Archivio del Tag ‘Paesi Bassi’
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Si scrive Brexit, ma si legge Commonwealth. E addio Merkel
Con la Brexit c’è una parte d’Inghilterra che si vuole riposizionare geopoliticamente, privilegiando i rapporti commerciali con l’area del Pacifico, l’India, l’Australia e il Canada, e al tempo stesso vuole liberarsi dei lacci e lacciuoli dell’Unione Europea. E’ un processo non facile e lungo, come stiamo vedendo, scrive Massimo Bordin su “Micidial”: «L’economia è un fatto commerciale e monetario, ma nel caso inglese quello monetario è secondario, avendo Londra sempre conservato la sterlina come moneta nazionale». Detto diversamente, l’Inghilterra ha voluto (e sta cercando di) uscire dall’Unione Europea «perché Bruxelles lega i paesi membri attraverso un sistema doganale che avvantaggia alcuni paesi a scapito di tutti gli altri, sfasandone le bilance commerciali». In Italia, ad esempio, «molti media da anni difendono il mercato comune, sottolineando i tanti vantaggi che la fine delle barriere doganali avrebbe portato al paese». Per Bordin, questa visione «è miope e in malafede», perchè proprio quando negli anni ‘90 l’Unione si stava burocratizzando al suo interno, «il resto del mondo procedeva a instaurare nuovi rapporti commerciali, rendendo obsoleto il modello tedesco».Quello di Berlino, aggiunge Bordin, è un modello che porta vantaggi solo alla Germania, all’Austria e ai paesi del Benelux, penalizzando il resto d’Europa. «L’Inghilterra se n’è accorta per prima e ha pensato bene di andarsene, anche e soprattutto perchè ha fondato nei secoli scorsi il Commonwealth». Per chi non lo sapesse, ci sono 53 paesi che oggi appartengono allo storico network a guida britannica. «Tutti insieme fanno 2,2 miliardi di popolazione, sparsi in tutti i continenti del mondo, e in 16 di questi 53 paesi la Regina d’Inghilterra è anche il capo di Stato». Il termine Commonwealth può sembrare curioso, ma non è altro che un concetto della lingua inglese coniato da Oliver Cromwell durante la prima Rivoluzione Inglese. «La frase originale da cui esso deriva è “common wealth” o “the common weal”, e viene dal vecchio significato di “wealth”, che è “benessere”». Il termine, aggiunge Bordin, è stato poi utilizzato per identificare il Commonwealth delle Nazioni, un’organizzazione che unisce Stati che in passato erano parte dell’Impero Britannico (ammesso che abbia mai cessato di esistere).Sotto un profilo meramente logico, conclude Bordin, per gli inglesi è più intelligente commerciare col resto del mondo alle loro regole, piuttosto che con mezzo miliardo di europei con le regole tedesche. «Il motivo dei mancati accordi subiti dalla May sta tutto in questo fatto». Al contrario, i media e i documenti ufficiali «puntano a spiegarci la Brexit e le sue difficoltà sulla scorta di confini irlandesi, proroghe, divisioni parlamentari». Ma è tutta aria fritta, sostiene Bordin, secondo cui le vere difficoltà della Brexit «stanno nella posta in gioco, che è il commercio internazionale e le sue regole». O meglio: «L’impossibilità per gli inglesi di negoziare tariffe agevolate con i paesi extraeuropei». Ecco perchè il cosiddetto “no deal” «dovrebbe spaventare molto più Berlino che Londra». Per l’eventuale uscita senza accordo sono tutti in fibrillazione, ma secondo Bordin nel Regno Unito non accadrà proprio nulla. «E sarà persino divertente vedere come, dopo l’uscita “hard” della perfida Albione, tutti faranno finta di non aver mai evocato l’apocalisse».Con la Brexit c’è una parte d’Inghilterra che si vuole riposizionare geopoliticamente, privilegiando i rapporti commerciali con l’area del Pacifico, l’India, l’Australia e il Canada, e al tempo stesso vuole liberarsi dei lacci e lacciuoli dell’Unione Europea. E’ un processo non facile e lungo, come stiamo vedendo, scrive Massimo Bordin su “Micidial”: «L’economia è un fatto commerciale e monetario, ma nel caso inglese quello monetario è secondario, avendo Londra sempre conservato la sterlina come moneta nazionale». Detto diversamente, l’Inghilterra ha voluto (e sta cercando di) uscire dall’Unione Europea «perché Bruxelles lega i paesi membri attraverso un sistema doganale che avvantaggia alcuni paesi a scapito di tutti gli altri, sfasandone le bilance commerciali». In Italia, ad esempio, «molti media da anni difendono il mercato comune, sottolineando i tanti vantaggi che la fine delle barriere doganali avrebbe portato al paese». Per Bordin, questa visione «è miope e in malafede», perché proprio quando negli anni ‘90 l’Unione si stava burocratizzando al suo interno, «il resto del mondo procedeva a instaurare nuovi rapporti commerciali, rendendo obsoleto il modello tedesco».
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Comanda il denaro: la politica obbedisce e il popolo subisce
«Il liberalismo si è imposto in modo autoritario, portando con sé impoverimento generalizzato, precarietà, disoccupazione di massa e concorrenza forzata per il lavoro». Per lo scrittore francese Michel Onfray, il neoliberismo ha ormai gettato la maschera: «E’ un sistema economico che ha promesso tutto ma non ha mantenuto niente», scrive Onfray su “L’Espresso”, guardando al caos che ci assedia, con «una plebe che vuole fare piazza pulita, ma senza progetti». Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, seguita nel 1991 dal crollo dell’Unione Sovietica, il capitalismo ha potuto espandersi senza più freni: è allora, ricorda Onfray, che siamo precipitati nell’accelerazione atomica della globalizzazione, «voluta con tanto ardore dal capitalismo liberale più duro», che poi «ha trovato un alleato inaspettato nella sinistra liberale e, in seguito, ancor più paradossalmente, nella sinistra anti-liberale». Per Onfray, il mercato «odia le frontiere, disprezza il locale e ciò che ha messo radici, combatte una guerra spietata contro i paesi, riempie di merda le nazioni, orina contro i popoli e ama soltanto i flussi multiculturali che abbattono le frontiere, sradicano il mondo, devastano ciò che è locale, spaesano i paesi, fustigano le nazioni, diluiscono i popoli a esclusivo beneficio del mercato, l’unico a contare e a dettare legge», per usare «la definizione chimicamente pura del liberalismo».Il capitale, aggiunge il filosofo transalpino, vuole l’abolizione delle frontiere per porre fine una volta per tutte a ciò che nell’ambito delle nazioni e dei paesi è stato ottenuto con secoli di lotte sociali. Lo se Stato teoricamente prevede una sicurezza sociale e offre scuole gratuite, il pensionamento a un’età decorosa, diritti del lavoro e un autentico progresso sociale, il neoliberismo si fa beffe delle tutele sociali e pratica la medicina con due pesi e due misure, o quella dei poveri o quella dei ricchi. «Dispone di un sistema di istruzione, certo, ma a misura di genitori facoltosi in grado di pagare le rette per la loro progenie e privo di utilità per i genitori indigenti». E poi «ignora i limiti dell’orario di lavoro e fa sgobbare i lavoratori tutta la giornata, tutta la settimana, tutta la vita, come ai tempi della schiavitù». E’ un sistema che «non conosce il codice del lavoro e trasforma gli operai, gli impiegati, i salariati, i proletari, i precari, gli stagisti in soggetti sottomessi, che devono sobbarcarsi ogni tipo di corvè». Quel che vuole il nuovo capitale, neoliberismo «nella sua versione di destra come nella sua versione di sinistra», è l’affermazione dei sempre più ricchi, a scapito dei sempre più poveri. «Da qui la sua ideologia che prevede l’abolizione delle frontiere, degli Stati e delle tutele di qualsiasi tipo – simboliche, reali, giuridiche, legali, culturali, intellettuali».Non appena viene meno tutto ciò che protegge i deboli dai forti, scrive Onfray, questi ultimi «possono disporre dei deboli a loro piacere, e i deboli possono essere terrorizzati dal fatto di trovarsi in costante concorrenza, possono essere sfruttati con posti di lavoro precari, maltrattati con contratti a tempo determinato, imbrogliati con gli stage di formazione, minacciati dalla disoccupazione, angosciati dalle riconversioni, messi kappaò da capetti che giocano anche con i loro stessi posti di lavoro». Evaporato lo Stato, è il mercato a dettare legge. «Giocando la carta del liberalismo – aggiunge Onfray – la sinistra al governo spinge nella medesima direzione del capitalismo con i suoi banchieri». E giocando invece la carta dell’antiliberalismo, «la sinistra definita radicale spinge nella medesima direzione», premiando la finanza. Queste due modalità d’azione della sinistra, aggiunge il filosofo, hanno gettato il popolo alle ortiche: «Non ci sarebbero più operai, impiegati, proletari, poveri contadini, ma soltanto un popolo-surrogato, un popolo di migranti in arrivo da un mondo non giudeo-cristiano, con i valori di un Islam che assai spesso volta le spalle alla filosofia dei Lumi. Questo popolo-surrogato non è tutto il popolo, ne è soltanto una parte che, però, non deve eclissare tutto ciò che non è».Il proletariato? «Esiste ancora, e così pure gli operai». Esistono ancora anche gli impiegati (per non parlare dei precari, più importanti che mai). «La pauperizzazione analizzata così bene da Marx è diventata la vera realtà del nostro mondo: i ricchi sono sempre più ricchi e sempre meno numerosi, mentre i poveri sono sempre più poveri e sempre più numerosi». Se nell’ambito dell’Europa si pratica l’islamofilia empatica, aggiunge Onfray, fuori dalle sue frontiere il liberalismo che ci governa pratica un’islamofobia militare. «Al potere, in Francia, la sinistra socialista ha rinunciato al socialismo di Jaurès nel 1983 e in seguito, nel 1991, ha rinunciato al pacifismo del medesimo Jaurès prendendo parte alle crociate decise dalla famiglia Bush, che così ha dato all’apparato industriale-militare che lo sostiene l’occasione di accumulare benefici immensi, conseguiti grazie alle guerre combattute nei paesi musulmani». Queste guerre «si fanno nel nome dei diritti dell’uomo: di fatto, si combattono agli ordini del capitale che ha bisogno di esse per dopare il suo business e migliorarne artificialmente le prestazioni». Usare armi, insiste Onfray, significa poterne costruirne altre, collaudandole sul campo. A chiudere il conto, poi, provvede il business della ricostruzione, che – sempre ai soliti monopolisti – garantisce «introiti smisurati».Se all’Occidente importasse qualcosa, dei diritti umani, eviterebbe di allearsi con paesi come l’Arabia Saudita e il Qatar, la Corea del Nord e la stessa Cina, che secondo Amnesty International non rispettano i diritti dell’uomo. «Queste false guerre per la democrazia, che di fatto sono vere e proprie guerre coloniali – sottolinea Onfray – prendono di mira le comunità musulmane». Dal 1991 hanno provocato 4 milioni di morti tra le popolazioni civili dei paesi coinvolti. «Come si può anche solo immaginare che l’Umma, la comunità planetaria dei musulmani, non sia solidale con le sofferenze di quattro milioni di correligionari?». Di conseguenza, aggiunge Onfray, non ci si deve stupire se in virtù di quella che Clausewitz definì la “piccola guerra”, quella che i deboli combattono contro i forti, l’Occidente gregario della politica statunitense si trova adesso esposto alla reazione che assume la forma di terrorismo islamico. «La religione continua a essere “l’oppio dei popoli”, e l’oppio è tanto più efficace quanto più il popolo è oppresso, sfruttato e, soprattutto, umiliato. Non si umiliano impunemente i popoli: un giorno quei popoli si ribelleranno, è inevitabile. E la cultura musulmana ha mantenuto potentemente quel senso dell’onore che l’Occidente ha perduto».Il ritorno del popolo alle urne, per Onfray, è una risposta «alla bassezza di questo mondo capitalista e liberale che è impazzito». Dalla caduta del Muro di Berlino, le ideologie dominanti «hanno assimilato la gestione liberale del capitalismo all’unica politica possibile». L’Europa di Maastricht «è una delle macchine con le quali si impone il liberalismo in maniera autoritaria, ed è un vero colmo per il liberalismo: negli anni Novanta, la propaganda di questo Stato totalitario maastrichtiano ha presentato il suo progetto asserendo che esso avrebbe consentito la piena occupazione, la fine della disoccupazione, l’aumento del tenore di vita, la scomparsa delle guerre, l’inizio dell’amicizia tra i popoli». Dopo un quarto di secolo di questo regime trionfante e senza opposizione, «i popoli hanno constatato che ciò che era stato promesso loro non è stato mantenuto e, peggio ancora, che è accaduto esattamente il contrario: impoverimento generalizzato, disoccupazione di massa, abbassamento del tenore di vita, proletarizzazione del ceto medio, moltiplicarsi di guerre e incapacità di impedire quella dei Balcani, concorrenza forzata in Europa per il lavoro».A fronte di questa evidenza, il popolo sembra prepararsi a reagire. «Per il momento si affida a uomini e donne che si definiscono provvidenziali». Certo, il doppio smacco di Tsipras con “Syriza” in Grecia e di Pablo Iglesias con “Podemos” in Spagna «mostra i limiti di questa fiducia nella capacità di questo o quello di cambiare le cose restando in un assetto di politica liberale». Per Onfray, anche Beppe Grillo e i suoi 5 Stelle «vivono un flop di egual misura». La Francia, che nel 2005 ha detto “no” a questa Europa di Maastricht, «ha subito una sorta di colpo di Stato compiuto dalla destra e dalla sinistra liberale» che, nel 2008, hanno imposto tramite il Parlamento «l’esatto contrario di ciò che il popolo aveva scelto». Onfray si riferisce al Trattato di Lisbona, ratificato da Hollande e dal partito socialista, come pure da Sarkozy e dal suo partito. «Gli eletti del popolo hanno votato contro il popolo, determinando così una rottura che ora si paga con un astensionismo massiccio o con decine di voti estremisti di protesta». Altri paesi ancora che hanno manifestato il loro rifiuto nei confronti di questa configurazione europea liberale – Danimarca, Norvegia, Irlanda, Svezia, Paesi Bassi – sono dovuti tornare a votare per rivedere le loro prime scelte. «La Brexit è in corso, e assistiamo in diretta a una sfilza di pressioni volte a scavalcare la volontà popolare».Oggi, riassume Onfray, il popolo «sembra deciso a voler fare tabula rasa di tutti coloro che, vicini o lontani, hanno avuto una responsabilità precisa nel creare la terribile situazione nei loro paesi». Lo scenario contro cui si ribella è quello innescato dalla globalizzazione neoliberista, «alle prese con le guerre neocoloniali statunitensi, davanti ai massacri planetari di popolazioni civili musulmane e a guerre che distruggono paesi come Iraq, Afghanistan, Mali, Libia e Siria, provocando migrazioni di massa di profughi in direzione del territorio europeo». Un panorama sul quale si staglia ingloriosamente «l’inettitudine dell’Europa di Maastricht, forte con i deboli e debole con i forti». Rabbia e frustrazione: è il carburante che, in Francia, spinge in strada i Gilet Gialli. «Una volta ottenuta questa tabula rasa – conclude Onfray – non è previsto che ci sia alcun castello nel quale riparare, perché è impossibile che vi resti un castello». A quel punto, aggiunge, «sembra che non ci resterà che un’unica scelta: la peste liberale o il colera liberale». Trump e Putin? «Non potranno farci nulla: è il capitale a dettar legge. I politici obbediscono e i popoli subiscono».«Il liberalismo si è imposto in modo autoritario, portando con sé impoverimento generalizzato, precarietà, disoccupazione di massa e concorrenza forzata per il lavoro». Per lo scrittore francese Michel Onfray, il neoliberismo ha ormai gettato la maschera: «E’ un sistema economico che ha promesso tutto ma non ha mantenuto niente», scrive Onfray su “L’Espresso”, guardando al caos che ci assedia, con «una plebe che vuole fare piazza pulita, ma senza progetti». Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, seguita nel 1991 dal crollo dell’Unione Sovietica, il capitalismo ha potuto espandersi senza più freni: è allora, ricorda Onfray, che siamo precipitati nell’accelerazione atomica della globalizzazione, «voluta con tanto ardore dal capitalismo liberale più duro», che poi «ha trovato un alleato inaspettato nella sinistra liberale e, in seguito, ancor più paradossalmente, nella sinistra anti-liberale». Per Onfray, il mercato «odia le frontiere, disprezza il locale e ciò che ha messo radici, combatte una guerra spietata contro i paesi, riempie di merda le nazioni, orina contro i popoli e ama soltanto i flussi multiculturali che abbattono le frontiere, sradicano il mondo, devastano ciò che è locale, spaesano i paesi, fustigano le nazioni, diluiscono i popoli a esclusivo beneficio del mercato, l’unico a contare e a dettare legge», per usare «la definizione chimicamente pura del liberalismo».
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Sdoganare la pedofilia: vogliono far cadere l’ultimo tabù
La pedofilia è l’ultimo grande tabù della civiltà occidentale: orientamento sessuale innato per alcuni, perversione immorale e criminale da punire duramente con il carcere per altri, o ancora una malattia mentale da curare. È necessario discutere oggi di pedofilia, perché il suo sdoganamento – con conseguente legalizzazione e decriminalizzazione sociale – con molta probabilità avverrà nel prossimo futuro; e non si tratta di complottismo spicciolo, ma di una presa di coscienza basata sulla lettura degli eventi attuali. Prima di parlare di cosa stia succedendo a livello propagandistico e pubblico in tema di pedofilia, occorre ripercorrere le origini di un movimento ben definito, organizzato e diffuso capillarmente in tutto l’Occidente, che ambisce a normalizzare le relazioni sessuali tra adulti e minori, nel nome della libertà di scelta e di un presunto diritto dei bambini ad amare. I movimenti per la legalizzazione della pedofilia sorgono nel contesto della rivoluzione controculturale sessantottina che dilagò nei paesi occidentali fra gli anni ’60 e ’70, simultaneamente e nell’alveo delle lotte di liberazione femministe e omosessuali.I più grandi ideologi e pensatori della rivoluzione sessuale scoppiata nell’epoca della grande contestazione sono stati anche degli strenui sostenitori della caduta degli ultimi tabù sessuali, come incesto e pedofilia, ritenuti dei lasciti dell’eteronormatività fallocentrica e patriarcale: Jacques Derrida, il coniatore del termine fallocentrismo, Michael Warner, colui che ha popolarizzato il concetto di eteronormatività, Jack Halberstam, autore prolifico sulle identità di genere e sulla mascolinità tossica, e in generale i maggiori esponenti del postmodernismo francese come Michel Foucault, Guy Hocquenghem, Jean Danet, Françoise Dolto, e la controversa coppia Simone de Beauvior-Jean Paul Sartre. Nel 1977 i capofila della critica esistenzialista e del postmodernismo francesi, tra i quali Foucault, Derrida, de Beauvior, Sartre, Gilles Deleuze e Louis Althusser, inviarono una petizione al Parlamento per chiedere l’abolizione dell’età del consenso e la depenalizzazione di ogni rapporto sessuale consenziente tra adulti e minori di 15 anni. Foucault, inoltre, infervorò il dibattito pubblico intervenendo insieme a Hocquenghem nel programma “Dialogue” dell’emittente radiofonica “France Culture”, spiegando le ragioni del suo sostegno alla causa pedofila.Contemporaneamente a Londra fu fondato il Paedophile Information Exchange da Michael Manson, un piccolo gruppo pro-pedofilia dipendente dall’Outright Scotland, una delle più grandi e longeve sigle presenti nella galassia lgbt britannica. Sebbene numericamente esiguo e ufficialmente isolato dalle maggiori organizzazioni omosessuali, il Pie riuscì a trasformare in un dibattito nazionale l’abolizione dell’età del consenso e curò la pubblicazione di un proprio periodico, “Understanding Paedophilia”, riuscendo ad ottenere finanziamenti pubblici per circa 70 mila sterline dall’Home Office (secondo una recente inchiesta del “Daily Mirror”) e ad ottenere l’affiliazione al National Council for Civil Liberties, oggi noto semplicemente come Liberty, una delle più importanti organizzazioni per i diritti civili e umani presenti in Inghilterra. Nello stesso periodo, negli Stati Uniti, David Thorstad, ex troskista poi divenuto il più importante attivista pro-pedofilia della storia occidentale recente, fonda la North American Man/Boy Love Association (Nambla), il più grande ed influente gruppo di pressione attivo nell’abolizione dell’età del consenso e nella promozione delle relazioni sessuali tra adulti e minori.Le posizioni estremiste della Nambla hanno causato la sua scomunica dall’International Lesbian and Gay Association nel 1994, a seguito di una controversia giunta in sede di Nazioni Unite, e nonostante le numerose inchieste federali e gli scandali sessuali che hanno coinvolto diversi membri, non è mai stata sciolta dalla giustizia statunitense. La Nambla ha avuto il merito di realizzare contatti con le principali sigle della galassia pro-pedofilia, riuscendo nell’obiettivo di trasformare l’International Pedophile and Child Emancipation in una vera e propria internazionale della pedofilia, composta da più di 80 fra organizzazioni e partiti politici di Canada, Stati Uniti ed Europa occidentale. La situazione organizzativa e associativa dei movimenti pro-pedofilia in Europa occidentale è comparabile a quella statunitense, sebbene il dibattito sia meno acceso per via del minore spazio garantito dai grandi media a questa ala estrema della più vasta galassia Lgbt. La Germania è il paese europeo con più organizzazioni pro-pedofilia del Vecchio Continente, oltre 15, e ha ospitato fra gli anni ’70 e ’90 un dibattito politico molto serio inerente l’abolizione dell’età del consenso, la depenalizzazione dei rapporti tra adulti e minori e la decriminalizzazione sociale della pedofilia, che ha coinvolto anche attori politici di spessore come il partito dei Verdi, e vanta una triste, quanto sconosciuta, storia di esperimenti sociali miranti a capire gli effetti dei rapporti pedofili sulla psiche degli adolescenti.Negli anni ’70 il dipartimento di sociologia dell’università di Hannover guidò una serie di ricerche sotto l’egida del professore Helmut Kentler, luminare noto nell’ambiente accademico nazionale per le sue innovative idee di ingegneria sociale. Il programma di Kentler prevedeva l’affidamento di adolescenti senzatetto o senza famiglia con problemi comportamentali, di tossicodipendenza o di alcolismo, presso pedofili noti, ossia con precedenti penali per abusi su minori o segnalati alle autorità, con il duplice obiettivo di fornire alle cavie una figura genitoriale e ai pedofili una possibilità di trasformarsi in modelli comportamentali positivi. Il programma fu finanziato con fondi pubblici e fu scoperto soltanto alla morte di Kentler avvenuta nel 2008. La giustizia tedesca non è stata capace di appurare il numero di giovani tedeschi, soprattutto berlinesi, affidati a pedofili come parte del cosiddetto esperimento Kentler, sebbene le indagini abbiano concluso possano essere stati più di mille.I Paesi Bassi hanno ospitato le attività dell’organizzazione Vereniging Martijn e del partito politico Carità, Libertà e Diversità, impegnati nella revisione dell’età del consenso, nell’inserimento della pedofilia tra i temi affrontati dall’educazione sessuale nelle scuole, e nella depenalizzazione della pedopornografia. Sebbene questi due movimenti siano stati dissolti dalla giustizia olandese, anche per via dei crimini sessuali che hanno visti coinvolti i loro membri, il contesto intellettuale nel quale sono sorti, ossia la Società Olandese per la Riforma Sessuale, è ancora in fermento e continua a propagandare la normalizzazione di ogni perversione sessuale, dalla pedofilia alla zoofilia. Il dibattito pubblico e accademico sulla pedofilia nei Paesi Bassi inizia nell’immediato secondo dopoguerra con la fondazione dell’Enclave Kring, il primo movimento pro-pedofilia del mondo, da parte dell’eminente psicologo e attivista omosessuale Frits Bernard.Bernard sfruttò la sua notorietà per tentare di sdoganare questo tabù, portando la sua battaglia anche nel vicino mondo omosessuale, in quanto collaboratore del Coc, la più longeva organizzazione per i diritti omosessuali del mondo. Il movimento pro-pedofilia nazionale riuscì a riscuotere ulteriore visibilità tra gli anni ’50 e ’80 per via dell’intenso attivismo di Edward Brongersma, senatore appartenente al Partito del Lavoro poi convertitosi in un prolifico autore di opere sulla sessualità infantile e sui rapporti adulto-bambino. Brongersma lottò durante la sua intera carriera politica per revisionare l’età del consenso e sdoganare la pedofilia, dando vita ad una fondazione avente il suo nome con l’obiettivo di realizzare i suoi progetti politici in tema di sessualità. Coerentemente con il suo credo anticattolico e progressista, nel 1998 decise di porre fine alla sua esistenza tramite eutanasia volontaria.La pedofilia, intesa come rapporto sessuale consenziente tra adulti e bambini, gode quindi di un supporto ideologico e di una rete organizzativa molto più vaste di quanto si creda comunamente e la lotta per il suo sdoganamento sarà un importantissimo terreno di scontro della guerra culturale tra le forze tradizionaliste-conservatrici e progressiste-liberali d’Occidente. Attingendo dalle principali teorie sulla costruzione del consenso e sul condizionamento delle opinioni e del comportamento è facile capire in che modo i tabù vengono normalizzati e i loro detrattori accusati di oscurantismo e retrogradezza: il sociologo Joseph Overton, il teorico della Finestra di Overton, ha illustrato quanto sia semplice trasformare un’idea impensabile o radicale in una diffusa e legalizzata attraverso un processo di accettazione e razionalizzazione, la Scuola di Francoforte ha illustrato il potere persuasivo dei grandi media sugli spettatori attraverso le teorie della spirale del silenzio, dell’agenda setting o del falso consenso.I grandi media anglofoni, come il “The Telegraph”, il “The Independent”, la “Bbc”, la “Cnn” o il “New York Times”, producono periodicamente degli approfondimenti pro-pedofilia, da titoli accattivanti come “We Have Met the Pedophiles and They Are Us”, “Pedophilia: A Disorder, Not a Crime”, “Paedophilia is natural and normal”, “Paedophilia a sexual orientation – like being straight or gay”, dando voce ad accademici, politici, opinionisti ed intellettuali che attraverso discutibili presentazioni basate sul disconoscimento delle conseguenze, sul ridimensionamento, sul giustificazionismo morale, o sull’idea del progresso, tentano di aprire un dibattito pubblico su questo tabù. Negli ultimi anni Ted, l’internazionale delle conferenze sulle società del futuro, finanziata tra gli altri dalla famiglia Clinton, da Bill Gates, da Jimmy Wales e da Google, ha organizzato diversi eventi sul tema della pedofilia, della sessualità contemporanea e delle questioni di genere. Il 5 maggio 2018 nell’ambito di un convegno all’università di Würzburg, l’intervento di Mirjam Heine intitolato “Why our perception on pedophilia must change: pedophilia is a natural sexual orientation”, registrato e pubblicato su YouTube, ha avuto una eco mediatica globale e attirato forti critiche verso gli organizzatori.Negli Stati Uniti il dibattito sulla pedofilia è tornato in auge con l’affermazione della cosiddetta “alt-right”, alimentato da personaggi pubblici come Milo Yiannopoulos e Nathan Larson, mentre nel resto del mondo occidentale proliferano le partecipazioni delle sigle pro-pedofilia ai gay pride, dopo un ventennio di damnatio memoriae, assume sempre più importanza il 25 aprile, la data scelta annualmente per celebrare l’Alice Day, ossia la giornata dell’orgoglio pedofilo, e dei bambini come Desmond Napoles o Nemis Quinn, sono diventati dei giovanissimi drag queen ed icone culturali idolatrate dalla comunità gay occidentale, dai media e dall’establishment dello spettacolo. L’insieme di questi accadimenti lascia supporre che la guerra culturale per l’accettazione della pedofilia sia molto viva ed intensa e ben lontana dal finire. La costruzione dell’Occidente del futuro passerà anche da questo: dal rendere socialmente accettabile la perversa convinzione che anche i bambini abbiano il diritto a sperimentare la sessualità, meglio se con adulto, e che in un mondo ruotante attorno al sesso, alla concupiscenza edonistica e al soddisfacimento di ogni desiderio secondo una visione distopica huxleyana non ci sia nulla di sbagliato nell’educare i fanciulli alla normalità della pedofilia.(Emanuel Pietrobon, “Guerra all’ultimo tabù”, da “L’intellettuale dissidente” del 19 agosto 2018).La pedofilia è l’ultimo grande tabù della civiltà occidentale: orientamento sessuale innato per alcuni, perversione immorale e criminale da punire duramente con il carcere per altri, o ancora una malattia mentale da curare. È necessario discutere oggi di pedofilia, perché il suo sdoganamento – con conseguente legalizzazione e decriminalizzazione sociale – con molta probabilità avverrà nel prossimo futuro; e non si tratta di complottismo spicciolo, ma di una presa di coscienza basata sulla lettura degli eventi attuali. Prima di parlare di cosa stia succedendo a livello propagandistico e pubblico in tema di pedofilia, occorre ripercorrere le origini di un movimento ben definito, organizzato e diffuso capillarmente in tutto l’Occidente, che ambisce a normalizzare le relazioni sessuali tra adulti e minori, nel nome della libertà di scelta e di un presunto diritto dei bambini ad amare. I movimenti per la legalizzazione della pedofilia sorgono nel contesto della rivoluzione controculturale sessantottina che dilagò nei paesi occidentali fra gli anni ’60 e ’70, simultaneamente e nell’alveo delle lotte di liberazione femministe e omosessuali.
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Il teletrasporto? Non è più fantascienza: lo insegna la Cina
Addio petrolio e guerre? Fine dell’era delle auto e dei treni, delle navi e degli aerei? Sop all’inquinamento? La promessa – epocale, ai confini della realtà – si chiama teletrasporto. Per la precisione: entro 20 anni sarebbe possibile “teletrasportare” merci e perfino esseri umani. Non è pià fantascienza: «Il teletrasporto umano potrebbe presto diventare realtà», scrive Massimo Fenris su “Blasting News”. «Spostarsi da un punto all’altro del globo in maniera istantanea, poter essere dove si vuole in una manciata di secondi evitando le lunghe code in stazioni e aeroporti, poter lavorare ovunque non essendo costretti ad abbandonare i propri cari e le proprie radici: sarebbero solo alcuni dei vantaggi del teletrasporto». La grande sfida arriva direttamente dal Cremlino, con un progetto che richiederà un investimento miliardario. «Oggi sembra qualcosa di fantascientifico, ma a Standford ci sono riusciti con esperimenti molecolari. Se ci pensiamo, molta della tecnologia che abbiamo oggi a disposizione è stata pensata dalla fantascienza 20 anni fa», afferma Alexander Galitsky, uno dei principali investitori russi in termini di tecnologie all’avanguardia. Ma la sfida coinvolge ovviamente gli Usa e la Cina, che è riuscita a “telatrasportare” fotoni dalla Terra a un satellite in orbita.Il progetto russo costerà oltre 2 trilioni di dollari, spiega “Blasting News”, e applicherà tutte le tecnologie all’avanguardia, come la computazione quantistica e interfacce neurali (il diretto collegamento tra macchina e cervello umano). «Fino ad ora, il teletrasporto umano ha sempre rappresentato qualcosa di impossibile per la complessità di informazioni che una macchina dovrebbe “ricordare” e riuscire a riassemblare esattamente in ogni singolo frammento, nel luogo di destinazione». In realtà, scrive Fenris, qualcosa del genere si è già realizzato, ma con particelle molto semplici. Nel 2014, gli scienziati della Delft University of Technology, nei Paesi Bassi, hanno dimostrato che è possibile “teletrasportare” informazioni codificate in particelle sub-atomiche, a una distanza di tre metri con affidabilità del 100%. «Tra un essere umano e una particella sub-atomica c’è certamente una grande differenza, ma gli scienziati sono ottimisti e credono che presto tutto questo diventerà realtà». Secondo Elena Kovačič di “Sputink News”, gli scienziati dell’Istituto di Fisica e Tecnologia di Mosca (Mfti) hanno capito che «in futuro sarà possibile percorrere lunghe distanze senza l’applicazione di forza fisica ed essere contemporaneamente in due posti. Ad esempio, a Pechino o Mosca o in Siberia e nelle isole della Nuova Zelanda. Non è escluso il teletrasporto per l’esplorazione dello spazio».Il cosiddetto “entanglement quantistico” è la capacità di due o più sistemi quantistici di comportarsi allo stesso modo, rimanendo inseparabili, anche se distanziati l’uno dall’altro. I fisici russi «hanno trovato un modo per preservare l’“entanglement quantistico” nella trasmissione delle informazioni ad una distanza considerevole», spiega uno dei ricercatori, Sergej Filippov. «C’è una correlazione, come nel caso di una bobina: per cui, ciò che succede a una estremità della bobina è collegato a quanto sta succedendo nell’altra. Queste correlazioni possono essere inviate. Anche le persone, spostate in questo modo ad una certa distanza, saranno comunque correlate». I fisici hanno eseguito una “crittografia quatistica” per la trasmissione di un segnale su fibra ottica, trovando un algoritmo per la trasmissione di qualsiasi cosa. «In un certo senso, questo “assemblaggio”, ricorda l’olografia, ossia l’immagine ricostruita di oggetti tridimensionali usando un laser. La differenza è che questo non è solo un particolare tipo di fotografia: qui c’è la riproduzione di “carne e sangue”, con tutte le caratteristiche e abilità specifiche». Per ora, la scienza non ha ancora la capacità di raggiungere questo obiettivo: finora, i fisici hanno “teletrasportato” fotoni. Ma la stessa tecnica, dicono, consentirà di trasportare materia complessa, fino all’uomo. E nel giro di pochi anni.Molto lusinghieri, in questo campo, i risultati ottenuti dalla Cina: la “Bbc” conferma che alcuni ricercatori cinesi sono riusciti a “teletrasportare” fotoni dal deserto del Gobi fino allo spazio, sul satellite “Micius” in orbita a un’altitudine dalla superficie terrestre che varia dai 500 ai 2.000 chilometri. Una vera e propria operazione fantascientifica, resa possibile grazie a quello che la fisica definisce “entanglement quantistico”, un processo in cui due diverse particelle che, pur non essendo in contatto fisico tra loro, reagiscono come una singola unità. «Prende così forma il concetto di “esistenza condivisa”, per cui qualsiasi alterazione sulla prima particella influenza lo stato della seconda. Già nel 1990, infatti, gli scienziati avevano capito che questo legame poteva essere usato per trasferire uno stato quantistico da un punto a un altro dell’universo», racconta “105.Net”. Dal punto di vista pratico, l’esperimento cinese è durato 32 giorni, durante i quali i ricercatori hanno inviato milioni di fotoni dalla Terra al satellite, ottenendo esiti positivi in 911 casi. «Un risultato straordinario, che permette alla Cina di battere il record per la distanza più grande mai coperta. I cinesi si mostrano dunque dominatori in un campo da sempre guidato da europei e statunitensi. Resta solo da capire quale sarà la prima contromossa dell’Occidente».Stati Uniti, Canada e Unione Europea sono già in gara con russi e cinesi, scrive Elena Dusi su “Repubblica”. «Due esperimenti sono stati appena pubblicati su “Nature Photonics”. Descrivono singoli fotoni capaci di “viaggiare” lungo una normale fibra ottica cittadina, per 6 chilometri a Calgary e 12 a Hefei, vicino a Shangai, “trasportando” le loro informazioni come in una linea Internet tradizionale». Altro che chilometri: i collegamenti quantistici precedenti (il primo realizzato nel 1993) non superavano i centimetri di un tavolo di laboratorio. Laddove si arrivò al record di 143 chilometri, aggiunge “Repubblica”, fu necessario allestire una trasmissione in uno spazio vuoto per non disturbare la corsa delle particelle: il mare fra due isole delle Canarie. «Per la prima volta, invece, a Calgary ed Hefei, il teletrasporto quantistico ha seguito le stesse strade che faremmo noi in auto o in motorino». Questo particolare fenomeno, spiega la Dusi, non ha nulla a che fare con la smaterializzazione e il trasferimento di persone od oggetti: «Lo spostamento infatti non riguarda le particelle in sé, ma le loro caratteristiche e coordinate. Più che a “Star Trek”, il teletrasporto quantistico assomiglia alla spedizione di un fax». In realtà si sfrutta il cosiddetto “entaglement quantistico”, cioè il legame tra due particelle nate da una stessa reazione.Le caratteristiche intrinseche di queste particelle sono legate indissolubilmente: se si modificano quelle dell’una, simultaneamente cambieranno anche quelle dell’altra. E la mutazione non dipende dalla distanza che le separa. Così, due fotoni legati da “entanglement” possono essere inviati al mittente e al destinatario di un messaggio criptato su Internet. Il mittente “modifica” il suo fotone e quindi quello in possesso del destinatario, che così potrà essere usato come chiave per decrittare il messaggio. «I vantaggi riguardano soprattutto la sicurezza», sostiene Francesco Marsili, ingegnere in forza alla Nasa. «Il teletrasporto quantistico non è necessariamente più veloce, semplicemente cancella il rischio di essere spiati. Comunicazioni finanziarie o militari sono le sue ovvie applicazioni». Non è un caso che il “teletrasporto”, dal campo della meccanica quantistica si sia trasferito a quello della geopolitica. La Commissione Europea ha lanciato il suo “Quantum Manifesto”, finanziandolo con un miliardo di euro in dieci anni. Washington ha già realizzato una piccola rete su cui testare le trasmissioni. Altrettanto ha fatto la Cina, con una “autostrada quantistica” di un migliaio di chilometri tra Shanghai e Pechino.Il gigante asiatico, in realtà, ha fatto anche di più, ammette “Repubblica”. «Lanciando il suo primo satellite per le trasmissioni quantistiche dallo spazio, a fine agosto, la Cina ha spostato la corsa all’Internet quantistico dalla Terra al cielo». Proprio sicuri che non sarà possibile – entro vent’anni, come dicono i russi – smaterializzare qualcuno e rimaterializzarlo a migliaia di chilometri di distanza? Un sogno che si sta avvicinando sempre di più alla realtà, «grazie a una serie di esperimenti che nel prossimo futuro potrebbero trasformare il teletrasporto in una pratica comune», scrive Daniele Uva sul “Giornale”, citando il recentissimo record cinese. Dal satellite Micius è partito un fascio laser che ha trasmesso le particelle di luce correlate tra loro alle diverse stazioni a terra, dove sono state misurate. «I fotoni, dopo aver viaggiato per lunghe distanze, hanno mantenuto il loro legame pur trovandosi a più di 1.200 chilometri gli uni dagli altri. Un primato senza precedenti». La ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista specializzata “Science”, ha fatto gridare al miracolo: per la prima volta nella storia, qualcosa di molto simile al “teletrasporto” sembra aver funzionato.Nel 2016, aggiunge il “Giornale”, un gruppo di ricercatori dell’Esa – l’Agenzia Spaziale Europea – ha tentato un esperimento simile a quello cinese: «I due fotoni si trovavano, però, entrambi sulla Terra, e a una distanza di soli 140 chilometri». Sempre nel corso del 2016, ad aprile, alcuni scienziati dell’esercito americano «hanno raccontato di essere riusciti a trasferire un’intera squadra di militari da un centro di ricerca e sviluppo del Massachusetts a una zona di addestramento della Nato in Germania». La notizia è stata addirittura confermata attraverso il “Natick Soldier System Center” dell’esercito statunitense, «nonostante un certo inevitabile scetticismo da parte degli addetti ai lavori». Bisogna andare più indietro nel tempo, al 2004, per trovare un altro tentativo: una squadra americana del National Institute of Standards and Technology e una austriaca dell’università di Innsbruck «riuscirono a spostare, con la tecnica del teletrasporto quantico, alcune proprietà di atomi di berillio e calcio», ricorda Uva sul “Giornale”. Insomma, la ricerca non si ferma. «E la comunità scientifica è convinta che, in assenza di intoppi, entro una decina di anni si potrebbe arrivare a ottenere immagini e filmati quasi in tempo reale da Marte».Addio petrolio e guerre? Fine dell’era delle auto e dei treni, delle navi e degli aerei? Sop all’inquinamento? La promessa – epocale, ai confini della realtà – si chiama teletrasporto. Per la precisione: entro 20 anni sarebbe possibile “teletrasportare” merci e perfino esseri umani. Non è pià fantascienza: «Il teletrasporto umano potrebbe presto diventare realtà», scrive Massimo Fenris su “Blasting News”. «Spostarsi da un punto all’altro del globo in maniera istantanea, poter essere dove si vuole in una manciata di secondi evitando le lunghe code in stazioni e aeroporti, poter lavorare ovunque non essendo costretti ad abbandonare i propri cari e le proprie radici: sarebbero solo alcuni dei vantaggi del teletrasporto». La grande sfida arriva direttamente dal Cremlino, con un progetto che richiederà un investimento miliardario. «Oggi sembra qualcosa di fantascientifico, ma a Standford ci sono riusciti con esperimenti molecolari. Se ci pensiamo, molta della tecnologia che abbiamo oggi a disposizione è stata pensata dalla fantascienza 20 anni fa», afferma Alexander Galitsky, uno dei principali investitori russi in termini di tecnologie all’avanguardia. Ma la sfida coinvolge ovviamente gli Usa e la Cina, che è riuscita a “telatrasportare” fotoni dalla Terra a un satellite in orbita.
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Farmaco, Italia beffata: tutte al Nord Europa le agenzie Ue
Altro che monetina. Altro che pallina da biliardo finita per caso nella buca sbagliata. La mancata vittoria di Milano, la candidata italiana a ospitare l’Agenzia europea del farmaco (Ema) in trasmigrazione da Londra causa Brexit, è frutto della blindatura del blocco teutonico esercitato vuoi con discrezione da colonizzatori e tessitori diplomatici, vuoi con calibrati atti di forza. I franco-tedeschi hanno occupato tutti gli snodi fondamentali delle decisioni politiche, quelli che manovrano i bilanci più capienti o dai quali dipendono le scelte finanziariamente rilevanti. Oltretutto, la Germania è riuscita a disegnare una rete di controllo effettivo che punta più sul peso che sul numero degli enti legati o collegati all’Unione. Basta guardare la cartina con le bandierine dei paesi membri sulle 48 agenzie targate Ue, ma anche sulle istituzioni comunitarie. E più che nei livelli politici, nei piani determinanti per la formazione dei dossier e l’istruzione delle pratiche in mano ai commissari: direttori generali, segretari generali, capi di gabinetto e loro vice.A fare la parte del leone nel computo delle agenzie sono da un lato il Benelux, triangolo fondatore dell’Unione perno del Nord Europa e incardinato nell’asse franco-tedesco: Belgio, Olanda e Lussemburgo. Poi la Francia e il satellite mediterraneo della Germania, la Spagna, che con il suo tradimento nella votazione sull’Ema ha pregiudicato il successo di Milano. Le briciole finiscono all’Italia, agli altri paesi del Mediterraneo e all’Europa dell’Est. Il risultato è un’Europa sbilenca, sbilanciata a Nord. Sulla quale aleggia un ormai maturo «basta!». Le agenzie, in 24 dei 28 paesi, ci costano 1,2 miliardi di euro, pari allo 0.8 per cento del budget europeo. Ma regalano con l’indotto una torta miliardaria ai paesi che le ospitano. A Bruxelles, che già ospita Parlamento e Commissione, ce ne sono 9, comprese l’Agenzia europea per la Difesa (Eda) e il Comitato unico di risoluzione delle crisi bancarie. Hanno base nella capitale belga il grosso delle Agenzie esecutive a tempo, da quella per le Piccole e medie imprese (Easme) a quella per l’Educazione, audiovisivo e cultura, e per la Ricerca.Il Lussemburgo (che già esprime il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, tedesco di formazione, lingua e affinità politica, zavorrato a sua volta da un capo di gabinetto germanico, Martin Selmayr, da molti considerato il vero presidente, più potente dello stesso Juncker) ospita l’Agenzia esecutiva Ue per i Consumatori, salute, agricoltura e cibo. Ma anche la Banca europea di investimenti. E la Corte europea di giustizia, da non confondere con la Corte per i diritti dell’uomo con sede all’Aja, Olanda, emanazione del Consiglio d’Europa che travalica gli stretti confini europei. Nei Paesi Bassi ci sono, sempre all’Aja, gli uffici Europol e Eurojust, rispettivamente per la collaborazione tra le forze di polizia e giudiziaria. Adesso, ad Amsterdam, per fare l’en plein andrà pure l’Ema, anche se il primo mattone della nuova sede dev’essere ancora gettato (investimento previsto, 250-300 milioni). Altra mattatrice la Francia, con 5 agenzie tra cui l’Esma che regola il mercato borsistico, ora pure quella che fissa le regole bancarie dopo il suicidio brexistico del Regno Unito, attribuita tramite sorteggio a Parigi per lo spareggio con l’Irlanda (Dublino).Parigi non si fa mancare l’Agenzia spaziale europea e quella per le Ferrovie. A Copenaghen, Danimarca, l’Agenzia per l’Ambiente. In Germania, a prima vista, solo 2 agenzie: per la sicurezza aerea e l’Autorità per le assicurazioni e pensioni aziendali e professionali. Ma vale più agenzie, a Francoforte, la Banca centrale europea (Bce), guidata dall’italiano Mario Draghi. E una sezione del Tribunale unificato dei brevetti a Monaco, strappata proprio a Milano perché l’Italia, all’epoca, si era battuta per il mantenimento dell’italiano come lingua ufficiale dell’Unione. L’altra sezione si trova a Londra: potrebbe diventare il contentino per Milano a cui si riferiva l’altro ieri Maroni? Ad Alicante, Spagna, opera l’ufficio per i marchi, la proprietà intellettuale, con uno staff di 913 persone e un budget di oltre 384 milioni. Ed è uno dei tanti, troppi (in proporzione) enti europei che si è accaparrata Madrid con la sua politica ancellare rispetto all’asse franco-tedesco, con l’Agenzia per la Pesca a Vigo, quella per la sicurezza sul lavoro, il Centro satellitare europeo, e a Barcellona lo Sviluppo dell’energia atomica. Non proprio bazzecole.Paradossali per dislocazione le attribuzioni della cyber-sicurezza a Creta o l’agenzia Frontex per il controllo delle frontiere Ue a Varsavia, dove i boat-people sono una leggenda esotica. La Francia beneficia inoltre dello sdoppiamento del Parlamento tra Bruxelles e Strasburgo. A proposito, qui il segretario generale e il suo vice sono entrambi tedeschi. E tedesco è il maggior numero di direttori generali della Commissione. Raccontano i funzionari Ue che ci sono riunioni del lunedì tra capi di gabinetto che istruiscono la riunione dei commissari il mercoledì, in cui tra capi e vice i tedeschi arrivano a essere 15 su 28. Sono loro le figure chiave, quelle che gestiscono i fondi dell’Unione. Cruciale la casella occupata da Gunther Oettinger al bilancio e alle risorse umane. Dal 2014 il governo italiano ha puntato su un riequilibrio, arrivando a 2 capi di gabinetto e 4 vice, più 24 italiani nei gabinetti dei commissari. Quattro i direttori generali, anzi 3 dopo che uno, Kessler, si è dimesso. Parecchi, circa il 10 per cento, i vincitori italiani ai concorsi per entrare negli organismi della Ue. Segno che i nostri giovani si fanno valere. Ma la strada per riequilibrare gli assetti è in salita.Le figure di spicco della burocrazia europea che parlano italiano sono Marco Buti agli Affari economici e finanziari, Roberto Viola al Mercato unico digitale e Stefano Manservisi alla cooperazione allo Sviluppo. Scarsa la nostra presenza nei gabinetti dei portafogli economici. E veniamo agli scampoli. Per restare sul tema delle agenzie, l’Italia ne conta realmente solo due (e mezzo). La Sicurezza alimentare a Parma, risultato di una battaglia all’ultimo sangue con la Finlandia, e quella (poco rilevante) per la Formazione a Torino, più il Centro per la meteorologia che si sposterà dal Regno Unito a Bologna, forte di un mega-computer. E a Varese l’Ispra, Istituto superiore per la Protezione e la ricerca ambientale. Bruscolini. Secondarie le agenzie dislocate nel resto d’Europa, nel Sud e all’Est. Siamo 28, ma il cuore e il portafogli battono a Nord. Ma l’Europa si è ristretta al Grande Benelux?(Marco Ventura, “Ma cosa ci stiamo a fare in Ue se si pappa tutto l’Europa del Nord?”, dal “Messaggero” del 23 novembre 2017, articolo ripreso da “Dagospia”).Altro che monetina. Altro che pallina da biliardo finita per caso nella buca sbagliata. La mancata vittoria di Milano, la candidata italiana a ospitare l’Agenzia europea del farmaco (Ema) in trasmigrazione da Londra causa Brexit, è frutto della blindatura del blocco teutonico esercitato vuoi con discrezione da colonizzatori e tessitori diplomatici, vuoi con calibrati atti di forza. I franco-tedeschi hanno occupato tutti gli snodi fondamentali delle decisioni politiche, quelli che manovrano i bilanci più capienti o dai quali dipendono le scelte finanziariamente rilevanti. Oltretutto, la Germania è riuscita a disegnare una rete di controllo effettivo che punta più sul peso che sul numero degli enti legati o collegati all’Unione. Basta guardare la cartina con le bandierine dei paesi membri sulle 48 agenzie targate Ue, ma anche sulle istituzioni comunitarie. E più che nei livelli politici, nei piani determinanti per la formazione dei dossier e l’istruzione delle pratiche in mano ai commissari: direttori generali, segretari generali, capi di gabinetto e loro vice.
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Barcellona spacca l’Ue, e l’esercito tedesco teme il peggio
La Catalogna? «Sono pazzi se pensano di cavarsela in questo modo», cioè lavandosene le mani. «Immaginate che il Belgio “ceda” Puidgemont, l’uomo il cui movimento ha portato la nonviolenza a un livello nuovo e moderno, e immaginate che Rajoy lo condanni a 30 anni di carcere, e che lo stesso individuo il giorno dopo sieda a qualche meeting a Bruxelles. Che quadro verrebbe dipinto davanti agli occhi di 500 milioni di cittadini europei?». Per Raul Ilargi Meijer, semplicemente, l’Unione Europea sta per collassare. Lo scrive in un post su “The Automatic Earth”, ripreso da “Zero Hedge” e tradotto da “Voci dall’Estero”, che osserva: «La situazione attuale non fa altro che esporre per l’ennesima volta la totale inettitudine delle istituzioni unioniste di Bruxelles», mentre nel frattempo «il paese più potente, il vero egemone, la Germania, lascia fare». Ma attenzione: «Le forze armate tedesche si preparano al “caso peggiore”, quello di crollo della Ue». Secondo lo “Spiegel”, infatti, gli strateghi militari della Bundeswehr, per la prima volta, ritengono possibile la fine dell’euro-sistema. E cominciano a preparare piani per proteggere la Germania da un ipotetico collasso dell’Unione Europea.«Se c’è una cosa che la diatriba tra Spagna e Catalogna può servire a ricordare è la Turchia», scrive Raul Ilargi Meijer. «Per la Ue si tratta di un problema molto più grosso di quanto si pensi». Innanzitutto, premette, Bruxelles non può più continuare a insistere sul fatto che si tratti di un problema interno della Spagna – almeno, non da quanto il presidente catalano Puidgemont è… a Bruxelles, dove si trovano anche altri quattro membri del suo governo. «Questa situazione sposta le decisioni dal sistema giudiziario spagnolo alla sua controparte belga. E le due parti non sono esattamente gemelle, nonostante si tratti di due paesi che fanno parte della Ue. Questo – prosegue l’analista – porta alla luce un problema europeo piuttosto importante: la mancanza di omogeneità nei sistemi giudiziari. I cittadini dei paesi Ue sono liberi di spostarsi e di lavorare in tutti i paesi della Ue, ma sono comunque soggetti a diversi sistemi legislativi e a diverse costituzioni». E il modo in cui il governo spagnolo sta cercando di mettere le mani su Puidgemont, scrive Meijer, «è esattamente lo stesso in cui il presidente turco Erdogan sta cercando di catturare il suo presunto arcinemico, Fethullah Gülen, che da tempo è residente in Pennsylvania».Come noto, gli Usa non sono disposti a estradare Gülen, «nemmeno ora che la Turchia mette sotto arresto il personale delle ambasciate statunitensi». E’ evidente: «Gli americani ne hanno avuto abbastanza di Erdogan». L’autocrate turco accusa Gülen di aver organizzato un colpo di Stato? «Il primo ministro spagnolo Rajoy accusa il governo catalano esattamente della stessa cosa». Non si tratta, però, dello stesso tipo di colpo di Stato: «Quello turco è stato caratterizzato da violenza e morte. Quello spagnolo invece non lo è stato, o almeno non lo è stato da parte di chi oggi viene accusato di aver condotto questa azione». Secondo Raul Ilargi Meijer, «Bruxelles avrebbe dovuto intervenire nel caos catalano già da molto tempo, invocando un incontro e una composizione pacifica, anziché insistere sul fatto che tutto questo non avesse a che vedere con la Ue, come invece è stato vigliaccamente e facilmente affermato». Logico: «O sei un’Unione oppure non lo sei. Se lo sei, allora è tua responsabilità garantire il benessere di tutti i tuoi cittadini. Non puoi fare distinzioni e preferenze, devi essere coerente».Il giornale belga “De Standaard” ha fatto una curiosa distinzione: ha detto che al sistema giudiziario belga non è stato chiesto di “estradare” (uitlevering) Puidgemont in Spagna, ma di cederlo (overlevering). È questo l’assurdo lessico del “legalese”. L’articolo ha anche affermato che il caso sarà portato davanti a tre diverse corti giudiziarie, ciascuna delle quali avrà 15 giorni per annunciare una propria decisione. Per questo motivo Puidgemont è al sicuro per almeno un mese e mezzo. Poi, per il 21 dicembre, Rajoy ha indetto le elezioni in Catalogna. In vista di queste, si dice che voglia bandire come illegali diversi partiti: «Non sorprendetevi se tra questi ci sarà il partito di Puidgemont», scrive Raul Ilargi Meijer. «Peraltro, se anche il presidente catalano democraticamente eletto dovesse perdere tutti i ricorsi a sua disposizione, potrebbe sempre chiedere asilo politico al Belgio (a quanto pare il Belgio è l’unico paese Ue a cui i cittadini Ue possano chiedere asilo politico). A quel punto ci troveremmo in una situazione giudiziaria alquanto caotica, che vedrà la Spagna contro il Belgio contro la Ue. In un certo senso questo sarebbe un fatto positivo, perché metterebbe alla prova un sistema che non è affatto preparato a tutte queste divergenze».Per l’Unione Europea, però, sarebbe l’ennesimo disastro: la Ue «ha già mostrato zero capacità di leadership in questo caso politico, sia da parte dei suoi vertici come il capo della Commissione Europea, Juncker, sia da parte di Angela Merkel, il suo capo di Stato più potente». E quindi, aggiunge Meijer, come potremmo non pensare che l’Unione Europea sia completamente alla deriva? «Da questo punto di vista si tratta di una situazione non meno grave della crisi dei rifugiati o della decapitazione dell’economia greca». Francamente, «la minaccia di infliggere condanne a 30 anni di prigione a persone che hanno solamente organizzato un’elezione pacifica non è esattamente ciò per cui la Ue dovrebbe battersi», aggiunge l’analista. «E adesso che sta avvenendo, questo minaccia la sua stessa sopravvivenza». E’ un fatto: «L’Europa non può essere la terra di Francisco Franco o di Erdogan. Non può voltarsi dall’altra parte e pretendere di andare avanti». Potrebbe essere questo il motivo per il quale le forze armate tedesche, la Bundeswehr, hanno preparato un rapporto che considera gli scenari futuri per l’Europa, inclusi i peggiori.Gli strateghi tedeschi, secondo “Der Spiegel”, ammettono di prendere in considerazione anche gli scenari più catastrofici. «La Bundeswehr – scrive il giornale tedesco – ritiene che la fine dell’Occidente nella sua forma attuale sia una possibilità che potrebbe verificarsi entro i prossimi decenni». Lo si afferma in un documento redatto a febbraio dalla difesa, “Prospettive strategiche 2040”, finora passato sotto silenzio. «Per la prima volta nella storia, questo documento di 102 pagine della Bundeswehr mostra come le tendenze nella società e i conflitti internazionali possano influenzare le politiche di sicurezza tedesche dei decenni a venire». Lo studio quindi «definisce il quadro entro il quale la Bundeswehr dovrà probabilmente muoversi nel prossimo futuro». In uno degli scenari (“La disintegrazione della Ue e la Germania in modalità reattiva”) gli autori ipotizzano una serie di “contrapposizioni multiple”. «Le proiezioni future descrivono un mondo nel quale l’ordine internazionale sarà eroso dopo “decenni di instabilità”, e dove i sistemi di valori globali divergeranno e la globalizzazione avrà termine».«L’ampliamento della Ue è stato un obiettivo per lo più abbandonato, già altri paesi hanno lasciato il blocco Ue e l’Europa ha perso la sua competitività globale», scrive uno stratega della Bundeswehr. «Un mondo sempre più caotico e propenso al conflitto ha mutato drasticamente il contesto della difesa per la Germania e l’Europa». Nel quinto scenario esaminato (“Oriente contro Occidente”), alcuni paesi della Ue orientale bloccano il processo di integrazione europea mentre altri hanno già «aderito al blocco orientale». Nel quarto scenario (“competizione multipolare”) l’estremismo è in crescita e ci sono paesi Ue che «occasionalmente sembrano avvicinarsi al modello russo» di capitalismo statale. Il documento non fa espressamente alcuna previsione, ma tutti gli scenari sembrano «verosimili entro il 2040», scrivono gli autori. «E’ abbastanza divertente notare – chiosa Raul Ilargi Meijer – che le “proiezioni future” assomigliano proprio alla Ue di oggi, almeno per come la vedo io, non a quella del 2040». Angela Merkel «può anche passare tutto il suo tempo a pronunciare discorsi pro-Ue», come gli altri leader europei, «ma il suo esercito ha dei seri dubbi su tutto ciò: e di fronte alla palude che si è aperta col caso catalano, chi potrebbe più dubitare che abbiano ragione ad avere dubbi?».Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca perseguono obiettivi completamente diversi da quelli dei Paesi Bassi e della Germania, osserva l’analista. E in Francia, Macron si sta rendendo conto che potrà farà solo quello la Merkel gli permetterà di fare. «E ora ecco che arriva la Spagna e cerca di comminare leggi franchiste e violenza ai suoi cittadini. Bruxelles non fa nulla, Berlino non fa nulla. I rifugiati possono restarsene a marcire sulle isole greche se i paesi dell’Est non li vogliono, e le nonne catalane vengono massacrate dalle truppe franchiste mentre Bruxelles non trova proprio niente da ridire». La Bruxelles di oggi, anota Meijer, è il culmine di 50-60 anni di progressiva istituzionalizzazione: non è cosa che si possa cambiare con un’elezione qua o là. «La Catalogna sarà la fine dei giochi per Bruxelles? O lo sarà invece la crisi dei rifugiati? Lo sarà la Brexit? E’ impossibile dirlo, ma ciò che è sicuro è che allo stato attuale l’Unione non ha futuro, e al tempo stesso non c’è alcuna soluzione in vista». I poteri di Bruxelles sono ben radicati, «e non hanno alcuna intenzione di abdicare solo perché lo vuole qualche paese, o parte di qualche paese, o qualche partito politico, o qualche gruppo di elettori». E’ la dura realtà: «L’Ue è profondamente antidemocratica e ha tutta l’intenzione di rimanerlo».La Catalogna? «Sono pazzi se pensano di cavarsela in questo modo», cioè lavandosene le mani. «Immaginate che il Belgio “ceda” Puidgemont, l’uomo il cui movimento ha portato la nonviolenza a un livello nuovo e moderno, e immaginate che Rajoy lo condanni a 30 anni di carcere, e che lo stesso individuo il giorno dopo sieda a qualche meeting a Bruxelles. Che quadro verrebbe dipinto davanti agli occhi di 500 milioni di cittadini europei?». Per Raul Ilargi Meijer, semplicemente, l’Unione Europea sta per collassare. Lo scrive in un post su “The Automatic Earth”, ripreso da “Zero Hedge” e tradotto da “Voci dall’Estero”, che osserva: «La situazione attuale non fa altro che esporre per l’ennesima volta la totale inettitudine delle istituzioni unioniste di Bruxelles», mentre nel frattempo «il paese più potente, il vero egemone, la Germania, lascia fare». Ma attenzione: «Le forze armate tedesche si preparano al “caso peggiore”, quello di crollo della Ue». Secondo lo “Spiegel”, infatti, gli strateghi militari della Bundeswehr, per la prima volta, ritengono possibile la fine dell’euro-sistema. E cominciano a preparare piani per proteggere la Germania da un ipotetico collasso dell’Unione Europea.
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Ur-Lodges, gli uomini al comando: la mappa del vero potere
Mario Draghi (classe 1947, presidente della Banca centrale europea dal 2011, affiliato alla “Edmund Burke”, alla “Pan-Europa”, alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”, alla “Three Eyes” e alla “Der Ring”). Giorgio Napolitano (classe 1925, già presidente della Repubblica italiana, affiliato alla “Three Eyes”). Massimo D’Alema, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”. Mario Monti (classe 1943, economista, senatore a vita e presidente del Consiglio italiano dal 2011 al 2013, affiliato in forma più o meno coperta alla United Grand Lodge of England e alla Ur-Lodge “Babel Tower”). Fabrizio Saccomanni (classe 1942, banchiere, economista, già direttore generale della Banca d’Italia dal 2006 al 2013, dal 2013 al 2014 è stato ministro dell’economia del governo Letta, affiliato alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum” e alla “Edmund Burke”). Pier Carlo Padoan (classe 1950, economista, dal 24 febbraio 2014 ministro dell’economia nel governo Renzi e nel governo Gentiloni, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”).Gianfelice Rocca (classe 1948, tra i più importanti imprenditori italiani, presidente di Techint e di Assolombarda, affiliato alla “Three Eyes”). Domenico Siniscalco (classe 1954, economista, banchiere, già ministro dell’economia dal 2004 al 2005, affiliato alla “Edmund Burke”). Giuseppe Recchi (classe 1964, top manager, affiliato alla “Three Eyes”). Marta Dassù (classe 1955, saggista, già sottosegretaria e viceministra degli affari esteri, attualmente nel cda di Finmeccanica, affiliata alla “Three Eyes”). Corrado Passera (classe 1954, banchiere, manager, politico, già ministro dello sviluppo economico dal 2011 al 2013 nel governo Monti, affiliato alla “Atlantis-Aletheia”). Ignazio Visco (classe 1949, economista, governatore della Banca d’Italia dal 2011, affiliato alla “Edmund Burke”).Enrico Tommaso Cucchiani (classe 1950, banchiere e top manager, affiliato alla “Three Eyes”). Alfredo Ambrosetti (classe 1931, economista, fondatore e presidente emerito di The European House-Ambrosetti, affiliano alla “Pan-Europa”).Carlo Secchi (classe 1944, economista e politico, affiliato alla “Three Eyes”, alla “Pan-Europa” e alla “Babel Tower”). Emma Marcegaglia (classe 1965, imprenditrice e top manager, affiliata alla “Pan-Europa”). Matteo Arpe (classe 1964, banchiere e top manager, affiliato alla “Edmund Burke”). Vittorio Grilli (classe 1957, economista, direttore generale del ministero del Tesoro dal 2005 al 2011 e ministro dell’economia con il governo Monti, affiliato alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”). Giampaolo Di Paola (classe 1944, ammiraglio, ministro della difesa dal 2011 al 2013 con il governo Monti, affiliato alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”). Federica Guidi (classe 1969, imprenditrice, già ministro dello sviluppo economico del governo Renzi, affiliata alla “Three Eyes”).Angela Merkel (classe 1954, politica, cancelliera tedesca dal 2005, affiliata alla “Golden Eurasia”, alla “Valhalla” e alla “Parsifal”). Vladimir Putin (classe 1952, attuale presidente della Federazione Russa, affiliato alla “Golden Eurasia”). Christine Lagarde (classe 1956, avvocatessa e politica francese, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, affiliata alla “Three Eyes” e alla “Pan-Europa”). George W. Bush (classe 1949, presidente degli Stati Uniti dal 2001 al 2009, affiliato alla “Hathor Pentalpha”). Michael Ledeen (classe 1941, giornalista, intellettuale e politologo statunitense, affiliato alla “White Eagle” alla “Hathor Pentalpha”). Condoleezza Rice (classe 1954, politica, affiliata alla “Three Eyes” e alla “Hathor Pentalpha”, già esponente di punta dell’amministrazione Bush). Abu Bakr Al-Baghdadi (classe 1971, terrorista iracheno, leader dell’Isis e Califfo dell’autoproclamato Stato islamico, affiliato alla “Hathor Pentalpha”).José Manuel Durão Barroso (classe 1956, portoghese, docente universitario, politico, presidente della Commissione Europea dal 2004 al 2014, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Parsifal”). Olli Rehn (classe 1962, politico finlandese, già vicepresidente della Commissione Europea, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Babel Tower”). Tony Blair (classe 1953, premier britannico dal 1997 al 2007, affiliato alla “Edmund Burke” e poi alla “Hathor Pentalpha”). David Cameron (classe 1966, premier britannico dal 2010, affiliato alla “Edmund Burke” e alla “Geburah”). Pedro Passos Coelho (classe 1964, primo ministro del Portogallo dal 2011, affiliato alla “Three Eyes”, alla “Edmund Burke” e alla “White Eagle”). Mariano Rajoy (classe 1955, primo ministro della Spagna dal 2011, affiliato alla “Pan-Europa”, alla “Valhalla” e alla “Parsifal”). Antonis Samaras (classe 1951, politico, già primo ministro della Grecia, affiliato alla “Three Eyes”). Jean-Claude Trichet (classe 1942, economista e banchiere francese, presidente della Bce dal 2003 al 2011, affiliato alla “Pan-Europa”, alla “Babel Tower” e alla “Der Ring”.Bernard Arnault (classe 1949, imprenditore francese, dominus della Louis Vuitton Moët Hennessy, affiliato alla “Three Eyes” e alla “Edmund Burke”). Nicolas Sarkozy (classe 1955, politico, presidente della Repubblica francese dal 2007 al 2012, affiliato alla “Edmund Burke”, alla “Geburah”, alla “Atlantis-Aletheia”, alla “Pan-Europa” e alla “Hathor Pentelpha”). Manuel Valls (classe 1962, già primo ministro francese, iniziato a suo tempo nel Grand Orient de France e poi affiliato alla “Edmund Burke”, alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum” e alla “Der Ring”). Christian Noyer (classe 1950, banchiere, attuale governatore della Banca di Francia, affiliato alla “Pan-Europa”, e alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”). Mark Rutte (classe 1967, primo ministro dei Paesi Bassi dal 2010, affiliato alla “Three Eyes” e alla “Pan-Europa”). Ben van Beurden (classe 1958, top manager olandese, ceo della Royal Dutch Shell, affiliato alla “Geburah” e alla “Der Ring”). Wolfgang Schäuble (classe 1942, politico, attuale ministro delle finanze tedesco, attuale maestro venerabile della “Der Ring”, affiliato alla “Joseph de Maistre”). Peter Voser (classe 1958, top manager olandese e ceo della Royal Dutch Shell, affiliato alla “Pan-Europa”). Bill Gates (classe 1955, imprenditore statunitense fondatore della Microsoft, affiliato alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”).(Elenco sintetico di eminenti personalità italiane e internazionali affiliate a superlogge neo-conservatrici e reazionarie, fornito dal libro di Gioele Magaldi “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”. Secondo Magaldi, già “venerabile” della loggia romana Monte Sion del Grande Oriente d’Italia e poi iniziato alla superloggia sovranazionale progressista “Thomas Paine”, le 36 logge madri di cui ha rivelato l’esistenza costituirebbero l’autentico “back-office” del potere mondiale. Nel dopoguerra e fino agli anni ‘70, sostiene Magaldi, la leadership internazionale è stata esercitata in questo ambito da strutture di orientamento progressista, rooseveltiano e keynesiano, con esiti misurabili in Europa dall’impegno di personaggi come l’inglese William Beveridge, “l’inventore” del welfare, e lo svedese Olof Palme, punta avanzata della miglior socialdemocrazia europea. Poi, dagli anni ‘80, anche gli esponenti della tradizione socialista – da Blair a D’Alema, da Manuel Valls allo stesso Napolitano – sarebbero stati affiliati a Ur-Lodge di segno neo-feudale e oligarchico, massime interpreti della globalizzazione più vorace e privatizzatrice).Mario Draghi (classe 1947, presidente della Banca centrale europea dal 2011, affiliato alla “Edmund Burke”, alla “Pan-Europa”, alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”, alla “Three Eyes” e alla “Der Ring”). Giorgio Napolitano (classe 1925, già presidente della Repubblica italiana, affiliato alla “Three Eyes”). Massimo D’Alema, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”. Mario Monti (classe 1943, economista, senatore a vita e presidente del Consiglio italiano dal 2011 al 2013, affiliato in forma più o meno coperta alla United Grand Lodge of England e alla Ur-Lodge “Babel Tower”). Fabrizio Saccomanni (classe 1942, banchiere, economista, già direttore generale della Banca d’Italia dal 2006 al 2013, dal 2013 al 2014 è stato ministro dell’economia del governo Letta, affiliato alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum” e alla “Edmund Burke”). Pier Carlo Padoan (classe 1950, economista, dal 24 febbraio 2014 ministro dell’economia nel governo Renzi e nel governo Gentiloni, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”).
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Zero crescita: peggio dell’Italia solo Grecia e Centrafrica
Nel mese di maggio, qui su “The Sounding Line”, abbiamo sottolineato che l’economia greca si è ridotta del 9% da quando ha adottato l’euro nel 2002, dimostrando che la Grecia non ha tratto sostanzialmente alcun beneficio economico dall’ingresso nell’euro e ha perso l’equivalente di un’intera generazione di crescita e prosperità. «L’economia greca oggi è ridotta del 9 % rispetto a quando la Grecia ha adottato l’euro, nel 2002. Solo per questo fatto l’economia greca ha sperimentato una delle peggiori performance di “crescita” economica a lungo termine di tutto il mondo». L’affermazione che la Grecia ha sperimentato una delle peggiori performance economiche del mondo potrebbe sembrare un’iperbole, ma purtroppo non è così. Per illustrare ulteriormente questo punto, abbiamo analizzato il prodotto interno lordo reale (Pil) di ogni paese del mondo dal 2000 al 2016 in valuta locale, tenuto conto dell’inflazione in base ai dati della Banca Mondiale. Gli unici paesi che mancano sono quella manciata di Stati per i quali i dati economici pertinenti non erano disponibili per queste cause: conflitti militari (Somalia, Afghanistan, Siria); nel 2000 non esistevano (Sud Sudan); sono micro-Stati (Monaco, Andorra); oppure, nel caso del Venezuela e della Corea del Nord, hanno un tasso di inflazione che non è più calcolabile o è sconosciuto. In definitiva, i dati sono risultati disponibili per 181 paesi.Escludendo i paesi di cui sopra, la Grecia ha sperimentato la maggior riduzione assoluta del Pil reale rispetto a qualsiasi paese al mondo nel 21 ° secolo e (insieme con la Repubblica Centrafricana) il terzo peggior tasso di crescita economica di qualsiasi paese. Gli evidenti effetti negativi dell’appartenenza all’Eurozona non sono limitati alla Grecia. Subito dopo la Grecia e la Repubblica Centrafricana viene l’Italia, che ha visto la quarta più lenta crescita economica di tutto il mondo nel 21° secolo, una crescita a malapena dell’1% nel corso degli ultimi 16 anni. Non molto lontano, il Portogallo risulta la sesta economia più lenta al mondo, con una crescita negli ultimi 16 anni del 3%. Da notare che tra i 25 paesi con la crescita economica più lenta del mondo, sette sono paesi dell’Eurozona, tra cui la Germania (un po’ sorprendente), i Paesi Bassi, la Finlandia e la Francia. La Danimarca, che è nell’Ue, ma non nell’area dell’euro (però ha la moneta agganciata all’euro), è anche lei tra i 25 paesi con la crescita più lenta al mondo. Comunque possiamo congratularci con i leader economici dell’Eurozona per avere ridotto l’economia della Grecia meno (parlando di percentuali) di quanto ha fatto un dittatore di 93 anni come Robert Mugabe nello Zimbabwe e delle varie fazioni che governano lo Yemen lacerato dalla guerra.In altre parole, negli ultimi 17 anni la crescita economica greca, italiana e portoghese è stata peggiore rispetto a: Iraq (nonostante 15 estenuanti anni di guerra e insurrezione), Iran (nonostante gli anni di schiaccianti sanzioni internazionali), Ucraina (nonostante il suo conflitto con la Russia), Liberia (nonostante la guerra civile e migliaia di persone uccise da Ebola), Sudan (nonostante anni di genocidio, guerra civile e la divisione in due del paese) e di quasi tutti gli altri paesi del mondo. Naturalmente, mantenere elevati tassi di crescita è più difficile per le grandi economie sviluppate. Tuttavia, questa non è una scusa per la crescita negativa o vicina a zero osservata in Grecia, Italia e Portogallo. Tutte le grandi economie sviluppate al di fuori dell’Eurozona infatti sono cresciute notevolmente nello stesso periodo. Questo è particolarmente vero visto che anche l’economia – famigerata per la sua lentezza – del Giappone è cresciuta di un relativamente veloce 13%, la Svizzera del 31%, il Regno Unito del 32%, gli Stati Uniti del 33%, il Canada del 36%, l’Australia del 59%, la Russia del 71% e la Cina di un incredibile 325%. Sebbene la crescita economica non sia l’unica misura importante per giudicare un’economia, né garantisca che la ricchezza economica sia distribuita in modo equo, in assenza di crescita, semplicemente, non è possibile avere sostanziali miglioramenti economici per la popolazione di un paese.Ciò che sta succedendo in diverse economie dell’Eurozona non può essere attribuito a un rallentamento economico ciclico, né a un recupero lento dalla crisi finanziaria del 2008, né è semplicemente una conseguenza inevitabile per un’economia sviluppata. Lo smentiscono le prestazioni migliori di praticamente qualsiasi altro paese sulla Terra, dai più grandi paesi avanzati ai paesi del Terzo mondo che hanno affrontato guerre, genocidi, epidemie, corruzione e rivoluzioni. Grecia, Italia, Portogallo e alcuni altri paesi dell’Eurozona soffrono di profondi problemi strutturali (per esempio una moneta strutturalmente sopravvalutata) e di una gestione economica tra le più incapaci del mondo. Forse è giunto il momento di iniziare a considerare i leader economici dell’autodichiarata élite che gestisce l’eurozona responsabili dei risultati che hanno ottenuto. E, dato che la Grecia continua a lottare per sostenere il suo debito sovrano non ripagabile, vale la pena di notare che i sette paesi africani e centroamericani che hanno scelto di fare default sui propri debiti sovrani a partire dal 2000, sono tutti cresciuti più della Grecia (con la probabile eccezione del Venezuela). Forse la Grecia dovrebbe cogliere il suggerimento.(Taps Coogan, “Crescita economica mondiale 2000-2016: Grecia e Italia agli ultimissimi posti”, da “The Sounding Line”, dell’11 agosto 2017, post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).Nel mese di maggio, qui su “The Sounding Line”, abbiamo sottolineato che l’economia greca si è ridotta del 9% da quando ha adottato l’euro nel 2002, dimostrando che la Grecia non ha tratto sostanzialmente alcun beneficio economico dall’ingresso nell’euro e ha perso l’equivalente di un’intera generazione di crescita e prosperità. «L’economia greca oggi è ridotta del 9 % rispetto a quando la Grecia ha adottato l’euro, nel 2002. Solo per questo fatto l’economia greca ha sperimentato una delle peggiori performance di “crescita” economica a lungo termine di tutto il mondo». L’affermazione che la Grecia ha sperimentato una delle peggiori performance economiche del mondo potrebbe sembrare un’iperbole, ma purtroppo non è così. Per illustrare ulteriormente questo punto, abbiamo analizzato il prodotto interno lordo reale (Pil) di ogni paese del mondo dal 2000 al 2016 in valuta locale, tenuto conto dell’inflazione in base ai dati della Banca Mondiale. Gli unici paesi che mancano sono quella manciata di Stati per i quali i dati economici pertinenti non erano disponibili per queste cause: conflitti militari (Somalia, Afghanistan, Siria); nel 2000 non esistevano (Sud Sudan); sono micro-Stati (Monaco, Andorra); oppure, nel caso del Venezuela e della Corea del Nord, hanno un tasso di inflazione che non è più calcolabile o è sconosciuto. In definitiva, i dati sono risultati disponibili per 181 paesi.
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Suicidio demografico: l’Europa perderà 1/3 dei suoi abitanti
Civiltà fantasma globalizzata. In Giappone le scuole elementari chiudono, dato che il numero dei bambini è sceso a meno del 10% della popolazione. Il governo sta convertendo queste strutture in ospizi: il 40% della popolazione è di età superiore ai 65 anni. In Giappone, «la nazione più vecchia e più sterile del mondo», l’espressione “civiltà fantasma” è diventata ormai di uso comune, scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”. Secondo stime ufficiali, entro il 2040 la maggior parte delle città più piccole del paese vedrà un drammatico calo della popolazione, dal 30 al 50%. I consigli dei villaggi spariscono, insieme ai ristoranti: nel ‘90 erano 850.000, ora si sono ridotti a 350.000. «Le previsioni suggeriscono che in 15 anni il Giappone avrà 20 milioni di case vuote. È forse anche questo il futuro dell’Europa? Probabile, perché tra gli esperti di demografia c’è una tendenza a definire l’Europa il nuovo Giappone». Da parte sua, il paese del Sol Levante sta affrontando questa catastrofe demografica con le proprie risorse e vietando l’immigrazione musulmana. Ma «anche l’Europa sta subendo una sorta di suicidio demografico», che lo storico britannico Niail Ferguson definisce «la più grande riduzione sostenuta della popolazione europea dopo la peste nera del XIV secolo».Un segnale sintomatico del nuovo trend socioculturale, per esempio, secondo Spadini sta nel fatto che gli esponenti europei del grande esclusivo club globale, il G7, sono privi di figli: Angela Merkel, Theresa May, Paolo Gentiloni e Emmanuel Macron, cui aggiungiamo il primo ministro olandese Mark Rutte e il primo ministro gay del Lussemburgo, Xavier Bettel. I musulmani europei sembrano sognare di colmare questo vuoto? L’arcivescovo di Strasburgo, Luc Ravel, nominato da Papa Francesco lo scorso febbraio, ha di recente dichiarato che i fedeli musulmani sono ben consapevoli del fatto che la loro fertilità è tale che oggi chiamano “Grand Remplacement” il loro inserimento nella società europea. Quanto all’Italia, il Centro Machiavelli rileva che, se l’attuale tendenza dovesse continuare, «entro il 2065 la quota di immigrati di prima e seconda generazione supererà i 22 milioni di persone, ossia sarà più del 40% della popolazione totale». Il tasso di fertilità dell’Italia è inferiore della metà di quello che era nel 1964, spiega il centro studi, attraverso un dossier firmato da Daniele Scalea (“Come l’immigrazione sta cambiando la demografia italiana”).L’Europa (e l’Italia in particolare) stanno affrontando un periodo di flussi migratori in entrata senza precedenti, osserva Rosanna Spadini. «Ciò dipende in primis dalla concomitanza tra declino demografico europeo (dal 22% della popolazione mondiale nel 1950 al 7% nel 2050) ed esplosione demografica africana (dal 9% al 25% della popolazione mondiale in cento anni). Il tasso di natalità è sceso da 2,7 bambini per donna a appena 1,5 bambini per donna, un tasso ben al di sotto del minimo consentito per una rigenerazione sana della popolazione». Inoltre, aggiunge l’analista di “Come Don Chisciotte” citando una recente relazione di “Zerohedge”, si assiste a una maggiore omogeneità dell’immigrazione: le prime dieci nazionalità rappresentano oggi il 64% degli immigrati totali, mentre negli anni ‘70 erano appena il 13%. Tutto ciò non si discosta da quanto sta accadendo in diversi paesi dell’Europa occidentale. «Intorno al 2065 in Gran Bretagna l’etnia britannica dovrebbe perdere la maggioranza assoluta nel proprio paese. Oggi in Germania i minori di 5 anni sono al 36% figli di immigrati, lasciando presagire un grande mutamento nella composizione etnica della prossima generazione».A partire dal 2017, l’Italia ha registrato oltre 5 milioni di stranieri che vivono come residenti: «Una crescita del 25% rispetto al 2012 e un enorme 270% rispetto al 2002. All’epoca, gli stranieri costituivano solo il 2,38% della popolazione. Quindici anni dopo la percentuale è quasi triplicata fino all’8,33% della popolazione». Inoltre, la natalità degli immigrati è notevolmente superiore a quella degli italiani nativi: «Non è quindi sorprendente che le regioni italiane con i tassi di fertilità più alti non siano più nel sud, come è sempre accaduto, ma nel nord italiano e nella regione del Lazio, dove c’è una concentrazione maggiore di immigrati». In confronto, solo nel 2001 la percentuale degli stranieri che vivevano in Italia aveva attraversato la soglia dell’1%, cosa che rivela la velocità e l’entità delle trasformazioni demografiche che si stanno verificando in Italia, un fenomeno senza precedenti. Un’ulteriore preoccupazione avanzata dalla relazione di Scalea è «l’elevata concentrazione delle popolazioni immigrate da pochi paesi d’origine, che spesso produce fenomeni di ghettizzazione».Lo scorso anno, in 13 dei 28 paesi membri dell’Unione Europea, il saldo tra nascite e decessi è stato negativo: senza i flussi migratori, le popolazioni di Germania e Italia dovrebbero diminuire rispettivamente del 18% e del 16%. «L’impatto della situazione demografica in caduta libera è più visibile nei paesi dell’ex blocco sovietico, come Polonia, Ungheria e Slovacchia, per distinguerli da quelli della cosiddetta “vecchia Europa”, come Francia e Germania». Questi paesi dell’Est, continua Spadini, sono ora quelli più esposti al fenomeno dello spopolamento e al «devastante crollo del tasso di natalità» che il giornalista e scrittore Mark Steym ha definito «il principale problema del nostro tempo». Alla fine del secolo, «l’Europa potrebbe ritrovarsi come colpita da una bomba al neutrone: gli edifici in piedi, ma senza bambini», si legge in “America Alone”, un pamphlet su crollo demografico, islamismo, sindrome di Stoccolma, solitudine americana e disastri del multiculturalismo. «Se gli occidentali vogliono godere delle benedizioni della vita in una società libera devono capire che la vita che abbiamo vissuto dal 1945 è stato un momento rarissimo nella storia dell’umanità».La distanza fra Usa ed Europa sta crescendo: «L’America è l’ultima nazione a sostenere un tasso di crescita riproduttivo, l’ultima grande società religiosa in Occidente, l’ultima a mantenere un esercito in grado di difenderla in qualunque parte del mondo e l’ultima a conservare una tradizione attiva di libertà individuale, incluso il diritto di portare armi». Per una popolazione stabile, si calcola che serva un tasso di crescita del 2,1%, cioè il tasso dell’America, contro l’1,38 dell’Europa, l’1,32 del Giappone e l’1,14 del Canada. A preoccupare sono, ancora, i giapponesi: «Non c’è precedente nella storia per questa crescita economica e crollo del capitale umano: per la prima volta, nel 2005 in Giappone ci sono state più morti che nascite». E’ un paese «di geriatri, senza immigrazione, né minoranze e senza desiderio di niente: solo invecchiare e affievolirsi». Per Steym, anche l’Europa alla fine del secolo sarà come un continente dopo lo scoppio di una bomba al neutrone: «Ci saranno ancora edifici in piedi, ma la popolazione sarà scomparsa. Il tedesco sarà parlato giusto da Hitler, Himmler e Göring durante la seratina di poker all’inferno».«Una parte del pianeta sta optando per il suicidio di fronte al surriscaldamento», aggiunge Steym. «L’Europa sarà semi-islamica nel carattere politico e culturale entro due generazioni, forse una. Nel XV secolo la Morte Nera fece fuori un terzo della popolazione. Nel XXI scomparirà per scelta. Stiamo assistendo alla lenta estinzione della civiltà in cui viviamo». Il “New York Times” si è chiesto perché «nonostante la popolazione diminuisca, i paesi dell’Europa orientale non vogliono accettare i migranti». Inoltre, gran parte dell’Europa orientale ha già vissuto l’esperienza dell’occupazione musulmana per centinaia di anni sotto l’Impero Ottomano, «e questi paesi sono tutti consapevoli che ciò potrebbe accadere di nuovo». Ma anche l’Africa sta esercitando pressioni sull’Europa, «come una bomba demografica a tempo». Per il nazionalista olandese Geert Wilders, «nei prossimi trent’anni l’Africa avrà un miliardo di persone in più, cioè il doppio della popolazione dell’intera Unione Europea». Al che, la pressione demografica sarà enorme: «Un terzo degli africani vuole spostarsi all’estero e molti vogliono venire in Europa. Lo scorso anno più di 180.000 persone sono partite dalla Libia a bordo di imbarcazioni fatiscenti. E questo è solo l’inizio».Secondo l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, solo al 2,65% dei migranti arrivati in Italia (4.808) è stato riconosciuto il diritto di asilo, «mentre 90.334 migranti non hanno chiesto l’asilo ma sono scomparsi nell’economia del mercato nero». Secondo il greco Dimitris Avramopoulos, responsabile per le migrazioni in seno alla Commissione Europea, «in questo periodo tre milioni di africani pianificano di entrare in Europa». Michael Moller, direttore dell’ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra, avverte che il processo di migrazione «sta accelerando». I giovani hanno tutti i cellulari e possono vedere sul web che cosa sta succedendo in altre parti del mondo. «Infatti – annota Rosanna Spadini – possono vedere sui loro telefoni che, mentre meno del 3% degli immigrati dello scorso anno erano legittimi richiedenti asilo, quasi nessuno viene rispedito indietro», dal momento che i migranti «sono accolti con generosi benefici sociali, alloggi sovvenzionati e sistemi sanitari pubblici».Anche l’Europa orientale si sta assottigliando sempre più, e la demografia è diventata un problema per la sicurezza, aggiunge “Come Don Chisciotte”. «Diminuisce il numero delle persone che prestano servizio nell’esercito e operano nell’assistenza sociale: un tempo i paesi dell’Europa orientale temevano i carri armati sovietici, ora temono le culle vuote». Le Nazioni Unite stimano che nel 2016 l’Est Europa fosse abitata da circa 292 milioni di persone, 18 milioni in meno rispetto agli inizi degli anni Novanta. «Questa cifra equivale alla scomparsa dell’intera popolazione dei Paesi Bassi». Il “Financial Times” definisce la situazione est-europea come «la perdita più importante di popolazione della storia moderna». Neppure la Seconda Guerra Mondiale, con i suoi massacri, le deportazioni e i suoi esodi di massa, era giunta a tanto. Entro il 2050, la Romania perderà il 22% della sua popolazione, seguita da Moldavia (20%), Lettonia (19%), Lituania (17%), Croazia (16%) e Ungheria (16%). «Romania, Bulgaria e Ucraina sono i paesi in cui il calo demografico sarà più drastico. Si stima che nel 2050 la popolazione della Polonia conterà 32 milioni di abitanti rispetto ai 38 milioni attuali. Circa 200 scuole sono state chiuse».In Europa centrale, la proporzione della popolazione “over 65” è aumentata di un terzo tra il 1990 e il 2010, continua Spadini. La popolazione ungherese ha toccato il punto più basso degli ultimi cinquant’anni. Il numero degli abitanti è sceso dai 10 milioni e 709.000 del 1980 agli attuali 9 milioni e 986.000. «Nel 2050, in Ungheria, ci saranno 8 milioni di abitanti e uno su tre avrà più di 65 anni. L’Ungheria oggi ha un tasso di fecondità di 1,5 figli per donna. Se si esclude la popolazione Rom, questa cifra scende a 0,8, la più bassa del mondo, il motivo per il quale il premier Orbán ha annunciato nuove misure per risolvere la crisi demografica». In Bulgaria, addirittura, «tra il 2015 e il 2050 si registrerà il più veloce calo demografico del mondo». La popolazione bulgara è tra quelle che dovrebbero diminuire di oltre il 15%, insieme a Bosnia Erzegovina, Croazia, Ungheria, Giappone, Lettonia e Lituania, imsieme a Moldavia, Romania, Serbia e Ucraina. «Si stima che la popolazione bulgara, che ammonta a circa 7,15 milioni di abitanti, scenderà a 5,15 milioni entro 30 anni – un calo del 27,9% per cento».Secondo dati ufficiali, in Romania sono nati 178.000 bambini. «A titolo di confronto, nel 1990, il primo anno dopo la caduta del regime comunista, ci furono 315.000 nascite. Lo scorso anno in Croazia si sono registrate 32.000 nascite, un calo del 20% rispetto al 2015. Lo spopolamento della Croazia potrebbe portare alla perdita di 50.000 abitanti l’anno». Quando la Repubblica Ceca faceva ancora parte del blocco sovietico (come Cecoslovacchia), il suo tasso di fecondità era opportunamente prossimo al tasso di sostituzione (2,1%). «Oggi è il quinto paese più sterile del mondo». Analoga la situazione della Slovenia: ha il Pil pro capite più alto dell’Europa orientale, ma un tasso di fecondità molto basso. «Alla fine – conclude Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte” – l’immigrazione di massa probabilmente riempirà le culle vuote, ma poi anche l’Europa diventerà una “civiltà fantasma”». Sembra sia solo questione di tempo: «Uno strano tipo di suicidio programmato».Civiltà fantasma globalizzata. In Giappone le scuole elementari chiudono, dato che il numero dei bambini è sceso a meno del 10% della popolazione. Il governo sta convertendo queste strutture in ospizi: il 40% della popolazione è di età superiore ai 65 anni. In Giappone, «la nazione più vecchia e più sterile del mondo», l’espressione “civiltà fantasma” è diventata ormai di uso comune, scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”. Secondo stime ufficiali, entro il 2040 la maggior parte delle città più piccole del paese vedrà un drammatico calo della popolazione, dal 30 al 50%. I consigli dei villaggi spariscono, insieme ai ristoranti: nel ‘90 erano 850.000, ora si sono ridotti a 350.000. «Le previsioni suggeriscono che in 15 anni il Giappone avrà 20 milioni di case vuote. È forse anche questo il futuro dell’Europa? Probabile, perché tra gli esperti di demografia c’è una tendenza a definire l’Europa il nuovo Giappone». Da parte sua, il paese del Sol Levante sta affrontando questa catastrofe demografica con le proprie risorse e vietando l’immigrazione musulmana. Ma «anche l’Europa sta subendo una sorta di suicidio demografico», che lo storico britannico Niall Ferguson definisce «la più grande riduzione sostenuta della popolazione europea dopo la peste nera del XIV secolo».
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Esercito europeo sotto il comando tedesco: sta nascendo
Ogni pochi anni, l’idea di un esercito dell’Ue torna a farsi strada tra le notizie, facendo molto rumore. Per alcuni è un’idea fantastica, per altri un incubo: per ogni federalista di Bruxelles convinto che una forza di difesa comune sia ciò che serve all’Europa per rilanciare la sua posizione nel mondo, ci sono quelli, a Londra e altrove, che inorridiscono all’idea di un potenziale rivale della Nato. Ma quest’anno, lontano dall’attenzione dei media, la Germania e due dei suoi alleati europei, la Repubblica Ceca e la Romania, hanno silenziosamente fatto un passo avanti radicale verso un qualcosa che assomiglia ad un esercito Ue, evitando le complicazioni politiche che questo passo comporta: hanno annunciato l’integrazione delle loro forze armate. L’intero esercito della Romania non si unirà alla Bundeswehr, né le forze armate ceche diventeranno una semplice divisione tedesca. Ma nei prossimi mesi, ciascun paese integrerà una brigata nelle forze armate tedesche: l’81a Brigata Meccanizzata della Romania si unirà alla Divisione delle Forze di Risposta Rapida della Bundeswehr, mentre la 4a Brigata di Dispiegamento Rapido della Repubblica Ceca, che ha servito in Afghanistan e in Kosovo ed è considerata la punta di lancia dell’esercito ceco, diventerà parte della Decima Divisione Blindata tedesca.Così facendo, seguiranno le orme di due brigate olandesi, una delle quali è già entrata a far parte della Divisione delle Forze di Risposta Rapida mentre l’altra è stata integrata nella Prima Divisione Blindata della Bundeswehr. Secondo Carlo Masala, professore di politica internazionale presso l’Università della Bundeswehr a Monaco di Baviera, «il governo tedesco si sta dimostrando disposto a procedere verso l’integrazione militare europea» – anche se altri paesi del continente ancora non lo sono. Il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker ha ripetutamente ventilato l’idea di un esercito dell’Unione Europea, solo per ricevere in risposta derisione o un imbarazzato silenzio. È così anche adesso che l’Uk, eterno nemico dell’idea, sta uscendo dall’unione. C’è poco accordo tra i rimanenti Stati membri su come dovrebbe essere organizzata esattamente una simile forza e a quali competenze le forze armate nazionali dovrebbero conseguentemente rinunciare. E così il progresso è stato lento. A marzo di quest’anno, l’Unione Europea ha creato un quartier generale militare congiunto – ma ha soltanto la responsabilità dell’addestramento delle missioni in Somalia, Mali e Repubblica Centrafricana e ha un magro personale di 30 unità.Sono state progettate anche altre forze multinazionali, come il Gruppo da Battaglia del Nord, una piccola forza di reazione rapida di 2.400 militari formata dagli Stati baltici, da diversi paesi nordici e dai Paesi Bassi, e la Forza Congiunta di Spedizione della Gran Bretagna, una “mini Nato” i cui membri includono gli Stati baltici, la Svezia e la Finlandia. Ma in assenza di adeguate opportunità di schieramento, questi gruppi operativi potrebbero anche non esistere. Tuttavia sotto la blanda etichetta del Framework Nations Concept, la Germania ha lavorato a qualcosa di molto più ambizioso: la creazione di quella che sostanzialmente è una rete di mini-eserciti europei, guidata dalla Bundeswehr. «L’iniziativa è scaturita dalla debolezza della Bundeswehr», ha dichiarato Justyna Gotkowska, analista di sicurezza dell’Europa settentrionale presso il think-tank polacco Centro per gli Studi Orientali. «I tedeschi hanno capito che la Bundeswehr doveva colmare le lacune delle sue forze terrestri… per guadagnare influenza politica e militare all’interno della Nato». Un aiuto da parte dei partner potrebbe essere la carta migliore a disposizione della Germania per rinforzare rapidamente il suo esercito – e i mini-eserciti a guida tedesca potrebbero essere l’opzione più realistica per l’Europa, se deve considerare seriamente la sicurezza comune. «È un tentativo per impedire che la sicurezza comune europea fallisca completamente», ha detto Masala.“Lacune” della Bundeswehr è un eufemismo. Nel 1989, il governo della Germania Occidentale spendeva il 2,7% del Pil per la difesa, ma nel 2000 questa spesa era scesa all’1,4%, dove è rimasta per anni. Infatti, tra il 2013 e il 2016, la spesa per la difesa è rimasta bloccata all’1,2% – lontano dal livello di riferimento del 2% della Nato. In un rapporto del 2014 al Bundestag, il Parlamento tedesco, gli ispettori generali della Bundeswehr hanno presentato un quadro imbarazzante: la maggior parte degli elicotteri della Marina non funzionava e dei 64 elicotteri dell’esercito solo 18 erano utilizzabili. E mentre la Bundeswehr della Guerra Fredda era composta da 370.000 soldati, la scorsa estate era forte soltanto di 176.015 tra uomini e donne. Da allora la Bundeswehr è cresciuta a più di 178.000 soldati attivi; l’anno scorso il governo ha aumentato i finanziamenti del 4,2%, e quest’anno la spesa per la difesa crescerà dell’8%. Ma la Germania è ancora molto lontana dalla Francia e dall’Uk come forza militare. E l’aumento della spesa per la difesa non è immune da polemiche in Germania, dato che il paese è consapevole della propria storia come potenza militare.Il ministro degli esteri Sigmar Gabriel ha recentemente affermato che è «completamente irrealistico» pensare che la Germania raggiunga il riferimento di spesa per la difesa della Nato del 2% del Pil – anche se quasi tutti gli alleati della Germania, dai più piccoli paesi europei agli Stati Uniti, la stanno sollecitando ad avere un ruolo militare più importante nel mondo. La Germania può non avere ancora la volontà politica di espandere le sue forze militari alle dimensioni che molti sperano – ma ciò che ha avuto dal 2013 è il Framework Nations Concept. Per la Germania, l’idea è di condividere le sue risorse con i paesi più piccoli in cambio dell’uso delle loro truppe. Per questi paesi più piccoli, l’iniziativa è un modo per far sì che la Germania sia più coinvolta nella sicurezza europea, evitando la difficile politica dell’espansione militare tedesca. «È un passo verso una maggiore indipendenza militare europea», ha detto Masala. «L’Uk e la Francia non sono disposte a prendere la guida della sicurezza europea». L’Uk è in un via di collisione con i suoi alleati dell’Ue, mentre la Francia, un peso massimo militare, ha spesso mostrato riluttanza verso le operazioni multinazionali della Nato. «Resta solo la Germania», ha detto.Operativamente, le risultanti unità bi-nazionali sono maggiormente dispiegabili perché sono permanenti (la maggior parte delle unità multinazionali fino ad ora sono state temporanee). Questo amplifica in modo determinante il potere militare dei paesi partner. E se la Germania decidesse di schierare un’unità integrata, potrebbe farlo solo con il consenso del partner minoritario. Naturalmente, dal 1945 la Germania è stata straordinariamente riluttante a dispiegare il suo esercito all’estero, addirittura fino al 1990 ha vietato alla Bundeswehr di schierarsi fuori dai confini. In effetti, i partner minoritari – e quelli potenziali – sperano che il Framework Nations Concept farà assumere alla Germania più responsabilità nella sicurezza europea. Finora, la Germania e i suoi mini-eserciti multinazionali non sono altro che delle iniziative su piccola scala, ben lontane da un vero esercito europeo. Ma è probabile che l’iniziativa cresca.I partner della Germania hanno sfruttato i vantaggi pratici dell’integrazione: per la Romania e la Repubblica Ceca, significa portare le proprie truppe allo stesso livello di addestramento delle forze tedesche; per i Paesi Bassi, ha significato riconquistare competenze coi carri armati (gli olandesi avevano venduto l’ultimo dei loro carri armati nel 2011, ma le truppe della 43a Brigata Meccanizzata, che sono in parte acquartierate con la Prima Divisione Blindata nella città tedesca occidentale di Oldenburg, ora guidano i carri armati tedeschi e potrebbero utilizzarli se schierati con il resto dell’esercito olandese). Il colonnello Anthony Leuvering, comandante della 43a Meccanizzata di base a Oldenburg, mi ha detto che l’integrazione ha avuto veramente pochi intoppi: «La Bundeswehr ha circa 180.000 unità, ma i tedeschi non ci trattano come l’ultima ruota del carro». Si aspetta che altri paesi si uniscano all’iniziativa: «Molti, molti paesi vogliono collaborare con la Bundeswehr». La Bundeswehr, a sua volta, ha in mente un elenco di partner secondari, ha dichiarato Robin Allers, un professore tedesco, associato presso l’Istituto norvegese per gli Studi sulla Difesa, che ha visto l’elenco dell’esercito tedesco.Secondo Masala, i paesi scandinavi, che già utilizzano una grande quantità di apparecchiature tedesche, sarebbero i migliori candidati per il prossimo ciclo di integrazione nella Bundeswehr. Finora, l’approccio empirico di basso profilo del Framework Nations Concept è andato a vantaggio delle Germania; poche persone in Europa hanno obiettato all’integrazione di unità olandesi o rumene con le divisioni tedesche, in parte perché potrebbero non averla notata. E’ meno chiaro se ci saranno ripercussioni politiche nel caso in cui più nazioni dovessero unirsi all’iniziativa. Al di fuori della politica, il vero test sul valore del Framework Nations Concept sarà il successo in combattimento delle unità integrate. Ma la parte più complessa dell’integrazione, sul campo di battaglia e fuori, potrebbe rivelarsi la ricerca di una lingua franca. Le truppe dovrebbero imparare le lingue gli uni degli altri? O il partner minoritario dovrebbe parlare tedesco? Il Colonello Leuvering, olandese di lingua tedesca, riferisce che la divisione bi-nazionale di Oldenburg si sta orientando verso l’uso dell’inglese.(Elisabeth Braw, “La Germania sta costruendo un esercito europeo sotto il suo comando”, da “Foreign Policy” del 22 maggio 2017, articolo tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).Ogni pochi anni, l’idea di un esercito dell’Ue torna a farsi strada tra le notizie, facendo molto rumore. Per alcuni è un’idea fantastica, per altri un incubo: per ogni federalista di Bruxelles convinto che una forza di difesa comune sia ciò che serve all’Europa per rilanciare la sua posizione nel mondo, ci sono quelli, a Londra e altrove, che inorridiscono all’idea di un potenziale rivale della Nato. Ma quest’anno, lontano dall’attenzione dei media, la Germania e due dei suoi alleati europei, la Repubblica Ceca e la Romania, hanno silenziosamente fatto un passo avanti radicale verso un qualcosa che assomiglia ad un esercito Ue, evitando le complicazioni politiche che questo passo comporta: hanno annunciato l’integrazione delle loro forze armate. L’intero esercito della Romania non si unirà alla Bundeswehr, né le forze armate ceche diventeranno una semplice divisione tedesca. Ma nei prossimi mesi, ciascun paese integrerà una brigata nelle forze armate tedesche: l’81a Brigata Meccanizzata della Romania si unirà alla Divisione delle Forze di Risposta Rapida della Bundeswehr, mentre la 4a Brigata di Dispiegamento Rapido della Repubblica Ceca, che ha servito in Afghanistan e in Kosovo ed è considerata la punta di lancia dell’esercito ceco, diventerà parte della Decima Divisione Blindata tedesca.
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Marco Bersani: questa élite non tollera più la democrazia
«Solo uno shock trasforma il socialmente impossibile in politicamente inevitabile». Con questo aforisma, il padre del neoliberismo, Milton Friedman, salutò il colpo di stato militare in Cile, attuato dal generale Augusto Pinochet l’11 settembre 1973 per rovesciare il governo socialista di Salvador Allende, democraticamente eletto tre anni prima. «Dei fatti di quegli anni, dal punto di vista della violazione dei diritti umani, conosciamo quasi tutto; ciò che è meno noto è che quel golpe fu la premessa (lo shock, appunto) per la prima sperimentazione sul campo delle teorie economiche liberiste della scuola di Chicago, di cui Friedman era il massimo esponente», ricorda Marco Bersani, convinto che, ormai, «il liberismo non ha più bsogno della democrazia», ormai divenuta «un ostacolo da erodere». Perché risalire a quei fatti per spiegare l’oggi? «Perché quella storia “parla” al nostro presente», scrive Bersani sul sito di “Attac Italia”. «Oggi, nel pieno della crisi economico-finanziaria globale che ha investito direttamente il continente europeo, il proliferare di poteri “tecnici”, con l’obiettivo della piena applicazione delle politiche monetariste volute dalle grandi lobby del capitale finanziario, è palpabile in tutte le scelte imposte ai popoli europei».Questa svolta, continua Marco Bersani, evidenzia «la necessità di una riflessione molto profonda sulla relazione tra politiche liberiste e democrazia, nesso sinora dato per scontato e immodificabile». In questo senso, aggiunge, «sarà utile tenere a mente come l’atto di nascita delle teorie economiche liberiste sia avvenuto esattamente attraverso la feroce distruzione della democrazia, elemento che depone molto più a favore di una relazione di contingenza, piuttosto che di consustanzialità fra le stesse». D’altronde, secondo lo stesso Bersani, di paradossi come questo è piena la storia: «I banchieri creditori furono i primi a salutare la nascita della democrazia parlamentare nei Paesi Bassi durante il Rinascimento, e in Gran Bretagna dopo la rivoluzione del 1688, perché, contrariamente alle epoche precedenti, nelle quali i debiti erano appannaggio di principi e sovrani e divenivano inesigibili con la loro morte, il fatto che i parlamenti potessero contrarre debiti pubblici per conto dello Stato rendeva perennemente esigibili gli accordi e i contratti stipulati».Come scrisse Richard Eherenberg, storico del Rinascimento, «chiunque forniva crediti a un principe sapeva che il rimborso del debito dipendeva solo dalla capacità e dalla volontà del debitore di pagare». Il caso, continua Eherenberg, era molto diverso per le città, che avevano potere quanto i nobili, ma anche per le corporazioni, per le associazioni di individui uniti da interessi comuni. «Secondo una norma generalmente accettata, ogni singolo cittadino era responsabile per i debiti della città, sia con l’esposizione della sua persona che delle sue proprietà». Naturalmente, sottolinea Bersani, la finanza si conforma alla democrazia per poi premere per un sistema oligarchico. “Not with tanks, but with banks”, ovvero: «Ciò che in Cile fu reso possibile dai carri armati, oggi viene realizzato attraverso la finanziarizzazione e la trappola “shock” del debito». Visto che l’enorme massa di denaro accumulata sui mercati finanziari in questi anni «ha stringente necessità di essere reinvestita», e dato che «i terreni di valorizzazione possibili sono quelli relativi alla deregolamentazione del lavoro, alla dismissione del patrimonio, alla privatizzazione dei servizi pubblici», ciò che le lobby finanziarie si propongono è «un processo di espropriazione totale di diritti e beni comuni, che poco si può accompagnare con il mantenimento di modelli di decisionalità basati sulla democrazia».Per la banca d’affari Jp Morgan, «i sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione». L’attacco alla democrazia, richiamato dalla Jp Morgan nel 2013, secondo Marco Bersani è particolarmente evidente con i trattati di libero commercio (Ttip, Ceta), attraverso i quali si tenta il passaggio definitivo dallo Stato di diritto a quello di mercato, permettendo alle grandi multinazionali di non rispondere – impugnandole davanti a una corte arbitrale internazionale – alle leggi promulgate dai parlamenti nazionali. E questa tendenza «è altrettanto chiara nella progressiva erosione degli spazi democratici». Si manifesta a livello locale, «con sindaci che, da garanti dei diritti di una comunità, ne diventano gli sceriffi addetti al controllo sociale delle fasce di popolazione “indecorose”», ma anche sul piano nazionale, «con l’accentramento dei poteri sui governi, invece che sulle assemblee elettive: era questo il disegno “costituzionale” di Renzi, seppellito da una valanga di “No”». Fenomeno ancor più vistoso a livello europeo, «con il commissariamento di fatto di ogni scelta di politica economica e sociale, attraverso i vincoli finanziari di Maastricht e del Fiscal Compact».Tutto ciò, continua Bersani, produce un paradossale circolo vizioso: «Più la democrazia viene erosa, più aumenta la separatezza tra politica istituzionale e società, producendo una forte disaffezione sociale verso la “casta”, più quest’ultima può continuare a perseguire la strada dell’oligarchia al servizio dei grandi interessi finanziari». Per questo, conclude, oggi ogni lotta per la riappropriazione sociale «deve porsi il doppio obiettivo della “socializzazione della politica” e della “politicizzazione della società”». Ovvero: deve «porre con forza, da una parte, la riappropriazione di ogni spazio di democrazia diretta e dal basso e dall’altra, premere per un salto culturale e di qualità delle lotte dei movimenti sociali, che devono inserire, nelle proprie rivendicazioni “specifiche”, gli aspetti sistemici contro l’economia del debito e per una nuova democrazia reale».«Solo uno shock trasforma il socialmente impossibile in politicamente inevitabile». Con questo aforisma, il padre del neoliberismo, Milton Friedman, salutò il colpo di stato militare in Cile, attuato dal generale Augusto Pinochet l’11 settembre 1973 per rovesciare il governo socialista di Salvador Allende, democraticamente eletto tre anni prima. «Dei fatti di quegli anni, dal punto di vista della violazione dei diritti umani, conosciamo quasi tutto; ciò che è meno noto è che quel golpe fu la premessa (lo shock, appunto) per la prima sperimentazione sul campo delle teorie economiche liberiste della scuola di Chicago, di cui Friedman era il massimo esponente», ricorda Marco Bersani, convinto che, ormai, «il liberismo non ha più bisogno della democrazia», ormai divenuta «un ostacolo da erodere». Perché risalire a quei fatti per spiegare l’oggi? «Perché quella storia “parla” al nostro presente», scrive Bersani sul sito di “Attac Italia”. «Oggi, nel pieno della crisi economico-finanziaria globale che ha investito direttamente il continente europeo, il proliferare di poteri “tecnici”, con l’obiettivo della piena applicazione delle politiche monetariste volute dalle grandi lobby del capitale finanziario, è palpabile in tutte le scelte imposte ai popoli europei».
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Amazon paga meno tasse di una bancarella di salsicce
Le multinazionali come la catena di caffè Starbucks e il sito di vendita online Amazon in Austria pagano meno tasse di una delle minuscole bancarelle di salsicce del paese: lo ha denunciato il cancelliere di centrosinistra della repubblica in una recente intervista, scrive la “Reuters” in un lancio ripreso da “Voci dall’Estero”. Il cancelliere Christian Kern, leader dei socialdemocratici e del governo di coalizione di centro, ha anche criticato i giganti di internet Google e Facebook, affermando che, se pagassero più tasse, le sovvenzioni per la carta stampata potrebbero essere aumentate. «Ogni caffè viennese, ogni banchetto di salsicce in Austria paga più tasse di una multinazionale», sono due frasi riportate da quanto ha detto Kern in un’intervista al quotidiano “Der Standard”, evocando due importanti simboli della cultura alimentare della capitale austriaca. «Questo vale anche per Starbucks, Amazon e altre aziende», ha aggiunto, elogiando la decisione della Commissione Europea di questa settimana, che ha stabilito che Apple dovrebbe pagare all’Irlanda fino a 13 miliardi di euro (14,5 miliardi di dollari) in tasse più gli interessi, perché le condizioni speciali per attirare profitti nel paese sono state dichiarate un aiuto di stato illegale.Apple ha detto che impugnerà la decisione, che l’amministratore delegato Tim Cook ha definito «una completa schifezza politica». Google, Facebook e altre multinazionali dichiarano di adeguarsi completamente alla normativa fiscale. Kern ha anche criticato gli stati membri dell’Unione Europea con regimi fiscali agevolati che hanno attirato le multinazionali – e sono stati messi sotto esame da Bruxelles. «Quello che stanno facendo Irlanda, Paesi Bassi, Lussemburgo e Malta manca di solidarietà verso il resto dell’economia europea», ha detto. Si è astenuto dal chiedere che Facebook e Google pagassero più tasse, ma ha sottolineato le loro vendite significative in Austria, che ha stimato in oltre 100 milioni di euro ciascuno, e il loro numero di dipendenti relativamente piccolo – una «buona dozzina» per Google e «presumibilmente ancora meno» per Facebook. «Hanno massicciamente risucchiato il volume di pubblicità prodotta dall’economia, ma non pagano né l’imposta sulle società, né sulla pubblicità in Austria», ha detto Kern, che è diventato cancelliere nel mese di maggio.«Mentre si evidenzia su cosa si è basato il tanto decantato boom irlandese, vengono al pettine i nodi legati ai mitizzati investimenti esteri». In questo quadro, sottolinea “Voci dall’Estero”, «caos e disgregazione sono in ulteriore aumento in Europa». Lo dimostra una volta di più anche questa sentenza che chiede alla Apple di versare all’Irlanda 13 miliardi di euro di tasse arretrate. «Mentre Dublino, un po’ paradossalmente, ha già presentato ricorso contro la decisione dell’Ue, in Austria il premier accusa le multinazionali di pagare tasse in misura irrisoria anche nel suo paese». “Voci dall’Estero” rileva quindi come notevole l’atteggiamento del premier austriaco, che «attacca anche i diversi stati membri che praticano politiche fiscali troppo generose per attirare le grandi aziende, accusandoli di mancare di solidarietà verso il resto dell’Eurozona».Le multinazionali come la catena di caffè Starbucks e il sito di vendita online Amazon in Austria pagano meno tasse di una delle minuscole bancarelle di salsicce del paese: lo ha denunciato il cancelliere di centrosinistra della repubblica in una recente intervista, scrive la “Reuters” in un lancio ripreso da “Voci dall’Estero”. Il cancelliere Christian Kern, leader dei socialdemocratici e del governo di coalizione di centro, ha anche criticato i giganti di internet Google e Facebook, affermando che, se pagassero più tasse, le sovvenzioni per la carta stampata potrebbero essere aumentate. «Ogni caffè viennese, ogni banchetto di salsicce in Austria paga più tasse di una multinazionale», sono due frasi riportate da quanto ha detto Kern in un’intervista al quotidiano “Der Standard”, evocando due importanti simboli della cultura alimentare della capitale austriaca. «Questo vale anche per Starbucks, Amazon e altre aziende», ha aggiunto, elogiando la decisione della Commissione Europea di questa settimana, che ha stabilito che Apple dovrebbe pagare all’Irlanda fino a 13 miliardi di euro (14,5 miliardi di dollari) in tasse più gli interessi, perché le condizioni speciali per attirare profitti nel paese sono state dichiarate un aiuto di stato illegale.