erba, potrebbe venirti voglia di andarlo a cercare fuori, lontanissimo da te, nelle steppe asiatiche dei cavalli preistorici che sopravvivono ai millenni, agli inverni, alle temperature più crudeli dell’emisfero boreale. Non è uno sport per signorine, il mare d’erba, e Paola Giacomini è l’eccezione che conferma la regola: partirà da Harahorin, antica capitale mongola dello sterminato impero di Gengis Khan, per raggiungere la Polonia dopo qualcosa come 500 giorni, in sella. Meta intensamente simbolica, Cracovia: dove la melodia bruscamente interrotta di una tromba ricorda ancora, ogni giorno alla stessa ora, la drammatica irruzione dei cavalieri tartari, nel 1241. «Donerò alla città una freccia mongola come quella che fece tacere per sempre il trombettiere polacco, di guardia sul campanile della cattedrale: quella freccia avrà fatto con me tutta la strada dei cavalieri di allora». Più di diecimila chilometri – una trentina al giorno, per 350 giornate di marcia – attraverso Mongolia e Siberia, Kazakhstan e Russia, Bielorussia e Polonia. Dalla primavera 2018 all’estate-autunno 2019. Unico orizzonte: l’eternità del mare d’erba, superando le acque dell’Irtys, dell’Ural, dell’immenso Volga.
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Bomba-maremoto di Putin? Fake. Più atomiche Usa: vero
Dilaga su tutti i media (in primis “Repubblica” e “Corriere”) la bufala dell’“atomica maremoto” che sarebbe stata approntata dai russi per colpire, tramite una esplosione nucleare sottomarina da 100 megatoni, le aree costiere Usa. Si teme «una immensa ondata di acqua radioattiva». Da fermare come? Ovvio: «Già si prospetta un gigantesco potenziamento dell’arsenale atomico Usa», scrive Francesco Santoianni su “L’Antidiplomatico”. «Peccato che nessun giornalista, prima di dar risalto a questa nuova “minaccia dei russi”, si sia degnato di approfondire la sua attendibilità». Che, tanto per cambiare, è pari a zero: non esiste nessun “pericolo maremoto” negli arsenali di Mosca. Esiste solo sui media mainstream, agitato per giustificare la corsa al riarmo degli Usa. Intanto, spiega Santoianni, la paventata esplosione nucleare da 100 megatoni (equivalente a quella di 100 milioni di tonnellate di dinamite), se si verificasse al largo non avrebbe alcuna possibilità di devastare le coste: gli effetti non andrebbero oltre quelli di un maremoto del quarto grado della scala Ambraseys-Sieberg. «Per capirci, il maremoto che il 26 dicembre 2004 ha devastato le coste asiatiche (lasciando sostanzialmente intatti gli edifici in cemento armato) aveva una potenza equivalente a quella di 52.000 megatoni, e cioè 52 miliardi di tonnellate di dinamite».Chiaro? Lo tsunami che colpì la Thailandia – facendo strage per lo più di bagnanti e pescatori – era infinitamente più “potente” della mitica (e inesistente) super-bomba dei russi. «In più – aggiunge Santonianni – va detto che un maremoto oltre alla magnitudo dell’evento che lo scatena, si rapporta con l’andamento dei fondali che, solo in alcuni casi, possono garantire il riversarsi sulla costa di enormi e veloci quantità d’acqua. Questo ha fatto sì, ad esempio, che negli Usa, nonostante il manifestarsi nell’Oceano Pacifico e nell’Atlantico di colossali terremoti, si siano verificati gravi maremoti solo nelle isole Hawaii e in alcune aree dell’Oregon e dell’Alaska». Si dirà: già, ma se l’esplosione nucleare avviene in prossimità della costa? «In tal caso – considerando che gran parte dell’acqua e della sua energia si distribuirà radialmente in mare aperto – non si capisce proprio il perché di un attacco di questo tipo». Per “contaminare le città costiere con acqua radioattiva”? «Ma la distruzione e la contaminazione di una città potrebbero essere mille volte meglio garantite da una delle migliaia di testate nucleari veicolate da missili già puntati direttamente sulle metropoli».Il pericolo viene dalle armi vere, appunto: non dalle fantasie alimentate dalle “fake news” della stampa mainstream. E a proposito di missili: le testate atomiche statunitensi sono più di settemila. «E presto saranno molte di più, più efficienti e, soprattutto, oggi pronte come non mai ad essere utilizzate contro la Corea del Nord e contro la Russia», scrive Santonianni, ricordando che lo ha appena annunciato Trump nel suo messaggio sullo stato dell’Unione, al Congresso Usa. «Siamo preoccupati», ha ammesso il ministro degli esteri di Putin, Sergeij Lavrov: l’aggressività anti-russa degli Stati Uniti, ormai anche sul piano militare, lascia temere qualcosa che assomiglia a un’escalation imminente. E attenzione, aggiunge Santonianni: «Le lancette dell’Orologio Doomsday del “Bulletin of Science and Security” (una struttura di cui fanno parte 17 premi Nobel) sono state spostate a due minuti prima di mezzanotte: un livello d’allarme mai registrato in sessantacinque anni. Ovviamente, nessuno in Tv ve lo ha raccontato».Dilaga su tutti i media (in primis “Repubblica” e “Corriere”) la bufala dell’“atomica maremoto” che sarebbe stata approntata dai russi per colpire, tramite una esplosione nucleare sottomarina da 100 megatoni, le aree costiere Usa. Si teme «una immensa ondata di acqua radioattiva». Da fermare come? Ovvio: «Già si prospetta un gigantesco potenziamento dell’arsenale atomico Usa», scrive Francesco Santoianni su “L’Antidiplomatico”. «Peccato che nessun giornalista, prima di dar risalto a questa nuova “minaccia dei russi”, si sia degnato di approfondire la sua attendibilità». Che, tanto per cambiare, è pari a zero: non esiste nessun “pericolo maremoto” negli arsenali di Mosca. Esiste solo sui media mainstream, agitato per giustificare la corsa al riarmo degli Usa. Intanto, spiega Santoianni, la paventata esplosione nucleare da 100 megatoni (equivalente a quella di 100 milioni di tonnellate di dinamite), se si verificasse al largo non avrebbe alcuna possibilità di devastare le coste: gli effetti non andrebbero oltre quelli di un maremoto del quarto grado della scala Ambraseys-Sieberg. «Per capirci, il maremoto che il 26 dicembre 2004 ha devastato le coste asiatiche (lasciando sostanzialmente intatti gli edifici in cemento armato) aveva una potenza equivalente a quella di 52.000 megatoni, e cioè 52 miliardi di tonnellate di dinamite».
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Bogre, il martirio dei Catari che nessuno vuole ricordare
«Lo sterminio dei càtari? Non ci risulta». E’ una coltre di piombo quella che continua a velare la verità storica sulla devastante persecuzione che annientò la più importante eresia del medioevo europeo. Una strage di massa oscurata dall’oblio e dal negazionismo, al più minimizzata dal riduzionismo della più recente pubblicistica cattolica, in interventi come quelli di Vittorio Messori e di altre personalità contigue al Vaticano. Estrarre memoria da quella remota vicenda resta un’impresa titanica: ed è la missione di Fredo Valla, regista di cultura occitana, impegnato nella produzione del documentario “Bogre”. Un viaggio sulle tracce dell’eresia dualistica che attorno all’anno Mille si affacciò a Bisanzio per poi propagarsi in Macedonia e Bulgaria, fino ad attestarsi in Bosnia Erzegovina per poi migrare in Lombardia, in Nord Europa e infine nella regione mediterranea e pirenaica oggi francese, l’Occitania: un sub-continente esteso dalle Alpi all’Atlantico, allora accomunato dalla lingua d’Oc. Il termine “bogre”, spiega Valla, non indica semplicemente un abitante della Bulgaria: così era in antico, ma poi in occitano ha assunto il significato di persona infida, che maschera la verità. «Attorno al XII secolo, “bogre” divenne un insulto diretto ai càtari d’Occitania, colpevoli di una religione non ortodossa, simile per dottrina a un altro grande movimento eretico europeo, quello dei bogomili bulgari».Catarismo e Bogomilismo, riassume il regista, reduce dalle prime riprese condotte in Bulgaria, «sono la testimonianza storica di un medioevo tutt’altro che buio e immobile come spesso viene rappresentato: le idee viaggiavano da un capo all’altro dell’Europa, dai Balcani ai Pirenei, dall’Italia centro-settentrionale alla Bosnia». Proprio in Bulgaria, la troupe ha filmato i luoghi dell’eresia bogomila e raccolto le testimonianze dei più grandi esperti: «Abbiamo incontrato storici, filologi, archeologi. È stata la prima tappa, la seconda sarà in Occitania francese e poi seguiranno l’Italia centro-settentrionale, la Bosnia e Istanbul». La ricognizione filmica in Occitania rappresenta il cuore del documentario: «Qui la vittoria della Chiesa di Roma, delle armi dei crociati e dell’Inquisizione sui càtari, pose fine a un’idea di Dio che si voleva fedele alle origini, che predicava la pace, sosteneva l’eguaglianza sociale e – cosa inaudita a quei tempi – la parità uomo-donna». Fu lo sterminio di un mondo, aggiunge Valla, che ora promette di far entare gli spettatori «nella quotidianità dell’essere càtari e bogomili in quegli anni». All’eresia non aderirono solo i servi e i contadini che si opponevano all’alto clero, ma anche i feudatari e le classi mercantili e colte delle città.«Sono tante le famiglie di alto lignaggio che abbracciarono la novità della dottrina càtara: a Firenze – spiega l’autore di “Bogre” – erano càtari personaggi che tutti conosciamo, come Farinata degli Uberti, il poeta Guido Cavalcanti e, secondo studi recenti, lo stesso Dante Alighieri». Eppure, nonostante il suo evidente ruolo storico, il Catarismo spesso viene considerato un fenomeno marginale. Innumerevoli documenti e tradizioni svelano i rapporti dottrinali e umani che unirono i dualisti dell’Est Europa a quelli dell’Ovest: «L’episodio che rappresenta al meglio il mondo di “Bogre” è il concilio càtaro che si tenne nel 1167 a Saint-Felix de Caraman, presso Tolosa: un concilio a cui parteciparono rappresentanti delle varie comunità càtare occitane e italiane (le comunità di Tolosa, Carcassonne, Albi e Aran, più Marco di Lombardia per l’Italia) e che vide tra gli invitati il bogomilo Nicetas, che trasmise lo Spirito Santo attraverso l’unico sacramento riconosciuto dai càtari, il “consolamentum”». È innegabile che tra i due movimenti religiosi ci fosse non solo un’affinità, ma rapporti tutt’altro che sporadici. Entrambi condividevano una teologia drasticamente alternativa a quella cattolica: per càtari e bogomili, il mondo materiale era il frutto di una “creazione dannata”, operata dal Dio Straniero, alla quale il Padre Celeste (signore del cielo, ma non onnipotente) non aveva potuto opporsi.Può sembrare un espediente teologico: scagionare “Dio” dalla responsabilità del male presente nel mondo. Ma il sincretismo gnostico e proto-cristiano dei càtari ricorda da vicino la grande religione largamente diffusa nell’area mediorientale fino all’anno zero, quella dei Magi “venuti dall’Oriente” ad adorare il neonato di Betlemme. Era l’antica religione di Zoroastro, il mazdeismo, risalente al 1400 avanti Cristo, che aveva abolito i sacrifici animali (i càtari poi saranno addirittura vegetariani) e aveva aperto il sacerdozio alle donne (accanto ai Perfetti, il Catarismo ordinerà le Perfette). I Buoni Uomini, o Buoni Cristiani, erano casti e “francescani”, nonviolenti, contrari alla proprietà privata. La prima strage di massa, nel 1028, fu ordinata, suo malgrado, dal vescovo milanese Ariberto d’Intimiano, che interrogò i “bulgari” catturati a Monforte d’Alba, nelle Langhe: bruciateci pure, rispose il loro portavoce, così torneremo più velocemente al Padre Celeste. Il loro motto (“Noi non siamo del mondo, e il mondo non è nostro”) ricalca quello dei Sufi, con cui strinse un sodalizio Francesco d’Assisi. “Nel mondo, ma non del mondo; nulla possedendo, da nulla essendo posseduti”, è infatti il credo dei mistici islamici, da cui derivano i Dervisci Rotanti.In piena “new age”, avverte una studiosa rigorosa come Lidia Flöss, autrice di importanti ricerche sull’argomento, il Catarismo è stato anche strumentalizzato, in modo superficiale, in funzione anti-cattolica. Uno dei massimi storici europei del fenomeno, il francese René Weis, interpreta l’adesione a quell’eresia come il bisogno del credente medievale di tornare agli ideali evangelici, in un’epoca dominata dal potere ecclesiastico, spesso corrotto. Fu lo stesso Bernardo di Chiaravalle a condurre una storica missione in Occitania: lo stile di vita dei càtari è esemplare, riferì al Papa il futuro San Bernardo, auspicando che il clero cattolico abbandonasse lussi e privilegi. Il pontefice non era dello stesso avviso: Innocenzo III bandì addirittura una crociata, in terra europea, per stroncare un’eresia che – attraverso l’adesione della classe dirigente, l’aristocrazia e la nascente borghesia artigianale e mercantile – metteva in pericolo il potere del Papato. Fonti storiche citate da Weis parlano addirittura di mezzo milione di morti, fra Crociata Albigese e Inquisizione. La tragedia scoppiò nel 1209, quando la cittadina rivierasca di Béziers, in Linguadoca, si oppose al diktat dei crociati: volevano che Béziers consegnasse loro i 200 eretici riparati fra le mura. Di fronte al rifiuto dei consoli, l’abate Arnaud Amaury – capo spirituale della crociata – reagì nel modo più spietato: «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi».La tradizione storiografica parla di migliaia di vittime. Lo choc per lo sterminio dell’intera popolazione di Béziers spinse il potente Re d’Aragona, Pietro II, a scendere in battaglia a fianco del conte di Tolosa, che difendeva – di fatto – la libertà di culto nelle terre occitane. Pietro II perse la vita nel 1213 combattendo cavallerescamente nella battaglia di Muret, ma la crociata devastò la regione fino al 1229. Si arrese Tolosa, ma non i suoi alleati: i cavalieri “faidits”, messi al bando, si rifugiarono nei castelli di montagna sui Pirenei, per proteggere gli eretici in fuga. Nel 1244, dopo nove mesi di assedio, cadde la fortezza di Montségur. L’ultima notte prima della resa, donne e soldati vollero ricevere il “consolamentum”, il battesimo càtaro, ben sapendo cosa li avrebbe attesi, l’indomani: furono 220 le persone arse vive nella spianata ai piedi del castrum, in quello che ancora oggi porta il nome di “Prat dels Cremats”. I càtari? Un fantasma scomodo: erano nullatenenti, vivevano di carità. Non veneravano nessun libro sacro: per loro, l’Antico Testamento (con la sua “terra promessa”) era opera del Dio Straniero. Non avevano neppure chiese, né templi: irriducibilmente anarchici, rifiutavano qualsiasi struttura organizzata. La comunità càtara, pur articolata in diocesi, non disponeva di beni materiali.Il Catarismo aborriva la dimensione materiale del vivere, ripudiando la materia come “prigione dello spirito”: riparlarne oggi forse non è casuale, nel momento in cui è la stessa fisica a diffidare della percezione spazio-temporale, mentre la comunità scientifica rivaluta l’esegesi non teologica dei cosiddetti testi sacri. Lo stesso Mauro Biglino, che traduce la Bibbia alla lettera «scoprendo che in quelle pagine non c’è nessun Dio», ricorda che il “format” cattolico (con i suoi dogmi) si affermò soltanto nel 325 dopo Cristo, per il volere politico dell’imperatore Costantino, «a spese di tutti gli altri Cristianesimi dell’epoca, che erano decine, a partire da quelli gnostici». In quella corrente si colloca certamente il Catarismo, che invoca la divinità “celeste” con queste parole: «Facci conoscere ciò che Tu conosci». Per i càtari, il vero Graal è, appunto, la conoscenza, al quale il credente può aspirare in modo autonomo, senza alcuna mediazione sacerdotale. Di fatto, il Catarismo nega alla religione il ruolo di struttura sociale al servizio del potere politico: i Buoni Cristiani proibivano di giurare, in un’epoca in cui proprio sul giuramento si fondava l’investitura feudale, e non riconoscevano alcuna legittimazione alle autorità terrene, né ai confini tra le nazioni.L’atteso lavoro cinematografico di Fredo Valla si basa su fonti storiche e dati d’archivio, nonché su consulenze autorevoli come quella di Maria Soresina e del Centro Ivan Dujčev di Sofia, una delle più importanti istituzioni accademiche bulgare, senza dimenticare il Cirdoc, la Mediateca Occitana di Béziers e l’Istituto Internazionale Lorenzo de’ Medici di Firenze. Il documentario sarà completato grazie al contributo fondamentale del crowdfunding: anche una piccola donazione può essere importante, per una produzione che accanto a Valla (autore e regista) vede impegnati Andrea Fantino ed Elia Lombardo (fotografia, suono, montaggio) con Ines Cavalcanti della Chambra d’Oc (produzione). «Abbiamo deciso di lanciare questa campagna di crowdfunding per condividere il nostro lavoro di ricerca e continuarlo in Occitania, dove nasce la parola “bogre”, e dove in fondo nasce il nostro film documentario». Proprio l’attuale Midi francese sarà la tappa più importante del viaggio. «Abbiamo intenzione di mantenere un metodo di lavoro attento alla storiografia e ai documenti più attendibili», assicura il regista. «Vogliamo che la storia di “Bogre” contribuisca alla storia dei “bogre”, di chi quel nome se l’è trovato appiccicato come un insulto dal momento in cui ha scelto una fede diversa da quella dominante». Una storia di idee che camminano, e che lottano per non essere dimenticate.«Lo sterminio dei càtari? Non ci risulta». E’ una coltre di piombo quella che continua a velare la verità storica sulla devastante persecuzione che annientò la più importante eresia del medioevo europeo. Una strage di massa oscurata dall’oblio e dal negazionismo, al più minimizzata dal riduzionismo della pubblicistica cattolica, in interventi come quelli di Vittorio Messori e di altre personalità contigue al Vaticano. Estrarre memoria da quella remota vicenda resta un’impresa titanica: ed è la missione di Fredo Valla, regista di cultura occitana, impegnato nella produzione del documentario “Bogre”. Un viaggio sulle tracce dell’eresia dualistica che attorno all’anno Mille si affacciò a Bisanzio per poi propagarsi in Macedonia e Bulgaria, fino ad attestarsi in Bosnia Erzegovina per poi migrare in Lombardia, in Nord Europa e infine nella regione mediterranea e pirenaica oggi francese, l’Occitania: un sub-continente esteso dalle Alpi all’Atlantico, allora cementato dalla lingua d’Oc. Il termine “bogre”, spiega Valla, non indica semplicemente un abitante della Bulgaria: così era in antico, ma poi in occitano ha assunto il significato di persona infida, che maschera la verità. «Attorno al XII secolo, “bogre” divenne un insulto diretto ai càtari d’Occitania, colpevoli di una religione non ortodossa, simile per dottrina a un altro grande movimento eretico europeo, quello dei bogomili bulgari».
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No al potere: un film racconta la vera storia dei Catari
I fisici russi annunciano il primo esperimento di teletrasporto, per ora di elettroni, svelando l’illusiorietà della nostra percezione della materia? Quello che riusciamo a vedere non è che il 5% ci quanto ci circonda, confermano gli astrofisici. Il che collima perfettamente con l’opinione dei neurologi: riusciamo a utilizzare soltanto il 5% del cervello. Qualcosa ci sfugge? Eccome. Ormai lo ammette anche la scienza, dopo le profetiche anticipazioni di Einstein sull’inattendibilità dello spazio-tempo. Sono affermazioni attualissime, ma al tempo stesso anche antiche. Fanno pensare a qualcosa di remoto, rimosso e condannato all’oblio: l’eresia medievale dei càtari, la più temuta dal potere vaticano nei secoli immediatamente successivi all’anno Mille. Non fidatevi di quello che vedete, ripetevano: la dimensione materiale è solo apparenza. E’ un’illusione, suffragata dal potere che ci ripete che il mondo afferrabile dai cinque sensi è l’unico che esista. Poi venne il materialismo, su cui oggi è incardinato il sistema dei consumi: economia, finanza, guerre, multinazionali onnipotenti. E come sta andando, il nostro mondo? Comanda il denaro, e le grandi decisioni sono in mano a un pugno di famiglie: una ristretta élite possiede praticamente tutto. E’ il terzo millennio, ma sembra il medioevo. Per questo, oggi, rispolverare i càtari può risultare più che illuminante. Serve a chiarire meglio chi siamo, dove andiamo. Siamo sicuri di saperlo?Domande alle quali proverà a rispondere l’ultimo lavoro di Fredo Valla, sceneggiatore di film bellissimi come “Il vento fa il suo giro” e “Un giorno devi andare”, di Giorgio Diritti (il regista de “L’uomo che verrà”). Allievo di Ermanno Olmi, poi cresciuto alla scuola di François Fontan, il teorico dell’etnismo che guidò le valli cuneesi verso la riscoperta dell’identità occitanica, Fredo Valla ha inanellato studi, libri e documentari che svelano la radice medievale di una cultura che, tra il 1100 e il 1200, trasformò il sud-ovest dell’attuale Francia, economicamente prospero, in uno straordinario laboratorio sociale: grazie all’illuminata tolleranza dell’aristocrazia che governava la regione, nella terra dei Trovatori coesistevano musulmani ed ebrei, cattolici ed eretici càtari. Il documentario in preparazione – proprio sui càtari – rievoca un mondo per molti aspetti felice, aperto a sviluppi imprevedibili: secondo Simone Weil, in quella parte di Europa resuscitò lo spirito democratico dell’Atene di Pericle, basato sul culto della bellezza anziché su quello della forza. Bellezza e giustizia: il potere nobiliare era affiancato da quello, democratico, delle neonate autorità consolari cittadine. Un modello pericoloso, stroncato nel sangue con la Crociata Albigese.Data simbolo, sul piano militare: la battaglia di Muret che, nel 1213 alle porte di Tolosa, spezzò il sogno del nuovo ipotetico Stato, esteso dal Mediterraneo all’Atlantico, dalle Alpi ai Pirenei. Uno Stato mai nato, ucciso nella culla: avrebbe accorpato Linguadoca e Provenza, Catalogna e Aragona, rappresentando una sfida al potere di Roma e a quello del Sacro Romano Impero. Nucleo centrale della nuova entità: l’Occitania, vastissimo territorio linguistico incuso tra l’alta valle di Susa e la provincia basca francese di Bayonne, sull’oceano, passando per città come Nizza e Marsiglia, Narbonne, Tolosa e Bordeaux, fino alla “gemella” Barcellona. Alla base della disputa, una questione essenziale di sovranità: di fatto, attraverso la difesa della libertà di culto, il conte tolosano Raimondo VI scommise sull’indipendenza di una decisiva fetta d’Europa, oggetto di mire geopolitiche da parte di Roma e Parigi. Ma il cuore della rivolta, incarnata dal “Paratge” (il senso dell’onore della cavalleria occitanica) era proprio la tutela dell’eresia come diritto inalienabile, pura espressione della libertà di pensiero. Cosa diceva, il Catarismo? Era drastico, nella sua simbolizzazione teologica: questo non è il vero mondo.Di ascendenza zoroastriana, la fede càtara attribuisce la creazione al Dio Straniero, l’equivalente dell’Ahriman dei mazdei. Ma attenzione: la divinità è qui, in noi. Ognuno, pur in questo mondo di tenebra, ha in sé una scintilla d’immortalità. Per questo è fondamentale non dimenticarlo mai: è qualcosa che ricorda la “rammemorazione” dei Sufi, lontana mille miglia da qualsiasi degenerazione “magica” della religione. Il Cristo dei càtari? Venuto sulla Terra proprio per svelare, attraverso l’illusionismo dei cosiddetti miracoli, l’inattendibilità della materia. La salvezza? Altrettanto drastica: rinunciare al mondo, cioè al potere. Vietato giurare: e proprio sul giuramento si basavano le istituzioni del feudalesimo, che si pretendevano consacrate dall’alto. Se la materia è “demoniaca”, a maggior ragione gli eretici non potevano riconoscere l’autorità politica degli Stati e dei confini tra le nazioni. Erano nullatenenti, come Francesco d’Assisi avevano dato ai poveri i loro averi, e seguivano una dieta rigorosamente vegetariana. Peggio ancora – come già il clero di Zoroastro – avevano aperto il sacerdozio alle donne, perfettamente equiparate ai religiosi maschi. Il loro motto: non siamo del mondo, e il mondo non è nostro. Potevano passarla liscia, nell’Europa del Papa-Re?Il documentario che Fredo Valla ha cominciato a girare, partendo dall’Est balcanico, ripercorre la straordinaria vicenda trans-europea dei “bourgres” (o “bogres”, in occitano), cioè gli eretici dualistici – due divinità opposte, bene e male – che prima ancora dell’anno Mille varcarono il Bosforo, lasciandosi alle spalle la religione zorostriana per coniare un sincretismo gnostico, presentato come “Cristianesimo delle origini” alternativo al cattolicesimo, dando vita alle prime comunità di bogomili nella penisola balcanica. Quei “bulgari”, poi, attraverso la Lombardia si spinsero fin nel nord nell’Europa per poi insediarsi stabilmente in Occitania, acclamati dal popolo scandalizzato dal lusso e dalla corruzione del clero cattolico. Ma non si tratta soltanto di far luce sulla storica rimozione dell’eresia dualista, sbaragliata dalla Crociata e poi letteralmente incenerita, per 70 anni, dai roghi dell’Inquisizione. Quel genocidio vergognoso, coperto per secoli dalla “damnatio memoriae”, rende ancora più viva l’attesa per il film di Valla, che si rivolge al pubblico – già in fase di produzione, mediante crowdfunding – per condividere fin dall’inizio lo spirito di un’operazione a basso costo, ma ad alta intensità culturale: nel dubbio, fondato, che il potere che allora sterminò i càtari sia lo stesso che oggi opprime miliardi di individui, a cui racconta che quella che percepiscono è l’unica realtà possibile, l’unico modo di stare al mondo: guerra e sopraffazione, la legge del più forte.(Sul sito “Produzioni dal basso” è possibile concorrere alla realizzazione del documentario “Bogre”, il viaggio condotto da Fredo Valla sulle tracce di Catari e Bogomili, tra Bulgaria e Francia sud-occidentale).I fisici russi annunciano il primo esperimento di teletrasporto, per ora di elettroni, svelando l’illusiorietà della nostra percezione della materia? Quello che riusciamo a vedere non è che il 5% ci quanto ci circonda, confermano gli astrofisici. Il che collima perfettamente con l’opinione dei neurologi: riusciamo a utilizzare soltanto il 5% del cervello. Qualcosa ci sfugge? Ormai lo ammette anche la scienza, dopo le profetiche anticipazioni di Einstein sull’inattendibilità dello spazio-tempo. Sono affermazioni attualissime, ma al tempo stesso anche antiche. Fanno pensare a qualcosa di remoto, rimosso e condannato all’oblio: l’eresia medievale dei càtari, la più temuta dal potere vaticano nei secoli immediatamente successivi all’anno Mille. Non fidatevi di quello che vedete, ripetevano: la dimensione materiale è solo apparenza. E’ un’illusione, suffragata dal potere che ci ripete che il mondo afferrabile dai cinque sensi è l’unico che esista. Poi venne il materialismo, su cui oggi è incardinato il sistema dei consumi: economia, finanza, guerre, multinazionali onnipotenti. E come sta andando, il nostro mondo? Comanda il denaro, e le grandi decisioni sono in mano a un pugno di famiglie: una ristretta élite possiede praticamente tutto. E’ il terzo millennio, ma sembra il medioevo. Per questo, oggi, rispolverare i càtari può risultare più che illuminante. Serve a chiarire meglio chi siamo, dove andiamo. Siamo sicuri di saperlo?
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Tre naufragi identici in 160 anni. Unico superstite: Williams
Tre navi affondate, a 160 anni di distanza, tutte e tre nello stesso punto, nello stesso giorno, ed in tutti e tre i casi sono morti tutti i membri dell’equipaggio eccetto un superstite in ogni affondamento e, indovinate, come si chiamavano questi tre superstiti? Tutti e tre Hugh Williams. Sembra una storia ai limiti della realtà e sta circolando su Internet attraverso il video “The Strangest Coincidence Ever Recorded?”, che racconta la storia di 3 navi, tutte affondate nello Stretto di Menai, tra l’isola di Anglesey ed il Galles continentale, tra il 1664 ed il 1820. La prima nave in questione affondò nello stetto il 5 dicembre del 1664. Tutti gli 81 passeggeri perirono, eccetto uno, appunto di nome Hugh Williams. La seconda nave affondò nel 1785, sempre il 5 dicembre, sempre nello stesso stretto, e dei 60 passeggeri a bordo riuscì a salvarsi solo un uomo di nome Hugh Williams. Infine, nel 1820, sempre il 5 dicembre, sempre nello stesso stretto, un vascello affondò trascinando nelle acque i 25 passeggeri, meno, ovviamente, un superstite di nome Hugh Williams.Una storia incredibile che, se vera, darà qualche brivido ai passeggeri di nome diverso da Hugh Williams che navighino attraverso lo stretto di Menai il 5 dicembre di ogni anno. Per valutarne la veridicitò però bisogna analizzare i dettagli. Una prima versione della storia viene data dal libro di Cliffe, “Il libro del Nord del Galles”, pubblicato nel 1851, in cui, in una nota a pagina 155, viene riportata la storia degli affondamenti del 1664 e del 1785, con Hugh Williams il solo superstite. La storia per l’affondamento del 1820 poi cambia, lasciando sempre Hugh Williams come solo superstite, ma l’evento accadde secondo il libro il 5 di agosto e non di dicembre. La nota continua affermando che un’altra nave, il 20 maggio del 1842, ignorando i pericoli, stava navigando proprio vicino al punto del tragico evento del 1820, quando iniziò ad imbarcare acqua e andò a fondo, uccidendo tutti i 15 passeggeri eccetto uno, questa volta di nome Richard Thomas.Un altro libro di Francis Coghlan, “Guida al Nord del Galles”, del 1860, racconta gli stessi episodi. Sulla nave affondata nel 1785 poi c’è anche una prova documentata dal libro del reverendo William Bingley intitolato “Nord del Galles, includendo paesaggi, antiquariato ed usanze”, che narra la storia di come Hugh Williams si sia tratto in salvo il 5 dicembre del 1785. Andando avanti negli anni, un’altra storia narra di un peschereccio che il 10 luglio del 1940, venne distrutto da una mina tedesca, due soli uomini si salvarono, zio e nipote, entrambi chiamati Hugh Williams. In ogni caso, coincidenza o no, la storia sembra avere diversi fondamenti di verità, forse un po’ forzati come il fatto del 5 dicembre, che magari era il 5 di agosto, ma rimane il fatto che il nome Hugh Willams porterà qualche fortuna ai malcapitati nelle disgrazie navali (anche se purtroppo c’è un caso di una vittima chiamata Hugh Williams tra i passeggeri del Titanic) almeno nelle acque dello Stretto di Menai.Tra le varie spiegazioni per una simile coincidenza, rimane che in Galles, nei secoli scorsi, nomi come John, William e Thomas erano molto comuni, e c’era la tendenza per i figli di prendere come cognome il nome di battesimo dei loro padri. Ecco allora che il cognome Williams (e cioè “figlio di William”) non era così raro. Circa il luogo degli eventi, lo Stetto di Menai è famoso per essere “il Triangolo delle Bermuda” d’Europa, pericoloso per le sue correnti fortissime (incanalate tra il Mare del Nord e l’Oceano Atlantico) e le onde improvvise causate dalla collisione delle sue correnti. Per concludere, vera o no, la storia rimane un’incredibile leggenda dei mari, da narrare ai propri nipoti, magari rimanendo sulla terraferma o almeno lontani dallo stretto, ovviamente, a meno che uno non si chiami Hugh Williams.(“La storia incredibile dell’inaffondabile Hugh Williams: sarà vero o è solo una leggenda?”, da “Il Britannico” del 23 febbraio 2014, ripreso da “La Crepa nel Muro”).Tre navi affondate, a 160 anni di distanza, tutte e tre nello stesso punto, nello stesso giorno, ed in tutti e tre i casi sono morti tutti i membri dell’equipaggio eccetto un superstite in ogni affondamento e, indovinate, come si chiamavano questi tre superstiti? Tutti e tre Hugh Williams. Sembra una storia ai limiti della realtà e sta circolando su Internet attraverso il video “The Strangest Coincidence Ever Recorded?”, che racconta la storia di 3 navi, tutte affondate nello Stretto di Menai, tra l’isola di Anglesey ed il Galles continentale, tra il 1664 ed il 1820. La prima nave in questione affondò nello stretto il 5 dicembre del 1664. Tutti gli 81 passeggeri perirono, eccetto uno, appunto di nome Hugh Williams. La seconda nave affondò nel 1785, sempre il 5 dicembre, sempre nello stesso stretto, e dei 60 passeggeri a bordo riuscì a salvarsi solo un uomo di nome Hugh Williams. Infine, nel 1820, sempre il 5 dicembre, sempre nello stesso stretto, un vascello affondò trascinando nelle acque i 25 passeggeri, meno, ovviamente, un superstite di nome Hugh Williams.
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Titanic: strage per avidità, massoni insabbiarono l’inchiesta
Risparmiarono sulla sicurezza, trasformando il naufragio del Titanic in una strage: non c’erano scialuppe per tutti. Ma non emersero responsabilità, perché i consulenti coinvolti nelle indagini – tutti massoni – coprirono i colpevoli e insabbiarono la verità. «La storia britannica dal 1733 al 1923 potrebbe essere in buona parte da riscrivere, o per lo meno da rileggere con altri occhi». La ragione, scrive in una nota l’agenzia Ansa, sta nella cruciale influenza esercitata dalla massoneria: spesso segretamente, ma certo ai livelli più alto del regno. A confermarlo, se mai ve ne fosse stato bisogno, sono le liste con circa due milioni di nomi di “fratelli”, destinate a essere pubblicate su “Ancestry.com”, sito specializzato in ricerche genealogiche, «sullo sfondo di rivelazioni che sembrano accreditare fra l’altro il ruolo chiave avuto dalle logge anche per “deviare” l’inchiesta sul Titanic». Non si tratta di materiale diffuso da cospirazionisti incalliti e fanatici delle teorie del complotto, sottolinea l’Ansa: a parlare sono – nero su bianco – precise carte d’archivio, «sottratte finalmente all’oscurità di qualche cassetto polveroso», il cui contenuto è stato rilanciato il 24 novembre 2016 dal paludatissimo “Daily Telegraph”, che la principale agenzia di stampa italiana definisce «giornale di establishment come pochi altri a Londra».Oltre ai nomi di massoni già noti, da Winston Churchill, a Edoardo VIII a Oscar Wilde, l’elenco sterminato in via di pubblicazione include quelli del duca di Wellington, di re Giorgio VI, padre di Elisabetta II o ancora dello scienziato Alexander Fleming. Ma, più in generale, svela la capillare appartenenza alla “fratellanza” di centinaia di personaggi potenti: esponenti della dinastia reale, generali, giudici, alti funzionari. «Una rete capace all’occorrenza di cambiare il corso della storia. E, secondo la tesi d’alcuni esperti, d’insabbiare senza troppi problemi verità scomode sul naufragio del Titanic». L’inchiesta britannica condotta dopo l’affondamento del celebre bastimento, inabissatosi nell’Oceano Atlantico nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912 causando la morte di 1.517 persone, si concluse in un nulla di fatto. E, come riferisce ora il “Telegraph”, fra i principali protagonisti di quella vicenda si distinsero vari “confratelli”.«Era massone Lord Mersey, messo a capo della commissione che avrebbe dovuto stabilire le responsabilità della compagnia navale britannica», la White Star Line, «proprietaria del transatlantico», scrive l’Ansa. «E così pure Sydney Buxton, presidente del British Board of Trade, coinvolto nello stesso organismo». Proprio il British Board of Trade, aggiunge l’agenzia citando il “Telepgraph”, sarebbe stato additato in un’inchiesta parallela del Senato Usa per aver varato un regolamento «che permetteva agli armatori di Sua Maestà di risparmiare sull’equipaggiamento con un numero di scialuppe di salvataggio insufficiente a caricare tutti i passeggeri». E proprio la mancanza di lance, «specie per chi viaggiava in terza classe, si sarebbe rivelata più tardi come una concausa evidente dell’elevato numero di vittime nel disastro». Ma l’indagine britannica si guardò bene dal farne menzione, sottolinea l’Ansa. «Negli elenchi pubblicati da “Ancestry” ci sono del resto anche i nomi di non pochi dei periti consultati, e quello di Lord Pirrie, patron dei cantieri Harland and Wolff di Belfast, da dove era uscita la nave “inaffondabile”. Tutti massoni e tutti solidali – è il sospetto – nel celare gli altarini più inconfessabili».Risparmiarono sulla sicurezza, trasformando il naufragio del Titanic in una strage: non c’erano abbastanza scialuppe. Ma non emersero responsabilità, perché i consulenti coinvolti nelle indagini – tutti massoni – coprirono i colpevoli e insabbiarono la verità. «La storia britannica dal 1733 al 1923 potrebbe essere in buona parte da riscrivere, o per lo meno da rileggere con altri occhi». La ragione, scrive in una nota l’agenzia Ansa, sta nella cruciale influenza esercitata dalla massoneria: spesso segretamente, ma certo ai livelli più alto del regno. A confermarlo, se mai ve ne fosse stato bisogno, sono le liste con circa due milioni di nomi di “fratelli”, destinate a essere pubblicate su “Ancestry.com”, sito specializzato in ricerche genealogiche, «sullo sfondo di rivelazioni che sembrano accreditare fra l’altro il ruolo chiave avuto dalle logge anche per “deviare” l’inchiesta sul Titanic». Non si tratta di materiale diffuso da cospirazionisti incalliti e fanatici delle teorie del complotto, sottolinea l’Ansa: a parlare sono – nero su bianco – precise carte d’archivio, «sottratte finalmente all’oscurità di qualche cassetto polveroso», il cui contenuto è stato rilanciato il 24 novembre 2016 dal paludatissimo “Daily Telegraph”, che la principale agenzia di stampa italiana definisce «giornale di establishment come pochi altri a Londra».