Archivio del Tag ‘Palmira’
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Bamiyan, Babilonia, Palmira. E adesso anche Notre-Dame
I Budda di Bamiyan erano stati distrutti da una setta intollerante che si dichiarava seguace dell’Islam. I buddisti in tutta l’Asia avevano pianto. L’Occidente non se ne era quasi neanche accorto. Quello che restava delle rovine di Babilonia e il museo annesso erano stati occupati, saccheggiati e vandalizzati dall’installazione di una base dei marines americani durante l’operazione “Shock and Awe”, nel 2003. L’Occidente non ci aveva fatto caso. Una vasta area di Palmira, la leggendaria oasi sulla Via della Seta, era stata distrutta da un’altra setta intollerante, che fingeva di seguire l’Islam mentre veniva protetta, a più livelli, dall’“intelligence” occidentale. L’Occidente aveva fatto finta di non vedere. In Siria, decine di chiese cattoliche e ortodosse erano state rase al suolo dalla stessa setta intollerante che fingeva di seguire l’Islam, sponsorizzata e armata, tra gli altri, dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Francia. L’Occidente non ci aveva neanche fatto caso. Notre-Dame, che per più aspetti può essere considerata il simbolo dell’Occidente, è stata parzialmente consumata da un fuoco teoricamente cieco. In modo particolare il tetto, centinaia di travi di quercia, alcune risalenti al 13° secolo. Metaforicamente, questo potrebbe essere interpretato come l’incendio del tetto sulla collegialità dell’Occidente. Cattivo karma? Finalmente?Ed ora veniamo al sodo. Notre-Dame appartiene allo Stato francese, che aveva prestato poca o nessuna attenzione ad un gioiello gotico sopravvissuto per otto secoli. Frammenti di arcate, chimere, rilievi, gargoyle cadevano in continuazione a terra e venivano conservati in un deposito improvvisato nella parte posteriore della cattedrale. Solo l’anno scorso, Notre-Dame aveva ottenuto un finanziamento di 2 milioni di euro per il restauro della guglia, che ieri è bruciata fino a crollare. Il ripristino dell’intera cattedrale sarebbe costato 150 milioni di euro, secondo il massimo esperto mondiale di Notre-Dame, che sembrerebbe essere un americano, Andrew Tallon. Recentemente, i custodi della cattedrale e lo Stato francese erano arrivati ai ferri corti. Lo Stato francese incassava almeno 4 milioni di euro l’anno, facendo pagare ai turisti il biglietto per l’ingresso ai campanili gemelli, reinvestendo però solo 2 milioni di euro per il mantenimento di Notre-Dame. Il rettore di Notre-Dame si era rifiutato di far pagare il biglietto d’ingresso alla cattedrale, come succede, per esempio, nel duomo di Milano.Notre-Dame sopravvive, essenzialmente, grazie alle donazioni, che servono a pagare gli stipendi a meno di 70 dipendenti, che devono non solo sorvegliare l’afflusso dei turisti, ma anche organizzare otto messe al giorno. La proposta dello Stato francese è quella di minimizzare la catastrofe organizzando una lotteria di beneficenza. Proprio così, privatizzare quello che è un impegno e un obbligo dello Stato. Quindi sì: Sarkozy e Macron e tutte le loro amministrazioni sono, direttamente e indirettamente, responsabili dell’incendio. Ora sta per arrivare la Notre-Dame dei miliardari. Pinault (Gucci, St. Laurent) ha promesso 100 milioni di euro del suo patrimonio personale per il restauro. Arnault (Louis Vuitton Moet Hennessy) ha raddoppiato, impegnandosi per 200 milioni di euro. Quindi, perché non privatizzare questo maledetto pezzo di raffinata proprietà immobiliare, in perfetto stile capitalismo dei disastri? Benvenuti nell’esclusivo condominio Notre-Dame, hotel e centro commerciale annessi.(Pepe Escobar, “Bamyian, Babilonia, Palmira, Notre-Dame”, da “The Saker” del 16 aprile 2019, tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).I Budda di Bamiyan erano stati distrutti da una setta intollerante che si dichiarava seguace dell’Islam. I buddisti in tutta l’Asia avevano pianto. L’Occidente non se ne era quasi neanche accorto. Quello che restava delle rovine di Babilonia e il museo annesso erano stati occupati, saccheggiati e vandalizzati dall’installazione di una base dei marines americani durante l’operazione “Shock and Awe”, nel 2003. L’Occidente non ci aveva fatto caso. Una vasta area di Palmira, la leggendaria oasi sulla Via della Seta, era stata distrutta da un’altra setta intollerante, che fingeva di seguire l’Islam mentre veniva protetta, a più livelli, dall’“intelligence” occidentale. L’Occidente aveva fatto finta di non vedere. In Siria, decine di chiese cattoliche e ortodosse erano state rase al suolo dalla stessa setta intollerante che fingeva di seguire l’Islam, sponsorizzata e armata, tra gli altri, dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Francia. L’Occidente non ci aveva neanche fatto caso. Notre-Dame, che per più aspetti può essere considerata il simbolo dell’Occidente, è stata parzialmente consumata da un fuoco teoricamente cieco. In modo particolare il tetto, centinaia di travi di quercia, alcune risalenti al 13° secolo. Metaforicamente, questo potrebbe essere interpretato come l’incendio del tetto sulla collegialità dell’Occidente. Cattivo karma? Finalmente?
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Boeri e la rivoluzione, la sinistra-chic che domina il popolo
Anni Settanta. Squilla il telefono nell’elegante casa di Renato e Cini Boeri. Il domestico solleva la cornetta, la pone con calma all’orecchio; sente gracchiare una voce: dall’altro capo del filo qualcuno reclama il giovane Tito. Il sottoposto di classe non si scompone; ne ha viste tante; solo dichiara: «Il signorino Tito non c’è, è fuori a fare la rivoluzione». Formidabili quegli anni!, sentenziò in un suo goffo libro Mario Capanna, già coordinatore di Democrazia Proletaria. Capanna fu uno dei volti belli della sinistra d’antan, assieme all’indimenticabile Lucio Magri, co-fondatore de “Il Manifesto”, atletico e abbronzato, amante di Marta Marzotto, conosciuta in casa di Eugenio Scalfari – la bella Marta, a sua volta amante di Renato Guttuso che la immortalò, gnuda, in numerosi, orridi, teloni a olio. Magri, intelligente e rigoroso, completamente disinteressato alla classe proletaria, di cui ignorava tutto, ma assai esigente in alcuni ambiti extraparlamentari: «Guai se per il gigot d’agneau non c’erano il purè di mele e la salsa di menta: non ci si poteva sedere a tavola. O se i chicchi di caviale non erano g-g-g … grossi grani grigi».Disinteressato agli ultimi? Ho sbagliato, lo riconosco; sono stato ingiusto. Mi correggo: egli, pensoso e infelicissimo, come dichiarò – a Magri morto – la Marzotto, era, invece, prepotentemente assorbito dalle superne cose de l’etternal gloria (della sinistra): tanto superne da situarlo stabilmente (e inevitabilmente) fuori delle pulsioni del proletariato. Un fenomeno che venne testimoniato plasticamente da una Tribuna Politica in cui il Nostro, quale esponente del Pdup (Partito di Unità Proletaria, appunto), rimase imparpagliato davanti alla domanda d’un giornalista che gli chiese conto del prezzo d’un litro di latte: i vani bofonchiamenti di risposta testimoniarono le sue esclusive, celesti, preoccupazioni. Così va il mondo; o meglio, così andava nel secolo ventesimo. Ma torniamo a Tito. Nipote di un deputato del Regno d’Italia (Giovanni Battista Boeri, Gran Maestro della Massoneria nella loggia Giuseppe Garibaldi, quindi fascista nel 1924, poi antifascista non si sa quando, e finalmente senatore, stavolta della Repubblica italiana), e figlio dell’architetta Cini Boeri (al secolo: Maria Cristina Damiani Dameno) e dell’illustre neurologo milanese Renato, già comandante di una banda partigiana assieme al fratello Enzo.I fratelli: Sandro (giornalista di “Panorama” e direttore di “Focus”, di largo successo) e Stefano (architetto e urbanista, di largo successo, e politico, di largo successo pure qui, e rivoluzionario, nel Movimento Studentesco del 1975, tanto rivoluzionario che fu rinviato a giudizio per la morte di Claudio Varalli, suo compagno di lotta, caduto durante l’aggressione «rapidissima, premeditata, violentissima» contro lo studente del Fuan Antonio Braggion; Braggion, vistosi perduto a fronte di trenta uomini, prima si rifugò nella propria auto, poi esplose tre colpi di pistola. Varalli rimase a terra; gli altri, fra cui Boeri, fuggirono. Fu istruito il processo. Ci si predispose alla sentenza esemplare fra notevoli strepiti di trombette. Il Caso, tuttavia, imperituro signore delle vicende umane, volle che intervenisse, in tal caso – un caso con la minuscola, però – il pietoso istituto giuridico della prescrizione; intervenne a lenire ferite morali e fisiche e umane e storiche come nardo di Betania: di tutti, di tutti! … non di Braggion, tuttavia, che si beccò dieci anni complessivi, poi ridotti a sei, per eccesso colposo di legittima difesa: un comportamento che, se non altro, gli salvò la pelle, a differenza di Sergio Ramelli, morto un mese prima, povero lui, col cranio spaccato dalle chiavi inglesi Hazet 36, dopo un’agonia terribile).Voi direte: ma dove vuole arrivare questo? A poche cose. La prima. Di questa gente, i vari Boeri Veltroni Fedeli Boldrini e gli altri pontieri della sinistra, occorre fidarsi come Don Vito Corleone si fidava di Hyman Roth: zero. Un consiglio che dispenso ai più saggi. Boeri e compagnia (e tutti coloro che vi cedono, compresi alcuni esponenti della destra) vanno sradicati dall’Italia. E non a parole. La seconda. Boeri è di sinistra e, quindi, quanto di più lontano dal socialismo possa esserci. La sinistra italiana promana delle rivoluzioni colorate del 1968 e dintorni, ordite proprio per depotenziare il socialismo assieme a correi circensi come Marco Pannella. Distinguere i due ambiti sociali, storici, psicologici, antropologici è essenziale. Esempio: il comunista vuole liberare l’uomo dall’ignoranza, la sinistra dal nozionismo. Risultato: mai visti tanti ignoranti. Il comunista vuole liberare l’uomo dalla povertà, la sinistra fa della povertà una bandiera fashion (e, infatti, mai visti tanti miserabili con l’iPhone come oggi). Il comunista crede nell’eguaglianza dei diritti materiali, la sinistra nell’espansione dei diritti civili (cioè a niente). Il comunista è fuori della Storia, ormai; la sinistra, invece, è la Storia.I festeggiamenti della Coppa del Mondo (e lo sport olimpico-ecumenico) sono di sinistra; il capitalismo angloamericano è di sinistra (ma questo è matto! per questo ci vuole la camicia di forza!); Giovanni Agnelli, chez Eugenio Scalfari, laico confessore con la ruga sulla fronte, fu di sinistra; Juncker è di sinistra, come la Merkel; Beyoncé è di sinistra, come i telefilm americani, Don Matteo e la Blackwater; Berlusconi è di sinistra; George W. Bush è di sinistra; il Vaticano è di sinistra; Equitalia è di sinistra; i Neo-Con americani sono di sinistra; la Fao, l’Unicef, l’euro, Draghi, la Banca Mondiale sono di sinistra; Luttwak e la Boldrini sono di sinistra; l’Oscar e il Premio Strega sono di sinistra, come gli sceicchi e Cristiano Ronaldo e la regina Elisabetta II; la tecnologia è di sinistra, come il botulino; il Live Aid è di sinistra così come i tagliagole di Palmira e il sessuomane Michel Houellebecq; anche la destra è di sinistra, come le parabole sinistre di Giorgia Meloni e Giuliano Ferrara ci testimoniano abitualmente.La sinistra è solo la nuova vaselina escogitata dal potere. Come possiamo far accettare a otto miliardi di belinoni una schiavitù dolce e una esistenza piatta, miserabile, stupida, idiota? Con lo stato di polizia, la guerra, la repressione? Macché, molto meglio “Imagine” (“Imagine there’s no countries / nothing to kill or die for / and no religion too / imagine all the people living life in peace…”). La sinistra è un modo di governo, un inganno al contrario, uno specchietto per allodole, un trucchetto per far scalciare le mandrie del cretinismo digitale (fascista! Comunista!). Il Potere è apolide, parassita, invasivo, piratesco. Prima o poi dovrete abbandonare le finte trincee ideologiche e grattarvi pure questa bella rogna, l’unica vera rogna da grattare oggi: un po’ più a destra, un po’ a sinistra, sotto l’ombelico e dietro la cucuzza, dove volete voi.(“Young Signorino”, da “Il Blog di Alceste” del 16 luglio 2018).Anni Settanta. Squilla il telefono nell’elegante casa di Renato e Cini Boeri. Il domestico solleva la cornetta, la pone con calma all’orecchio; sente gracchiare una voce: dall’altro capo del filo qualcuno reclama il giovane Tito. Il sottoposto di classe non si scompone; ne ha viste tante; solo dichiara: «Il signorino Tito non c’è, è fuori a fare la rivoluzione». Formidabili quegli anni!, sentenziò in un suo goffo libro Mario Capanna, già coordinatore di Democrazia Proletaria. Capanna fu uno dei volti belli della sinistra d’antan, assieme all’indimenticabile Lucio Magri, co-fondatore de “Il Manifesto”, atletico e abbronzato, amante di Marta Marzotto, conosciuta in casa di Eugenio Scalfari – la bella Marta, a sua volta amante di Renato Guttuso che la immortalò, gnuda, in numerosi, orridi, teloni a olio. Magri, intelligente e rigoroso, completamente disinteressato alla classe proletaria, di cui ignorava tutto, ma assai esigente in alcuni ambiti extraparlamentari: «Guai se per il gigot d’agneau non c’erano il purè di mele e la salsa di menta: non ci si poteva sedere a tavola. O se i chicchi di caviale non erano g-g-g … grossi grani grigi».
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Questa sinistra che spara (sui bambini siriani e sulla verità)
In questi ultimi giorni siamo stati con il fiato sospeso, preoccupati dagli eventi che velocemente hanno portato il mondo a una nuova e insanabile frattura; l’attacco americano (e dei suoi alleati) ai danni della Siria è stato l’apice di una tensione costruita e fomentata per anni, discorso dopo discorso, campagna dopo campagna, insinuazione dopo insinuazione: ci hanno parlato di White Helmets, di “ribelli moderati” e di depositi di armi chimiche mai esistiti e noi ci abbiamo creduto; non ci hanno mai parlato invece delle battaglie vinte, delle città liberate (Palmyra, Aleppo, Raqqa e Deir Ezzor), dei traguardi raggiunti dalle forze congiunte tra eserciti governativi, russi, iracheni e curdi o delle relazioni tra la Nato e le cellule jihadiste che occupavano le città liberate. Tutto, hanno omesso tutto. Nel frattempo, nel nostro Belpaese che continua a non avere un governo ma prende comunque significative decisioni di politica estera (vedi: sanzioni Russia e questione siriana), l’informazione non si è poi di tanto allontanata da quella dettata dalle corporative media (per dirlo all’americana) internazionali. Qui, tra un servizio sui malanni di stagione e uno sulle nuove tendenze della prossima estate, non sono mancate le panzane degli elmetti bianchi, dei ribelli moderati (poi scopertosi cellule di Al-Nusra) o delle oppressioni ai danni del popolo siriano da parte del proprio presidente democraticamente eletto.Ma che la televisione fosse una cattiva maestra ce lo aveva già detto Popper anni fa, che però riponeva fiducia nella classe dirigente e nell’intellighenzia del governo per arginare i danni della Tv. In Italia invece, dove ogni problema pare sempre più grave, l’intellighenzia che per antonomasia si batte per i più deboli, che tenta di annullare le ingiustizie sociali causate dallo sfruttamento del lavoro ed è convintamente contro la guerra (leggasi: la sinistra) è la prima ad essere pronta e sull’attenti quando c’è bisogno di bombardare o, come si dice adesso, “portar democrazia” un paese che gravita fuori dalla nauseabonda ombra dello zio Sam. Intendiamoci: diversi partiti minoritari (relegati per giochi elettorali a non più del 1,5%) della sinistra hanno preso convintamente le distanze dall’atto di aggressione atlantica in Medio Oriente ma ahinoi, qui, per ora, l’intellighenzia che guida la sinistra maggioritaria non è questa, bensì quella di Renzi, della Bonino, della Boldrini, di Riotta e di tutti quelli che prima si fanno foto dove si tappano la bocca per denunciare presunti attacchi chimici (non ancora dimostrati) e preparare l’opinione pubblica a legittimare l’intervento nazionale, ma poi tra qualche mese lanceranno l’ennesima campagna per denunciare i crimini di guerra a Damasco o ad Aleppo provocati dalla guerra che loro stessi, sornioni e convinti di essere sempre dalla parte della ragione, hanno cercato di legittimare e mistificare.In questo paradossale panorama politico l’unica frangia della politica che si è in massa imposta contro l’intervento in Siria è stata la destra, la brutta e cattiva destra, quella che “i buoni” ci dicono essere razzista, populista, fascio-leghista, xenofoba e quant’altro. Questi signori dal selfie facile hanno legittimato tutto, hanno creduto alla farsa di Colin Powell che sventolava finte boccette di veleno per convincere il consiglio dell’Onu ad attaccare Saddam, non hanno fiatato quando abbiamo bombardato la Libia e deposto Gheddafi – ma poi hanno voluto renderci edotti di quanto fosse drammatica la situazione sociale da quando non c’era più un governo –, non hanno detto nulla quando i loro beniamini europei che dovevano arginare i populismi euroscettici hanno varcato i nostri confini, preso i nostri mari e bombardato la Siria. Amano definirsi contro la guerra e contrari ad avere un arsenale militare ma nella loro ipocrisia riescono pure ad essere atlantisti e non fiatano se ci sono delle testate militari made in Usa depositate nel nostro mezzogiorno o se centinaia di unità aero-navali partono per ordine di Washington e vanno a bombardare i paesi mediorientali. Abbiamo concesso alla open society tutto e abbiamo perso tutto, ora siamo senza terra, senza identità e senza spina dorsale, in balia degli eventi che si decidono altrove ma che colpiscono le nostre coste, i nostri habitat naturali per diritto storico, l’Europa è in mano a degli scellerati e noi, italiani e ed europei siamo caduti in un torpore dal quale par impossibile svegliarsi.(Daniele Ruffino, “La sinistra che spara”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 20 aprile 2018).In questi ultimi giorni siamo stati con il fiato sospeso, preoccupati dagli eventi che velocemente hanno portato il mondo a una nuova e insanabile frattura; l’attacco americano (e dei suoi alleati) ai danni della Siria è stato l’apice di una tensione costruita e fomentata per anni, discorso dopo discorso, campagna dopo campagna, insinuazione dopo insinuazione: ci hanno parlato di White Helmets, di “ribelli moderati” e di depositi di armi chimiche mai esistiti e noi ci abbiamo creduto; non ci hanno mai parlato invece delle battaglie vinte, delle città liberate (Palmyra, Aleppo, Raqqa e Deir Ezzor), dei traguardi raggiunti dalle forze congiunte tra eserciti governativi, russi, iracheni e curdi o delle relazioni tra la Nato e le cellule jihadiste che occupavano le città liberate. Tutto, hanno omesso tutto. Nel frattempo, nel nostro Belpaese che continua a non avere un governo ma prende comunque significative decisioni di politica estera (vedi: sanzioni Russia e questione siriana), l’informazione non si è poi di tanto allontanata da quella dettata dalle corporative media (per dirlo all’americana) internazionali. Qui, tra un servizio sui malanni di stagione e uno sulle nuove tendenze della prossima estate, non sono mancate le panzane degli elmetti bianchi, dei ribelli moderati (poi scopertosi cellule di Al-Nusra) o delle oppressioni ai danni del popolo siriano da parte del proprio presidente democraticamente eletto.
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Fake-war, dopo l’annuncio di Trump sul ritiro dalla Siria
«Lo scenario che si sta delineando in queste ore nel conflitto siriano ricorda da vicino la “pistola fumante” delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein con cui gli Usa giustificarono agli occhi del mondo l’invasione dell’Iraq nel 2003». Lo afferma Gianandrea Gaiani, su “Analisi difesa”. «Ci sono infatti molte ragioni per esprimere scetticismo di fronte alla denuncia dell’ennesimo attacco chimico contro i civili siriani attribuito al regime di Damasco». Già in passato, scrive Gaiani, «attacchi simili sono stati attribuiti ai governativi senza che emergessero prove concrete», mentre notizie e immagini diffuse dai “media center” sul terreno (Douma, Idlib, Aleppo e altre località in mano ai “ribelli”) «sono evidentemente propagandistiche e palesemente costruite». Lo schema si è già ripetuto più volte fin dalla guerra in Libia del 2011 e poi in Siria: «Fonti “umanitarie” strettamente legate alle milizie jihadiste e ai loro alleati arabi diffondono notizie non verificabili per l’assenza di osservatori neutrali». La situazione in Siria non è mai stata tanto critica, scrive Marcello Foa sul “Giornale”: nel giro di pochi giorni siamo passati dall’annuncio di un possibile ritiro dei soldati americani a quello di un possibile e devastante attacco con i missili su Damasco. «Il rischio di una spirale, e dunque di una guerra, è concreto».Alla Casa Bianca, avverte Foa, ora c’è John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale: è l’architetto delle inesistenti super-armi di Saddam. «Trump riuscirà anche questa volta a resistere ai ricatti o dovrà mettersi a bombardare la Siria?». Se lo domanda lo scrittore Paolo Mosca, sul blog “Mosquicide”, che offre un’insolita analisi sul profilo psico-politico di Trump: «In questo momento storico Jeremy Corbyn è forse il mio politico preferito – premette – e lui non si sognerebbe mai di dire cose diverse da quelle che fa. E questo forse è un suo punto debole». Al contrario, “The Donald” «dissocia parola, tweet e atto». E così facendo «mette totalmente in crisi il Deep State che cerca costantemente di manovrarlo dietro le quinte». Infatti: «Trump abbaia contro il dittatore nord coreano, ma poi fa in modo che si distendano le relazioni tra le due Coree», quindi espelle i diplomatici russi «ma poi invita Putin a New York». Ancora: «Apre verso Israele, ma poi cerca di tirarsi fuori dalla guerra siriana». E non appena lo fa, sottolinea Mosca, accadono due cose: «La notizia di un nuovo attacco chimico in Siria (smentito dalla Russia che invoca l’intervento di ispettori) e la visita dell’Fbi al suo avvocato personale, Michael Cohen, a cui vengono sequestrati documenti riguardanti il presidente».E’ sempre il Deep State, secondo Paolo Mosca, a premere per i missili sulla Siria, in una pericolosissima sfida con la Russia: «Se il modo di parlare di Trump è da cattivo uomo di destra, il suo modo di agire è da presidente moderato che cerca di barcamenarsi tra le forze vischiose del potere che lo circonda». Aggiunge Mosca: «Credo che per molti aspetti queste elezioni avrebbe preferito perderle», magari per poi contrattare maxi-appalti da posizioni di forza, come leader dell’opposizione. Meno possibilista Foa, spaventato dagli sviluppi: annunci di attacchi imminenti, navi da guerra in avvicinamento, aerei d’attacco pronti al decollo. Il tweet dell’altro giorno in cui Trump ha accusato Putin di proteggere “un animale” come Assad è di una violenza incredibile, «volto chiaramente ad aprire il terreno a un attacco missilistico». Per Foa, «il Trump di queste ore non ha più nulla a che vedere con quello che è stato eletto 18 mesi fa». La nomina di un supefalco come Bolton (cioè «l’uomo, pericolosissimo, che sussurra all’orecchio del capo della Casa Bianca) secondo Foa «segna la conversione del presidente americano sulle posizioni che egli stesso e i suoi consiglieri della prima ora dichiaravano di aborrire».Il Trump di una volta, agiunge Foa, desiderava che il suo paese non fosse trascinato in nuovi inutili conflitti, mentre «il Trump di oggi è irriconoscibile: è diventato un neoconservatore, ovvero ha fatto proprio lo spirito aberrante che ha guidato la mano di Bush, in buona parte quella di Obama, e che eccitava quella di Hillary Clinton». Il copione della guerra “umanitaria” è invariato, nella sua monotonia: il presunto attacco chimico sulla popolazione civile «ha tutta l’aria di essere una fake news istituzionale creata ad arte per creare un casus belli». Gli spin doctor dimostrano scarsa fantasia: usano sempre il solito schema, ricorda Foa. «Nel 2013 l’attacco con le armi chimiche che provocò la morte di 1300 persone e per il quale Obama era sul punto di scatenare l’inferno, risultò essere, in seguito, un caso di “false flag”, ovvero un attacco lanciato dai ribelli affinché la colpa ricadesse su Assad al fine di giustificare un intervento della Nato. L’anno scorso, la dammatica notizia dei forni crematori in cui venivano inceneriti i prigionieri politici alle porte di Damasco, lanciata da Amnesty ed enafatizzata dal Dipartimento di Stato Usa, è risultata essere una bufala per sorprendente ammissione dello stesso governo Usa».Nei giorni scorsi, aggiunge Foa, abbiamo assistito al caso Skripal – che ricorda, nello “spin”, quello di Douma: «Una furia accusatoria implacabile e urgente nasconde quasi sempre un bluff». Ricordate? «Mosca ha 24 ore di tempo per discolparsi, ma non ci sono dubbi, sono stati i russi», tuonavano il premier May e il ministro degli esteri Johnson, rilanciati da una stampa occidentale come sempre straordinariamente priva di senso critico e analitico. A ruota, Washington e i paesi europei decisero l’espulsione dei diplomatici, e il governo americano adottò nuove sanzioni. «Ma la prova che l’attentato sia stato compiuto dal Cremlino non è mai arrivata. Gli esperti hanno dovuto ammettere che è impossibile stabilire chi abbia davvero prodotto il gas, che peraltro non è risultato nemmeno letale». Ora ci risiamo, sottolinea Foa: l’attacco al cloro è molto dubbio.«Dovrebbe essere verificato da una commissione indipendente, a cui però gli Usa non sono interessati. Bastano le immagini, commoventi, di bambini intubati per trascinare l’opinione pubblica. Molto probabilmente un giorno scopriremo la verità, ma la verità non interessa agli spin doctor». Concorda Gaiani, su “Analsi Difesa”: notizie e immagini di presunti attacchi chimici vengono subito diffuse dalle tv arabe appartenenti alle monarchie del Golfo, cioè agli sponsor dei “ribelli”, per poi rimbalzare quasi sempre in modo acritico in Occidente.«Basti pensare che in sette anni di guerra la fonte da cui tutti i media occidentali attingono è quell’Osservatorio siriano per i diritti umani che ha sede a Londra, vanta una vasta rete di contatti in tutto il paese di cui nessuno ha mai verificato l’attendibilità, è schierato con i ribelli cosiddetti “moderati” ed è sospettato di godere del supporto dei servizi segreti anglo-americani», scrive Gaiani, certo non sospettabile di posizioni filo-siriane o filo-russe. «Anche per questo non bastano i cadaveri dei bambini o dei sopravvissuti con mascherine collegate a supposte bombole ad ossigeno per dimostrare l’esito di un attacco chimico e la sua paternità». Ma peggio: Jaysh al-Islam, la formazione colpita a Douma, «è una milizia salafita nota per aver impiegato i civili come scudi umani e per aver utilizzato il cloro nelle battaglie contro i curdi dell’aprile 2016». Il cloro? «Non è un’arma ma un prodotto chimico che può essere letale in forti concentrazioni e in ambienti chiusi, facilmente reperibile e già utilizzato nel conflitto siriano anche dallo Stato Islamico. I miliziani dispongono quindi da tempo dello stesso aggressivo chimico e non è difficile ipotizzare, a Douma come in tanti altri casi incluso quello di Khan Sheykoun l’anno scorso, che siano stati gli stessi ribelli a liberare cloro ad alta concentrazione per uccidere civili e attribuirne la colpa a Damasco, puntando così a incoraggiare una reazione internazionale contro il regime di Assad».Quanto al “cui prodest”, Gaiani non ha dubbi: «Il presidente siriano è certo uomo senza scrupoli ma non ha alcun interesse a usare armi chimiche che sono, giova ricordarlo, armi di distruzione di massa idonee a eliminare migliaia di persone in pochi minuti, non a ucciderne qualche decina: per stragi così “limitate” bastano proiettili d’artiglieria e bombe d’aereo convenzionali». Assad sta “ripulendo” le ultime sacche di resistenza in mano ai ribelli jihadisti e sta evacuando i civili dalle zone di combattimento: perché mai – si domanda “Analisi Difesa” – dovrebbe scatenare la riprovazione internazionale proprio mentre sta per cacciare i ribelli anche da Douma? «Perché dovrebbe colpire quei civili che i suoi uomini stanno evacuando, per giunta dopo un accordo raggiunto con i miliziani di Jaysh al-Islam che consentirà il loro trasferimento forse in un’area vicina a Jarablus, al confine con la Turchia?». Israele ha intanto bombardato la base siriana T-4 vicina a Palmira, con missili lanciati dallo spazio aereo libanese, mentre Trump ora accusa anche Russia e Iran «in nome di un attacco chimico che nessuna fonte neutrale ha potuto finora verificare». Tutto questo, scrive Gaiani, «induce a ritenere che ci troviamo di fronte all’ennesima operazione propagandistica messa a punto usando lo spauracchio delle armi chimiche».La situazione sembra stia precipitando: Washington parla apertamente di azioni militari contro Damasco, caldeggiate anche da Parigi (che potrebbe partecipare a eventuali raid punitivi) mentre la Russia mette in guardia gli Usa contro un «intervento militare sulla base di pretesti inventati» in Siria, che potrebbe «portare a conseguenze più pesanti». Letteralmente, i russi avvertono: intercetteranno i missili americani e colpiranno anche le loro basi di lancio. Uno scenario teoricamente esplosivo, “perfetto” per chi sogna lo scatenarsi dell’apocalisse. Per Gaiaini, la cautela dovrebbe quindi essere d’obbligo, «specie dopo la figuraccia rimediata dal ministro degli esteri britannico Boris Johnson che sulla responsabilità russa nel “caso Skripal” è stato smentito dal direttore dei laboratori militari di Sua Maestà». Ed ecco il punto: «La denuncia dell’attacco chimico a Douma sembra cadere a proposito per scoraggiare il ritiro delle forze americane dalla Siria settentrionale e orientale, annunciato da Trump dopo il fallimento del proposito della Casa Bianca di far pagare ai sauditi qualche miliardo di petrodollari per finanziare le operazioni dei militari americani»Il ritiro dei duemila soldato americani rischia però di lasciare carta bianca alle truppe turche nel nord del paese e a quelle di Damasco nell’est, «per questo oltre agli arabi e agli israeliani anche il Pentagono si oppone alla decisione annunciata da Trump», che ora sembra “costretto” a cambiare idea di fronte all’indignazione dell’opinione pubblica e della “comunità internazionale” per i bambini “uccisi dal cloro di Assad”, cioè “l’animale” alleato di russi e iraniani per il quale Trump minaccia una punizione esemplare. E’ la tesi di Paolo Mosca: l’ennesima strage (forse addirittura inventata – secondo i russi, non ci sono neppure vittime) si è verificata con puntualità cronometrica, a orologeria, non appena Trump ha annunciato il ritiro dalla Siria. Legge dietro l’ufficialità è difficile. A frenare è il ministro della difesa, l’ex generale dei marines James Mattis: «Niente è ancora stato deciso», fa sapere. «Prima bisogna verificare cos’è successo davvero, in Siria».«Lo scenario che si sta delineando in queste ore nel conflitto siriano ricorda da vicino la “pistola fumante” delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein con cui gli Usa giustificarono agli occhi del mondo l’invasione dell’Iraq nel 2003». Lo afferma Gianandrea Gaiani, su “Analisi difesa”. «Ci sono infatti molte ragioni per esprimere scetticismo di fronte alla denuncia dell’ennesimo attacco chimico contro i civili siriani attribuito al regime di Damasco». Già in passato, scrive Gaiani, «attacchi simili sono stati attribuiti ai governativi senza che emergessero prove concrete», mentre notizie e immagini diffuse dai “media center” sul terreno (Douma, Idlib, Aleppo e altre località in mano ai “ribelli”) «sono evidentemente propagandistiche e palesemente costruite». Lo schema si è già ripetuto più volte fin dalla guerra in Libia del 2011 e poi in Siria: «Fonti “umanitarie” strettamente legate alle milizie jihadiste e ai loro alleati arabi diffondono notizie non verificabili per l’assenza di osservatori neutrali». La situazione in Siria non è mai stata tanto critica, scrive Marcello Foa sul “Giornale”: nel giro di pochi giorni siamo passati dall’annuncio di un possibile ritiro dei soldati americani a quello di un possibile e devastante attacco con i missili su Damasco. «Il rischio di una spirale, e dunque di una guerra, è concreto».
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E così compriamo dall’Isis i capolavori distrutti per finta
Poche settimane fa Paolo Gentiloni e Dario Franceschini, rispettivamente ministri degli Esteri e dei Beni e delle attività culturali e del Turismo, celebravano il “successo” per il “sì” del Consiglio esecutivo dell’Unesco alla proposta italiana di istituire meccanismi per l’uso dei “caschi blu della cultura”. Una task force internazionale dunque che dovrà intervenire laddove il patrimonio dell’umanità viene messo a rischio da catastrofi naturali o da attacchi terroristici. La decisione è infatti arrivata dopo i video pubblicati dallo Stato Islamico sulla distruzione dei siti archeologici (Nimrud, Hatra, Khorsabad, Palmira) in Iraq e in Siria da parte dei suoi miliziani. Peccato però che gli indignati non fanno altro che rinsaldare la strategia mediatica e le casse del Califfato invece che impedire questo scempio. In realtà dietro alla furia iconoclasta si nasconde un business da milioni di dollari. A rivelarlo è stata l’archeologa francolibanese Joanne Farchakh, intervistata dal giornalista Robert Fisk per l’“Independent”.«L’Isis prima vende le statue, i reperti, qualunque cosa richiesta dai compratori sul mercato internazionale», racconta al quotidiano inglese: «Prende il denaro e poi fa saltare in aria il tempio da cui queste cose provenivano così da distruggere tutte le prove». Da un lato dunque le riprese possono essere vere e proprie messe in scena per nascondere questo commercio di statue, ceramiche, mosaici, bassorilievi, monete, frontoni di pietra e affreschi; dall’altro può accadere che la demolizione avviene solo parzialmente così da non far sapere quali pezzi sono stati venduti dopo il saccheggio. La scoperta di questo traffico occulto che coinvolge Stato Islamico, compratori privati delle capitali del mondo dell’arte e gruppi organizzati della criminalità turca, i quali permetterebbero il transito verso l’Europa e gli Stati Uniti, è stato ampiamente documentato da diversi esperti. Tra questi Mark Altaweel, archeologo americano di origini irachene nonché docente all’Università College di Londra, il quale in un’intervista rilasciata all’emittente televisiva “Russia Today” ha mostrato i siti di antiquariato inglesi che vendono a prezzi stratosferici resti artistici provenienti da Siria e Iraq.Altaweel è una figura molto autorevole, tanto che il quotidiano “The Guardian” si era fatto portare quest’estate a spasso nella regione per svolgere un’inchiesta volta a scoprire il luogo di provenienza di molti oggetti sparsi nel mercato occidentale dell’antiquariato. Le sue conclusioni vanno nella stessa direzione di quelle di Joanne Farchakh che nell’intervista ha spiegato come «l’Isis ha saputo imparare dai suoi errori, quando iniziò a distruggere i siti in Siria e in Iraq, arrivarono con i martelli, gli autocarri, distrussero ogni cosa più velocemente possibile e ne fecero un filmato brevissimo. Nimrud venne fatta saltare in aria in un giorno, ma il filmato che ne uscì fu di soli 20 secondi. Non so quanta sia l’attenzione che si può catturare con un video così breve». Ora però che ci sono i compratori è cambiata la strategia. L’arte è un business raffinato quanto quello del petrolio e delle armi.Adesso infatti – spiega l’archeologia francolibanese – «l’evento viene annunciato da una grande esplosione, poi arrivano, frammentate, le sequenze dettagliate di quello che è avvenuto». Come con la distruzione di Palmira, dove sono state documentate prima le esecuzioni dei soldati siriani nel tempio romano, poi sono stati mostrati gli esplosivi legati attorno alle antiche colonne, ancora la decapitazione del coraggioso custode in pensione del tempio e soltanto alla fine la distruzione del sito. Un evento costruito ad arte sia per i media, che ormai si erano rifiutati di mandare in onda altro sangue, sia per i mercanti d’arte, perché “più a lungo dura la devastazione, più salgono i prezzi dei reperti rubati”. Insomma i “caschi blu della cultura” più che recarsi nelle aree minacciate dallo Stato Islamico dovrebbero seguire il traffico occulto che conduce nelle principali capitali occidentali.(Sebastiano Caputo, “Dietro alla furia iconoclasta dell’Isis un business da milioni di dollari”, da “Il Giornale” del 9 novembre 2015).Poche settimane fa Paolo Gentiloni e Dario Franceschini, rispettivamente ministri degli Esteri e dei Beni e delle attività culturali e del Turismo, celebravano il “successo” per il “sì” del Consiglio esecutivo dell’Unesco alla proposta italiana di istituire meccanismi per l’uso dei “caschi blu della cultura”. Una task force internazionale dunque che dovrà intervenire laddove il patrimonio dell’umanità viene messo a rischio da catastrofi naturali o da attacchi terroristici. La decisione è infatti arrivata dopo i video pubblicati dallo Stato Islamico sulla distruzione dei siti archeologici (Nimrud, Hatra, Khorsabad, Palmira) in Iraq e in Siria da parte dei suoi miliziani. Peccato però che gli indignati non fanno altro che rinsaldare la strategia mediatica e le casse del Califfato invece che impedire questo scempio. In realtà dietro alla furia iconoclasta si nasconde un business da milioni di dollari. A rivelarlo è stata l’archeologa francolibanese Joanne Farchakh, intervistata dal giornalista Robert Fisk per l’“Independent”.