Archivio del Tag ‘parvenu’
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I nostri leader nani: durano poco perché sono senza storia
Da una parte Andreotti e Fanfani, Moro e Craxi, La Malfa e Berlinguer, Almirante e Malagodi, Pannella e Spadolini. Dall’altra Berlusconi e Renzi, Grillo e Di Maio, Conte e Monti, Zingaretti e Gentiloni, Salvini e Meloni. Provate a paragonare alla fine di un ventennio cominciato nel duemila, dieci protagonisti della prima repubblica con dieci protagonisti dei nostri ultimi anni. E ditemi, senza nessuna preferenza di natura ideologica o politica, se non provate difficoltà anche solo a stabilire paragoni. Voi direte, ma quelli erano giganti, almeno rispetto a questi, qualunque giudizio abbiamo di ciascuno di loro; ma forse non è neanche così, molti di loro furono duramente criticati nel loro tempo e qualcuno di loro non fu o non parve all’altezza del proprio compito, e furono comunque considerati minori rispetto ai padri. Da De Gasperi a Saragat, da Nenni a Togliatti e indietro nel tempo, incluso L’Escluso per antonomasia, Mussolini. No, non credo alla teoria involuzionista, per cui i figli sono sempre minori e peggiori rispetto ai padri. Non è questo. La vera differenza è un’altra. Di tutti quei dieci protagonisti citati a proposito della prima repubblica ti accorgi di una cosa: non erano solo eminenti protagonisti in sé ma erano portatori, rappresentanti, eredi di una tradizione, di una storia, di un movimento.Venivano da qualcosa, in loro vedevi riflessa una storia, anche una storia collettiva, che magari era controversa, non ti piaceva, ti urtava o ti spaventava, ma c’era: la storia dei partiti e dei movimenti popolari di massa, la storia dei cristiano-democratici e dei socialisti e dei comunisti, dei missini o neofascisti e dei liberali e dei repubblicani; poi c’era la storia dei socialdemocratici, dei monarchici e di altre famiglie politiche e culturali, altre comunità con altri eroi, autori e simboli. Ciascuno non era giudicato a sé, in sé, ma come proveniente da una storia, ed erede di una cultura politica. Dietro di loro vedevi un simbolo, un tragitto, il riassunto di un albero genealogico. Invece, i dieci protagonisti odierni che abbiamo citato vengono praticamente da se stessi, non hanno storia e movimento politico; fanno parziale eccezione Zingaretti e la Meloni, che derivano quantomeno da tradizioni politiche seppur rifratte, di cui erano rappresentanti giovanili; ma gli altri no, sono parvenu o apolitici, apolidi, apatridi, self made man, mutanti, o come altro volete definirli. Pensate che sia una differenza da poco? Pensate che non conti nulla essere e sentirsi eredi e continuatori di una storia, di un modo di pensare, di un’ideologia, perfino, o comunque di una tradizione sociale, oltre che politica, di una comunità vivente oltre che di una collettività di interessi e valori? O solitari interpreti di una fase, attori che recitano a soggetto, personaggi in cerca d’autore e di target?Questa è la vera differenza e il vero salto nel buio che abbiamo fatto. La cosiddetta seconda repubblica fu ancora una via di mezzo, c’erano tradizioni politiche, storie di partiti che si spegnevano, si piegavano, mutavano nome e fattezze; ma qualche eredità ancora s’intravedeva di una storia comune venuta dal Pci, dalla Dc, dal Msi, e via dicendo. E restava in piedi sotto l’egida del bipolarismo, qualche richiamo alla destra o centro-destra e alla sinistra o centro-sinistra. Il primo parvenu della politica fu Berlusconi, che aveva, si, bazzicato molti leader ma da imprenditore, in cerca di protezioni, sponde, benefici reciproci per le sue aziende private. Con lui c’era Umberto Bossi, contro di lui ci fu Tonino Di Pietro. Ma la collocazione in un quadro bipolare rendeva riconoscibile la loro posizione e per certi versi risaltava un’appartenenza e una derivazione. Poi tutti gli altri avevano qualche precedente storico: D’Alema e Veltroni, Fini e Casini, in parte lo stesso Prodi, solo per citare i più eminenti; provenivano dal Novecento, perlomeno.Ora, invece, i leader sono autoreferenziali, traggono legittimazione da se stessi e dalle condizioni del momento, dai loro movimenti nuovi o sempre differenziati da ogni passato. I partiti aggiornano continuamente la loro app politica, cambiano ciclicamente nome, mission, struttura. Ma anche i leader devono rigenerarsi, hanno la durata di uno smartphone. Anzi è un male avere un curriculum, provenire da una storia, rivelare un’antichità. Preferibile essere marziani, extraterrestri, vergini, parvenu. Io sono il Nuovo. Ma è un’affermazione suicida nel medio periodo, perché il Nuovo invecchia in fretta e viene presto scavalcato dal più Nuovo. Per durare, il Nuovo deve scommettere sull’oblio, ovvero sulla perdita di memoria collettiva.Il populismo a questo punto diventa un’ancora per approdare nel presente e restare a tiro, in pole-position: non rappresento una storia ma un’opinione corrente, non rappresento radici ma umori diffusi. Il popolo tramite il sondaggio diventa il sostituto della tradizione e ben si sposa con la logica mercantile del nostro tempo riassunta nella formula “il cliente ha sempre ragione”. Ancor peggio del populismo è il suo nemico, il settarismo correttivo, ovvero l’assunzione di un canone ideologico obbligato rispetto a cui attenersi, che non deriva né dall’esperienza, cioè dalla realtà, dalla storia e dalla tradizione, né dal consenso popolare. Ma è mero bigottismo radical-progressista. Al di là delle specifiche stature dei dieci piccoli indiani citati come protagonisti della stagione politica in corso, a loro volta assai differenti, il paragone è disastroso perché non rappresentano altro che se stessi, in un determinato momento. Ed è questa la ragione per cui la loro parabola è breve, non lascia tracce, non si inscrive in nessuna storia ma solo in un presente che passa in fretta. Il precariato della politica, con i suoi fuochi fatui.(Marcello Veneziani, “Nani sulle spalle dei giganti”, da “Il Borghese” del febbraio 2020; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Da una parte Andreotti e Fanfani, Moro e Craxi, La Malfa e Berlinguer, Almirante e Malagodi, Pannella e Spadolini. Dall’altra Berlusconi e Renzi, Grillo e Di Maio, Conte e Monti, Zingaretti e Gentiloni, Salvini e Meloni. Provate a paragonare alla fine di un ventennio cominciato nel duemila, dieci protagonisti della prima repubblica con dieci protagonisti dei nostri ultimi anni. E ditemi, senza nessuna preferenza di natura ideologica o politica, se non provate difficoltà anche solo a stabilire paragoni. Voi direte, ma quelli erano giganti, almeno rispetto a questi, qualunque giudizio abbiamo di ciascuno di loro; ma forse non è neanche così, molti di loro furono duramente criticati nel loro tempo e qualcuno di loro non fu o non parve all’altezza del proprio compito, e furono comunque considerati minori rispetto ai padri. Da De Gasperi a Saragat, da Nenni a Togliatti e indietro nel tempo, incluso L’Escluso per antonomasia, Mussolini. No, non credo alla teoria involuzionista, per cui i figli sono sempre minori e peggiori rispetto ai padri. Non è questo. La vera differenza è un’altra. Di tutti quei dieci protagonisti citati a proposito della prima repubblica ti accorgi di una cosa: non erano solo eminenti protagonisti in sé ma erano portatori, rappresentanti, eredi di una tradizione, di una storia, di un movimento.
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Mangia: i veri padroni a cui risponde “l’avvocato del popolo”
La formazione di un governo è dipesa per 75 minuti dall’annuncio dell’esito di un sondaggio gestito da una società privata; il partito che per 18 mesi si è fatto paladino delle democrazia rappresentativa, e che in questi giorni ha ricordato a tutti le regole della democrazia parlamentare, voterà a breve la riduzione dei parlamentari; e ormai la Lega, pur di mettere in luce quel che è successo, cita Mortati e la presunzione di consonanza tra Parlamento e corpo elettorale. E’ roba che è morta e sepolta da quando Mattarella ha annunciato in televisione l’esistenza di una pregiudiziale europea, per cui non può fare il ministro chi, nella sua vita precedente, abbia mai criticato l’Unione Europea. Davvero ha ragione Mario Esposito a dire che ormai l’Ue fa parte della forma di governo italiana. È che se ne sono accorti in pochi, anche se è sotto gli occhi di tutti. Bisognerà, prima o poi, fare una riflessione sul ruolo della presidenza della Repubblica, e su cosa è diventata. La vera ragion d’essere di questo governo è anestetizzare per un po’ la situazione italiana, dopo le preoccupazioni che l’Italia aveva destato in una fase pessima per gli equilibri politici del continente. Altro che Iva da stornare e riduzione del cuneo fiscale da realizzare. Quella è roba, diciamo così, per il mercato elettorale interno.Finché si potrà, si cercherà di puntellare dall’esterno un governo che serve a tenere a bada una provincia dell’Impero dove covano germi di ribellione. E si sa che il partito delle molte Legion d’Onore – e cioè il Pd – è sempre disponibile per queste operazioni. Gli dà una mano il M5S, che adesso si è scoperto decisamente europeista, dopo aver consentito il nascere della Commissione von der Leyen. Chissà perché non hanno chiesto un parere a Rousseau anche su questo, visto che è stato il vero passaggio di rottura. D’altronde, Lega e 5 Stelle avevano già fatto una campagna elettorale ad insultarsi a vicenda mentre stavano al governo: era normale che questo dovesse avvenire. E non si è capito che Salvini le elezioni le aveva vinte in Italia, ma in Europa le aveva perse. E anche male. Era solo questione di tempo perché si spaccasse l’accordo. La durata di questo governo dipenderà dall’esterno, come è avvenuto per il precedente, che è caduto sulla politica estera. Kissinger vedeva nella dimensione imperiale la forma politica naturale per l’Europa. I fatti gli stanno dando ragione. Perché per un impero ad importare è il centro, mentre i confini sono secondari: possono espandersi o contrarsi, ma l’importante è che tenga il centro.Secondo me gli ideatori del format elettorale che va sotto il nome di 5 Stelle non si sono resi conto che l’“avvocato del popolo”, che era stato reclutato come un “professionista a contratto”, gli ha sfilato il giocattolo. E il momento in cui questo è avvenuto è stato al momento del voto sulla presidenza della Commissione Europea. È chiaro che i 5 Stelle cercavano una legittimazione a livello europeo dopo essere stati tenuti fuori da tutto fin dal loro ingresso a Strasburgo. E la loro occasione è stata quella di fornire 14 voti ad una Commissione che è entrata in carica per 9 voti. A quel punto la crisi d’agosto ha prodotto un’accelerazione. E Conte, che aveva già lavorato con un pezzo di governo che rispondeva al Quirinale per accreditarsi in Europa, si è trovato investito di un ruolo di statista che gli è stato concesso in tutta fretta per evitare i problemi che avrebbe potuto dare una crisi italiana in una fase in cui Brexit, recessione tedesca e guerra commerciale sono tutti punti interrogativi. Conte riceverà la fiducia da un gruppo parlamentare, il Pd, che non risponde alla sua segreteria, e da un altro gruppo parlamentare che fino a una settimana fa vedeva in Di Maio il leader politico e in Conte un mediatore tecnico.Il punto è che l’investitura rapidissima e simultanea, e su tutti i media mondiali, di Conte da parte di Merkel, Macron, Trump, Juncker, Bill Gates, Oettinger, Moscovici, Elvis Presley e Walt Disney pone un problema allo stesso Movimento. Adesso Conte a chi risponde?Bisogna domandarselo. Risponde al Pd, verso il quale ha rivolto in questi giorni parole di vecchio simpatizzante? Alla Casaleggio e Associati? A chi, con immenso candore, l’ha definito il “nuovo Tsipras” (Jean-Claude Juncker) ed eletto al ruolo di statista mondiale da “burattino” che era? O risponde fondamentalmente a se stesso, come ogni professionista che si rispetti? Se Di Maio fosse rientrato a Palazzo Chigi come vicepremier avrebbe avuto la possibilità di controllare il suo ex “professionista a contratto” e ritagliare un ruolo a quel che resta del Movimento. Se va a fare il ministro e basta, tutto si fa più confuso e provvisorio. Cosa direbbe, Kissinger, di questa situazione? Direbbe la verità. E cioè che in fondo Casaleggio, Conte e via dicendo sono dei parvenu dell’ordine mondiale. E che Conte sia stato, per il momento, cooptato per tenere buono un paese fastidioso, non vuol dire che lo sia anche il gruppo formatosi attorno alla Casaleggio e Associati, con i suoi progetti di democrazia cibernetica fatta in casa con il forno a legna.(Alessandro Mangia, dichiarazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “I veri poteri a cui risponde l’avvocato del popolo”, pubblicato dal “Sussidiario” il 4 settembre 2019. Il professor Mangia è ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano).La formazione di un governo è dipesa per 75 minuti dall’annuncio dell’esito di un sondaggio gestito da una società privata; il partito che per 18 mesi si è fatto paladino delle democrazia rappresentativa, e che in questi giorni ha ricordato a tutti le regole della democrazia parlamentare, voterà a breve la riduzione dei parlamentari; e ormai la Lega, pur di mettere in luce quel che è successo, cita Mortati e la presunzione di consonanza tra Parlamento e corpo elettorale. E’ roba che è morta e sepolta da quando Mattarella ha annunciato in televisione l’esistenza di una pregiudiziale europea, per cui non può fare il ministro chi, nella sua vita precedente, abbia mai criticato l’Unione Europea. Davvero ha ragione Mario Esposito a dire che ormai l’Ue fa parte della forma di governo italiana. È che se ne sono accorti in pochi, anche se è sotto gli occhi di tutti. Bisognerà, prima o poi, fare una riflessione sul ruolo della presidenza della Repubblica, e su cosa è diventata. La vera ragion d’essere di questo governo è anestetizzare per un po’ la situazione italiana, dopo le preoccupazioni che l’Italia aveva destato in una fase pessima per gli equilibri politici del continente. Altro che Iva da stornare e riduzione del cuneo fiscale da realizzare. Quella è roba, diciamo così, per il mercato elettorale interno.
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Media ridicoli: Trump impresentabile, come Silvio e Reagan
Ricordate la battuta di Marx su Napoleone III? La storia si ripete sempre due volte, scriveva il genio di Treviri, la seconda in forma di farsa. Di recente la storia ha preso il vizio di ripetersi più di due volte, ma la battuta funziona ancora, solo che, a ogni replica, l’elemento farsesco si acuisce, fino al grottesco. La colpa è dei media, i quali, nel raccontarci il mondo contemporaneo, ripropongono ossessivamente gli stessi schemi, che suonano ogni volta più ridicoli e stantii. Un esempio? Guardate come ci stanno raccontando la resistibile ascesa di Donald Trump, fino alla sua “intronazione” a candidato repubblicano alle imminenti elezioni presidenziali americane – evento che si è appena celebrato in quel di Cleveland. Ogni volta che leggo un articolo sul “New York Times”, sull’“Economist”, sul “Guardian” o sul nostro “Corriere della Sera”, mi scattano ricordi su come, qualche decennio fa, furono raccontate le fortune politiche di personaggi come Ronald Reagan o Silvio Berlusconi: il primo dipinto come un vecchio, patetico attore di western, un ridicolo parvenu che, se fosse riuscito a farsi eleggere, avrebbe sicuramente combinato pasticci; il secondo come un volgare arricchito, digiuno di ogni più elementare nozione e competenza politica, destinato a ottenere, tuttalpiù, una breve parentesi di notorietà come Guglielmo Giannini e il suo Uomo Qualunque.Sappiamo come sono andate le cose: Reagan ha inaugurato la controrivoluzione liberista e contribuito ad affossare l’impero sovietico, Berlusconi si è trasformato nell’“eroe” di un ventennio che ha rivoltato come un calzino il nostro sistema politico. Ed entrambi sono stati servilmente celebrati come straordinari “innovatori” dai media che li avevano presi in giro. Ora tocca a Trump. La grande stampa americana non riesce a digerire il fatto che un outsider si sia fatto beffe dell’establishment repubblicano e delle lobby che lo sostengono, per cui, scongiurato il pericolo di una candidatura Sanders in campo democratico, si stanno scatenando, sia attaccandone da “sinistra” (parola che suscita ilarità ove si considerino i pulpiti da cui provengono gli attacchi) le dichiarazioni razziste, sessiste e xenofobe, sia cercando di metterne in ridicolo i gesti, l’aspetto fisico e il linguaggio. Il “Corriere” del 19 luglio scorso si è allineato a tale strategia, pubblicando un articolo dello scrittore Richard Ford in cui leggiamo frasi come «non potrei cenare da solo con Trump nel mio ristorante preferito di Parigi. Rovinerebbe la cena»; oppure: «Sono certo che non potrei discutere con lui di un grande romanzo appena letto»; mentre, nella pagina a fianco, compare un trafiletto sulla “odissea tricologica” del tycoon (accompagnato da immagini che ritraggono Trump nelle varie fasi della metamorfosi subita dalla sua improbabile chioma).Sorvolando sui tempi in cui il “Corriere” sviolinava Berlusconi (dimostrandosi assai più indulgente con le di lui chiome), è chiara l’intenzione di mettere alla gogna questo “villano rifatto”. Al pari di sua moglie, sbeffeggiata in un altro articolo di Maria Laura Rodotà, nel quale ci si chiede come potrebbe questa “ex modella di biancheria intima” diventare First Lady. Essendo cinico e maligno, penso che a nessuno di questi giornali importi qualcosa se alla Casa Bianca dovesse approdare un “cafone” (non sarebbe certo il primo). Ciò che spaventa non è il candidato sporco, brutto e cattivo: sono gli elettori sporchi brutti e cattivi, cioè quel proletariato bianco impoverito e incazzato che sostiene Trump allo stesso modo in cui si è “permesso” di votare Brexit. Così come spaventano le sparate di Trump contro il free trade, le promesse di abbandonare l’Europa al proprio destino (si paghi da sola le sue avventure neocoloniali), le minacce contro Wall Street e i super ricchi e altre cosette di sinistra che sembra aver “rubato” al populista di sinistra Bernie Sanders.Vorrei rassicurare lor signori: non credo che Trump possa vincere, visto che la macchina politica – ormai trasversale – e le super lobby che appoggiano la Clinton le regaleranno quasi certamente la vittoria (benché la maggioranza del popolo americano la odi cordialmente – e con buone ragioni). Ma quand’anche vincesse, vedrete che la sua demagogia antisistema sparirà come d’incanto, e lui farà esattamente quello che l’establishment si attende da un “buon” presidente. Dopodiché “New York Times”, “Economist”, “Corriere” e compagnia cantante inizieranno a sviolinarlo così come hanno sviolinato Reagan e Berlusconi. Un’altra replica, un’altra farsa.(Carlo Formenti, “Trump e i media, la storia si ripete in farsa”, da “Micromega” del 21 luglio 2016).Ricordate la battuta di Marx su Napoleone III? La storia si ripete sempre due volte, scriveva il genio di Treviri, la seconda in forma di farsa. Di recente la storia ha preso il vizio di ripetersi più di due volte, ma la battuta funziona ancora, solo che, a ogni replica, l’elemento farsesco si acuisce, fino al grottesco. La colpa è dei media, i quali, nel raccontarci il mondo contemporaneo, ripropongono ossessivamente gli stessi schemi, che suonano ogni volta più ridicoli e stantii. Un esempio? Guardate come ci stanno raccontando la resistibile ascesa di Donald Trump, fino alla sua “intronazione” a candidato repubblicano alle imminenti elezioni presidenziali americane – evento che si è appena celebrato in quel di Cleveland. Ogni volta che leggo un articolo sul “New York Times”, sull’“Economist”, sul “Guardian” o sul nostro “Corriere della Sera”, mi scattano ricordi su come, qualche decennio fa, furono raccontate le fortune politiche di personaggi come Ronald Reagan o Silvio Berlusconi: il primo dipinto come un vecchio, patetico attore di western, un ridicolo parvenu che, se fosse riuscito a farsi eleggere, avrebbe sicuramente combinato pasticci; il secondo come un volgare arricchito, digiuno di ogni più elementare nozione e competenza politica, destinato a ottenere, tuttalpiù, una breve parentesi di notorietà come Guglielmo Giannini e il suo Uomo Qualunque.