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Giganti in Sardegna: scheletri di 4 metri spariti nel nulla
«Venivano qui a giocare con lo scheletro, che era mummificato: ossa, nervi e pelle. Afferravamo il braccio, tiravamo un nervo e gli facevamo muovere le dita della mano. Era un gioco, ma durò poco: 5-6 mesi, poi lo presero». A parlare è Luigi Muscas, figlio di pastori, oggi scultore e scrittore. E’ autore di libri come “Il popolo dei giganti figli delle stelle”, edito nel 2008 da La Riflessione. Un evento: l’inizio della riscoperta dei giganti, nel cuore della Sardegna. Una specie di grande segreto, sistematicamente occultato. Qualcosa che ricorda la denuncia del professor Gaetano Ranieri, dell’università di Cagliari, scopritore – mezzo secolo fa – di 38 “giganti di pietra” a Mont’e Prama, nel Sinis, appartenenti a una civiltà sconosciuta. Secondo Ranieri, il georadar rivela la presenza sotterranea di una città estesa su 16 ettari. Ma l’archeologia esita: non vuole scavare. Per paura di trovare altri giganti, ma in carne e ossa, come quello in cui si imbatté nel 1972 nelle campagne di Pauli Arbarei l’allora giovane Luigi Muscas, che all’epoca aveva appena dieci anni?«Nella grotta del gigante ero finito per ripararami da un acquazzone», racconta Muscas, in un reportage trasmesso nel 2009 da “Cinque Stelle Tv”, storica emittente locale di Olbia. «Quel giorno scappai in paese col gregge e raccontai tutto a mio nonno. E il nonno mi disse: ora ti spiego dove sono sepolti tutti gli altri». Il giovane Muscas allora si fece coraggio e tornò in quella grotta, con i suoi amici, a “giocare” con il gigante. «Non era l’unico: altri scheletri emersero dalle campagne, dove cominciavano a essere impiegati potenti aratri, trainati da trattori cingolati, macchine capaci di scavare il terreno in profondità». Ricorda il video-reportage della televisione di Olbia: Pauli Arbarei (Sud Sardegna, 50 chilometri a nord di Cagliari) è al centro della Marmilla, area in cui sopravvive la tradizione della cosiddetta Città Perduta. «Una leggenda – racconta un anziano del paese – dice che qui c’era una cittadina di diecimila abitanti, almeno 10-12.000 anni fa, con un lago, nel quale era solito pescare un gigante solitario». La storia del gigante pescatore la racconta anche Raffaele Cau, pastore di Pauli Arbarei: «Un nostro terreno di famiglia è chiamato la Terra della Pietra del Gigante, perché ha l’impronta delle natiche dell’essere gigantesco che pescava nel lago».Non solo solo suggestioni: «Grandi ossa sono state portate alla luce dagli aratri dei nuovi trattori cingolati», conferma Cau, la cui testimonianza è tra quelle raccolte da Luigi Muscas nel suo libro. L’autore – spiega “Cinque Stelle Tv” – si appassionò al mistero dei giganti sardi scoprendo che Platone, quando parla di quegli esseri colossali, li descrive come di casa in luoghi molto simili alla Sardegna. L’uscita in libreria de “Il popolo dei giganti figli delle stelle” scatenò una vera e propria operazione-memoria: «Tanti testimoni raggiunsero Muscas per raccontargli di analoghi ritrovamenti vicino ai loro paesi, ma poi tutto sparì nel nulla senza lasciare traccia», dice la Tv di Olbia, che ha comunque raccolto alcune testimonianze dirette. «Nella primavera del 1962, ad aprile o maggio – racconta un uomo di Pauli Arbarei – il trattore smosse il terreno e portò allo scoperto un teschio gigante e poi l’intero scheletro, lungo quasi 3 metri». Un caso isolato? Nemmeno per idea: ne saltarono fuori a decine, nel cantiere archeologico (nuragico) di Sant’Anastasia, nel centro storico di Sardara, a due passi da Pauli Arbarei.In quel cantiere, fra pozzi sacri e tombe, l’operaio Giuseppe Serra lavorò dal 1973 al 1996. «Fra il 1982 e il 1983 – racconta – trovammo più di 40 scheletri, alcuni con anelli al dito». La loro lunghezza? Imbarazzante: 4 metri e 20, 4 metri e 80, anche 5 metri e 10. «Il più piccolo era alto 2 metri e 40 centimetri», dice Serra, alla troupe televisiva. «Erano proporzionati. In alcuni, la testa era grande come la ruota di un’auto». Un collega conferma: «A metà degli anni ‘80, alcuni scheletri erano stati deposti in scatole di cartone dietro l’altare della chiesa, che era sconsacrata: c’erano femori lunghi un metro. Fuori, trovammo scheletri sepolti anche l’uno sopra l’altro». E dove sono finiti? «Non si sa». Conferma Giuseppe Serra: «Le ossa erano state raccolte in sacchi e deposte all’interno della chiesa. Poi sono venuti a rititrarle e non si sa dove siano andate a finire». Dice Luigi Muscas: «Non si da chi li prendesse, quegli scheletri. Ma lì poteva entrare solo chi comandava».Nel 2008, ricorda “Cinque Stelle Tv”, il sindaco di Sardara scrisse alla Soprintendenza Archeologica di Cagliari per chiedere un confronto tra i suoi compaesani, testimoni dei ritrovamenti, e gli archeologi che avevano lavorato nel cantiere di Sant’Anastasia. Il primo cittadino rivoleva indietro i “suoi” reperti, ma l’appello non ricevette nessuna risposta (se non la richiesta, ufficiosa, di lasciar perdere). «Ma Muscas è testardo, e non si è mai fermato: non ha mai cessato di cercare testimoni». Giganti? Certo: ne parla anche la Bibbia, li chiama Nephilim. Uno di loro era Golia, avversario di Davide. Altri giganti, “colleghi” di Golia, abitavano le città filistee (palestinesi) come Gaza. La letteratura ebraica considera i giganti come figli dell’unione impropria tra “figli dei dèi” e “figlie degli uomini”. Secondo Zecharia Sitchin, invece, nelle tavolette sumere è scritto che il “popolo dei giganti”, progenitori dell’umanità come gli Anunnaki, proveniva dal pianeta Nibiru. Le testimonianze letterarie sugli esseri giganteschi sono innumerevoli, ma l’archeologia sembra non volersene occupare: come spiegare quelle inquientanti presenze ossee?L’ultima ipotetica scoperta – scrive “L’Unione Sarda” – è molto recente: un femore fuori misura sarebbe stato ritrovato a Mont’e Prama (la terra delle statue giganti) il 15 ottobre 2015. “Spunta uno scheletro gigante ed è subito silenzio”, titola il sito “Sardegna Sotterranea”, facendo notare però che, dopo le iniziali ammissioni di Nello Cappai, sindaco di Guamaggiore, sul caso sarebbe stata fatta calare la solita coltre di riserbo. Per dare un’occhiata a qualche reperto osseo fotografato o filmato vale la pena di visionare il reportage di “Cinque Stelle Tv”, che riporta anche una impressionante selezione delle testimonianze raccolte da Luigi Muscas nel suo famoso libro sul “popolo dei giganti figli delle stelle”. Racconta un uomo di Pauli Arbarei: «Un giorno, mia figlia piccola rincasò spaventata per aver visto degli scheletri giganti», in un cantiere nuragico. «Il capo degli archeologi aveva rimproverato i bambini, intimando loro di non guardarli, perché erano “i diavoli”. Andammo al nuraghe e vidi anch’io gli scheletri». Aggiunge l’uomo: «Ne avevo visti già nel 1958 in Costa Smeralda, ai cantieri dei primi impianti turistici».«Rientrando dalla campagna – ricorda Giorgina Medda, sempre di Pauli Arbarei – mio padre Raimondo (classe 1874) diceva: anche oggi ho trovato un osso di un gigante». Aggiunge la donna: «In un nostro terreno c’era una tomba: da una fessura di notava il luccichio di metalli». Giganti misteriosi anche nell’esperienza di Angelo Ibba, agricoltore di Sardara: «Mi è capitato di vedere un gigante nel 1938. L’aratro si incastrò in una lastra di pietra, che aveva dei fori disposti in modo tale da rappresentare un disegno. Nella buca c’era un teschio enorme. Ricoprimmo tutto: quelle ossa sono ancora là». A volte, le ossa gigantesche vengono allo scoperto nei cantieri edili. Virgilio Saiu, muratore di Pauli Arbarei (classe 1915), racconta: «Nel 1950, nel fare le fondamenta per la casa di Francesco Lai, dietro la chiesa di Sant’Agostino, io e altri trovammo una tomba enorme, grande tre volte me. Rimosso il coperchio di pietra, apparve uno scheletro gigantesco. Aveva sicuramente un vestito: un mantello nero di stoffa, che al contatto con l’aria si deteriorò. Nella tomba, c’erano anche tre monete d’oro. In paese la voce si sparse, arrivò il prete e ritirò lui le monete: disse che le avrebbe consegnate a chi di dovere».Si tratta di un ricordo preciso: «Quelle monete erano d’oro massiccio, lucenti, di dimensioni paragonabili a quelle delle vecchie 100 lire». E le ossa? «Erano grandi: la testa enorme, le narici grandi quanto il mio pugno. La dentatura ancora perfetta, i denti lunghi quanto le dita delle mie mani. Tutte le articolazioni erano ancora intatte. E le dita delle mani erano grosse e lunghe 20 centimetri». Si rammarica, Virgilio Saiu: «Purtroppo, non comprendendone l’importanza, lasciammo le ossa sepolte nella fondazione della casa. E sono ancora lì». Il muratore assicura poi di aver visto altri scheletri, «in località Nuragi De Passeri, nel terreno di Natale Pusceddu, durante i lavori per piantare una vigna». Precisa: «Insieme a me c’erano Candido Toco, Luigi Noaruffu, Sperandiu Scanu e suo fratello, e Angelo Mandis». Le vanghe portarono alla luce 20 lastre di pietra. «Nelle tombe c’erano scheletri enormi, lunghi più di 3 metri, qualcuno anche 4. Il proprietario ci chiese di non dire niente a nessuno, perché altrimenti avrebbero fermato i lavori. E così anche quegli scheletri furono rotti e lasciati nella vigna».Il gigante poteva spuntare anche nel giardino di casa. Lo spiega Eugenio Concu, di Ussaramanna. «Quando avevo 10 anni, nel 1971, facemmo gli scavi per il pozzo nero. E a 50 centimetri di profondità iniziammo a intravedere quattro grosse teste, cinque volte più grandi delle nostre. Scavando, scoprimmo quattro grandi scheletri: erano seppelliti a forma di croce. Erano molto lunghi, avevano mani grandissime e la testa allungata. I denti erano tutti intatti e bianchissimi, lunghi 5-6 centimetri. Ne sono sicuro, perché li lavammo e li misurammo». Aggiunge Eugenio: «Avvisammo il parroco di Ussaramanna: ci disse che gli scheletri erano cartaginesi, e ci chiese di gettarli nella discarica». Detto fatto: «Con l’aiuto dei miei fratelli li facemmo a pezzi e li caricammo nella carriola. E dopo 4-5 viaggi ce ne sbarazzammo. Sfortunatamente, ignoravamo cosa fossero: altrimenti avremmo potuto tenerne almeno uno».Tra le tante storie raccolte da Luigi Muscas, forse la più sconcertante è quella di Salvatore Pilloni, di Gonnoscodina. «Alle elementari – racconta – i maestri scoperchiavano le tombe. Ci portavano con pale e picconi nel Campo degli Aztechi per andare a scavare le tombe. Alcune erano normali, altre gigantesche (oltre i 4 metri: i maestri le misuravano con il metro). Uno scheletro era lungo 3 metri e 86 centimetri, i piedi erano lunghi 60 centimetri, e il femore ben 1 metro e 43 centimetri. La testa era grande quanto quella di un cavallo, solo che le fattezze erano umane». Dice Salvatore: «Avevo solo 9 anni, ma ricordo bene che le ossa erano rivestite da una pellicina, come se fossero mummificate. Infatti avevano tutti i tendini ancora intatti. E quando venivano sollevati, gli scheletri si muovevano come marionette». Che ne fu, di quei resti? «Alla fine li presero i nostri maestri», di cui Pilloni fa anche i nomi. Ufficialmente, i giganti non sono mai esistiti. E i debunker liquidano la faccenda nel solito modo: bufale. Davvero? E perché mai tante persone ormai anziane dovrebbero raccontare frottole così ben documentate? Sugli Ufo, il “cover-up” è finito. A quando, dunque, la verità sui giganti? Tanto per cominciare: dove sono finiti, i maxi-scheletri di Sardara e Pauli Arbarei?«Venivamo qui a giocare con lo scheletro, che era mummificato: ossa, nervi e pelle. Afferravamo il braccio, tiravamo un nervo e gli facevamo muovere le dita della mano. Era un gioco, ma durò poco: 5-6 mesi, poi lo presero». A parlare è Luigi Muscas, figlio di pastori, oggi scultore e scrittore. E’ autore di libri come “Il popolo dei giganti figli delle stelle“, edito nel 2008 da La Riflessione. Un evento: l’inizio della riscoperta dei giganti, nel cuore della Sardegna. Una specie di grande segreto, sistematicamente occultato. Qualcosa che ricorda la denuncia del professor Gaetano Ranieri, dell’università di Cagliari, scopritore – mezzo secolo fa – di 38 “giganti di pietra” a Mont’e Prama, nel Sinis, appartenenti a una civiltà sconosciuta. Secondo Ranieri, il georadar rivela la presenza sotterranea di una città estesa su 16 ettari. Ma l’archeologia esita: non vuole scavare. Per paura di trovare altri giganti, ma in carne e ossa, come quello in cui si imbatté nel 1972 nelle campagne di Pauli Arbarei l’allora giovane Luigi Muscas, che all’epoca aveva appena dieci anni?
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Il killer: John Kennedy l’ho ucciso io. E nessuno lo interroga
«Da domani, quei figli di puttana dei Kennedy non mi umilieranno più». Lo confidò l’allora vicepresidente Lyndon Johnson alla sua amante texana, Madeleine Brown, la sera del 21 novembre 1963. Poche ore dopo, John Fitzegerald Kennedy sarebbe stato ucciso. Da chi? Non da Lee Harvey Oswald, ma dal vero assassino: James Files, reo confesso. Un uomo della mafia di Chicago, ingaggiata dalla Cia per l’operazione. La notizia è la seguente: dopo 28 anni di omertoso silenzio, in seguito al depistaggio ufficiale (che utilizzò il falso colpevole, Oswald), il vero assassino ha accettato di parlare. Merito di un agente dell’Fbi, Zack Shelton, impegnato a indagare su un banale traffico di auto rubate, ormai negli anni ‘80. Shelton scopre che a guidarle da Chicago al Texas è proprio Files, e si informa sul suo conto. Una voce lo avverte: quel ladro d’auto, collegato alle “famiglie” di Chicago, è implicato nell’omicidio di Dallas. Shelton informa il suo capo, Dick Stilling, che però lo ferma: lascia perdere, gli dice. Allora, l’agente Shelton passa il fascicolo a un investigatore privato di Dallas, Joe West, deciso a scovare la verità su Kennedy. Dopo un lungo assedio, West ottiene di parlare con Files, nel frattempo finito in galera. Lo avverte: è stato l’Fbi a fare il tuo nome. Al che, Files vuota il sacco. Finirà per ammettere: a far esplodere la testa di Kennedy sono stato io. Ma nessun magistrato andrà mai a interrogare il killer, tuttora detenuto in Illinois.
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Stare lontani dalla natura: è una sindrome, causa malattie
Noi tutti soffriamo di quella che Richard Louv, autore di “L’ultimo bambino nei boschi” (Rizzoli, 2006) ha denominato “disturbo da deficit di natura”. Due o tre generazioni fa si viveva molto più a contatto con la natura. Le nostre radici agricole furono precedute da millenni di caccia, raccolta, allevamento e pesca. Tutte queste attività richiedevano una connessione innata con l’ambiente naturale. Dovevamo saper decifrare i canti degli uccelli, interpretare le nuvole, conoscere la direzione del vento, seguire le correnti, riconoscere gli insetti nocivi e curare una mucca malata. La nostra stessa sopravvivenza era legata a quelle forme di sapere e i nostri antenati hanno risalito la catena alimentare padroneggiando quelle preziose abilità. Provavano un rispetto sacro e profondo per la natura, perché comprendevano il legame di nutrimento vitale che essa offriva… La nostra memoria genetica e la nostra linea di ascendenza ci vedevano vicini alle erbe, agli alberi, al suolo e agli elementi. Ricevere una quantità sufficiente di pioggia era una questione di vita o di morte. Si conservava l’acqua perché qualcuno, quella mattina presto, aveva dovuto fare 3 chilometri a piedi per procurarla.Quando si trovava del cibo, ci si rallegrava e si rendeva grazie: se cadeva a terra, si soffiava via la polvere e lo si mangiava. Non c’erano margini di spreco. Gli scarti finivano nel concime e le ossa andavano ai cani che proteggevano il nostro territorio e ci aiutavano nella caccia; perfino esse avevano uno scopo e un senso. Oggi molti di noi vivono in aree in cui la terra è ricoperta di asfalto e il nostro unico e vero modo di entrare in contatto con essa è offerto da quegli “zoo della natura” che chiamiamo parchi. Dai parchi locali alle foreste nazionali, abbiamo imprigionato Madre Terra nel tentativo di preservarla e proteggerla da noi. Noi violiamo, distruggiamo, inquiniamo. Siamo arrivati a identificarci in “quell’animale che cammina attraverso il Giardino e lo distrugge”. Nell’arco di solo un paio di generazioni abbiamo sviluppato tecnologie e sostanze chimiche sintetiche che ci hanno permesso di isolarci dal mondo naturale e di scollegarci da questo legame vitale. Eliminiamo i germi con gli antibiotici; abbiamo l’aria condizionata nelle nostre auto veloci; bruciamo il combustibile naturale che proviene da terre lontane anziché tagliare la legna per tenere calde le nostre case, e il nostro cibo è pensato nei laboratori e prodotto nelle fabbriche.Un tempo mangiavamo le piante. Oggi mangiamo schifezze prodotte negli impianti industriali. Tutto questo ha un prezzo sia fisico sia psicologico per noi. Ora ci sono tizi come Ethan che se ne vanno in giro per le grandi città bevendo bibite strane che li rendono più assetati e mangiando barrette avvolte nella plastica. Si combattono guerre per assicurarsi il petrolio che permette di costruire quella plastica, e si combatte il cancro che proviene dal mangiare il cibo finto che viene venduto dentro quella plastica. Poi ci si lamenta di essere stanchi, grassi, malati e depressi e ci si chiede quale medico o guru detenga il segreto per sbloccare i nostri problemi, mentre non dovremmo far altro che guardare al passato. Abbiamo dimenticato da dove veniamo. Abbiamo perso la connessione con la fonte di tutta la vita e con il nutrimento che ne traiamo, e questo sta creando un vuoto nella nostra capacità di guarire noi stessi e di connetterci con la vita che ci circonda. Perdere il contatto tra il nostro corpo e il cibo che mangiamo ha rappresentato un potente cuneo che ha frantumato l’umanità in una massa di fantasmi affamati che incespicano alla ricerca di automobili, borsette, diete, pillole o di un partner per sentirsi felici e integri nella vita.(Pedram Shojai, “Che cos’è il disturbo da deficit di natura?”, dal blog “La Crepa nel Muro” del 22 dicembre 2017; estratto da “Il Monaco Urbano”, saggio che Shojai ha scritto per Macro Edizioni – 355 pagine, 14 euro).Noi tutti soffriamo di quella che Richard Louv, autore di “L’ultimo bambino nei boschi” (Rizzoli, 2006) ha denominato “disturbo da deficit di natura”. Due o tre generazioni fa si viveva molto più a contatto con la natura. Le nostre radici agricole furono precedute da millenni di caccia, raccolta, allevamento e pesca. Tutte queste attività richiedevano una connessione innata con l’ambiente naturale. Dovevamo saper decifrare i canti degli uccelli, interpretare le nuvole, conoscere la direzione del vento, seguire le correnti, riconoscere gli insetti nocivi e curare una mucca malata. La nostra stessa sopravvivenza era legata a quelle forme di sapere e i nostri antenati hanno risalito la catena alimentare padroneggiando quelle preziose abilità. Provavano un rispetto sacro e profondo per la natura, perché comprendevano il legame di nutrimento vitale che essa offriva… La nostra memoria genetica e la nostra linea di ascendenza ci vedevano vicini alle erbe, agli alberi, al suolo e agli elementi. Ricevere una quantità sufficiente di pioggia era una questione di vita o di morte. Si conservava l’acqua perché qualcuno, quella mattina presto, aveva dovuto fare 3 chilometri a piedi per procurarla.
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Cancro: la malattia come destino, per una vita da risvegliare
Rudiger Dalke e Thorwald Dethkefsen sono due autori di libri di grande successo, che hanno affrontato insieme un cammino per diffondere il concetto della medicina psicosomatica. Il primo è un medico che si è specializzato in medicina naturale e psicoterapia, autore dell’importantissimo “Malattia come simbolo”, un dizionario dei malattie con tutti i sintomi, il significato e l’interpretazione dal punto di vista spirituale delle patologie più disparate (il libro raccoglie oltre 1000 patologie e sintomi). Il secondo è uno psicologo autore del bestseller internazionale “Il destino come scelta” cui è seguito l’importantissimo “Malattia e destino”, scritto in collaborazione con Dalke. Il punto chiave della loro ricerca è che non esistono le malattie intese come entità a sé stanti, che compaiono in un corpo sano, ma esiste un’unica malattia, nel senso che ogni persona manifesta, nel corpo, una serie di sintomi che altro non sono che sintomi di altrettante condizioni dell’anima. La malattia è quindi un messaggio, e precisamente un messaggio che l’anima invia al corpo, su cui occorre lavorare per essere più consapevoli della propria condizione, dei propri conflitti, e talvolta del proprio destino. La malattia quindi non è – in senso tecnico – una patologia, ma una condizione dell’anima che accompagna l’uomo dalla nascita alla morte, e fa parte della vita come l’aria fa parte del respiro.Nell’introduzione al libro “Malattia come simbolo” l’autore utilizza un’espressione che è propria anche della medicina Hameriana: la malattia non è una patologia, una disfunzione dell’organismo, ma un “evento sensato” utilizzato dall’anima per rendere l’uomo consapevole dei propri conflitti irrisolti. In generale, per quanto riguarda il cancro, esso realizza fisicamente ciò che spiritualmente sarebbe necessario nel relativo ambito della coscienza. Il cancro è, in pratica, un’iniziazione, nel senso che segna un momento decisivo della vita, in cui occorre prendere coscienza di alcuni aspetti irrisolti della propria vita, offrendo la possibilità di rinascere a nuova vita, più forti, determinati e in salute rispetto al passato, oppure di morire fisicamente. In generale compare quando si sono repressi impulsi vitali troppo a lungo, e si è rimasti ancorati alla norma, con un adattamento sociale troppo perfetto. E’ anche un amore sul piano sbagliato e un principio di regressione. Il cancro costringe quindi a fare un bilancio della propria vita, per cercare di capire se la strada percorsa corrisponda a quella personale propria, costringendo il soggetto a ricordarsi dei propri sogni giovanili e dei desideri che aveva per la vita e trarre, dalla certezza di non avere ormai nulla da perdere, il coraggio di auto-realizzarsi e trovare la propria strada.Claudia Rainville è una studiosa olistica che ha chiamato i suoi studi “metamedicina”. La metamedicina non è una semplice medicina alternativa che si propone di sostituirsi ai farmaci e alle cure tradizionali; è molto di più e molto di meno. E’ molto di meno nel senso che non si sostituisce al medico personale scelto dal paziente. Ma è molto di più perché si propone di aiutare il paziente nell’opera di guarigione andando a fondo della causa delle malattie, ma come una vera e propria filosofia di vita che può cambiare l’esistenza. Andando infatti a cercare la causa prima della malattia, il paziente è portato a fare un vero e proprio percorso di guarigione dell’anima, o un percorso spirituale se si preferisce. Gli operatori di metamedicina quindi non si propongono come guaritori, ma si limitano a far prendere al paziente coscienza dei suoi problemi, tanto è vero che qualcuno ha inquadrato questa disciplina come medicina delle emozioni o medicina psicosomatica, altri come medicina dell’anima, altri come una vera e propria filosofia dell’anima.A titolo di esempio, i tumori vengono collegati alle seguenti cause: tumore al collo dell’utero: profonda delusione vissuta col partner; tumore dell’utero: problema collegato ad un familiare; tumore al seno: shock, sconvolgimenti e sensi di colpa nei confronti di coloro di cui ci si occupa, problemi con il padre o con la madre (a seconda che il problema sorga al seno destro o sinistro); tumore allo stomaco: forte ingiustizia subita nella vita; tumore al polmone: paura di morire; tumore all’intestino: paure legate alla propria situazione finanziaria o di vita; tumore al pancreas: forti emozioni di rabbia tristezza o repulsione; tumore alle ossa: senso di svalutazione. La medicina Hameriana (detta anche medicina Germanica, o delle 5 leggi biologiche) si allaccia alla metamedicina, come è espressamente affermato dalla stessa Rainville nel suo “dizionario della meta medicina” alla voce “tumore”. In Italia, la medicina di Hamer è stata divulgata da Claudio Trupiano, con il libro “Grazie dottor Hamer”, cui sono seguiti “Grazie ancora dottor Hamer” e altri ancora. La medicina Hameriana va alla ricerca di uno shock o di un evento traumatico, che è alla base della comparsa dei tumori in determinate zone.(Paolo Franceschetti, estratto da “Tumori, mente e anima”, dal blog “Petali di Loto” del 28 marzo 2018. Per “nuova medicina germanica” si intende quella teorizzata dal medico tedesco Ryke Geerd Hamer a partire dal 1981).Rudiger Dalke e Thorwald Dethkefsen sono due autori di libri di grande successo, che hanno affrontato insieme un cammino per diffondere il concetto della medicina psicosomatica. Il primo è un medico che si è specializzato in medicina naturale e psicoterapia, autore dell’importantissimo “Malattia come simbolo”, un dizionario dei malattie con tutti i sintomi, il significato e l’interpretazione dal punto di vista spirituale delle patologie più disparate (il libro raccoglie oltre 1000 patologie e sintomi). Il secondo è uno psicologo autore del bestseller internazionale “Il destino come scelta” cui è seguito l’importantissimo “Malattia e destino”, scritto in collaborazione con Dalke. Il punto chiave della loro ricerca è che non esistono le malattie intese come entità a sé stanti, che compaiono in un corpo sano, ma esiste un’unica malattia, nel senso che ogni persona manifesta, nel corpo, una serie di sintomi che altro non sono che sintomi di altrettante condizioni dell’anima. La malattia è quindi un messaggio, e precisamente un messaggio che l’anima invia al corpo, su cui occorre lavorare per essere più consapevoli della propria condizione, dei propri conflitti, e talvolta del proprio destino. La malattia quindi non è – in senso tecnico – una patologia, ma una condizione dell’anima che accompagna l’uomo dalla nascita alla morte, e fa parte della vita come l’aria fa parte del respiro.
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Morire di carne: stiamo letteralmente suicidando la Terra
Secondo l’economista Jeremy Rifkin, uno dei più famosi teorici no-global, il consumo di carne è direttamente responsabile del rischio-fame per due miliardi di persone: il “racket dell’hamburger” assorbe il 36% della produzione mondiale di grano, destinato a mangimi. «Centinaia di milioni di persone nel mondo lottano ogni giorno contro la fame perché gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per la coltivazione di cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all’alimentazione umana», scrive Maurizio Sabbadini. «I ricchi del pianeta consumano carne bovina e suina, pollame e altri di tipi di bestiame, tutti nutriti con foraggio, mentre i poveri muoiono di fame». Europa, Nord America e Giappone stanno letteralmente divorando il patrimonio alimentare dell’intero pianeta. Oggi, oltre il 70% per cento del grano prodotto negli Usa è destinato all’allevamento del bestiame, in gran parte bovino. «Sfortunatamente, di tutti gli animali domestici, i bovini sono fra i convertitori di alimenti meno efficienti: sperperano energia e sono da molti considerati “le Cadillac delle fattorie”». Per far ingrassare di mezzo chilo un manzo, occorrono oltre 4 chili di foraggio, di cui oltre 2 chili e mezzo sono cereali e sottoprodotti di mangimi, e il restante chilo e mezzo è paglia tritata. «Questo significa che solo l’11% del foraggio assunto dal manzo diventa effettivamente parte del suo corpo».Attualmente, negli Stati Uniti, 157 milioni di tonnellate di cereali, legumi e proteine vegetali potenzialmente utilizzabili dall’uomo sono destinate alla zootecnia: è una produzione di 28 milioni di tonnellate di proteine animali che l’americano medio consuma in un anno, riassume Sabbadini su “Disinformazione.it”. «In tutto il mondo la domanda di cereali per la zootecnia continua a crescere perché le multinazionali cercano di capitalizzare sulla richiesta di carne proveniente dai paesi ricchi». Fra il 1950 e il 1985, gli anni boom dell’agricoltura, negli Stati Uniti e in Europa, due terzi dell’aumento di produzione di grano sono stati destinati alla fornitura di cereali d’allevamento, per lo più bovino. «E’ stata la decisione più iniqua della storia quella di usare la terra per creare una catena alimentare artificiale che ha portato alla miseria centinaia di milioni di esseri umani nel mondo», sostiene Sabbadini. «È importante tenere a mente che un acro di terra coltivato a cereali produce proteine in misura cinque volte maggiore rispetto ad un acro di terra destinato all’allevamento di carni; i legumi e le verdure possono produrne rispettivamente 10 e 15 volte tanto». Le grandi multinazionali producono semi e prodotti chimici per l’agricoltura, allevano bestiame e controllano mattatoi, canali di marketing e distribuzione della carne: «Hanno tutto l’interesse di pubblicizzare i vantaggi del bestiame allevato a cereali».Purtroppo, la carne fa ancora tendenza: «La pubblicità e le campagne di vendita destinate ai paesi in via di sviluppo equiparano e associano all’allevamento di bovini nutriti a foraggio il prestigio di quel dato paese. Salire la “scala delle proteine” è diventato un simbolo di successo che assicura l’entrata in un club elitario di produttori che sono in cima alla catena alimentare mondiale». Il periodico americano “Farm Journal” riflette con queste parole i pregiudizi della comunità agro-industriale: «Incrementare e diversificare le forniture di carne sembra essere il primo passo di ogni paese in via di sviluppo». Iniziano tutti con l’allevamento di polli e con l’installazione di attrezzature per la produzione delle uova: è il modo più veloce ed economico che permette di produrre proteine non vegetali. «Poi, quando le loro economie lo permettono, salgono “la scala delle proteine” e spostano la loro produzione verso carne suina, latte, latticini, manzo nutrito al pascolo. Per poi arrivare, in alcuni casi, al manzo allevato con grano raffinato». Ma incoraggiare altri paesi a salire la “scala delle proteine”, avverte Sabbadini, promuove solo gli interessi degli agricoltori occidentali (americani soprattutto) e delle società agro-industriali.Molti paesi in via di sviluppo hanno iniziato a salire la “scala delle proteine” all’apice del boom agricolo, con molto grano in eccesso. Nel 1971 la Fao suggerì di passare al grano grezzo, che poteva essere consumato più facilmente dal bestiame. Il governo americano, prosegue “Disinformazione.it”, incoraggiò ulteriormente i suoi programmi di aiuti all’estero, collegando gli aiuti alimentari allo sviluppo sul mercato dei cereali foraggieri. «Società come la Ralston Purina e la Cargill hanno ricevuto finanziamenti governativi a basso tasso di interesse per la gestione di aziende avicole e l’uso di cereali foraggeri nei paesi in via di sviluppo, iniziando queste nazioni al viaggio che le avrebbe condotte verso la scala delle proteine. Molte nazioni hanno seguito il consiglio della Fao e si sono sforzate di rimanere in cima a questa scala». Risultato: «Negli ultimi 50 anni la produzione mondiale di carne si è quintuplicata». E il passaggio dal cibo al mangime «continua velocemente in molti paesi in modo irreversibile, nonostante il crescente numero di persone che muoiono di fame». Un caso emblematico? La crisi in Etiopia nel 1984, con migliaia di vittime denutrite. «L’opinione pubblica non era al corrente del fatto che in quel momento l’Etiopia stesse utilizzando parte dei suoi terreni agricoli per la produzione di panelli di lino, di semi di cotone e semi di ravizzone da esportare nel Regno Unito e in altri paesi europei come cereali foraggieri destinati alla zootecnia».Le statistiche sono sconcertanti: l’80% dei bambini che nel mondo soffrono la fame vive in paesi che di fatto generano un surplus alimentare prodotto sotto forma di mangime animale, di conseguenza utilizzato solo da consumatori benestanti. La corsa alla carne sta travolgendo i paesi in fase di sviluppo come la Cina, dove la quota di grano destinato alla zootecnia è triplicata. Nel solo Messico, dal 1960 ad oggi, la percentuale di grano da allevamento è cresciuta dal 5 al 45% per cento, mentre in Egitto è passata dal 3 al 31% e in Thailandia dall’uno al 30%. Ironia della sorte: «Milioni di ricchi consumatori dei paesi industrializzati muoiono a causa di malattie legate all’abbondanza di cibo (attacchi di cuore, infarti, cancro, diabete – malattie provocate da un’eccessiva e sregolata assunzione di grassi animali), mentre i poveri del Terzo Mondo muoiono di malattie poiché viene loro negato l’accesso alla terra per la coltivazione di grano e cereali destinati all’uomo». Le statistiche parlano chiaro, sottolinea Sabbadini: sarebbero 300.000 gli americani che ogni anno muoiono prematuramente a causa di problemi di sovrappeso, ed è un numero destinato ad aumentare. «Secondo gli esperti, nel giro di qualche anno, se continuano le attuali tendenze, sempre più americani moriranno prematuramente più per cause di obesità che per il fumo delle sigarette».Attualmente è sovrappeso il 61% degli americani, insieme a oltre la metà degli europei. La colpa, accusa l’Oms, è dell’hamburger. Gli obesi nel mondo sono il 18%, più o meno quanto gli individui denutriti. «Mentre i consumatori dei paesi ricchi letteralmente fagocitano se stessi fino alla morte, seguendo regimi alimentari carichi di grassi animali, nel resto del mondo circa 20 milioni di persone l’anno muoiono di fame e di malattie collegate». Secondo le stime, la fame cronica contribuisce al 60% delle morti infantili. Ma i consumatori di carne non sanno, né vogliono sapere. «I consumatori di carne dei paesi più ricchi – scrive Sabbadini – sono così lontani dal lato oscuro del circuito grano-carne che non sanno, né gli interessa sapere, in che modo le loro abitudini alimentari influiscano sulle vite di altri esseri umani e sulle scelte politiche di intere nazioni». Obiettivamente: «Chi mangia carne consuma le risorse della terra quattro volte di più di chi non lo fa». Ogni volta che si mangia una bistecca, aggiunge il blogger, «bisognerebbe essere consapevoli dei liquami che filtrano nelle falde acquifere, delle foreste disboscate, del deserto conseguente, dell’anidride carbonica e del metano che intrappolano il globo in una cappa calda. Ogni bistecca equivale a 6 metri quadrati di alberi abbattuti e a 75 chili di gas responsabili dell’effetto serra».Bisognerebbe essere consapevoli anche delle tonnellate di grano e soia usate per dar da mangiare alla fonte delle bistecche, non dimenticandosi «degli 840 milioni di persone che nel mondo hanno fame e dei 9 milioni che ne hanno tanta da morirne». Mangiare meno carne, o magari non mangiarne più? «Una scelta sociale, solidale con chi ha fame e con il futuro del pianeta». E non è tutto: «Ogni volta che addentiamo un hamburger si perdono venti o trenta specie vegetali, una dozzina di specie di uccelli, mammiferi e rettili. Dal 1960 a oggi, oltre un quarto delle foreste del Centro America è stato abbattuto per far posto a pascoli; in Costa Rica i latifondisti hanno abbattuto l’80% della foresta tropicale e in Brasile c’è voluto l’omicidio di Chico Mendes, il raccoglitore di gomma assassinato dagli allevatori per una disputa sull’uso della foresta pluviale, per accorgersi dell’esistenza di una “bovino connection”». E ancora: «In Amazzonia la foresta pluviale è stata divorata da 15 milioni di ettari di pascolo, eppure è in questo habitat che dimora il 50% delle specie viventi e da qui deriva un quarto di tutti i farmaci che usiamo». Dove prima c’erano migliaia di varietà viventi ora ci sono solo mandrie.«Vacche ovunque», scrive Rifkin nel suo “Ecocidio”: «Attualmente il nostro pianeta è popolato da ben oltre un miliardo di bovini. Quest’immensa mandria occupa, direttamente o indirettamente, il 24% della superficie terrestre e consuma una quantità di cereali sufficiente a sfamare centinaia di milioni di persone». Per farvi posto occorre terreno da pascolo. E deforestazione per creare pascoli significa desertificazione: dopo tre o quattro, il suolo calpestato e divorato da milioni di bovini (ogni capo libero ingurgita 400 chili di vegetazione al mese) finisce esposto a sole, piogge e vento, quindi diventa sterile. E i ruminanti si devono spostare dissacrando altri ettari di foresta. «Ci vorranno da 200 a mille anni perché quei terreno ritorni fertile». E che dire dell’acqua? «Quasi la metà dell’acqua dolce consumata negli States è destinata alle coltivazioni di alimenti per il bestiame: è stato calcolato che un chilo di manzo si beve 3.200 litri d’acqua». Risultato: le falde acquifere del Midwest e delle Grandi Pianure statunitensi si stanno esaurendo. Non solo: l’allevamento richiede ingenti quantità di sostanze chimiche tra fertilizzanti, diserbanti, ormoni, antibiotici: «Tutti prodotti dalle stesse, poche multinazionali che detengono il monopolio dei semi usati per coltivare cereali e legumi destinati ad alimentare il bestiame», fa notare Enrico Moriconi, veterinario e ambientalista, nelle pagine del suo “Le fabbriche degli animali” (Edizioni Cosmopolis).«Ogni anno in Europa gli animali da allevamento consumano 5.000 tonnellate di antibiotici, di cui 1.500 per favorirne la crescita, e tutti vanno a finire nelle falde acquifere», incalza Marinella Correggia, attivista della Global Hunger Alliance e autrice di “Addio alle carni” (Lav). Roberto Marchesini, docente di bioetica e zoo-antropologia, autore di “Post-human” (Bollati Boringhieri) svela che nel bacino del Po, ogni anno, «vengono riversate 190.000 tonnellate di deiezioni animali: contengono metalli pesanti, antibiotici e ormoni». Con quali conseguenze? Per esempio, le alghe abnormi nell’Adriatico. Marchesini parla di «fecalizzazione ambientale». E Rifkin ci illumina sulla portata del problema: un allevamento medio produce 200 tonnellate di sterco al giorno. «C’è dell’altro: i bovini sono responsabili dell’effetto serra tanto quanto il traffico veicolare del mondo intero a causa dell’uso di petrolio (22 grammi per produrre un chilo di farina contro 193 per uno di carne), delle emissioni di metano dovute ai processi digestivi (60 milioni di tonnellate ogni anno) e dell’anidride carbonica scatenata dal disboscamento».E’ la stessa Fao a fornire un elenco agghiacciante dei problemi causati dagli allevamenti intensivi: riduzione della bio-diversità, erosione del terreno, effetto serra, contaminazione delle acque e dei terreni, piogge acide a causa delle emissioni di ammoniaca. E tutto questo per cosa? Per quelle che Frances Moore Lappé, autrice di “Diet for a small planet”, definisce «fabbriche di proteine alla rovescia». Occorre un chilo di proteine vegetali per avere 60 grammi di proteine animali. «Per produrre una bistecca che fornisce 500 calorie», spiegano gli autori di “Assalto al pianeta” (Bollati Boringhieri), «il manzo deve ricavare 5.000 calorie, il che vuoi dire mangiare una quantità d’erba che ne contenga 50.000». Attenzione: «Solo un centesimo di quest’energia arriva al nostro organismo: il 99% viene dissipata, usata per il processo di conversione e per il mantenimento delle funzioni vitali, espulsa o assorbita da parti che non si mangiano, come ossa o peli». Il bestiame? E’ una fonte di alimentazione altamente idrovora ed energivora, una massa bovina che ingurgita tonnellate di acqua ed energia. E lo fa per nutrire solo il 20% della popolazione globale del pianeta: quel 20% che sfrutta l’80% delle risorse mondiali, per non rinunciare alla sua bistecca quotidiana. «Nel mondo c’è abbastanza per i bisogni di tutti, ma non per l’ingordigia di alcuni», diceva Gandhi.Ingordigia che ha raggiunto livelli esorbitanti: dal dopoguerra a oggi, in Europa, siamo passati da circa 7-15 chili di consumo pro capite all’anno a 85-90 (110-120 negli States), riferisce Marchesini. Secondo Moore Lappé, le tonnellate di cereali e soia che nutrono gli animali da carne basterebbero per dare una ciotola di cibo al giorno a tutti gli esseri umani per un anno. E la Fao conferma: una dieta vegetariana mondiale potrebbe dar da mangiare a 6,2 miliardi di persone, mentre un’alimentazione che limiti la carne al 25% può sfamarne solo 3,2 miliardi. La spiacevole sorpresa? La domanda di carne sta crescendo. «Paesi come la Cina stanno abbandonando riso e soia a favore di abitudini occidentali», scrive Sabbadini: «Stiamo esportando il nostro modello alimentare (e che modello!)». Secondo l’Ifpri, entro il 2020 la domanda di carne nei paesi in via di sviluppo aumenterà del 40%: questo significherà oltre 300 milioni di tonnellate di bistecche. E raddoppierà, sempre nei paesi in via di sviluppo, la domanda di cereali zootecnici: fino a raggiungere 445 milioni di tonnellate di carne. «Richieste incompatibili con la salute del pianeta e con un equo sfruttamento delle risorse». Una slavina inarrestabile, globalizzata. Si chiama: rivoluzione zootecnica. «Significa spostare nel Sud del mondo la produzione di carne».La Banca Mondiale sovvenziona, in Cina, l’industria dell’allevamento e della macellazione. «Ma sbaglia: suolo e acqua non bastano per sfamare il mondo a suon di bistecche e hamburger», scrive “Disinformazione.it”. «Con un terzo della produzione di cereali destinata agli animali e la popolazione mondiale in crescita deI 20% ogni dieci anni», prevede Rifkin, «si sta preparando una crisi alimentare planetaria». Rincara la dose Correggia: «E’ stato calcolato che l’impronta ecologica di una persona che mangia carne, cioè suo il consumo di risorse, di 4.000 metri quadrati di terreno, contro i mille sufficienti a un vegetariano». Allo stato attuale, «la disponibilità di terra coltivabile per ogni abitante della terra è di 2.700 metri quadrati». Ancora: un ettaro di terra a cereali per il bestiame dà 66 chili di proteine, che diventano 1.848 (28 volte di più!) se lo stesso terreno viene coltivato a soia. Ancora Rifkin: «Ogni chilo di carne è prodotto a spese di una foresta bruciata, di un territorio eroso, di un campo isterilito, di un fiume disseccato, di milioni di tonnellate dì anidride carbonica e metano rilasciate nell’atmosfera».La nuova dimensione del male, ragiona Sabbadini, è intimamente connessa con il complesso bovino moderno, che ha acquisito i caratteri di un male occulto, inflitto a distanza: è un male camuffato da strati sovrapposti di veli tecnologici e istituzionali. «Un male cosi lontano, nel tempo e nel luogo, da chi lo commette e da chi lo subisce, da non lasciar sospettare o avvertire alcuna relazione causale». E’ un male che non può essere avvertito, data la sua natura impersonale. «E’ probabile che i proprietari dei negozi in cui si vende carne di bovini nutriti a cereali non avvertano mai, personalmente, la disperazione delle vittime della povertà, di quei milioni di famiglie allontanate dalla propria terra per fare spazio a coltivazioni di prodotti destinati esclusivamente all’esportazione. E che i ragazzi che divorano cheeseburger in un fast-food non siano consapevoli di quanta superficie di foresta pluviale sia stata abbattuta e bruciata per mettere a loro disposizione quel pasto». Il consumatore che acquista una bistecca al supermercato non si sente responsabile dell’immensità del dolore che il suo gesto provoca. «Abbiamo appiattito la ricchezza organica dell’esistenza, trasformando il mondo che ci circonda in astratte equazioni algebriche, statistiche e standard di performance economica».Il male occulto? Viene perpetuato da istituzioni e individui: il mercato, la globalizzazione del profitto. In un mondo di questo genere, conclude Sabbadini, ci sono ben poche occasioni per essere in sintonia con l’ambiente e proteggere i diritti delle future generazioni. «L’effetto sull’uomo e sull’ambiente del modo moderno di pensare e di strutturare le relazioni è stato quasi catastrofico: ha indebolito gli ecosistemi e minato alla base la stabilità e la sostenibilità delle comunità umane. La grande sfida che dobbiamo affrontare è rappresentata dal lato oscuro della moderna visione del mondo: dobbiamo reagire al male occulto che sta trasformando la natura e la vita in risorse economiche che possono essere mediate, manipolate e ricostruite tecnologicamente, per adeguarle ai ristretti obiettivi dell’utilitarismo e dell’efficienza economica». Primo passo necessario: «Diventare consapevoli dei meccanismi di sfruttamento del pianeta di cui siamo complici». Il secondo passo «non è fare la rivoluzione, e non è neanche aderire a questa o quest’altra organizzazione alternativa (per quanto possa essere positivo), ma è far seguire conseguenti e coerenti azioni personali in armonia con una vita etica e rispettosa dell’ambiente e del prossimo. Se vogliamo cambiare il mondo dobbiamo iniziare da noi stessi».Secondo l’economista Jeremy Rifkin, uno dei più famosi teorici no-global, il consumo di carne è direttamente responsabile del rischio-fame per due miliardi di persone: il “racket dell’hamburger” assorbe il 36% della produzione mondiale di grano, destinato a mangimi. «Centinaia di milioni di persone nel mondo lottano ogni giorno contro la fame perché gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per la coltivazione di cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all’alimentazione umana», scrive Maurizio Sabbadini. «I ricchi del pianeta consumano carne bovina e suina, pollame e altri di tipi di bestiame, tutti nutriti con foraggio, mentre i poveri muoiono di fame». Europa, Nord America e Giappone stanno letteralmente divorando il patrimonio alimentare dell’intero pianeta. Oggi, oltre il 70% per cento del grano prodotto negli Usa è destinato all’allevamento del bestiame, in gran parte bovino. «Sfortunatamente, di tutti gli animali domestici, i bovini sono fra i convertitori di alimenti meno efficienti: sperperano energia e sono da molti considerati “le Cadillac delle fattorie”». Per far ingrassare di mezzo chilo un manzo, occorrono oltre 4 chili di foraggio, di cui oltre 2 chili e mezzo sono cereali e sottoprodotti di mangimi, e il restante chilo e mezzo è paglia tritata. «Questo significa che solo l’11% del foraggio assunto dal manzo diventa effettivamente parte del suo corpo».
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Antenati misteriosi: chi è Homo Naledi, l’Uomo delle Stelle?
Sono passati meno di due anni dall’annuncio della scoperta di una nuova specie umana, l’Homo Naledi, in una grotta sudafricana contenente più di 1.500 reperti fossili. La morfologia di questa specie, scrive Andrea Parravicini su “Micromega”, è un sorprendente mix di caratteri “trattenuti”: un cervello piccolo, una corporatura somigliante a un’australopitecina (come la famosa Lucy) o ai primi rappresentanti del genere Homo, mescolata a caratteri “derivati”, più “moderni”, come le mani adatte a manipolare oggetti o i piedi da camminatore bipede. Recenti studi collocano questa specie in un’epoca sorprendentemente recente, contemporanea all’emergere dei primi umani moderni, e che confermano la possibilità di comportamenti complessi, o addirittura simbolici, da parte di questa strana ed enigmatica creatura. Nel ssettembre 2015, la rivista scientifica “eLife” annunciava la scoperta, avvenuta circa un anno e mezzo prima. In lingua Sotho, “Naledi” significa “stella”: «Una stella nel firmamento dell’evoluzione umana che oggi, a distanza di quasi due anni, continua a brillare intensamente, soprattutto per via dei nuovi dettagli e di ulteriori scoperte che alimentano interesse e curiosità riguardo a questo nostro misterioso “cugino”».La pubblicazione, aggiunge Parravicini, ha avuto risonanza in tutto il mondo, anche per via di un’abile operazione di marketing. Situato nell’area dove si trova la cosiddetta “Culla dell’umanità”, un sito dichiarato patrimonio dell’Unesco dal 1999 e che ha restituito parecchi resti di forme ominine, “Rising Star” è un intricato complesso di grotte a circa 50 chilometri da Johannesburg, in Sudafrica. Tra queste grotte, una camera posta a una trentina di metri di profondità e raggiungibile solo attraverso uno stretto pertugio si è rivelata una miniera d’oro per gli studiosi di evoluzione umana. In essa, chiamata “Dinaledi chamber”, il team di Lee Berger dell’Università Witwatersrand ha rinvenuto più di 1.550 ossa umane, appartenenti ad almeno 15 individui (se si contano solo le ossa associate tra loro, e non le innumerevoli altre appartenenti a parecchi altri individui). Scoperta che «coincide con il più grosso ritrovamento di ossa di ominini mai avvenuto, un vero e proprio giacimento, che permetterà agli scienziati di condurre uno studio esteso e approfondito, con un confronto tra le parti anatomiche di molti individui diversi, maschi e femmine, vecchi e giovani».Dai primi studi è emerso subito chiaramente che le ossa appartenevano tutte a una nuova specie umana, l’Homo Naledi per l’appunto. Mostra una conformazione di tratti “a mosaico”, antichi e più recenti, spiega Parravicini: siamo di fronte a una specie dalla morfologia «sconcertante, con una statura di circa un metro e mezzo per un peso di 40-55 kg, con una conformazione del cranio simile agli altri Homo ma con un cervello molto piccolo, grande un terzo del nostro (560cc nei maschi), con spalle e mani adatte all’arrampicata e ad afferrare rami, con dita ricurve ma pollici lunghi e solidi, e polsi e palmi dotati, come i nostri, di adattamenti per la manipolazione fine e la presa di precisione». Anche i piedi e gli arti inferiori sono simili a quelli dell’uomo moderno. «E non c’è dubbio che, da quanto si è inferito dalle conformazioni del tarso, dell’alluce e dall’articolazione della caviglia, Homo Naledi fosse in grado di camminare e di mantenere la stazione eretta», anche se «la presenza di falangi prossimali ricurve fa pensare a una forma particolarmente idonea all’arrampicamento sugli alberi». Infine, «la meccanica dell’anca e la conformazione del bacino ricordano quelle degli australopitechi, ma la mandibola debole e i denti piccoli sono caratteristiche derivate». L’impressione, osserva Parravicini, è quella di trovarsi di fronte a una forma di transizione tra l’australopiteco e forme più recenti come Homo Habilis», vissute circa 2 milioni di anni fa, insieme a Homo Rudolfensis e Homo Ergaster.Ma in che modo quelle migliaia di ossa trovate a Rising Star sono finite in quell’anfratto recondito e buio, a molti metri di profondità e difficilmente raggiungibile da chiunque? Su “eLife”, Paul Dirks e colleghi escludono che siano state cause accidentali ad accumulare una massa di resti ossei così ingente: improbabile un cataclisma. Forse, ipotizzano gli studiosi, «siamo di fronte a una deposizione intenzionale e ripetuta di corpi, o a un qualche tipo di sepoltura», anche se non per forza un comportamento “ritualizzato” o con significati simbolici. «Io penso che dev’esserci un’altra spiegazione, solo che non l’abbiamo ancora trovata», afferma Bernard Wood, paleoantropologo della George Washington University. Qualcuno ha anche proposto che quell’accumulo impressionante di corpi possa essere la conseguenza di omicidi per via di guerre o sacrifici: sarebbe il primo, antecedente al Neolitico; finora, i reperti rinvenuti nel Paleolitico – secondo gli studiosi – non suggeriscono la presenza della guerra, mancando ritrovamenti di più corpi nello stesso luogo, con segni evidenti di violenza (cranio sfondato).La precisa datazione dei reperti è stata recentemente stabilita dall’équipe di Paul Dirks della James Cook University, in Australia, combinando differenti metodologie di analisi. «Lo studio ha ottenuto risultati davvero sorprendenti, che assegnano Homo Naledi allo scenario meno prevedibile: esso risalirebbe a un periodo collocabile tra 236.000 e 335.000 anni fa, quando i primi umani moderni stavano emergendo in Africa e i Neanderthal stavano evolvendo in Europa». Questo significa che «un omino con un cervello grande un terzo rispetto al nostro e una corporatura tipica di forme di più di 2 milioni di anni fa, pur esibendo qui e là caratteri sorprendentemente moderni, si aggirava nelle stesse zone in cui stavano emergendo umani già pienamente moderni». Una datazione, osserva Parravicini, che pone agli studiosi di evoluzione non pochi problemi. Dirks colloca Homo Naledi «in un momento in cui troviamo molti strumenti in Africa. E ciò significa che non è più possibile dare per scontato che questi strumenti siano stati costruiti dai primi Homo Sapiens».Un’ulteriore scoperta, aggiunge Parravicini, è stata fatta in un’altra grotta del complesso di Rising Star. Nella Lesedi Chamber, posta a un centinaio di metri dalla Dinaledi Chamber e a trenta metri di profondità, sono stati trovati altri 131 reperti fossili associati a Homo Naledi, appartenenti almeno a tre individui, due adulti e un individuo molto giovane, presumibilmente di età inferiore a 5 anni. Da questi ultimi ritrovamenti è emerso «uno dei più completi scheletri mai scoperti, tecnicamente più completo del famoso fossile di Lucy grazie alla conservazione del cranio e della mandibola». Accedere alla Lesedi Chamber è ancora più difficile rispetto alla Dinaledi. E questo, rileva John Hawks, antropologo all’Università di Wisconsin-Madison, «dà peso all’ipotesi che Homo Naledi sfruttasse luoghi scuri e remoti per conservare i suoi morti». Un comportamento analogo a quello ipotizzato per i 6.500 resti umani trovati a Sima de los Huesos, nella Sierra de Atapuerca in Spagna, in cui pare che anche Neanderhtal occultasse i propri compagni morti già 400.000 anni fa. «Ma l’aspetto sconcertante – osserva Parravicini – è che questo comportamento, profondamente tipico di noi esseri umani, di prenderci cura dei nostri simili anche dopo la loro morte, possa essere condiviso da una forma umana da un cervello grande come quello di un gorilla».Ma, in definitiva, cos’è questa bizzarra specie umana vissuta alle soglie della storia? E come va collocata all’interno dell’intricato cespuglio dell’evoluzione umana? Secondo Chris Stringer del National History Museum di Londra, Homo Naledi potrebbe essersi originato in un’epoca vicina all’emergere del genere Homo, più di 2 milioni e mezzo di anni fa, suggerendo che si tratti di una “specie fossile”, un relitto evolutivo isolato che ha mantenuto molti tratti primitivi sviluppati parecchio tempo prima. Qualcosa di analogo potrebbe essere accaduto anche a Homo Floresiensis, un’altra misteriosa specie rinvenuta sull’isola di Flores, in Indonesia, denominata “hobbit” per il corpo piccolo ed esile, i cui più recenti rappresentanti sono vissuti fino a 60.000 anni fa, forse «diretti discendenti di una popolazione di antenati di Homo Habilis». Tuttavia, fa notare Stringer, le condizioni di isolamento dello “hobbit” di Flores (Isole della Sonda) hanno senz’altro contribuito alla sua grande longevità, mentre nel caso del Naledi lo scenario è quello sudafricano, aperto, in cui si aggiravano altre forme ben più “avanzate” di esseri umani, dal cervello molto più grande. Lee Berger e colleghi accarezzano l’idea che Homo Naledi possa addirittura essere «il frutto di un’ibridazione tra una specie tarda di australopitecina e una popolazione più simile a una specie umana». Quel che è certo, conclude Parravicini, è che la storia evolutiva del nostro genere diventa sempre più intricata e complessa: in altre parole, quel che credevamo di sapere non era esatto.Sono passati meno di due anni dall’annuncio della scoperta di una nuova specie umana, l’Homo Naledi, in una grotta sudafricana contenente più di 1.500 reperti fossili. La morfologia di questa specie, scrive Andrea Parravicini su “Micromega”, è un sorprendente mix di caratteri “trattenuti”: un cervello piccolo, una corporatura somigliante a un’australopitecina (come la famosa Lucy) o ai primi rappresentanti del genere Homo, mescolata a caratteri “derivati”, più “moderni”, come le mani adatte a manipolare oggetti o i piedi da camminatore bipede. Recenti studi collocano questa specie in un’epoca sorprendentemente recente, contemporanea all’emergere dei primi umani moderni, e che confermano la possibilità di comportamenti complessi, o addirittura simbolici, da parte di questa strana ed enigmatica creatura. Nel ssettembre 2015, la rivista scientifica “eLife” annunciava la scoperta, avvenuta circa un anno e mezzo prima. In lingua Sotho, “Naledi” significa “stella”: «Una stella nel firmamento dell’evoluzione umana che oggi, a distanza di quasi due anni, continua a brillare intensamente, soprattutto per via dei nuovi dettagli e di ulteriori scoperte che alimentano interesse e curiosità riguardo a questo nostro misterioso “cugino”».
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Ricerca inglese: ecco come morì davvero l’Isola di Pasqua
Come morirono gli abitanti dell’Isola di Pasqua? La fine della popolazione di Rapa Nui è da sempre avvolta nel mistero. Secondo alcune teorie formulate qualche tempo fa quando i conquistatori europei arrivarono sull’isola nel 1722 si trovarono di fronte una situazione catastrofica. Tutte le riserve di cibo erano terminate, a causa della sfruttamento delle risorse naturali e la popolazione era stremata dalla guerra civile e dalle malattie portate dai colonizzatori. In seguito il disboscamento avrebbe portato all’esaurimento del legno per realizzare le canoe, sottraendo alla popolazione autoctona qualsiasi possibilità di sopravvivenza e spingendola a sfamarsi unicamente con i ratti. La popolazione di Rapa Nui morì di fame? Secondo alcune recenti scoperte non andò proprio così e gli abitanti dell’isola non avrebbero compiuto un “ecocidio”, ma si sarebbero adattati alle condizioni dell’area, mostrando una forte sensibilità ecologica.Questa affascinante ipotesi è stata portata alla luce da uno studio dell’Università di Bristol, in Gran Bretagna, pubblicato sull’American Journal of Physical Anthropology. Gli studiosi hanno scoperto che gli abitanti si nutrivano soprattutto di pesce e frutti di mare, mentre il suolo veniva trattato con fertilizzanti naturali per renderlo fertile. La nuova scoperta è avvenuta grazie all’analisi al radiocarbonio su resti di piante, ossa umane e animali del 1400. La ricerca ha consentito di capire di cosa si nutrivano gli abitanti di Rapa Nui. Il risultato? La popolazione dell’Isola di Pasqua non mangiava ratti, ma si nutriva anche di frutta e verdura. Non solo: all’epoca esisteva una consapevolezza della povertà del suolo e una volontà di preservarlo, facendo molta attenzione allo sfruttamento delle risorse. Questo aspetto sino ad oggi era completamente sfuggito agli archeologi, che invece avevano dipinto la tribù dell’isola come votata ad una sorta di “suicidio”, provocato dal disboscamento e dall’utilizzo senza criterio dei terreni. Ora l’analisi dei resti ha consentito di riscrivere il passato e raccontare una nuova storia sui misteri dell’Isola di Pasqua.(“Isola di Pasqua, ecco come sono morti – davvero – gli abitanti”, da “Libero Notizie” del 30 luglio 2017).Come morirono gli abitanti dell’Isola di Pasqua? La fine della popolazione di Rapa Nui è da sempre avvolta nel mistero. Secondo alcune teorie formulate qualche tempo fa quando i conquistatori europei arrivarono sull’isola nel 1722 si trovarono di fronte una situazione catastrofica. Tutte le riserve di cibo erano terminate, a causa della sfruttamento delle risorse naturali e la popolazione era stremata dalla guerra civile e dalle malattie portate dai colonizzatori. In seguito il disboscamento avrebbe portato all’esaurimento del legno per realizzare le canoe, sottraendo alla popolazione autoctona qualsiasi possibilità di sopravvivenza e spingendola a sfamarsi unicamente con i ratti. La popolazione di Rapa Nui morì di fame? Secondo alcune recenti scoperte non andò proprio così e gli abitanti dell’isola non avrebbero compiuto un “ecocidio”, ma si sarebbero adattati alle condizioni dell’area, mostrando una forte sensibilità ecologica.
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L’élite a caccia di sangue giovane, pare ritardi la vecchiaia
Sangue umano? Buono, ottimo. Specie se giovane. «Quella che una volta era solo una delle fantasie dei teorici della cospirazione – i ricchi ingerivano il sangue dei giovani per favorire la longevità – è ormai una realtà e un vero e proprio business negli Stati Uniti», scrive il blog “La Crepa nel Muro”, rivelando che diversi miliardari oggi ammettono di essere interessati ad esso. «Hanno scoperto che il sangue di topi giovani, iniettato in topi anziani, ha un enorme effetto ringiovanente», ha detto Peter Thiel, co-fondatore di PayPal, alla rivista “Inc Magazine”: «Penso che ci siano un sacco di queste cose, che sono state stranamente sottovalutate». Ma non è più un esperimento che riguardi solo i topi: la società startup di Jesse Karmazin, Ambrosia, sta facendo la stessa cosa con gli esseri umani. E molti “paperoni” sono in coda per ricevere il sangue dei giovani. Come riporta “Vanity Fair”, Ambrosia acquista liquido biologico dalle banche del sangue e ha già circa 100 clienti paganti: alcuni sono tecnologi della Silicon Valley, come Thiel. Ma i compratori non si servono solo da Ambrosia. E comunque, chi ha più di 35 anni ha diritto alle trasfusioni.Un recente studio pubblicato su “Science” e “Nature Medicine” ha rivelato che trasfondere il sangue di un giovane topo in esemplari più anziani può limitare l’apparire dei sintomi dell’invecchiamento. Questa scoperta rivoluzionaria potrebbe portare a progressi medici e allo sviluppo di nuovi farmaci, aggiunge “La Crepa nel Muro”. Tuttavia, la rivista medica “Vice Tonic” suggerisce l’esistenza di applicazioni molto più sinistre: scrive che «le élites che invecchiano usano il sangue dei giovani come una sorta di siero di giovinezza». Una richiesta simile è stata fatta dal giornalista Jeff Bercovici l’anno scorso, dopo aver condotto diverse interviste con gli aristocratici della Silicon Valley, tra cui Peter Thiel, e aver imparato a conoscere questa procedura trasfusionale, chiamata “parabiosis”, in cui viene utilizzato il sangue dei giovani per prevenire l’invecchiamento. «Ci sono voci diffuse nella Silicon Valley, dove la scienza per l’estensione della vita è un’ossessione popolare». Si racconta che vari boss dell’hi-tech abbiano già cominciato a praticare la “parabiosis”, spendendo decine di migliaia di dollari per ottenere il sangue, anche perché ripetono la pratica varie volte l’anno.Nel suo articolo, Bercovici esprime preoccupazione per lo sviluppo di un mercato nero per il sangue dei giovani. «Mentre non v’è nulla di sbagliato se giovani maggiorenni consenzienti vendono del sangue all’élite, il tema di fondo di questa pratica ha forti radici nell’occulto», avverte “La Crepa nel Muro”. «Nella maggior parte delle culture moderne, omicidi di massa e sacrifici umani si verificano ancora a cielo aperto sotto la copertura della guerra, e il cannibalismo è un’altra pratica diffusa». Addirittura: «E’ solo nelle ultime centinaia di anni che le pratiche di cannibalismo non ricevono più pubblicità. In Europa, intorno al periodo della Rivoluzione Americana, la “medicina dei cadaveri” era molto popolare tra la classe dirigente, Charles II anche ne ha usufruito». Il dottor Richard Sugg, della Durham University, ha condotto approfondite ricerche nella pratica della “medicina cadavere” tra i reali. «Il corpo umano è stato ampiamente usato come agente terapeutico con i trattamenti più popolari con carne, ossa e sangue», afferma il medico. «Il cannibalismo è stato trovato non solo nel Nuovo Mondo, come si credeva, ma anche in Europa», aggiunge Sugg.Una cosa che ci viene raramente insegnata a scuola, ma che è presente in testi letterari e storici del tempo, è questa: Giacomo I rifiutò la “medicina cadavere”, mentre Carlo II ne fece largo uso. E anche Carlo I ha fatto ricorso alla “medicina cadavere”. «Insieme a Carlo II, vi sono eminenti pazienti che hanno usufruito di tale tipo di medicina, tra cui Francesco I, il chirurgo di Elisabetta I John Banister, Elizabeth Gray, contessa di Kent, Robert Boyle, Thomas Willis, Guglielmo III e la Regina Maria», sostiene il dottor Sugg. Se questo non fosse abbastanza strano, aggiunge “La Crepa nel Muro”, l’attuale famiglia reale d’Inghilterra sostiene di essere discendente diretta del principe Vlad III Dracula di Valacchia (moderna Romania): «Il folle e depravato Vlad l’Impalatore, che era conosciuto come un macellaio e che alla fine divenne l’ispirazione per la più famosa storia di vampiri». A parte il contesto storico e occulto raccapricciante di tali pratiche, continua il blog, v’è una mancanza di dati che suggerisce che il procedimento possa funzionare: nonostante le dichiarazioni di Karmazin, il fondatore di Ambrosia, secondo cui «il sangue giovane sembra invertire il processo di invecchiamento», gli scienziati devono ancora trovare il legame tra una trasfusione di sangue giovane ed eventuali, tangibili benefici per la salute.Non c’è ancora nessun evidenza clinica che il trattamento sia benefico, sostiene un neuroscienziato come Tony Wyss-Coray della Stanford University, che ha condotto uno studio nel 2014 sul giovane plasma sanguigno nei topi, presentato sulla rivista “Science. Secondo Wyss-Coray, si sta sostanzialmente abusando della fiducia dei “pazienti”. Anche secondo un altro scienziato, Bradley Wise, è ancora troppo presto per raccomandare trasfusioni di sangue da persone giovani a persone anziane, raccontando loro che potrebbero “disinfiammare” il sistema circolatorio intervenendo in modo positivo nel prevenire gravi patologie come Alzheimer, malattie cardiache, diabete, ictus e cancro. Ma non tutti la pensano così. Tra i possibilisti figura Rudolph Tanzi, professore di neurologia a Harvard e direttore dell’Unità di ricerca sulla genetica e l’invecchiamento del Massachusetts General Hospital. «Sono rimasto davvero a bocca aperta leggendo questi risultati», dichiara a “National Geographic”. Secondo Tanzi, gli studi sul sangue dei topi potrebbero segnare una svolta nella medicina: «In qualche modo il sangue giovane ferma l’infiammazione nel corpo e nel cervello, che è uno dei problemi principali che conducono al deterioramento prodotto dalla vecchiaia». Vuoi vedere che certe élite lo “sapevano” da sempre? E che il romanzo di Bram Stoker sul tenebroso succhia-sangue dei Carpazi alludeva a qualcosa di più sinistramente vicino a noi?Sangue umano? Buono, ottimo. Specie se giovane. «Quella che una volta era solo una delle fantasie dei teorici della cospirazione – i ricchi ingerivano il sangue dei giovani per favorire la longevità – è ormai una realtà e un vero e proprio business negli Stati Uniti», scrive il blog “La Crepa nel Muro”, rivelando che diversi miliardari oggi ammettono di essere interessati ad esso. «Hanno scoperto che il sangue di topi giovani, iniettato in topi anziani, ha un enorme effetto ringiovanente», ha detto Peter Thiel, co-fondatore di PayPal, alla rivista “Inc Magazine”: «Penso che ci siano un sacco di queste cose, che sono state stranamente sottovalutate». Ma non è più un esperimento che riguardi solo i topi: la società startup di Jesse Karmazin, Ambrosia, sta facendo la stessa cosa con gli esseri umani. E molti “paperoni” sono in coda per ricevere il sangue dei giovani. Come riporta “Vanity Fair”, Ambrosia acquista liquido biologico dalle banche del sangue e ha già circa 100 clienti paganti: alcuni sono tecnologi della Silicon Valley, come Thiel. Ma i compratori non si servono solo da Ambrosia. E comunque, chi ha più di 35 anni ha diritto alle trasfusioni.
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Bufale giganti: per seppellire indizi sui “giganti” veri?
Scheletri di giganti alti 4 metri, scoperti in America e subito occultati: scoperta clamorosa, ma “insabbiata” da una autorevolissima istituzione scientifica come la Smithsonian Institution, un glorioso organismo scientifico finanziato dal governo degli Stati Uniti. Una sentenza della Corte Suprema americana, si legge sul web in diversi blog, avrebbe «costretto la Smithsonian Institution a rilasciare i documenti classificati risalenti agli inizi del 1900 che dimostrano che l’organizzazione è stata coinvolta in una grande, storica copertura di prove». Documenti che proverebbero «la scoperta di migliaia di scheletri di giganti umani rinvenuti in tutta l’America: fu ordinato di distruggerli dagli amministratori di alto livello per proteggere la principale cronologia corrente dell’evoluzione umana». Davvero? Niente affatto: quegli scheletri non sono mai stati distrutti. E per un semplice motivo: non sono mai esistiti. Lo ripetono in coro altre fonti, sempre su Internet, secondo cui la storia rientrerebbe tra le classiche “fake news”, sempre più in voga per gettare discredito sulle vere notizie che circolano sul web, disturbando gli omertosi silenzi del mainstream.Le accuse sarebbero state mosse «dall’istituzione americana di Alternative Archeology (Aiaa)», che affermerebbe che la Smithsonian Institution «aveva distrutto migliaia di scheletri di giganti umani nei primi anni del 1900», scrive il blog “Compl8”. «E questa accusa non è stata presa alla leggera da parte della Smithsonian, che ha risposto facendo causa all’organizzazione per diffamazione», visto che l’iniziativa finirebbe per danneggiare la reputazione di un istituto culturale che ha da 168 anni di storia: basato a Washington ma con 19 musei, negli Usa e non solo, lo Smithsonian dispone di 142 milioni di pezzi, nelle sue collezioni, che ne fanno il più grande complesso di musei al mondo. La storia degli scheletri dei giganti, tenuta nascosta fino alla denuncia avallata dalla Corte Suprema? Tutto falso, assicurano siti come “ThatsFake.com” e “BadSatireToday.com”: una vicenda inventata, di sana pianta, da un’unica fonte, il sito “World News Daily Report”, che si definisce «giornale ebreo sionista americano basato a Tel Aviv, specializzato in archeologia biblica e altri misteri della Terra». Il newsmagazine, attivo dal 1988 e con alle spalle oltre 200.000 edizioni, dichiara di essere gestito da giornalisti pluri-premiati «cristiani, musulmani ed ebrei», nonché da «ex agenti del Mossad e veterani dell’esercito israeliano». Il sito però non ne riporta i nomi, e lo stesso “scoop” sugli scheletri extra-large non è firmato.La tesi sostenuta: durante «la causa in tribunale», sarebbero stati «portati alla luce molti elementi», tanto da costringere «molti informatori della Smithsonian» ad ammettere l’esistenza di documenti che, «presumibilmente», comprovavano «la distruzione di decine di migliaia di scheletri di giganti». Esseri decisamente fuori misura, «che raggiungevano un’altezza tra i 6 e 12 piedi (fra circa 2 metri e 4 metri)». Il “World News Daily Report” cita un nome, quello di James Churward, definito «il portavoce Aiaa», associazione archeologica che “UnveilingKnowledge.com” definisce «immaginaria»: sul web non esiste proprio, non dispone di un sito. Nessuna traccia nemmeno del James Churward, citato dal newsmagazine israeliano. L’accusa: «C’è stata una copertura importante dalle istituzioni archeologiche occidentali, fin dai primi anni del 1900, per farci credere che l’America è stata colonizzata da popolazioni asiatiche che migrarono attraverso lo stretto di Bering circa 15.000 anni fa, quando in realtà, ci sono centinaia di migliaia di sepolture e tumuli in tutta l’America, che i nativi affermano che esistevano già prima di loro, e che mostrano tracce di una civiltà altamente sviluppata, con un uso complesso di leghe metalliche, e in cui si trovano gli scheletri di giganti umani, ma ancora non vengono denunciati dai media e dalle agenzie di stampa».Si cita anche l’enorme femore che sarebbe stato scoperto in Ohio nel 2011, ma il “World News Daily Report” va oltre: sostiene che in sede giudiziaria sarebbe stato esibito «un osso lungo 1,3 metri» che, nientemeno, sarebbe stato «rubato dalla Smithsonian da uno dei loro stessi curatori di alto livello a metà degli anni ’30, che aveva conservato l’osso per tutta la vita, e che sul letto di morte aveva ammesso per iscritto che ci furono operazioni sotto copertura dello Smithsonian per far sparire questi scheletri di giganti definitivamente». E ancora: «Stiamo nascondendo la verità sui progenitori dell’umanità, i nostri antenati, i giganti che popolavano la terra come ricordato anche nella Bibbia e nei testi antichi del mondo». Il sito “ThatsFake” smentisce tutto e dichiara falsa l’intera ricostruzione: la denuncia, la causa legale, tutto quanto. «L’intero articolo è una bufala», scrive. «Non è mai stata effettuata alcuna ammissione di quel genere da parte dello Smithsonian». L’esistenza di esseri umani giganti, quelli che la stessa Bibbia chiama “Nephilim”, oppone da lungo tempo evoluzionisti e creazionisti, aggiunge “ThatsFake”. «Ciò ha portato a molte teorie del complotto, che sostengono lo Smithsonian ed enti governativi abbiano coperto l’esistenza di esseri umani giganti per “proteggere la teoria dell’evoluzione umana”».Sempre il sito anti-bufale ammette che il web pullula di foto che ritraggono persone accanto a ossa gigantesche, in apparenza umane, ma sostiene che «è dimostrato che la maggior parte di queste sono state manipolate digitalmente». I giganti, comunque, appassionano: “Esoterya.com” riferisce del ritrovamento di «resti scheletrici di un essere umano di dimensioni fenomenali» scoperto nel 2004 nel nord dell’India da ricercatori di “National Geographic”, subito però “blindati” «dall’esercito indiano». Molti hanno dato la notizia per falsa, aggiunge “Esoterya”, che però cita «il femore di un gigante» che sarebbe stato «spedito in Spagna da Hernán Cortés durante la conquista del Messico». Tracce di altri “giganti” sarebbero state avvistate da esploratori come Magellano, Drake, Hernández , mentre «alcuni soldati a Lampock Ranch, in California, rinvennero lo scheletro di un gigante», ma purtroppo «un frate cattolico ordinò loro di sotterrarlo nuovamente perché i nativi locali erano adirati da tale profanazione», attribuendo quei resti «a un antico dio». Non c’è odore di “fake news”, invece, nel Gigante di Castelnau, cioè i tre frammenti ossei fossili (probabilmente omero, tibia e femore) scoperti dall’antropologo Georges Vacher de Lapouge nel 1890, in Francia.Quei resti affiorarono da un tumulo relativo a una sepoltura dell’Età del Bronzo, databile probabilmente al Neolitico. «Secondo de Lapouge – si legge su Wikipedia – le ossa fossili potrebbero appartenere ad uno dei più grandi esseri umani mai esistiti. Sulla base della dimensione dei frammenti, egli riteneva che l’uomo potesse essere alto circa 3,5 metri». Sui frammenti ossei del presunto gigante, aggiunge Wikipedia, non sono stati pubblicati studi moderni con revisione paritaria. Però il Gigante di Castelnau fu studiato all’università di Montpellier da Sabatier e Delage, professori rispettivamente di zoologia e paleontologia, oltre ad altri anatomisti. «Nel 1892, i frammenti furono approfonditamente studiati dal dottor Paul Louis André Kiener, professore di anatomia patologica presso la Scuola di Medicina di Montpellier». Kiener concluse che i frammenti «rappresentavano “una razza molto alta”, non trovandoli però anomali nelle dimensioni». Due anni dopo, notizie di stampa riportarono un’ulteriore scoperta di ossa umane “giganti” rinvenute nel corso dello scavo di un’area cimiteriale preistorica a Montpellier, ad appena 5 chilometri da Castelnau, individuata durante scavi per opere idriche. «Si rinvennero teschi che misuravano “28, 31 e 32 pollici di circonferenza”, assieme ad altre ossa di proporzioni gigantesche che indicavano l’appartenenza a una popolazione umana alta “tra 10 e 15 piedi” (circa 3-4,5 metri)».Sono le stesse dimensioni, che ricorrono praticamente ovunque. Quelle ossa, scrive ancora Wikipedia, furono poi trasmesse all’Accademia delle Scienze a Parigi per ulteriori studi, di cui non si precisano gli esiti. Ma la curiosità per queste ipotetiche, misteriose creature – di cui non parla solo la Bibbia, ma anche l’Odissea (Polifemo) – non accenna a scemare: l’ultima notizia viene dalla Sardegna, dove un paio d’anni fa è emerso uno scheletro di grandi dimensioni nel complesso nuragico di Barru, tra i comuni di Guamaggiore e Guasila. «Ha un femore enorme», disse il sindaco di Guamaggiore, Nello Cappai, citato dal quotidiano “L’Unione Sarda”, parlando di un osso risultato poi lungo 60 centimetri. Tempo fa fece il giro del web la storia, diffusa dal giornale tedesco “Blid”, del dito mummificato, lungo 38 centimetri, che sarebbe stato scoperto da un tombarolo egiziano vicino alla piramide di Giza e fotografato dallo svizzero Gregory Spoerri.Per Zecharia Sitchin, il padre della paleo-astronautica, la controversa teoria basata sulla reinterpretazione degli antichi testi sumeri, proprio nei giganti sarebbero riscontrabili le tracce dei nostri veri progenitori. In libri come “Il pianeta degli dei” e “Quando i giganti abitavano la Terra”, il ricercatore azero-statunitense sostiene che gli Elohim biblici che dissero “Creiamo Adamo a nostra immagine e somiglianza” siano stati gli dei della Sumeria e di Babilonia, gli Anunnaki giunti sulla Terra dal loro pianeta, Nibiru. Secondo Sitchin, Adamo fu geneticamente progettato circa 300.000 anni, quando i geni degli Anunnaki vennero uniti a quelli di un ominide. Poi, secondo la Bibbia, vennero celebrati matrimoni misti: sulla Terra abitarono i Giganti, che presero in moglie le discendenti di Adamo, dando alla luce “uomini eroici”, figure che l’autore riconduce ai semidei delle tradizioni sumere e babilonesi, tra cui il famoso re mesopotamico Gilgamesh, colui che rivendicò il diritto all’immortalità, e Utnapishtim, l’eroe babilonese del Diluvio. Ma allora tutti noi discendiamo da semidei? Lo storico romano Giuseppe Flavio, nel 79 dopo Cristo, scrive: «Vi erano dei giganti. Molto più grandi e di forma diversa rispetto alle persone normali. Terribile a vedersi. Chi non ha visto con i miei occhi, non può credere che siano stati così immensi».Un sito che si occupa di aspetti scientifici poco noti, “Il Navigatore Curioso”, rievoca la storia di 18 scheletri giganti scoperti nel Wisconsin nel maggio del 1912 da un team di archeologi del Beloit College. Una notizia accolta con enorme risalto dai grandi giornali: uno scavo realizzato presso il lago Delavan «portò alla luce oltre duecento tumuli con effigie che furono considerate come esempio classico della cultura Woodland», una ascendenza preistorica americana che si crede risalga al primo millennio avanti Cristo. «Ma ciò che stupì i ricercatori fu il ritrovamento di diciotto scheletri dalle dimensioni enormi e con i crani allungati, scoperta che non si adattava affatto alle nozioni classiche contenute nei libri di testo. Gli scheletri erano veramente enormi e, benchè avessero fattezze umane, non potevano appartenere a esseri umani normali. La notizia – aggiunge il “Navigatore Curioso” – ebbe una grande eco e fece molto scalpore, tanto che il “New York Times” riportò la notizia tra le sue pagine. Forse, a quei tempi, c’era più libertà e meno paura rispetto alle scoperte che potevano cambiare le consolidate credenze scientifiche fondate solo su teorie». L’unica certezza che abbiamo, ripete Mauro Biglino, noto per la rilettura letterale della Bibbia, è che la nostra storia è interamente da scrivere. E se qualcuno ha davvero “paura” di possibili verità scomode, forse non c’è niente di meglio che qualche bufala “gigante”: l’ideale, per seppellire nel ridicolo qualsiasi pista alternativa a quella ufficiale.Scheletri di giganti alti 4 metri, scoperti in America e subito occultati: scoperta clamorosa, ma “insabbiata” da una autorevolissima istituzione scientifica come la Smithsonian Institution, un glorioso organismo scientifico finanziato dal governo degli Stati Uniti. Una sentenza della Corte Suprema americana, si legge sul web in diversi blog, avrebbe «costretto la Smithsonian Institution a rilasciare i documenti classificati risalenti agli inizi del 1900 che dimostrano che l’organizzazione è stata coinvolta in una grande, storica copertura di prove». Documenti che proverebbero «la scoperta di migliaia di scheletri di giganti umani rinvenuti in tutta l’America: fu ordinato di distruggerli dagli amministratori di alto livello per proteggere la principale cronologia corrente dell’evoluzione umana». Davvero? Niente affatto: quegli scheletri non sono mai stati distrutti. E per un semplice motivo: non sono mai esistiti. Lo ripetono in coro altre fonti, sempre su Internet, secondo cui la storia rientrerebbe tra le classiche “fake news”, sempre più in voga per gettare discredito sulle vere notizie che circolano sul web, disturbando gli omertosi silenzi del mainstream.
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Giallo Neruda, il poeta “ucciso dalla Cia con iniezione letale”
Pablo Neruda ucciso con un’inizione letale, per impedirgli di diventare, all’estero, il leader dell’opposizione cilena al regime di Pinochet, dopo il golpe organizzato dalla Cia con la regia del super-massone Henry Kissinger, fondatore della Commissione Trilaterale. «Si riapre l’inchiesta sulla morte di Pablo Neruda, il poeta cileno Premio Nobel per la Letteratura morto il 23 settembre del 1973, dodici giorni dopo il golpe militare che mise fine al governo di Salvador Allende», scrive il “Fatto Quotidiano”. Si tratta della seconda inchiesta sulla vicenda, ma questa volta il governo cileno sarà parte in causa, attraverso il programma per i diritti umani del ministero degli interni. La riapertura del caso è stata chiesta dal Partito Comunista cileno, al quale era iscritto Neruda, e dai nipoti del poeta, per far sottoporre i suoi resti a nuovi esami e stabilire se effettivamente è morto di cancro, come indicato sul suo certificato di morte, o se è stato ucciso mentre si trovava nella clinica Santa Maria di Santiago.Nel suo blog “Su la testa”, il giornalista investigativo Gianni Lannes si spinge oltre, spiegando che il governo cileno ha inoltrato una rogatoria agli Stati Uniti «per farsi consegnare l’assassino di Pablo Neruda, tale Michael Townley». Il giudice Manuel Carroza aveva ordinato infruttuosamente, nel 2013, di rintracciare e identificare il presunto killer del grande poeta, che vivrebbe sotto falso nome negli Usa, «addirittura sotto il programma di protezione testimoni dell’Fbi in una località segreta». Neruda non era in fin di vita, continua Lannes, nonostante fosse gravemente malato. Il dittatore Pinochet «avrebbe ordinato ad un sicario, appunto un agente segreto della Cia, di accelerarne la morte con una non ben definita “iniezione allo stomaco”, secondo le parole di Neruda stesso all’autista», Manuel Araya, che raccontò che «un medico era entrato e gli aveva praticato l’iniezione». Il giorno dopo le sue condizioni peggiorarono improvvisamente e Neruda morì, prima della partenza per il nuovo esilio, in Messico, da dove avrebbe potuto usare il suo enorme prestigio internazionale per denunciare il golpe.Il governo cileno, continua Lannes, ha istituito presso il dipartimento per i diritti umani, due commissioni scientifiche che nel novembre 2015 hanno redatto un documento in cui si legge che è probabile che Neruda non sia morto «a causa del cancro alla prostata di cui soffriva», e che «risulta chiaramente possibile e altamente probabile l’intervento di terzi». In altri termini, a Neruda «fu applicata un’iniezione o gli fu somministrato qualcosa per via orale che ha fatto precipitare la sua prognosi in appena sei ore». Si tratta della prima volta che lo Stato cileno smentisce la causa di morte dichiarata dal governo di Pinochet nel 1973, osserva Lannes. Gli esami tossicologici effettuati nel 2013 hanno dato risultati negativi, scrive il “Fatto”, ma questa volta non ci cercheranno tossine, bensì altri “agenti esterni” che potrebbero essere stati iniettati, come insulina o Tramadol (un oppiode antidolorifico), provocando un attacco cardiaco al poeta. Sì, potrebbe esser stato ucciso, spiega Francisco Ugas, responsabile dell’area dei diritti umani nel ministero degli interni cileno, e il caso «potrebbe costituire un crimine di lesa umanità».Secondo la versione dell’autista di Neruda, il poeta non si sarebbe recato in quella clinica per motivi di salute, ma per aspettare un volo del governo messicano per fuggire in esilio. Ma, una volta nella clinica, gli avrebbero fatto un’inizione letale, di Dipirone (un analgesico) e Amidone (farmaco simile alla morfina) secondo le testimonianze di medici e infermieri. Anche la moglie, scrive Lannes, testimoniò dell’allarme di Neruda per la misteriosa iniezione: mentre Matilde Urrutia era in viaggio con Araya verso Isla Negra per recuperare le ultime cose prima di partire per il Messico, verso le ore 16 ricevettero una telefonata di Neruda dall’ospedale. Il poeta chiese di tornare indietro perché era molto preoccupato, poiché «mentre dormiva nella sua camera della clinica alcune persone erano entrate e gli avevano iniettato qualcosa nell’addome». Disse che «si sentiva male», secondo le parole riportate da Araya. Quando l’autista e la moglie arrivarono a Santiago, trovarono Neruda in preda alla febbre e con segni di arrossamento dove gli era stata praticata l’iniezione.Anche l’infermiera di Neruda, citando voci di corridoio della clinica, sostiene la tesi dell’omicidio. Lannes ricostruisce le ultime ore del poeta: Araya esce dalla clinica alle ore 19, per andare a comprare un medicinale in una farmacia periferica, ma l’auto viene intercettata dai militari, che lo fermano e lo trattengono. Poche ore dopo, alle 22 circa, Neruda viene dichiarato morto dai medici della clinica. La moglie di Neruda rimane nel centro sanitario, mentre Araya viene arrestato e torturato per dieci giorni nel campo di concentramento dell’Estadio Nacional de Chile; ritenendo di non essere creduto, decide di parlare solo nel 2005, dopo la clamorosa scoperta dell’omicidio dell’ex presidente cileno Eduardo Frei Montalva, ucciso nel 1982, dopo le “cure” ricevute. Frei morì per un’infezione post-operatoria, ma un ex 007 cileno – Michael Townley, sempre lui – rivelò che Frei era stato avvelenato con una tossina prodotta in laboratori militari (probabilmente una tossina botulinica, tallio e iprite, che distrugge il sistema immunitario).Lo stesso Townley, aggiunge Lannes, Townley affermò che sostanze come il gas sarin furono usate «in alcuni omicidi politici fatti passare per suicidi o morti naturali», insieme ad alcune tossine come quella botulinic. Nel corpo dell’ex presidente Frei «furono trovati residui di tallio e gas mostarda, usato come arma chimica». Difficili da rilevare sono anche il polonio-210, iniezioni di aria che causano embolia, overdose di morfina. «Nel maggio 2015 – scrive ancora Lannes – un team spagnolo ha annunciato il ritrovamento di proteine anomale nelle ossa di Neruda, non riferibili a farmaci, alcune legate al cancro e altre a un’infezione improvvisa e assai rapida da “staphylococcus aureus”. Anche se infezioni di questo genere sono possibili in pazienti gravemente malati, «un’esplosione batterica così veloce dopo il ricovero e la suddetta iniezione, tale da portare Neruda alla morte in poche ore, potrebbe far sospettare un intervento esterno per favorire l’infezione, come la detta iprite le cui tracce scompaiono dopo pochi anni».Pablo Neruda ucciso con un’inizione letale, per impedirgli di diventare, all’estero, il leader dell’opposizione cilena al regime di Pinochet, dopo il golpe organizzato dalla Cia con la regia del super-massone Henry Kissinger, fondatore della Commissione Trilaterale. «Si riapre l’inchiesta sulla morte di Pablo Neruda, il poeta cileno Premio Nobel per la Letteratura morto il 23 settembre del 1973, dodici giorni dopo il golpe militare che mise fine al governo di Salvador Allende», scrive il “Fatto Quotidiano”. Si tratta della seconda inchiesta sulla vicenda, ma questa volta il governo cileno sarà parte in causa, attraverso il programma per i diritti umani del ministero degli interni. La riapertura del caso è stata chiesta dal Partito Comunista cileno, al quale era iscritto Neruda, e dai nipoti del poeta, per far sottoporre i suoi resti a nuovi esami e stabilire se effettivamente è morto di cancro, come indicato sul suo certificato di morte, o se è stato ucciso mentre si trovava nella clinica Santa Maria di Santiago.
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L’uomo conobbe i dinosauri? Un fossile inquieta la scienza
Il corno di un triceratopo scoperto a Dawson County, Montana, nel 2012, sta mettendo in crisi l’opinione corrente secondo la quale i dinosauri si sono estinti circa 65 milioni di anni fa. La datazione al radiocarbonio del reperto, infatti, ha restituito un’età di 33.500 anni fa, il che significherebbe che uomini e dinosauri hanno camminato insieme sul nostro pianeta. Il reperto è conservato presso il Glendive Dinosaur and Fossil Museum, il quale ha richiesto la datazione di un frammento del corno alla Center for Applied Isotope Studies dell’Università della Georgia. Il campione è stato suddiviso in due parti, che sono state sottoposte a due tecniche di datazione differenti, così da valutare la coerenza dei risultati. I campioni hanno restituito rispettivamente una datazioni di 33.570 e 41.010 anni, abbastanza concordi da far saltare i paleontologi sulla sedia. Il triceratopo (nome che significa “faccia con tre corna”), infatti, è un dinosauro erbivoro che secondo le conoscenze attuali è vissuto verso la fine del Maastrichtiano (tardo Cretaceo), circa 68 milioni di anni fa, in quello che è oggi il Nord America, estinguendosi circa 66 milioni di anni fa.Dunque, come ci è arrivato un triceratopo nel periodo in cui l’uomo moderno cominciava a muovere i primi passi? In realtà, secondo gli scienziati del Paleochronology Group, un gruppo di geologi, paleontologi, chimici e ingegneri che indaga su quelle che vengono definite “anomalie della scienza”, la datazione del triceratopo non sorprende affatto, ma conferma quello che si sospetta da tempo, e cioè che i dinosauri non si sono affatto estinti milioni e milioni di anni fa, ma ci sono prove sostanziali che essi sono vissuti fino a 23.000 anni fa. Su quale fondamento è possibile affermare una cosa del genere? Fino a poco tempo fa, la tecnica del carbonio-14 non si riteneva necessaria per datare le ossa di dinosauro, dato che il test è affidabile solo fino a 55.000 anni indietro nel tempo. Poichè i fossili di dinosauro vengono spesso trovati negli strati del terreno che corrispondono a milioni di anni fa, a cosa serve datarli? Gli scienziati infatti stabiliscono l’età di un fossile di dinosauro sulla base della misurazione radiometrica dei sedimenti vulcanici depositati sotto e sopra il reperto, un metodo che secondo il Paleochronology Group presenta «seri problemi e richiede la formulazione di troppe ipotesi».«È diventato chiaro anni fa che i paleontologi non solo trascuravano di datare le ossa di dinosauro con il C-14, ma addirittura si rifiutavano», ha spiegato Hugh Miller, capo del Paleochronology Group. «Normalmente, un buon scienziato sarebbe curioso di confrontare i metodi di datazione». Secondo quanto dice Miller, i risultati della datazione del triceratopo non sono unici: numerosi test eseguiti su altre ossa di dinosauro hanno restituito tutti risultati che risalgono a migliaia di anni fa, piuttosto che a milioni di anni fa. Il fatto che i dinosauri possano essere più giovani di quanto si pensi è un’idea che numerosi ricercatori indipendenti sostengono da tempo, ritenendo che un tempo i grossi rettili e gli uomini abbiano camminato insieme sul nostro pianeta. Esistono, infatti, numerose opere d’arte antiche e manufatti che sembrano rappresentare proprio i dinosauri, realizzati migliaia di anni prima che la scienza scoprisse il primo fossile e ricostruisse il loro aspetto.Tra gli esempi più noti ci sono le controverse pietre di Ica, una collezione di pietre di andesite recanti una serie di incisioni superficiali, fra cui rappresentazioni di dinosauri e tecnologia avanzata. Sono state scoperte in una grotta vicino alla città di Ica, in Perù, e rese note dal medico peruviano Javier Cabrera Darquea. Meno controverso l’emblematico esempio offerto da un incisione in pietra posta sul tempio buddista di Ta Prohm, in Cambogia, divenuto noto come lo “Stegosauro di Ta Prohm”. Gli archeologi ritengono che il tempio di Ta Prohm risale a circa 800 anni fa. E allora, come è possibile che gli antichi cambogiani conoscessero i dinosauri, dato che i primi fossili sono stati tirati fuori sono un paio di centinaia di anni fa? In una tomba scoperta nella regione di Nazca risalente a 1300 anni fa, furono ritrovati alcuni reperti ornamentali, tra cui ceramiche e tessuti, con la rappresentazione di quelli che sembrano autentici dinosauri.Sebbene il Paleochronology Group afferma di non appartenere a un credo specifico, alcuni critici contestano i risultati perchè sarebbero viziati dalla tendenza “creazionista” di alcuni suoi componenti. Tuttavia, il gruppo di ricercatori ha replicato invitando gli scettici ad eseguire rigorose datazioni C-14 sui campioni di dinosauro il loro possesso, così da poter confrontare i risultati. Sebbene la sfida sia stata lanciata, la comunità scientifica “ortodossa” ha incredibilmente rifiutato e i precedenti tentativi di pubblicare i risultati dei test sulle riviste d’élite sono stati ripetutamente bloccati. Inoltre, è stata anche impedita la presentazione dei dati grezzi, cioè senza interpretazione, in numerosi simposi scientifici: nel 2009 dal North American Paleontological Convention, nel 2011 e 2012 dall’American Geophysical Union e dalla Geological Society of America. «Il pubblico deve essere informato sul fatto che le datazioni dei reperti e le raffigurazioni antiche dei dinosauri rendono le attuali convinzioni obsolete», ha detto Miller. «Il ruolo della scienza è quello di trovare prove, non di rimanere prigioniera delle proprie convinzioni, lasciandole cadere dove possibile».(“Uomini e dinosauri contemporanei? Il fossile che inquieta i ricercatori”, da “Il Navigatore Curioso” del 27 gennaio 2015).Il corno di un triceratopo scoperto a Dawson County, Montana, nel 2012, sta mettendo in crisi l’opinione corrente secondo la quale i dinosauri si sono estinti circa 65 milioni di anni fa. La datazione al radiocarbonio del reperto, infatti, ha restituito un’età di 33.500 anni fa, il che significherebbe che uomini e dinosauri hanno camminato insieme sul nostro pianeta. Il reperto è conservato presso il Glendive Dinosaur and Fossil Museum, il quale ha richiesto la datazione di un frammento del corno alla Center for Applied Isotope Studies dell’Università della Georgia. Il campione è stato suddiviso in due parti, che sono state sottoposte a due tecniche di datazione differenti, così da valutare la coerenza dei risultati. I campioni hanno restituito rispettivamente una datazioni di 33.570 e 41.010 anni, abbastanza concordi da far saltare i paleontologi sulla sedia. Il triceratopo (nome che significa “faccia con tre corna”), infatti, è un dinosauro erbivoro che secondo le conoscenze attuali è vissuto verso la fine del Maastrichtiano (tardo Cretaceo), circa 68 milioni di anni fa, in quello che è oggi il Nord America, estinguendosi circa 66 milioni di anni fa.
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Trower: wi-fi pericoloso, verità nascosta a scopo di lucro
Come affermato da ricercatori universitari, scienziati governativi e consulenti scientifici internazionali, almeno il 57,7% delle studentesse esposte a radiazioni a microonde di basso livello (wi-fi) sono a rischio di avere aborti, malformazioni fetali o bambini con tare genetiche. I danni genetici possono essere trasmessi alle generazioni successive. Il professor John Goldsmith è consulente internazionale per le comunicazioni in Rf (radio-frequenze), consulente per l’Organizzazione Mondiale della Sanità in epidemiologia e scienze della comunicazione, consulente militare e universitario nonché ricercatore; a proposito dei bassi livelli di esposizione (sotto il livello termico) all’irraggiamento da microonde aventi le donne come bersaglio, ha scritto: «Nelle donne esposte a radiazioni di microonde, nel 47.7% dei casi ci sono stati aborti prima della settima settimana di gravidanza». E’ al di sotto di quello che la maggior parte delle studentesse riceve in un’aula dotata di trasmettitori wi-fi, a partire dall’età di circa cinque anni in su.