Archivio del Tag ‘Paul Marcinkus’
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L’Ultima Fregatura, nuovo film di Renzi nella caverna-Italia
Sarà contento, il travaglismo nazionale, di aver tolto a Salvini le chiavi del governo per riconsegnarle a Renzi. Era il IV secolo avanti Cristo quando Platone inventò il cinema, con il Mito della Caverna: quella disegnata sulla parete non è la realtà, sono solo le ombre proiettate dal fuoco. Il mondo vero, tridimensionale, è là fuori: ad andare in scena nella grotta è un semplice spettacolo. Si può cadere in errore, certo. Dipende anche dal talento del proiezionista. Il Mago di Rignano, ad esempio, ne ha da vendere: superò il 40% dei suffragi dopo aver elargito la mancia degli 80 euro, brillando nell’arte cabarettistica in cui si sarebbe cimentato Di Maio. Poco dopo, nell’estate 2016, dal cinema si passò al teatro: uno spettacolare vertice con la Merkel e Hollande, sul ponte della portaerei Garibaldi al largo di Ventonene, per celebrare la farsa dell’unità europea evocando abusivamente il fantasma di Altiero Spinelli, padre del federalismo europeo del Novecento. Un pretesto altamente scenografico, con una missione illusionistica: spacciare per Europa Unita l’aborto dell’attuale Disunione Europea, di cui l’Italia – da Renzi a Conte – si candida a restare servitrice sottomessa e depredabile.
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L’inganno della Croce: storia di una religione “inventata”
Si legge questo libro (“L’inganno della Croce”, di Laura Fezia) e ci si chiede: come non concordare? O, quanto meno, come non cominciare a dubitare seriamente? I contenuti sono accurati, frutto di una ricerca che rispetta le regole di quella scienza che si definisce storiografia: tecnica di composizione di opere storiche, fondata sull’interpretazione critica e sulla rielaborazione scientifico-letteraria dei fatti. Questo libro affronta e narra una serie di vicende che della storia hanno fatto scempio; una successione di atti, decisioni, affermazioni, imposizioni che nulla hanno avuto – e hanno – a che vedere con il desiderio di verità così pomposamente proclamato. L’autrice inizia a ripercorrere qui – e promette di proseguire – la nascita e l’affermazione di una istituzione che si perpetua con lo scopo precipuo di nutrire se stessa, il suo potere, la sua ricchezza, fondandoli in modo pretestuoso su basi che di storico hanno poco o nulla. La falsità creata e posta come base per la creazione di quello che appare come il più duraturo ed efficace sistema di potere mai elaborato e imposto: santaromanachiesa, come la definisce Laura Fezia.Bene fa l’autrice a ricordare che il cardinale Paul Marcinkus, braccio destro di Giovanni Paolo II, per rispondere a una domanda sulla sua disinvolta gestione, affermò candidamente: «La Chiesa non si può mandare avanti con le Avemarie!». Evviva la sincerità! Ma noi ci chiediamo: la Chiesa non dovrebbe essere la prima ad affidarsi in via esclusiva alla Provvidenza. A quella stessa provvidenza che viene spesso ricordata ai poveri e ai sofferenti per far sì che vivano nella speranza di un paradiso in cui trascorreranno la loro eternità con quel dio che la Chiesa stessa ha inventato? Perché i poveri e i sofferenti devono supplire con le Avemarie mentre la Chiesa provvede molto più opportunamente ed efficacemente a sostentare se stessa con la ricchezza? L’autrice evidenzia chiaramente che qualcosa non torna: «Questa non è che una delle contraddizioni talmente evidenti che dovrebbero saltare all’occhio di chiunque, ma i cattolici praticanti e convinti, indottrinati da un’abile, martellante propaganda subliminale, oggi come un tempo preferiscono fingere di non vedere e non sapere, ostinandosi a identificare fede e Chiesa».Il dominio sulle coscienze nasce da invenzioni che in una sorta di fabula vengono congegnate e concatenate le une alle altre, appunto come anelli di una catena che imprigiona inesorabilmente chi non vuole, o spesso non può, pensare e agire in conformità a quella autonomia che la nostra struttura intellettuale (presunto dono del presunto dio) consente o consentirebbe, qualora la si volesse esercitare. Le falsità sono tante e Laura Fezia le riporta, evidenzia e sottolinea, con quella determinazione ed efficace capacità di penetrazione analitica che le riconosciamo da sempre. Ci ricorda ad esempio che «di certo, gli evangelisti che ci presenta l’agiografia non sono mai esistiti. L’esigenza di attribuire gli scritti del Nuovo Testamento ad autori precisi, nacque dopo la metà del II secolo, per conferire loro maggiore attendibilità: si andarono allora a pescare dei nomi tra quelli presenti nelle lettere di Paolo e nei Vangeli, si fabbricarono dei falsi, affermando, per esempio, che il Matteo e il Giovanni che erano stati testimoni oculari della vita e della morte di Gesù ne avevano poi compilato personalmente la storia».Tra le tante altre “bufale” – un temine che l’autrice usa nella sua sincera ed efficacissima schiettezza – contenute nei vangeli e che l’autrice esamina con grande capacità di indagine, c’è la prima, fondamento di tutte: «La Fabula Christi che fu inventata scientemente, da quella parte del popolo ebraico che, staccandosi dall’ossessione messianica, ormai chiaramente fallimentare fin dai tempi di Yahweh e Mosè, decise di cambiare registro e sperimentare un altro sistema per liberarsi dalla schiavitù». Una situazione che nasce da lontano, dalla straordinaria “invenzione” del concetto di peccato originale che consentì alla Chiesa di «governare indisturbata le coscienze delle sue pecorelle, sempre più prigioniere di un recinto eretto in maniera tanto astuta da renderle grate al pastore e inconsapevoli della loro schiavitù». Una disamina storica attenta, precisa, documentata ed efficace proprio perché non cede alla facile tentazione del sensazionalismo ma intende portare all’attenzione del lettore una situazione di fatto, evidente e per ciò stesso straordinariamente liberatoria. Questo libro infatti non è esclusivamente destrutturante, non ha lo scopo precipuo di abbattere, se non nella misura in cui questo è necessario, nella certezza che il nuovo può nascere solo dove le catene del vecchio vengono annullate.Dichiara esplicitamente Laura Fezia: «Lo scopo del mio lavoro non è quello di distruggere la fede, che rispetto almeno fino a quando non pretende di condizionare le mie libere scelte, ma di spezzare il perverso binomio che la lega indissolubilmente a un’istituzione che ne ha fatto una velenosa pozione con la quale intorpidire le coscienze». Chi rimane legato all’idea di un dio che è stato palesemente inventato si preclude la possibilità di accedere alla ipotetica e agognata conoscenza del “vero”. Con questa convinzione, con questo fine assolutamente positivo e liberatorio va letto – direi anche studiato e poi in seguito magari periodicamente consultato – questo libro, che è scritto per chi vuole avere elementi per riflettere in modo autonomo, nella convinzione che, in assenza e nella difficoltà di conseguire la verità assoluta, la riconquista della verità storica rende liberi almeno dalle palesi falsità su cui si basa la stessa struttura socio-culturale in cui vive l’Occidente.(Mauro Biglino, “L’inganno della Croce”, dal blog di Biglino del 24 settembre 2018. Il libro: Laura Fezia, “L’inganno della Croce. Come la Chiesa cattolica ha inventato se stessa attraverso menzogne, artifizi e falsi documenti”, UnoEditori – Libri Eretici, 262 pagine, euro 14,90).Si legge questo libro (“L’inganno della Croce”, di Laura Fezia) e ci si chiede: come non concordare? O, quanto meno, come non cominciare a dubitare seriamente? I contenuti sono accurati, frutto di una ricerca che rispetta le regole di quella scienza che si definisce storiografia: tecnica di composizione di opere storiche, fondata sull’interpretazione critica e sulla rielaborazione scientifico-letteraria dei fatti. Questo libro affronta e narra una serie di vicende che della storia hanno fatto scempio; una successione di atti, decisioni, affermazioni, imposizioni che nulla hanno avuto – e hanno – a che vedere con il desiderio di verità così pomposamente proclamato. L’autrice inizia a ripercorrere qui – e promette di proseguire – la nascita e l’affermazione di una istituzione che si perpetua con lo scopo precipuo di nutrire se stessa, il suo potere, la sua ricchezza, fondandoli in modo pretestuoso su basi che di storico hanno poco o nulla. La falsità creata e posta come base per la creazione di quello che appare come il più duraturo ed efficace sistema di potere mai elaborato e imposto: santaromanachiesa, come la definisce Laura Fezia.
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Moro, storia da riscrivere: prigioniero in una casa dello Ior
Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quarant’anni anni) del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima relazione, scrive Maria Antonietta Calabrò sull’“Huffington Post”, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei carabinieri, quell’auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma un mese prima del sequestro dalle fonti palestinesi del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, vicinissimo a Moro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta. La commissione Fioroni rivela inoltre che il prigioniero Moro, prima di essere ucciso, ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Il che «dimostra che in un modo o nell’altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda».L’ombra del Vaticano spunta «a cominciare dall’individuazione, nella zona della Balduina, in via Massimi 91, di una palazzina di proprietà Ior, la cosiddetta banca vaticana, (posseduta attraverso la società Prato Verde srl, e gestita da Luigi Mennini), abitata (o frequentata) da cardinali (Vagnozzi e Ottaviani), da prelati e dallo stesso presidente dello Ior, Paul Marcinkus», scrive Maria Antonietta Calabrò. Nello stabile aveva sede una società americana che lavorava per la Nato, e vivevano in affitto esponenti tedeschi dell’Autonomia, finanzieri libici e due persone contigue alle Brigate Rosse. «Complesso edilizio che, anche alla luce della posizione, potrebbe essere stato utilizzato – si legge nel documento – per spostare Aldo Moro dalle auto utilizzate in via Fani a quelle con cui fu successivamente trasferito, oppure potrebbe aver addirittura svolto la funzione di prigione dello statista». La relazione, grazie a nuovi testimoni, dimostra addirittura che per alcuni mesi, nell’autunno del 1978, in quello stabile si sarebbe nascosto Prospero Gallinari (il britagatista carceriere di Moro) insieme alle armi usate dal commando che in via Fani sterminò la scorta di Moro. L’alloggio di via Massimi 91 è stato anche il covo-prigione in cui fu detenuto il presidente della Dc? E’ un’ipotesi che la commissione non scarta.Soprattutto, sottolinea l’“Huffington”, grazie alla declassificazione di una grande quantità di atti dei servizi segreti e delle forze dell’ordine, «la commissione ha accertato che la “narrativa” ufficiale sul sequestro e la morte di Moro, contenuta nel cosiddetto memoriale Morucci-Faranda, altro non è che una “versione ufficiale e di Stato” del caso Moro, preparata a tavolino molti anni prima che essa approdasse sul tavolo di Francesco Cossiga». In altre parole, «l’unica verità “dicibile” per chiudere l’epoca del terrorismo». Una verità di comodo, «messa a punto da magistrati (Imposimato, Priore: citati con nome e cognome), esponenti delle forze dell’ordine e naturalmente dai brigatisti». Valerio Morucci divenne addirittura consulente del Sisde, il servizio segreto interno di allora. La stessa vicenda del suo arresto e di quello di Adriana Faranda in casa di Giuliana Conforto (figlia «del più importante agente del Kgb in Italia», come l’ha definito il professor Christopher Andrew nel suo libro “L’Archivio Mitrokhin”), per la commissione «è stata oggetto di una completa rilettura, che ha consentito di mettere finalmente alcuni punti fermi sulla scoperta del rifugio di viale Giulio Cesare 47, ma anche di evidenziare uno scenario più complesso, che chiama in causa la possibilità che l’arresto di Morucci e Faranda sia stato negoziato».Alla luce delle indagini compiute, comunque, scrive Fioroni, «il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro non appaiono affatto come una pagina puramente interna dell’eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale». Ancora: «Al di là dell’accertamento materiale dei nomi e dei ruoli dei brigatisti impegnati nell’azione di fuoco di via Fani e poi nel sequestro e nell’omicidio di Moro, emerge infatti un più vasto tessuto di forze che, a seconda dei casi, operarono per una conclusione felice o tragica del sequestro, talora interagendo direttamente con i brigatisti, più spesso condizionando la dinamica degli eventi, anche grazie alla presenza di molteplici aree grigie, permeabili alle influenze più diverse». Al riguardo, Fioroni parla di «martirio laico» di Moro, sacrificato sull’altare della guerra fredda: gli americani preoccupati dall’apertura al Pci, che avrebbe avvicinato l’Italia alla Jugoslavia di Tito, e i sovietici allarmati dall’eurocomunismo di Berlinguer, polemico con Mosca e virtualmente contagioso per gli altri partiti comunisti europei, a partire da quello francese.Un capitolo particolare, aggiunge Maria Antonietta Calabrò, è dedicato alle “protezioni” che hanno messo al sicuro la latitanza di uno dei brigatisti presenti in via Fani, Alessio Casimirri. «La primula rossa delle Br, tuttora latitante, prima di giungere in Nicaragua, riuscì più volte, in maniera rocambolesca, a sfuggire alla cattura. Per l’ex brigatista, di cui anche nei mesi scorsi è stata sollecitata l’estradizione, ci fu però un momento in cui mancò veramente un nulla ad ammanettarlo. A riconoscerlo, proprio nei dintorni di San Pietro, fu il padre di Jovanotti, al secolo Lorenzo Cherubini, uno dei più noti cantautori italiani». Mario Cherubini, che era un gendarme vaticano, riconobbe Casimirri, già latitante, per strada, «Corse a denunciarlo, ma non si riuscì a fermarlo», racconta Vero Grassi, vicepresidente della commissione Fioroni. Il cantante toscano ha raccontato a “Vanity Fair” di quando la famiglia Casimirri, a metà degli anni ‘70, invitava i Cherubini nella casa di campagna a Monterotondo, dove Alessio (provetto sub) gli mostrava i suoi trofei di pesca. Il padre di Casimirri, Luciano, è a sua volta un personaggio leggendario: sopravvissuto allo sterminio nazista della Divisione Acqui a Cefalonia dopo l’8 settembre del ‘43 (come il protagonista del film “Il mandolino del capitano Corelli”, con Nichoals Cage e Penelope Cruz), era poi stato responsabile della sala stampa vaticana sotto tre Papi: Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI, quello che rivolse lo storico appello agli “uomini delle Brigate Rosse” per la liberazione di Moro – sequestrato e trattenuto, si apprende ora, in un palazzo di proprietà del Vaticano.Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quarant’anni) del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima relazione, scrive Maria Antonietta Calabrò sull’“Huffington Post”, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei carabinieri, quell’auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma un mese prima del sequestro dalle fonti palestinesi del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, vicinissimo a Moro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta. La commissione Fioroni rivela inoltre che il prigioniero Moro, prima di essere ucciso, ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Il che «dimostra che in un modo o nell’altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda».
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Strana morte del Papa ‘antifascista’. Il suo medico? Petacci
Tutti si ricorderanno di Papa Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani, «che occupa il soglio pontificio per soli 33 giorni (magari il numero vi dice qualcosa…) prima di morire improvvisamente, il 29 settembre 1978, secondo la versione ufficiale, per un infarto miocardico». La verità è probabilmente ben diversa, scrive Marcus Mason sul blog “Lo Sciacallo”: il nuovo Papa aveva in testa di realizzare una sorta di “grande repulisti” all’interno del voluminoso apparato burocratico ecclesiastico, eliminando «corruzione e malaffare all’interno delle Mura Leonine». Nel mirino, «alcuni esponenti di rilievo della finanza vaticana». Probabile quindi che «si sia deciso di uscire dall’imbarazzo risolvendo il problema alla base: mettendo Luciani in condizioni di non nuocere». Ma attenzione: quarant’anni prima, c’era stato un altro pontefice «la cui dipartita dà ancora adito a più di un dubbio: si tratta di Achille Ratti, salito al soglio col nome di Pio XI». La sua “colpa”? Non piaceva a Mussolini e men che meno a Hitler: il pontefice si stava preparando a una dichiarazione clamorosa contro l’adozione delle leggi razziali che sancirono il genocidio degli ebrei anche in Italia.Ratti nasce a Desio, nel milanese, il 31 maggio 1857, ricorda lo “Sciacallo”. Si dedica alla carriera religiosa a partire dal 1867, quando inizia a frequentare il seminario di Seveso e successivamente quello di Monza, fino ad entrare nell’ordine terziario francescano nel ‘74. Viene ordinato sacerdote a Roma nel dicembre ‘79 dal cardinale La Valletta. Si occupa di istruzione, prima come prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano e in seguito come insegnante, fino al suo ingresso nell’élite ecclesiastica negli anni ‘90 del XIX secolo. Arriva ad ottenere, sotto Benedetto XV, il prestigioso incarico di prefetto della Biblioteca Vaticana. Dopo una serie di incarichi diplomatici all’estero (anche “visitatore apostolico” in Polonia), viene nominato nel 1921 arcivescovo di Milano, dove fonda l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Alla morte di Benedetto XV, è eletto nuovo pontefice. Una volta in carica, Ratti si adopera per dirimere la cosiddetta “questione romana”, cioè l’ostilità tra Italia e Vaticano, ancora irrisolta dai tempi di Porta Pia. Il Papa «si mostra in più di un’occasione in contrasto con i provvedimenti del regime fascista», ma poi cambia posizione nel 1929, anno in cui, l’11 febbraio, Stato italiano e Chiesa Cattolica firmano i celeberrimi Patti Lateranensi, «in cui a quest’ultima vengono concessi privilegi economici e gestionali spropositati».Da lì in poi, continua Mason, la Chiesa si mostra quasi totalmente in linea con la politica mussoliniana, «non proferendo parole sulle atrocità italiane nelle colonie nordafricane, né sull’azzeramento delle libertà di pensiero e di stampa in patria». Poi però le cose si complicano in seguito all’alleanza organica col nazismo: «L’atteggiamento ambiguo di Ratti non può proseguire a partire dal 1938 quando l’Italia, su imbeccata di Hitler, promulga le aberranti leggi razziali», scrive Mason. «Pio XI, che mai ha avuto in simpatia il dittatore nazista (nel maggio 1938, quando Hitler era venuto in visita in Italia, non aveva voluto incontrarlo), individua nella cerimonia per il decennale dei Patti Lateranensi, che si sarebbe tenuta l’11 febbraio 1939, il momento giusto per pronunciare un forte discorso». Secondo Bianca Penco, una dirigente dell’epoca della Fuci, la Federazione Universitaria Cattolica Italiana, il pontefice «avrebbe condannato apertamente la deriva politica che Mussolini aveva intrapreso, evidenziando una violazione palese degli stessi Patti che l’Italia si era impegnata ad onorare, oltre alla denuncia delle persecuzioni antisemite e anticristiane ormai dilaganti in Germania».E’ superfluo rimarcare quale enorme danno d’immagine tutto ciò avrebbe rappresentato per il Duce e per lo stesso Hitler, sottolinea Mason. Ma, del resto, Pio XI non avrebbe mai pronunciato quel discorso: nella notte del 10 febbraio, secondo la versione ufficiale, viene colpito da un attacco cardiaco e muore. «Casualmente», frattanto, il cardinale segretario di Stato, Eugenio Pacelli (il futuro Papa, Pio XII) «fa distruggere le copie esistenti del discorso in questione». I conti tornano, sostiene Mason, anche perché l’operato di Pacelli come pontefice durante la Seconda Guerra Mondiale è sotto accusa da settant’anni, «tacciato di viltà, ignavia e connivenza nei confronti delle atrocità che venivano compiute». Va da sé che, «alla luce di questi fatti, la morte fulminea di Pio XI si circonda di un’aura di mistero». E dunque: «Se davvero è stato ucciso, chi può aver commesso il delitto?». In un suo memoriale, nel 1972 il cardinale Eugène Tisserant scrive, a proposito di Ratti: «Lo hanno eliminato, lo hanno assassinato». E individua il presunto colpevole nel medico personale del Papa, Saverio Petacci, nientemeno che il padre di Claretta, l’appassionata amante del Duce che poi morirà fucilata insieme a lui nel ‘45. «Un’incredibile coincidenza, naturalmente».Ma c’è di più: la donna, continua Mason, era solita annotare su un diario la cronaca delle sue giornate più importanti. Ma la pagina inerente al 5 febbraio 1939 è incompleta. Termina con la frase: «Legge i biglietti e si inquieta per una cosa che segna… Poi dice: questi sanno…».Silenzio fino al 12 febbraio, quando il diario prosegue senza però fare il minimo accenno ai fatti in questione. C’è solo una frase del Duce, che annuncia a Claretta che si recherà alle esequie di Ratti in compagnia della moglie. «Ci pare lapalissiano che alcune pagine scottanti del diario della Petacci siano state fatte scientemente sparire», scrive Mason. Pagine in cui, «forse si trovava la prova del fatto che quella di Pio XI fu una morte su commissione». Certezze? Nessuna. Dubbì, però, sì. E tanti. «Chissà, forse un giorno scopriremo questo grande cimitero dei libri dove sono conservate le risposte ai grandi misteri della storia; e tra le “Guerre di Yahweh” e la versione integrale della “Steganographia” di Tritemio, magari troveremo le pagine del diario di una giovane donna italiana».Tutti si ricorderanno di Papa Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani, «che occupa il soglio pontificio per soli 33 giorni (magari il numero vi dice qualcosa…) prima di morire improvvisamente, il 29 settembre 1978, secondo la versione ufficiale, per un infarto miocardico». La verità è probabilmente ben diversa, scrive Marcus Mason sul blog “Lo Sciacallo”: il nuovo Papa aveva in testa di realizzare una sorta di “grande repulisti” all’interno del voluminoso apparato burocratico ecclesiastico, eliminando «corruzione e malaffare all’interno delle Mura Leonine». Nel mirino, «alcuni esponenti di rilievo della finanza vaticana». Probabile quindi che «si sia deciso di uscire dall’imbarazzo risolvendo il problema alla base: mettendo Luciani in condizioni di non nuocere». Ma attenzione: quarant’anni prima, c’era stato un altro pontefice «la cui dipartita dà ancora adito a più di un dubbio: si tratta di Achille Ratti, salito al soglio col nome di Pio XI». La sua “colpa”? Non piaceva a Mussolini e men che meno a Hitler: il pontefice si stava preparando a una dichiarazione clamorosa contro l’adozione delle leggi razziali che sancirono il genocidio degli ebrei anche in Italia.
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Massoni e Opus Dei, la strana cupola della finanza italiana
Sono massone dal 1981. Ho fatto tutti i gradini del rito scozzese, che sono 33. Nel 1999 sono diventato “sovrano gran maestro” della “legittima e storica comunione di Piazza del Gesù”, che era la storica obbedienza del rito scozzese in Italia. Era un’obbedienza di ottantenni, sempre gli stessi dal dopoguerra: si erano resi conto che la gente voleva entrare in massoneria solo per fare carriera, per opportunismo, e quindi non facevano entrare nessuno. Il più giovane ero io. Una volta divenuto “sovrano gran maestro”, mantenni la stessa linea. Di questo passo, però, si andava all’estinzione. Finché nel 2005 ho deciso di scioglierla, di dimettermi, indicando ai confratelli la strada di un’altra obbedienza italiana di rito scozzese, quella di Palazzo Vitelleschi, perché sapevo che il suo “sovrano gran maestro” è una persona seria e loro avrebbero potuto continuare a fare massoneria tranquillamente lì. Io invece non ho continuato, per motivi a me presenti fin dall’inizio: solo che, avendo cercato di cambiare determinate cose e non essendoci riuscito, ho capito che dovevo dedicare il mio tempo ad altro, pur rimanendo massone – io sono massone a tutti gli effetti e sono convinto della dottrina massonica; quello che non mi convince sono alcune contraddizioni strutturali.Da questo osservatorio, che è stato per me essere “sovrano gran maestro” della massoneria, ho potuto fare delle ricostruzioni storiche, anzi meta-storiche, perché a volte gli storici non usano il buon senso. Presentando un mio libro a Cosenza, mia città natale, discussi coi due ordinari di storia di quell’ateneo. Si parlava di Alarico, il re dei Goti, che avrebbe nascosto il tesoro di Roma alla confluenza di due fiumi. Pretendevano che Alarico fosse un furfante. Dico: ma quell’oro, i romani a loro volta a chi l’avevano preso? Lo so che noi abbiamo una strana logica. Il principe di Montecarlo, Grimaldi, era un pirata – non un corsaro, di quelli al servizio degli Stati e quindi, tra virgolette, legittimati: no, era proprio un pirata, di quelli con la bandiera col teschio. Poi è diventato Grimaldi. Col passare delle generazioni, c’è stata una sorta di nobilitazione. Non pretendo che i figli paghino le colpe dei bisnonni, ma non è accettabile che debbano essere considerati superiori solo perché oggi si trovano in una posizione privilegiata. Mi infastidisce: tu parti in vantaggio rispetto a me perché qualche tuo antenato era un mascalzone.Questo per farvi capire quanto noi procediamo per stereotipi. E il luogo comune ci frega, perché non lo mettiamo mai in discussione. I gesuiti, per esempio: erano il braccio armato della Chiesa e divennero i tutori spirituali e gli educatori dei principi, ma poi furono addirittura disciolti. Perché, incontrando i popoli del Sud America, scoprirono quello che in Europa sosteneva Rousseu: che il “buon selvaggio” è spesso migliore di noi. Per questo i gesuiti dell’America Latina si impegnarono così a fondo al fianco dei movimenti di liberazione. Oggi, a capo del Vaticano, in un momento tanto difficile per la Chiesa, è stato eletto un gesuita proveniente dal Sudamerica. Al di là di quello che riuscirà a fare – lo vedremo – si tratta di un messaggio chiarissimo.La rottura coi gesuiti risale al 1928, quando la Chiesa capisce che i gesuiti non le possono più servire, e nasce l’Opus Dei. L’Opus Dei nasce perché la Chiesa non si fida più dei gesuiti. Ha bisogno di qualcosa di più “hard”, di più avanzato: ha bisogno di fare una sorta di massoneria cristiana, perché l’Opus Dei ha esattamente lo stesso schema funzionale della massoneria così come si è configurata con i Grandi Orienti. Con una differenza: che ogni tre mesi escono liste di massoni sputtanati su tutti i giornali italiani. Avete mai visto un elenco dell’Opus Dei? Se volete ve lo dico io, il nome di qualche appartenente: Gianni Letta, il nipote di Gianni Letta, Dell’Utri. Tutti quanti attribuiscono questi personaggi alla massoneria, e invece sono dell’Opus Dei. Li attribuiscono alla massoneria perché la massoneria e l’Opus Dei hanno fatto l’incesto, si sono sposati. Ma non si sono sposati sul piano filosofico, dottrinale: si sono sposati sui soldi. E qui dobbiamo scrivere la storia delle banche e dell’economia italiana.L’economia italia del dopoguerra innanzitutto eredita una realtà importante, l’Iri, fondato da Mussolini nel 1926 con a capo un grande economista, Beneduce. Nel dopoguerra, in seno all’Iri, avviene la prima alleanza tra laici e cattolici. E siccome i laici erano soprattutto massoni, indirettamente è una prima alleanza tra finanza massonica e finanza cattolica, tramite le banche di riferimento. La banca di riferimento della finanza massonica era la Banca Commerciale Italiana, mentre le banche di riferimento della finanza cattolica erano il Credito Italiano e le banche legate alle casse di risparmio. Questi organismi, a loro volta, danno origine a due grandi gruppi, che litigano tra loro solo in apparenza: per la finanza laica c’è Mediobanca, che nasce per volere di Mattioli, il massone a capo della Banca Commerciale Italiana (e Mediobanca viene comandata per tanti anni da un altro massone, Enrico Cuccia), e per la finanza cattolica c’è il gruppo SanPaolo, più il Banco Ambrosiano, una realtà minore, limitata alla Lombardia. Tutto questo va avanti finché, in qualche modo, sul Banco Ambrosiano non cerca di entrare la finanza massonica con un capo che si chiama Calvi, che era un massone.L’Opus Dei e la massoneria si mettono alla fine d’accordo e fondano una banca. Lo Ior nasce perché durante il papato di Pio XII vengono decise alcune cose, deliberate nel 1942 e poi eseguite nel 1950. La Chiesa e la massoneria decidono di avere un organo, che pochi conoscono, di gestione comune. Decidono quindi di far affluire personaggi dell’Opus Dei in una specie di ordine di cavalieri, che si chiamava Ordine di San Maurizio e Lazzaro. Ne sono stato anch’io priore, in quanto “gran maestro”, ma solo fino a quando il responsabile di quest’ordine era un galantuomo, il cardinale Oddi, di Genova; poi, non appena hanno deciso che con lo Ior dovevano fare un po’ di porcherie (il cavalierato era collegato con lo Ior, la banca vaticana), hanno fatto fuori Oddi e nominato Marcinkus, così io ho smesso di andare alle riunioni. Marcinkus è un personaggio che fino a pochi mesi fa giocava a golf nel suo campo personale, annesso alla sua casa di New York. Marcinkus non era massone, era dell’Opus Dei. Il suo Ior ha cominciato a operare come una banca normale: non ha fatto niente di più grave di quello che fanno tutte le banche del mondo.Sappiate che una delle prime cose su cui ha messo le mani il potere mafioso è il potere bancario: negli anni ‘70 e ‘80, il capo della mafia di allora, Stefano Bontade, veniva ricevuto in pompa magna dalle principali banche d’affari europee, come Crédit Monégasque, Lazard, la stessa Goldman Sachs per cui lavorò anche Prodi. Le banche, Bontade lo ricevevano come fosse Onassis. Tutti i principali enti pubblici di questo Stato hanno fatto affari con la mafia. Anche nella Rai c’era il rappresentante della mafia, si chiamava Vanni Calvello. Era una specie di principe, di barone palermitano, e curava i rapporti della mafia con la Rai. Non a caso Andreotti, per farsi assolvere, ha citato come testimoni tutti gli ambasciatori americani a partire dal dopoguerra: tu non puoi andare a processare una persona per mafia quando sai benissimo che gli americani, sbarcati in Sicilia, hanno fatto sindaco di Mazara del Vallo Vito Genovese, che era il numero due di Cosa Nostra. Se ti metti a processare il passato, non ne esci più. Devi metterti a processare il presente.A volte, comunque, accade che nel potere si litighi. Quando il mondo veniva nominato finanziariamente da 7 realtà, e Agnelli era una di queste 7 realtà, successe che litigarono Agnelli e i Rothschild. E un minuto dopo Agnelli vendette le quote della Fiat a Gheddafi – un bel segnale, no? Al capo del gruppo bancario di riferimento dei Rothschild chiesero un commento, e lui disse una parola francese che equivale alla nostra “conturbante”, e pregò che venisse scritta separando “con” da “turbante”, per dire che stavano cercando di coinvolgere quelli che portano il turbante. Fare entrare Gheddafi nella Fiat era uno sfregio non solo ai Rothschild, ma anche al fronte economico sionista (che non significa ebreo: identificare il popolo ebreo col sionismo è una grossissima ingiustizia dei nostri tempi). La bellezza delle cose del potere – che è la nostra fortuna, per cui continuiamo a mantenere dei margini di libertà – è che questi litigano. Perché non nascerà mai il Nuovo Ordine Mondiale? Perché poi si devono mettere d’accordo su chi si piglia la fetta più grossa. Quindi, sotto questo profilo non sono molto pessimista, sento che gli spazi di sopravvivenza sono garantiti.(Gianfranco Carperoro, estratti delle dichiarazioni rese il 13 maggio 2014 alla conferenza pubblica dell’associazione “Salusbellatrix” a Vittorio Veneto, ripresa integralmente su YouTube. Studioso di simbologia, esoterista, già avvocato e magistrato tributario, giornalista e pubblicitario, Carpeoro è autore di svariati romanzi ed è stato “sovrano gran maestro” della comunione massonica di Piazza del Gesù).Sono massone dal 1981. Ho fatto tutti i gradini del rito scozzese, che sono 33. Nel 1999 sono diventato “sovrano gran maestro” della “legittima e storica comunione di Piazza del Gesù”, che era la storica obbedienza del rito scozzese in Italia. Era un’obbedienza di ottantenni, sempre gli stessi dal dopoguerra: si erano resi conto che la gente voleva entrare in massoneria solo per fare carriera, per opportunismo, e quindi non facevano entrare nessuno. Il più giovane ero io. Una volta divenuto “sovrano gran maestro”, mantenni la stessa linea. Di questo passo, però, si andava all’estinzione. Finché nel 2005 ho deciso di scioglierla, di dimettermi, indicando ai confratelli la strada di un’altra obbedienza italiana di rito scozzese, quella di Palazzo Vitelleschi, perché sapevo che il suo “sovrano gran maestro” è una persona seria e loro avrebbero potuto continuare a fare massoneria tranquillamente lì. Io invece non ho continuato, per motivi a me presenti fin dall’inizio: solo che, avendo cercato di cambiare determinate cose e non essendoci riuscito, ho capito che dovevo dedicare il mio tempo ad altro, pur rimanendo massone – io sono massone a tutti gli effetti e sono convinto della dottrina massonica; quello che non mi convince sono alcune contraddizioni strutturali.
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Tsipras, la sinistra rinnegata che sta con gli euro-padroni
Tsipras: la sinistra che sta con l’euro; la sinistra che sta col capitale e con i padroni; la sinistra che ha tradito Marx e i lavoratori. Con una sinistra così, non vi è più bisogno della destra. È la sinistra che vuole abbattere l’austerità mantenendo l’euro: cioè abbattere l’effetto lasciando la causa, ciò che è impossibile “per la contradizion che nol consente”. La domanda da porsi, allora, è una sola: stupidità o tradimento? Propendo per la seconda risposta: tradimento. Tradimento di una sinistra passata armi e bagagli dalla lotta contro il capitale alla lotta per il capitale, dal monoclassismo universalista proletario al bombardamento universalista imperialistico in nome dei diritti umani, dalla lotta per i diritti sociali alla lotta per il matrimonio gay come non plus ultra dell’emancipazione possibile. Dalla falce e il martello all’arcobaleno: non v’è null’altro da aggiungere, temo. Tutto questo farebbe ridere, se non facesse piangere. È una tragedia storica di portata epocale.Il quadro a cui, nell’immaginario comune, sempre più si dovrebbe abbinare l’idea della sinistra (Tsipras in testa!) non è più “Il Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo, bensì “L’urlo” di Edvard Munch: dove, tuttavia, il volto trasfigurato dal dolore e immortalato nell’atto di gridare scompostamente è quello di Antonio Gramsci, ucciso una seconda volta, dopo il carcere fascista, dalle stesse forze politiche che hanno tradito il suo messaggio e disonorato la sua memoria. Il paradosso sta nel fatto che la sinistra di Tsipras oggi, per un verso, ha ereditato il giacimento di consensi inerziali di legittimazione proprio della valenza oppositiva del’ormai defunto Partito Comunista e, per un altro verso, li impiega puntualmente in vista del traghettamento della generazione comunista degli anni Sessanta e Settanta verso una graduale “acculturazione” (laicista, relativista, individualista e sempre pronta a difendere la teologia interventistica dei diritti umani) funzionale alla sovranità irresponsabile dell’economia e della dittatura finanziaria.I molteplici rinnegati, pentiti e ultimi uomini che popolano le fila della sinistra si trovano improvvisamente privi di ogni sorta di legittimazione storica e politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa di mobilitazione conservatrice. La sinistra di Tsipras è il fronte avanzato dell’opposizione ideale a sua maestà Le Capital. Nel loro esercizio di una critica già da sempre metabolizzata dal cosmo mercatistico, i tanti fustigatori à la Tsipras della società esistente svolgono sempre e solo la stessa duplice funzione apologetica di tipo indiretto. La loro critica addomesticata e perfettamente inseribile nei circuiti della manipolazione organizzata occulta la propria natura apotropaica rispetto a una critica non assimilabile nell’ordine dominante. La loro critica già metabolizza l’ordine neoliberale (euro, finanza, spoliticizzazione, rimozione della sovranità, ecc.).Tsipras e la “sinistra Bilderberg” neutralizzano la pensabilità, se non altro per l’opinione pubblica, di critiche effettivamente antisistemiche. In tal maniera, all’opinione pubblica e alla cultura universitaria pervengono sempre e solo idee inoffensive e organiche al sistema, ma contrabbandate come le più “pericolose” in assoluto, creando l’illusione che esse coincidano con il massimo della critica possibile. Prova ne è che oggi le sole idee veramente “pericolose”, cioè incompatibili con lo Zeitgeist postborghese e ultracapitalista, coincidono con il recupero integrale della sovranità nazionale (economica, politica, culturale, militare) come passaggio necessario per la creazione dell’universalismo dell’emancipazione, con la deglobalizzazione pratica e con il riorientamento geopolitico contro la civiltà del dollaro. E invece, i pensatori osannati come i più pericolosi dalla dittatura della pubblicità propongono l’innocuo altermondismo in luogo della deglobalizzazione, l’inoffensivo multiculturalismo dei diritti umani in luogo della sovranità nazionale, la demonizzazione dei dittatori e degli “Stati canaglia” in luogo del suddetto riorientamento geopolitico.Muovendosi entro i confini del politically correct fissati dal sistema, essi criticano il presente con toni che, quanto più sembrano radicali, tanto più rinsaldano il potere nel suo autocelebrarsi come intrascendibile e democratico. Che lo sappiano o no, Tsipras e i suoi compagni di partito sono pedine del capitale, mere “maschere di carattere” (Marx), meri agenti della produzione: essi svolgono – lo ripeto – la funzione di oppositori di sua maestà il capitale. Come sappiamo (ma repetita juvant), il progetto eurocratico si rivela organico alla dinamica post-1989, di: a) destrutturazione degli Stati nazionali come centri politici autonomi, con annesso disciplinamento dell’economico da parte del politico, e b) di “spoliticizzazione” (Carl Schmitt) integrale dell’economia, trasfigurata in nuovo Assoluto. Dal Trattato di Maastricht (1993) a quello di Lisbona (2007), la creazione del regime eurocratico ha provveduto a esautorare l’egemonia del politico, aprendo la strada all’irresistibile ciclo delle privatizzazioni e dei tagli alla spesa pubblica, della precarizzazione forzata del lavoro e della riduzione sempre più netta dei diritti sociali.Spinelli e Tsipras vorrebbero rimuovere gli effetti lasciando però le cause. Il che, evidentemente, non è possibile. Sicché essi, con la loro falsa opposizione, sono parte integrante della grande recita del capitale, svolgendo la funzione dei finti oppositori, vuoi anche del nemico che si finge amico, ingannando popoli lavoratori e gonzi di ogni estrazione. Che ha mai a che fare il signor Tsipras con Marx e Gramsci? Nulla, ovviamente. Tsipras ha assistito al genocidio finanziario del suo popolo causato dall’euro: egli stesso è greco. E, non di meno, vuole mantenere l’euro: non passa giorno senza che egli rassicuri le élites finanziarie circa la propria volontà di non toccare l’euro. E, in questo modo, offre una fulgida testimonianza – se ancora ve ne fosse bisogno – del fatto che Marx e Gramsci stanno all’odierna “sinistra Tsipras” venduta al capitale come Cristo e il discorso della montagna stanno al banchiere Marcinkus.(Diego Fusaro, “Tsipras e la sinistra al soldo della finanza”, da “Scenari Economici” del 15 gennaio 2015).Tsipras: la sinistra che sta con l’euro; la sinistra che sta col capitale e con i padroni; la sinistra che ha tradito Marx e i lavoratori. Con una sinistra così, non vi è più bisogno della destra. È la sinistra che vuole abbattere l’austerità mantenendo l’euro: cioè abbattere l’effetto lasciando la causa, ciò che è impossibile “per la contradizion che nol consente”. La domanda da porsi, allora, è una sola: stupidità o tradimento? Propendo per la seconda risposta: tradimento. Tradimento di una sinistra passata armi e bagagli dalla lotta contro il capitale alla lotta per il capitale, dal monoclassismo universalista proletario al bombardamento universalista imperialistico in nome dei diritti umani, dalla lotta per i diritti sociali alla lotta per il matrimonio gay come non plus ultra dell’emancipazione possibile. Dalla falce e il martello all’arcobaleno: non v’è null’altro da aggiungere, temo. Tutto questo farebbe ridere, se non facesse piangere. È una tragedia storica di portata epocale.