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Ponte Morandi, un anno di bugie rifilate a noi poveri cretini
La storia del ponte Morandi è anche la storia dei video che ne ritraggono il crollo. O meglio, la storia dei video che non lo ritraggono, perché fino a oggi – a un anno esatto di distanza – ancora non ci è stato concesso di vedere un solo video integrale del crollo che non apparisse in qualche modo manipolato. A questo punto ho la vaga sensazione che un video integrale del crollo non manipolato non lo vedremo mai. Abbiamo iniziato con questa “politica del mistero” pochi giorni dopo il crollo, quando il procuratore Cozzi ha dichiarato: «Ci sono stati dei problemi nelle videoregistrazioni della società autostrade. Non posso dire che ci siano materiali di grande rilevanza e utilità: il maltempo incideva sulla cattiva qualità delle immagini. La mancanza delle immagini vera e propria (o l’interruzione delle immagini) è dovuta, a quanto è dato di capire, a sconnessioni sulla rete, dovute al fenomeno sismico – al crollo, insomma: in poche parole, al blackout». Cominciavamo bene: erano passati pochi giorni, e già il procuratore metteva le mani avanti, dando la colpa a un ipotetico blackout. Scemenza colossale, fra l’altro: perché, se mai c’è stato un blackout, questo deve essere avvenuto dopo l’inizio del crollo, non prima – quindi le immagini dell’inizio del crollo devono esserci comunque: non è che prima arriva il blackout e poi il ponte crolla.Subito dopo è arrivato l’amministratore delegato di Atlantia, Castellucci, il quale dichiarava: «Non abbiamo gli elementi per poter capire quello che è successo, perché non ci sono immagini: l’unica telecamera a disposizione è andata in dissolvenza per l’eccezionale precipitazione». Nel “video della dissolvenza” che è stato rilasciato, si vede passare il famoso camioncino della Basko, quello che poi è rimasto fermo sul moncone del ponte per diversi giorni. Si vede il ponte che sta per crollare ma, guarda caso, appena il camion è passato il video va in dissolvenza. Nel frattempo qualcuno mette in rete lo screenshot del suo telefonino, nel quale si vede benissimo che c’era almeno un’altra telecamera che ha continuato a funzionare dopo il crollo. Ma le immagini di questa telecamera non ci verranno mai mostrate. A quel punto, giustamente, molti cominciano a domandarsi che cosa ci sia di così particolare, in quel video che non vogliono farci vedere. E comincia così a nascere la teoria del complotto.Anzi, per essere più precisi nascono due teorie del complotto: quella che dice che non ci vogliono mostrare i video perché il ponte in realtà è stato demolito con esplosivi, e l’altra (più soft, quella che ho sposato anch’io) che invece dice che non vogliono mostrarci il video perché vedere le immagini del crollo metterebbe in evidenza in modo palese l’incuria e la mancanza di manutenzione del ponte, e questo causerebbe una tale ondata di sdegno nella popolazione che chiederebbero tutti immediatamente la testa dei Benetton. La prima teoria, quella della demolizione intenzionale, si basa soprattutto sul famoso video “Oh mio Dio!”, nel quale si vede un forte bagliore alla base del ponte, a crollo già iniziato. La seconda teoria, invece, si basa su un semplice ragionamento: non ci vogliono mostrare il video del crollo perché danneggerebbero in modo irreparabile l’immagine di Autostrade e quindi dei Benetton. Non dimentichiamo che 5 Stelle avevano chiesto la revoca della concessione ad Autostrade, che valeva un bel po’ di miliardi, e quindi – in base alla seconda teoria – si cercava semplicemente di proteggere gli interessi dei potenti.Con il circolare sempre più insistente di questi dubbi, è chiaro che nell’ufficio del procuratore qualcuno si sia sentito in imbarazzo. Ed ecco che, miracolosamente, verso la fine di settembre dello scorso anno, esce la ripresa integrale di quello che era stato definito il “video della dissolvenza”. Magicamente ricompaiono i fotogrammi mancanti. E la ripresa non finisce più con il camioncino della Basko che passa, ma prosegue fino a quando il camioncino è già scomparso dietro la curva. Magia della politica, che cancella una dissolvenza e fa ricomparire i fotogrammi perduti… Resta comunque il fatto che, nel frattempo, la foschia è cresciuta rapidamente: per cui il crollo del ponte non si riesce a vedere in ogni caso.A qul punto, molti cominciano a domandarsi se non debbano esistere anche altri video, oltre a quelli di Autostrade, che abbiano ripreso il crollo. E siccome le telecamere installate nella zona erano moltissime, il procuratore Cozzi decide di fare una ammissione almeno parziale: esiste un video, dice, che mostra il crollo integrale, ma le immagini sono secretate. La spiegazione di Cozzi qual è? «Le immagini non le possiamo divulgare per motivi investigativi: se i vari testimoni oculari che stiamo sentendo le vedessero, rischierebbero di raccontarci una versione inquinata di come sono andate esattamente le cose». Altra scemenza colossale: perché, se tu hai il video originale, il testimone può raccontarti quello che vuole, ma non può certo cambiare le immagini di quello che si vede nei video. Però la gente si beve di tutto, i giornalisti si bevono di tutto, e quindi si va avanti senza che nessuno senta il bisogno di porre altre domande.A complicare ancora le cose arriva a quel punto un articolo del “New York Times” i cui giornalisti sostengono di aver visto il video del crollo integrale. In base a quanto visto dai giornalisti, il “York Times Pubblica” una ricostruzione in 3d del crollo, che però non risponde minimamente alle domande su cosa lo abbia causato. Le domande aumentano, i dubbi non svaniscono. E sembra quasi che, con il passare del tempo, coloro che detengono le immagini vogliono darci dei contentini: come per tenere buona l’opinione pubblica. Arriva infatti subito dopo un altro video famoso, che mostra sì il crollo del ponte, ma soltanto dal basso. Si vedono cadere le macerie dall’alto, ma anche qui il momento dell’inizio non si vede. La sensazione di presa in giro ormai è diffusa, e in rete continuano ad aumentare le richieste per vedere il video integrale che lo stesso Cozzi dice di avere.Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo lanciato una petizione che ha raccolto oltre 10.000 firme. Ma i mesi passano, e questo famoso video integrale del crollo non arriva mai. Tutto sembra scomparire nelle sabbie mobili di un’inchiesta di cui noi non sappiamo assolutamente niente. Noi cittadini siamo i coglioni che pagano i pedaggi, siamo quelli che muoiono sotto le macerie, ma a noi non è concesso di sapere perché dobbiamo crepare in quel modo. Facciamo un salto in avanti, al giorno della demolizione dei resti del ponte: parliamo cioè del 1° luglio di quest’anno, 2019 – proprio in coincidenza con la demolizione del ponte, curiosa coincidenza emotiva. Viene finalmente rilasciato il famoso video integrale detto anche “il video della Ferrometal”. Il problema è che basta dargli un’occhiata veloce per capire che anche questo video è stato fortemente manipolato. Numerando Infatti i fotogrammi, si vede come alcuni di essi durino svariati secondi, mentre altri siano in sequenza rapidissima fra di loro.Sono rallentamenti e accelerazioni che vanno ben oltre il tasso variabile delle telecamere di sicurezza. E quindi noi ci troviamo nuovamente di fronte ad un video che ha molto probabilmente di fotogrammi mancanti. L’unica conclusione valida che si può trarre da questo video è che il famoso lampo che si vedeva inizialmente nel video “Oh mio Dio!” qui si vede chiaramente che avviene lontano dal ponte, dietro i tetti dove passa la ferrovia. In altre parole, quel grande lampo era dovuto effettivamente a un corto circuito con le linee dell’alta tensione ferroviaria, come molti già avevano suggerito. Ma di più non possiamo dire. Siamo arrivati ad un anno esatto dal crollo del ponte Morandi, è l’unica cosa che possiamo affermare con certezza è che, per qualche motivo, non ci vogliono far vedere il crollo integrale. Perché?(Massimo Mazzucco, “Ponte Morandi, un anno di bugie”, video-editoriale pubblicato su “Luogo Comune” il 14 agosto 2019).La storia del ponte Morandi è anche la storia dei video che ne ritraggono il crollo. O meglio, la storia dei video che non lo ritraggono, perché fino a oggi – a un anno esatto di distanza – ancora non ci è stato concesso di vedere un solo video integrale del crollo che non apparisse in qualche modo manipolato. A questo punto ho la vaga sensazione che un video integrale del crollo non manipolato non lo vedremo mai. Abbiamo iniziato con questa “politica del mistero” pochi giorni dopo il crollo, quando il procuratore Cozzi ha dichiarato: «Ci sono stati dei problemi nelle videoregistrazioni della società autostrade. Non posso dire che ci siano materiali di grande rilevanza e utilità: il maltempo incideva sulla cattiva qualità delle immagini. La mancanza delle immagini vera e propria (o l’interruzione delle immagini) è dovuta, a quanto è dato di capire, a sconnessioni sulla rete, dovute al fenomeno sismico – al crollo, insomma: in poche parole, al blackout». Cominciavamo bene: erano passati pochi giorni, e già il procuratore metteva le mani avanti, dando la colpa a un ipotetico blackout. Scemenza colossale, fra l’altro: perché, se mai c’è stato un blackout, questo deve essere avvenuto dopo l’inizio del crollo, non prima – quindi le immagini dell’inizio del crollo devono esserci comunque: non è che prima arriva il blackout e poi il ponte crolla.
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Bidone Gialloverde, elezioni-farsa: e ora gli oligarchi ridono
Ma non dovevano aprire il fuoco contro i padroni del rigore europeo? Quello almeno era l’impegno di Salvini, consapevole della necessità di liberarsi della camicia di forza di Bruxelles. Di Maio invece aveva spiccato un volo pindarico: avremo di tutto, aveva promesso, ma senza spiegare come, con che soldi. Frode, incapacità, destino cinico e baro? Semplice gatekeeping all’italiana? Presa per i fondelli dell’elettorato? Rivisto al ralenty, l’inglorioso tramonto gialloverde è sbrodolato di Nutella salviniana, caviale russo, vaniloquio grillino. Difficile capire chi l’abbia vinta, la gara al ribasso verso il nulla: il Salvini che a parole rivendicava la Flat Tax o il Di Maio che, aggiungendo chiacchiere a chiacchiere, elargiva il suo reddito di cittadinanza teoricamente quasi universale? Man bassa di voti, un anno fa: i leghisti al Nord, i grillini al Sud. Bifronte come Giano, il Bidone Gialloverde. Ci erano cascati, gli italiani? Eccome: l’estate scorsa, il “governo del cambiamento” volava sulle ali di un consenso mai visto, né in Italia né nel resto d’Europa.Parlavano da soli gli applausi rovesciati addosso a Salvini e Di Maio dal popolo di Genova sulle macerie del Viadotto Morandi, prima che si sapesse che i super-incassatori dei pedaggi italiani, da mungere attraverso Autostrade, non erano i Benetton ma i veri padroni di Atlantia, gli americani di BlackRock. E addio “nazionalizzazione” dannunziana dell’italica rete autostradale, infrastruttura strategica costruita grazie all’uso intelligente del debito pubblico. Poi, va da sé, “il seguito è una vergogna”, come cantava Edoardo Bennato. Il peccato originale? Il cedimento sul deficit, l’addio alla cassaforte: Paolo Savona che si defila, silurato da Mattarella per la gioia di Visco, Draghi e tutti gli altri euro-strozzini che in questi decenni hanno spolpato il Belpaese, facendolo a pezzi per svenderlo agli amici degli amici. Questo significava il “niet” della Commissione: non avrete i soldi per fare quello che avevate promesso. Reazioni: nessuna. Faremo tutto ugualmente, hanno detto (barando) i bidonisti gialloverdi, sapendo perfettamente che – da quel momento – il “governo del cambiamento” era finito, clinicamente morto.Potevano protestare, insorgere? Dovevano farlo: godevano della fiducia del paese. Un fatto che aveva del miracoloso, in sé, visto il curriculum dell’Italia. Prima l’attacco al cuore del sistema, con la Prima Repubblica messa in ginocchio per via giudiziaria di fronte alle forche caudine del Trattato di Maastricht. Poi l’avvento del finto bipolarismo tra Berlusconi e Prodi, tra le “cene eleganti” di Arcore e la presidenza della Commissione Europea, passando per la Goldman Sachs. Quindi la macelleria di Monti, l’anestesia del falso medico Renzi, il pallore dei maggiordomi Letta e Gentiloni. Un establishment esausto, ridotto a banchettare sui resti di industrie e banche largamente cedute a mani straniere, grazie a governi-fantoccio appaltati a piccoli yesman. Poi sono arrivati loro, i giustizieri. Due aziende distinte: quella grillina senza idee, ma con la fedina immacolata. L’altra, la ditta leghista, con trascorsi non esattamente esaltanti, ma rigenerata da una leadership teoricamente sovraneggiante.Da come s’erano messe le cose, in autunno, c’era da sperare che i biscazzieri gialloverdi facessero fronte comune, affondando il colpo – Davide contro Golia – in modo spettacolare, magari presentandosi uniti alle elezioni europee per spiegare che le ragioni dell’Italia non sono diverse da quelle degli altri paesi, se ci si mette dalla parte del popolo e contro l’élite abusiva, privata, che domina le istituzioni pubbliche. Ma niente da fare. I due sparring partner, il leghista e il grillino, non hanno fatto altro che allenare i muscoli dei campioni, gli oligarchi, che almeno su una cosa si erano sbagliati: per un attimo, avevano pensato che Salvini e Di Maio facessero sul serio. Poi, quando li hanno visti azzannarsi tra loro ogni giorno, hanno capito di che pasta fosse, il Bidone Gialloverde. Gli hanno rubato il portafoglio, e l’hanno passata liscia: anziché coi ladri, Salvini se l’è presa coi migranti africani e coi negozietti di cannabis light. Di Maio, al solito, l’ha superato in capacità acrobatica: prima ha lisciato il pelo ai Gilet Gialli massacrati fa Macron, poi s’è genuflesso di fronte alla socia tedesca di Macron, e infine ha contribuito in modo decisivo all’elezione di Ursula von der Leyen, candidata della Merkel alla guida della Commissione Ue.Ora il film è finito, ma l’alternativa è il vuoto. Sfidando il ridicolo, Matteo Salvini – armato di crocifisso – dopo aver azzoppato l’ex socio ora tenta di proporre se stesso come salvatore della patria, sperando che gli italiani abbiano la memoria così corta da non ricordare chi era, Salvini, un anno fa, cosa diceva, cosa prometteva e cosa non ha mai neppure lontanamente provato a fare, in questi lunghi mesi in cui, insieme all’altro sparring partner, ha perso in giro gli elettori. Crede davvero, il leghista, che fare da valletto (l’ennesimo) ai voraci squaletti del Tav gli possa valere grandiosi trionfi? Seriamente si illude che il 34% rimediato alle europee, tornata in cui ha votato solo un italiano su due, si possa trasformare in un’apoteosi, nelle elezioni anticipate che ora pretende? Matteo Renzi riuscì a cadere faccia terra dall’alto del suo 40%, e anche lui per un test elettorale non dovuto, personalmente imposto al paese. Storie sinistramente parallele, quelle dei due Matteo, nella bassa marea in cui la navicella italiana continua a languire, con le vele flosce, senza che sia in vista nessun alito di vento.La campagna elettorale prossima ventura – trita continuazione di quella in corso da mesi – vedrà i bidonisti ex gialloverdi recitare una farsa penosa e cattiva, da commedianti falliti. Ripeteranno sensazionali stupidaggini, tentando di convincere il pubblico che il problema è solo italiano – è tutta colpa di Di Maio, anzi di Salvini – come se Di Maio e Salvini avessero davvero potuto fare quello che volevano. Da loro sentiremo di tutto, tranne la verità. Il grottesco sta nel fatto che questi due signori si rivolgeranno agli italiani come se niente fosse, come se non sapessero quali poteri – nella migliore delle ipotesi – li hanno sabotati fin dall’inizio. Ma gli italiani oggi si interrogano anche sull’altra ipotesi, la peggiore: non sarà che quei poteri li hanno guidati da subito, a partire dall’esordio, prima gonfiandoli e poi sgonfiandoli, i simpatici bidonisti gialloverdi? Lega e 5 Stelle non si libereranno del marchio che ormai li squalifica: avevano impegnato l’onore dell’Italia, di fronte all’Europa, in una promessa di liberazione democratica. Se si maneggiano parole come giustizia, trasparenza e soprattutto sovranità, la gente rischia di prenderti sul serio. Quando poi scopre che era solo un bluff, ti presenta il conto. L’unica certezza, di fronte al cadavere del Bidone Gialloverde, è che la politica italiana è da ricostruire da zero. Con tanti saluti all’increscioso acrobata grillino e allo sceriffo balneare padano, travestito da poliziotto e illuminato dalla Madonna di Medjugorje.(Giorgio Cattaneo, “Bidone Gialloverde: ridono gli oligarchi ma non gli italiani, costretti a subire elezioni-farsa”, dal blog del Movimento Roosevelt del 10 agosto 2019).Ma non dovevano aprire il fuoco contro i padroni del rigore europeo? Quello almeno era l’impegno di Salvini, consapevole della necessità di liberarsi della camicia di forza di Bruxelles. Di Maio invece aveva spiccato un volo pindarico: avremo di tutto, aveva promesso, ma senza spiegare come, con che soldi. Frode, incapacità, destino cinico e baro? Semplice gatekeeping all’italiana? Presa per i fondelli dell’elettorato? Rivisto al ralenty, l’inglorioso tramonto gialloverde è sbrodolato di Nutella salviniana, caviale russo, vaniloquio grillino. Difficile capire chi l’abbia vinta, la gara al ribasso verso il nulla: il Salvini che a parole rivendicava la Flat Tax o il Di Maio che, aggiungendo chiacchiere a chiacchiere, elargiva il suo reddito di cittadinanza teoricamente quasi universale? Man bassa di voti, un anno fa: i leghisti al Nord, i grillini al Sud. Bifronte come Giano, il Bidone Gialloverde. Ci erano cascati, gli italiani? Eccome: l’estate scorsa, il “governo del cambiamento” volava sulle ali di un consenso mai visto, né in Italia né nel resto d’Europa.
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Ponte Morandi, petizione: fateci vedere il video del crollo
Perché insistono nel non rendere pubblico il video integrale del crollo del viadotto Morandi? Dalla catastrofe di Genova sono passati più di tre mesi, osserva Massimo Mazzucco, e ancora non c’è la possibilità di visionare quelle drammatiche immagini. Quell’assurdo black-out informativo, sostiene Mazzucco in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, non fa che alimentare le più fantasiose “teorie del complotto”, dando fiato a chi ipotizza che, alla vigilia di ferragosto, il viadotto austradale genovese possa esser stato addirittura “sabotato”, magari con l’impiego di esplosivi. L’unico grande complotto in questione, dice Mazzucco, consiste semmai nell’aver regalato le autostrade italiane al gruppo Atlantia della famiglia Benetton, che ha intascato proventi miliardari senza provvedere a un’adeguata manutenzione. Se solo gli inquirenti mostrassero finalmente quel video, insiste Mazzucco in un post su “Luogo Comune”, l’impatto emotivo suscitato da quelle immagini renderebbe più complicato coinvolgere la società Autostrade per l’Italia nella ciclopica e ricchissima operazione di ricostruzione. Per questo, Mazzucco ha lanciato una petizione su “Change.org”, con raccolta di firme: fateci vedere il video integrale del crollo.Il 31 agosto 2018, si legge nel testo della petizione, il procuratore di Genova Francesco Cozzi ha dichiarato al “Fatto Quotidiano” di essere in possesso del video integrale del crollo del Ponte Morandi, ma di non poterlo mostrare al pubblico «per non influenzare eventuali resoconti dei testimoni oculari». Ora che si presume che le deposizioni di questi testimoni siano finite, recita la petizione, «chiediamo che il video venga mostrato pubblicamente nella sua interezza, senza tagli e senza manipolazioni di alcun tipo». Gli stessi cittadini che percorrono ogni giorno le nostre strade, e pagano il pedaggio ai caselli autostradali, «hanno pieno diritto di sapere esattamente come e perchè il ponte sia crollato». Tanto più, aggiunge Mazzucco, «hanno il diritto di conoscere la verità tutti i parenti delle vittime che quel giorno hanno perso la vita nel crollo del ponte». Aggiunge Mazzucco: «Mantenere il segreto su quelle immagini serve solo ad alimentare sospetti di vario tipo, che vanno dall’idea che si voglia in qualche modo favorire la società Autostrade, ritardando il più possibile la rivelazione “plastica” delle loro responsabilità oggettive, fino a vere e proprie “teorie del complotto”, che vogliono il ponte demolito intenzionalmente con uso di esplosivi».Conclude la petizione: «Si ritiene quindi, in qualunque caso, che sia interesse stesso delle nostre istituzioni il fare chiarezza al più presto su quanto accaduto quel giorno nella valle del Polcevera». Un’idea, comunque, Mazzucco se l’è fatta: dalle immagini finora circolate, si può notare il pietoso stato di manutenzione dell’infrastruttura collassata, con gli stralli d’acciaio “marciti” all’interno delle “camicie” di calcestruzzo. E’ stata la saldedine marina a erodere i tiranti del ponte? La colpa del disastro va dunque imputata all’insufficiente manitenzione? In un video su “Luogo Comune”, Mazzucco traccia un paragone impietoso con il Tacoma Bridge, crollato nel lontano 1940 nello Stato di Washington. Fu ripreso in diretta da una telecamera dell’epoca e diffuso in televisione. Niente immagini ufficiali, invece, dal viadotto Morandi – che pure era monitorato 24 ore su 24 da decine di sofisticate webcam. Nel frattempo, nelle ultime settimane è praticamente scomparsa, dai giornali, la famiglia Benetton. Gianfraco Carpeoro, altro ospite fisso delle dirette web-streaming di “Border Nights”, ricorda che, dietro ai Benetton (vicini ai Clinton e alla superloggia “Three Eyes”), in Atlantia è rappresentato un grande gruppo del massimo potere finanziario, con società britanniche, francesi e soprattutto statunitensi, incluso il maggior fondo d’investimento al mondo, BlackRock.Perché insistono nel non rendere pubblico il video integrale del crollo del viadotto Morandi? Dalla catastrofe di Genova sono passati più di tre mesi, osserva Massimo Mazzucco, e ancora non c’è la possibilità di visionare quelle drammatiche immagini. Quell’assurdo black-out informativo, sostiene Mazzucco in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, non fa che alimentare le più fantasiose “teorie del complotto”, dando fiato a chi ipotizza che, alla vigilia di ferragosto, il viadotto austradale genovese possa esser stato addirittura “sabotato”, magari con l’impiego di esplosivi. L’unico grande complotto in questione, dice Mazzucco, consiste semmai nell’aver regalato le autostrade italiane al gruppo Atlantia della famiglia Benetton, che ha intascato proventi miliardari senza provvedere a un’adeguata manutenzione. Se solo gli inquirenti mostrassero finalmente quel video, insiste Mazzucco in un post su “Luogo Comune”, l’impatto emotivo suscitato da quelle immagini renderebbe più complicato coinvolgere la società Autostrade per l’Italia nella ciclopica e ricchissima operazione di ricostruzione. Per questo, Mazzucco ha lanciato una petizione su “Change.org”, con raccolta di firme: fateci vedere il video integrale del crollo.
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Le 10 bufale sulla Torino-Lione, il Tav più inutile del mondo
Un sindacalista, un magistrato, un docente universitario. Ci si mettono in tre, a spiegare – ancora una volta – che la maledizione chiamata Tav Torino-Lione è assolutamente evitabile, per il bene di tutti, e senza alcuna conseguenza. O meglio: l’inutile traforo su cui si litiga da decenni, senza che ancora ne sia stato scavato nemmeno un centimetro, né Italia né in Francia, è bene che venga rottamato tra i progetti che raccontano la follia di epoche lontane. Dato che la disinformazione impera a reti unificate, specie dopo la ridicola manifestazione delle “madamine” torinesi (non una parola per spiegare la necessità della grande opera), a fornire ragguagli inoppugnabili provvedono Paolo Mattone dei Cobas, il giudice Livio Pepino (già consigliere della Cassazione) e il professor Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino. Su “Volere la Luna”, smontano tutte le dicerie su cui si basa la leggenda (miliardaria) dell’ipotetica alta velocità Italia-Francia: voci e superstizioni che la stampa non si premura mai di verificare, facendo semplicemente da grancassa al declinante establishment italo-piemontese. «La prosecuzione del progetto non ha alcuna utilità economica o necessità giuridica e si spiega solo con gli interessi di gruppi finanziari privati e con le esigenze di immagine di un ceto politico che sarebbe definitivamente travolto dal suo abbandono. Perché, dunque, continuare?».Il “contratto di governo” tra Movimento 5 Stelle e Lega prevede, con riguardo alla nuova linea ferroviaria Torino-Lione, «l’impegno a ridiscutere integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia». Tanto è bastato, sostengono i tre, a produrre un duplice effetto: da un lato si è finalmente aperto un dibattito sulla effettiva utilità dell’opera, «fino a ieri esorcizzato dalla rappresentazione del movimento No Tav, complice la Procura della Repubblica di Torino, come un insieme di trogloditi e di terroristi». Dall’altro, l’atteggiamento razionale del governo «ha mandato in fibrillazione i promotori (pubblici e privati) dell’opera, l’establishment affaristico, finanziario e politico che la sostiene e i grandi media che ne sono espressione (“Stampa” e “Repubblica” in testa) che, non paghi di ripetere luoghi comuni ultraventennali sulla necessità dell’opera per evitare l’isolamento del Piemonte dall’Europa (sic!), hanno cominciato ad evocare fantasiose penali in caso di recesso dell’Italia». In attesa delle indicazioni della commissione preposta all’analisi costi-benefici e delle conseguenti decisioni politiche, è dunque utile fare il punto sulla situazione, partendo dall’esame delle affermazioni più diffuse circa l’utilità della Torino-Lione, il cui impatto sarebbe di per sé devastante: vent’anni di cantieri, urbanistica sconvolta, montagne piene di amianto e uranio, rischi idrogeologici catastrofici.Primo assunto “teologico” del Tav in valle di Susa, rilanciato da Sergio Chiamparino: «La nuova linea ha una valenza strategica e unirà l’Europa da est a ovest». Il governatore del Piemonte evoca un collegamento tra l’Atlantico e il Pacifico, «senza considerare che la stazione atlantica è scomparsa nel 2012 con la rinuncia del Portogallo, e che dalla prevista stazione finale di Kiev mancano, per arrivare a Vladivostok e al Pacifico, oltre 7.000 chilometri». Una prospettiva «priva di ogni riscontro reale, posto che una linea ferroviaria ad alta capacità-velocità non è prevista in modo compiuto neppure in Lombardia e Veneto». Peggio: il tratto sloveno non esiste nemmeno sulla carta, mentre in Ungheria e Ucraina nessuno sa che cosa sia il Corridoio 5, come inizialmente si chiamava la linea. «Al netto di bufale interessate e di anacronistici sogni di grandeur – scrivono Mattone, Pepino e Tartaglia – la verità non è quella di una nuova “via della seta” ma, assai più prosaicamente, del solo collegamento ferroviario tra Torino e Lione (235 chilometri, comprensivi di un tunnel di 57 chilometri)», già coperto dall’attuale linea valsusina Torino-Modane «ripetutamente ammodernata e utilizzata per un sesto delle sue potenzialità».Seconda bufala: «La nuova linea creerà nuovi orizzonti di traffico». Non è così, spiegano i tre analisti. Il trasporto merci su rotaia attraverso il Fréjus (di passeggeri non si parla più da vent’anni) è in caduta libera dal 1997, e da allora si è ridotto del 71%. Lo ammette persino l’Osservatorio istituito presso la Presidenza del Consiglio, riconoscendo che «molte previsioni fatte 10 anni fa, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea, sono state smentite dai fatti». Nello stesso periodo, i traffici nella direzione Italia-Svizzera hanno continuato a crescere: del 43% nel periodo 1997-2007, quando pure le linee ferroviarie italo-svizzere, con pendenze analoghe, passavano attraverso tunnel ad altitudine simile a quella del Fréjus: il tunnel del Lötschberg, lungo 14,6 chilometri a 1400 metri di quota, e quello storico del San Gottardo, lungo 15 chilometri a 1151 metri di quota, in uso fino al 2016. Parallelamente, il volume del traffico complessivo attraverso la frontiera italo-francese (compreso quello su strada) è diminuito del 17,7%. Ciò dimostra che le ragioni della caduta di traffico sono strutturali e non hanno nulla a che vedere con le caratteristiche tecniche della linea ferroviaria, il cui ammodernamento non attira di per sé solo nuovo traffico. Lungo la direttrice transalpina est-ovest è in atto da tempo una tendenza al calo del flusso di merci, mentre lungo l’asse italo-svizzero e quello italo-austriaco il traffico ha continuato a crescere, anche se dopo il 2010 ha rallentato.Una interpretazione ragionevole? «Le direttrici nord-sud collegano il cuore dell’Europa con i porti della sponda nord del Mediterraneo e da lì con l’estremo oriente». I mercati della Cina e del Sud-Est Asiatico? «Sono lontani dalla saturazione e per di più quel sistema produttivo è in grado di fornire merci di rimpiazzo delle nostre a prezzi nettamente più bassi». Viceversa, l’asse est-ovest collega mercati intereuropei fra loro simili e in condizioni di saturazione materiale. In altre parole: non ci sono più merci da far circolare. Niente, comunque, che richieda nuovi canali di comunicazione: quelli attuali sono semi-deserti. Già questo smentisce il terzo assunto “teologico” del fronte pro-Tav, secondo cui «il collegamento ferroviario Italia-Francia deve essere ammodernato perché obsoleto e fuori mercato a causa di limiti strutturali inemendabili». Precisa, anche qui, la replica di Mattone, Pepino e Tartaglia: «Dopo la favola dell’imminente saturazione della linea storica, sostenuta contro ogni evidenza per vent’anni, i proponenti dell’opera e i loro sponsor politici si attestano ora su presunte esigenze dettate dalla modernità, che imporrebbe di «trasformare – con il tunnel transfrontaliero di 57 chilometri – l’attuale tratta di valico in una linea di pianura, così permettendo l’attraversamento di treni merci aventi masse di carico pari a quasi il triplo di quelle consentite dal Fréjus».La debolezza della tesi è di tutta evidenza: «Se infatti il traffico è in costante diminuzione e agevolmente assorbito dalla linea storica con le pendenze che la caratterizzano (e che per di più – come si è visto – non sono state di ostacolo all’aumento del traffico ferroviario tra Italia e Svizzera) a che serve un intervento modificativo che comporta rischi ambientali enormi e una spesa di miliardi?». A giustificarlo, secondo i tre analisti, c’è soltanto «una cultura sviluppista senza limiti, sempre più anacronistica». Quarta diceria: «I costi dell’opera sono assai più ridotti di quanto si dica, ammontando per l’Italia a soli 2, massimo 3 miliardi di euro». Per Mattone, Pepino e Tartaglia «siamo di fronte a una sorta di “gioco delle tre carte”, assai poco rispettoso della verità e dell’intelligenza degli italiani (e dei francesi)». Il costo dell’intera opera, infatti, è stato determinato dalla Corte dei Conti francese nel 2012 – senza successivi aggiornamenti o rettifiche – in 26 miliardi di euro, di cui 8,6 miliardi destinati alla tratta transnazionale, per la quale è previsto un finanziamento europeo pari, nella ipotesi più favorevole, al 40% del valore (3,32 miliardi di euro).I dati diffusi dai fautori dell’opera riguardano invece la sola tratta internazionale, che – data la scelta del governo italiano di proceder per fasi (il cosiddetto “progetto low cost”) – dovrebbe essere costruita per prima, anche a prescindere dalla prevedibile dilatazione dei costi: il 28 febbraio 2018, il Cipe ha portato a 6,3 miliardi di euro il «costo complessivo di competenza italiana per la sezione transfrontaliera», indicato poco più di due anni prima in 2,56 miliardi). In altre parole, siamo di fronte a un puro artificio contabile, visto che l’ulteriore spesa «non viene affatto annullata, ma semplicemente differita». Ovvero: si parla solo di quei “2-3 miliardi” (già diventati 6,3) senza più citare gli altri 20-25 miliardi quantificati dalla magistratura contabile francese. Ma non è tutto. I supporter del Tav provano anche a tingersi di verde: «Il potenziamento del trasporto su rotaia – dicono – è finalmente una scelta di tutela dell’ambiente». Giusto, se si intendesse: abbandoniamo le autostrade e trasferiamo i Tir sulla rete ferroviaria esistente (la stessa Torino-Modane in valle di Susa supporterebbe perfettamente i treni con a bordo i camion, se solo esistessero). Qui invece si prevede «la costruzione ex novo di un’opera ciclopica», con un impatto notoriamente insostenibile sul piano ambientale.Mattone, Pepino e Taraglia citano «gli effetti dello scavo di un tunnel di 57 chilometri in una montagna a forte presenza di amianto e uranio con un cantiere ventennale che produrrà un inquinamento certo, a fronte di un recupero successivo del tutto incerto», senza contare gli ingenti consumi energetici per il sistema di raffreddamento del tunnel, la cui temperatura interna sarà superiore ai 50 gradi. E’ dipo ecologista (ma altrettanto infondato) anche il “sesto comandamento” della Torino-Lione: «Con il Tav diminuiranno, comunque, i Tir sull’autostrada e il connesso inquinamento». Anche questa, replicano i tre analisti, è una pura petizione di principio, con la quale si dà per certo lo spontaneo abbandono dell’autostrada da parte dei Tir e il loro passaggio alla ferrovia – tutto da dimostrare, e legato a variabili future e incerte (costi, e non solo). Ma c’è di più. Se davvero si volesse trasferire il traffico dalla gomma alla rotaia, basterebbe imporre – come in Svizzera – pedaggi salatissimi agli autotreni. In Italia si procede al contrario: incentivi per il carburante e pedaggi autostradali in favore dei camionisti. «Passare dagli incentivi alle penalizzazioni sarebbe certo una sfida complessa». La follia italiana dei pro-Tav? «Millantare aspirazioni ecologiste mentre si praticano politiche contrarie».Settima bufala: «La realizzazione della Torino-Lione è una straordinaria occasione di crescita occupazionale che sarebbe assurdo accantonare, soprattutto in epoca di crisi economica». L’affermazione, dicono Mattone, Pepino e Tartaglia, «è un caso scolastico di mezza verità trasformata in colossale inganno». Che la costruzione di un’opera (anche dannosa) produca posti di lavoro, è incontestabile. Ma il punto è un altro: posto che serva, quest’opera, quanto lavoro genera, rispetto ad altri possibili investimenti? Servono calcoli precisi, soprattutto in una situazione come questa, in cui non ci sono risorse per tutto e un investimento ne esclude altri. «Orbene, l’esperienza dimostra in modo inoppugnabile che un piano di messa in sicurezza del territorio è molto più utile (superfluo ricordarlo nell’Italia dei crolli, delle frane e delle esondazioni) e assai più efficace in termini di creazione di posti di lavoro di qualunque infrastruttura ciclopica». Le grandi opere, infatti, sono «investimenti ad alta intensità di capitale e a bassa intensità di mano d’opera (con pochi posti di lavoro per miliardo investito e per un tempo limitato), mentre gli interventi diffusi di riqualificazione del territorio e di aumento dell’efficienza energetica producono un’alta intensità di manodopera a fronte di una relativamente bassa intensità di capitale (con creazione di più posti di lavoro per miliardo investito e per durata indeterminata)». La Torino-Lione, quindi, «è tutt’altro che l’affare evocato dai proponenti e dai loro sponsor politici».Ottava leggenda: «Trent’anni fa si sarebbe potuto discutere, ma oggi i lavori sono ormai in uno stato di avanzata realizzazione e non si può tornare indietro». Affermazione priva di ogni consistenza: «Del tunnel transfrontaliero, infatti, non è stato a tutt’oggi scavato neppure un centimetro». Sono state realizzate solo opere preparatorie, tra cui lo scavo in territorio francese di 5 chilometri di tunnel geognostico «impropriamente spacciato, in decine di filmati e interviste a tecnici e politici, per l’inizio del traforo ferroviario». Le piccole opere propedeutiche si sono già mangiate un miliardo e mezzo di euro, ma ciò rende solo più urgente una decisione, che deve intervenire prima dell’inizio dei lavori per la realizzazione del tunnel di base e i cui termini sono drammaticamente semplici: a fronte di un’opera dannosa per gli equilibri ambientali e per le finanze pubbliche (come dimostrato dalle analisi di costi e benefici effettuate da studiosi accreditati come il francese Prud’Homme e gli italiani Debernardi e Ponti), conviene di più contenere i danni – mettendo una croce sul miliardo e mezzo colpevolmente speso sino ad oggi – o continuare in uno spreco di miliardi?L’ultima nata delle motivazioni pro-Tav è la sicurezza: «Per mettere in sicurezza il tunnel storico del Fréjus serviranno a breve da 1,4 a 1,7 miliardi di euro: meglio, anche sul piano economico, costruirne uno nuovo». Ovvero: «Il tunnel esistente dovrebbe essere adeguato a caro prezzo in quanto a canna singola e doppio binario e senza vie di fuga intermedie; non ne vale la pena e tanto vale abbandonarlo per sostituirlo con il nuovo super-tunnel di base». Se le motivazioni fossero quelle addotte, un intervento ben più urgente ‒ a cui destinare le scarse risorse disponibili (e del quale, curiosamente, nessuno parla) – dovrebbe essere effettuato sulla linea ad alta velocità Bologna-Firenze, con quasi 74 chilometri di gallerie (la più lunga, quella di Vaglia, di 18,713 chilometri, cinque in più del Fréjus) tutte a canna singola e doppio binario, senza tunnel di soccorso, con un traffico molto più intenso che al Fréjus e in buona parte ad alta velocità. Né va dimenticato che nella galleria del Fréjus sono stati effettuati lavori di adeguamento tra il 2003 e il 2011 spendendo qualche centinaio di milioni di euro: per la parte francese, «l’intervento è stato effettuato al risparmio e in difformità da quanto correttamente (una volta tanto) fatto nella parte italiana». Ai francesi, «che già hanno provveduto ad addossare all’Italia (col consenso di un nostro distratto Parlamento) una parte dell’eventuale costo del nuovo tunnel di base decisamente sbilanciata a loro favore», occorrerebbe chieder conto delle carenze del tunnel “storico” dovute al loro modo di lavorare.In conclusione: qualcuno è in grado di spiegare perché mai bruciare 20-30 miliardi nell’inceneritore della Torino-Lione? Per non pagare le salatissime penali previste in caso di rinuncia, ripetono i pro-Tav, che parlano di sanzioni «fino a un ammontare di due miliardi e 500 milioni». Qui, protestano Mattone, Pepino e Tartaglia, «siamo di fronte a una bufala allo stato puro: non esiste, infatti, alcun documento europeo sottoscritto dall’Italia che preveda penali o risarcimenti di qualsivoglia tipo in caso di ritiro dal progetto». Gli accordi bilaterali tra Francia e Italia «non prevedono alcuna clausola che accolli a una delle parti, in caso di recesso, compensazioni per lavori fatti dall’altra parte sul proprio territorio». In caso di appalti aggiudicati, il nostro codice civile prevede che, ove il soggetto appaltante decida di annullarli, le imprese danneggiate hanno diritto a un risarcimento comprensivo della perdita subita e del mancato guadagno che ne sia conseguenza immediata (per un ammontare che, di regola, non supera il 10% del valore dell’appalto). Ma finora non è stato aggiudicato (e nemmeno bandito) nessun appalto, per il tunnel di base. Il Grant Agreement del 25 novembre 2015, sottoscritto da Italia, Francia e Unione Europea, dispone che «nessuna delle parti ha diritto di chiedere un risarcimento in seguito alla risoluzione ad opera di un’altra parte», prevedendo sanzioni amministrative e pecuniarie nel solo caso in cui il beneficiario di un contributo abbia commesso irregolarità o frodi. I finanziamenti europei sono erogati solo in base all’avanzamento dei lavori, quindi la rinuncia non comporta alcun dovere di restituzione dei contributi (mai ricevuti). Dati incontrovertibili: una panoramica decisamente vertiginosa. E’ possibile parlare di una grande opera per vent’anni, esasperando la popolazione, senza mai degnarsi di elargire uno straccio di verità?Un sindacalista, un magistrato, un docente universitario. Ci si mettono in tre, a spiegare – ancora una volta – che la maledizione chiamata Tav Torino-Lione è assolutamente evitabile, per il bene di tutti, e senza alcuna conseguenza. O meglio: l’inutile traforo su cui si litiga da decenni, senza che ancora ne sia stato scavato nemmeno un centimetro, né Italia né in Francia, è bene che venga rottamato tra i progetti che raccontano la follia di epoche lontane. Dato che la disinformazione impera a reti unificate, specie dopo la ridicola manifestazione delle “madamine” torinesi (non una parola per spiegare la necessità della grande opera), a fornire ragguagli inoppugnabili provvedono Paolo Mattone dei Cobas, il giudice Livio Pepino (già consigliere della Cassazione) e il professor Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino. Su “Volere la Luna”, smontano tutte le dicerie su cui si basa la leggenda (miliardaria) dell’ipotetica alta velocità Italia-Francia: voci e superstizioni che la stampa non si premura mai di verificare, facendo semplicemente da grancassa al declinante establishment italo-piemontese. «La prosecuzione del progetto non ha alcuna utilità economica o necessità giuridica e si spiega solo con gli interessi di gruppi finanziari privati e con le esigenze di immagine di un ceto politico che sarebbe definitivamente travolto dal suo abbandono. Perché, dunque, continuare?».
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Guai a chi tocca i Benetton: l’indegna crociata sui media
Noi non lo sapevamo, ma ogni volta che passavamo in auto sul ponte Morandi di Genova fungevamo da cavie di Autostrade per l’Italia, controllata da Atlantia della famiglia Benetton, che «utilizzava l’utenza, a sua insaputa, come strumento per il monitoraggio dell’opera». Cavie peraltro inutili, inclusi i poveri 43 morti del 14 agosto: «Pur a conoscenza di un accentuato degrado» delle strutture portanti, la concessionaria «non ha ritenuto di provvedere, come avrebbe dovuto, al loro immediato ripristino», né «adottato alcuna misura precauzionale a tutela» degli automobilisti. Lo scrive la Commissione ispettiva del ministero, nella relazione pubblicata dal ministro Danilo Toninelli. Autostrade-Atlantia-Benetton «non si è avvalsa… dei poteri limitativi e/o interdittivi regolatori del traffico sul viadotto» e non ha «eseguito gli interventi necessari per evitare il crollo». Peggio: «Minimizzò e celò» allo Stato «gli elementi conoscitivi» che avrebbero permesso all’organo di vigilanza di dare «compiutezza sostanziale ai suoi compiti». Non aveva neppure «eseguito la valutazione di sicurezza del viadotto»: gl’ispettori l’hanno chiesta e, «contrariamente a quanto affermato nella comunicazione del 23.6.2017 della società alla struttura di vigilanza», hanno scoperto che «tale documento non esiste».Le misure preventive di Autostrade «erano inappropriate e insufficienti considerata la gravità del problema», malgrado la concessionaria fosse «in grado di cogliere qualitativamente l’evoluzione temporale dei problemi di ammaloramento… Tale evoluzione, ormai da anni, restituiva un quadro preoccupante, e incognito quantitativamente, per la sicurezza strutturale rispetto al crollo». Eppure si perseverò nella «irresponsabile minimizzazione dei necessari interventi, perfino di manutenzione ordinaria». Così il ponte è crollato, non tanto per «la rottura di uno o più stralli», quanto per «quella di uno dei restanti elementi strutturali (travi di bordo degli impalcati tampone) la cui sopravvivenza era condizionata dall’avanzato stato di corrosione negli elementi strutturali». E la «mancanza di cura» nella posa dei sostegni dei carroponti potrebbe «aver diminuito la sezione resistente dell’armatura delle travi di bordo e aver contribuito al crollo». Per 20 anni, i Benetton hanno incassato pedaggi e risparmiato in sicurezza: «Nonostante la vetustà dell’opera e l’accertato stato di degrado, i costi degli interventi strutturali negli ultimi 24 anni sono trascurabili». Occhio ai dati: «Il 98% dell’importo (24.610.500 euro) è stato speso prima del 1999», quando le autostrade furono donate ai Benetton, e dopo «solo il 2%».Quando c’era lo Stato, l’investimento medio annuo fu di «1,3 milioni di euro nel 1982-1999»; con i Benetton si passò a «23 mila euro circa». Il resto della relazione, che documenta anche il dolce far nulla dei concessionari, ben consci della marcescenza e persino della rottura di molti tiranti, lo trovate alle pagine 2 e 3. Ora provate a confrontare queste parole devastanti con ciò che avete letto in questi 40 giorni sulla grande stampa. E cioè, nell’ordine, che: per giudicare l’inadempimento di Autostrade (i Benetton era meglio non nominarli neppure) bisogna attendere le sentenze definitive della magistratura (una decina d’anni, se va bene); revocare subito la concessione sarebbe giustizialismo, populismo, moralismo, giustizia sommaria, punizione cieca, voglia di ghigliottina e di Piazzale Loreto, sciacallaggio, speculazione politica, ansia vendicativa, barbarie umana e giuridica, cultura anti-impresa che dice “no a tutto”, pericolosa deriva autoritaria, ossessione del capro espiatorio, esplosione emotiva, barbarie, pressappochismo, improvvisazione, avventurismo, collettivismo, socialismo reale, oscurantismo (“Repubblica”, “Corriere”, “Stampa”, il “Giornale”); l’eventuale revoca senz’attendere i tempi della giustizia costerebbe allo Stato 20 miliardi di penali; è sempre meglio il privato del pubblico, dunque le privatizzazioni non si toccano; il viadotto non sarebbe crollato se il M5S non avesse bloccato la Gronda (bloccata da chi governava, cioè da sinistra e destra, non dal M5S che non ha mai governato; senza contare che la Gronda avrebbe lasciato in funzione il ponte Morandi); e altre cazzate.“Repubblica”: «In attesa che la magistratura faccia luce», guai e fare di Atlantia «il capro espiatorio di processi sommari e riti di piazza, tipici del populismo». “Corriere”: revocare la concessione sarebbe «una scorciatoia, un errore e un indizio di debolezza». “La Stampa”: il crollo del ponte è «questione complessa» e nessuno deve gettare la croce addosso ai poveri Benetton (peraltro mai nominati), «sacrificati» come «capro espiatorio contro cui l’indignazione possa sfogarsi», come nei «paesi barbari». Parole ridicole anche per chi guardava le immagini del ponte crollato con occhi profani: se lo Stato affida un bene pubblico a un privato e questo lo lascia crollare dopo averci lucrato utili favolosi, l’inadempimento è nei fatti, la revoca è un atto dovuto e il concessore non deve nulla al concessionario. O, anche se gli dovesse qualcosa, sarebbero spiccioli (facilmente ammortizzabili con i pedaggi) rispetto al danno che deriverebbe dalla scelta immorale di lasciare quel bene in mani insanguinate. Ora però c’è pure la terrificante relazione ministeriale, che va oltre le peggiori aspettative. In un paese serio, o almeno decente, i vertici di Autostrade-Atlantia-Benetton, anziché balbettare scuse o chiedere danni in attesa di farne altri, si dimetterebbero in blocco rinunciando alla concessione, per pudore. E i giornaloni si scuserebbero con i familiari dei 43 morti e uscirebbero su carta rossa. Per la vergogna.(Marco Travaglio, “Mi fate schifo”, dal “Fatto Quotidiano” del 28 settembre 2018, articolo ripreso da “Come Don Chisciotte”, che pubblica anche il link alla relazione istituzionale su Genova, scaricabile dal sito del ministero di Toninelli).Noi non lo sapevamo, ma ogni volta che passavamo in auto sul ponte Morandi di Genova fungevamo da cavie di Autostrade per l’Italia, controllata da Atlantia della famiglia Benetton, che «utilizzava l’utenza, a sua insaputa, come strumento per il monitoraggio dell’opera». Cavie peraltro inutili, inclusi i poveri 43 morti del 14 agosto: «Pur a conoscenza di un accentuato degrado» delle strutture portanti, la concessionaria «non ha ritenuto di provvedere, come avrebbe dovuto, al loro immediato ripristino», né «adottato alcuna misura precauzionale a tutela» degli automobilisti. Lo scrive la Commissione ispettiva del ministero, nella relazione pubblicata dal ministro Danilo Toninelli. Autostrade-Atlantia-Benetton «non si è avvalsa… dei poteri limitativi e/o interdittivi regolatori del traffico sul viadotto» e non ha «eseguito gli interventi necessari per evitare il crollo». Peggio: «Minimizzò e celò» allo Stato «gli elementi conoscitivi» che avrebbero permesso all’organo di vigilanza di dare «compiutezza sostanziale ai suoi compiti». Non aveva neppure «eseguito la valutazione di sicurezza del viadotto»: gl’ispettori l’hanno chiesta e, «contrariamente a quanto affermato nella comunicazione del 23.6.2017 della società alla struttura di vigilanza», hanno scoperto che «tale documento non esiste».
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Ecco i nomi dei massoni golpisti che hanno creato la crisi
Puoi chiamarli neoliberisti. Monopolisti. Privatizzatori. C’è chi li ha definiti, anche, golpisti bianchi. Ma sono essenzialmente massoni. Attenzione: le obbedienze nazionali non c’entrano. Si tratta di supermassoni in quota alle Ur-Lodes, le oscure superlogge sovranazionali. Precisamente: quelle di segno neo-aristocratico, che detestano la democrazia e confiscano il potere dei cittadini, rimettendolo nelle mani di un’élite pre-moderna, pre-sindacale, ultra-padronale. E’ così che hanno costruito il nuovo medioevo in cui viviamo, il neo-feudalesimo regolato dall’Ue e dalla sua Commissione di non-eletti. Giochi di specchi: laddove si parla di finanza e geopolitica, citando banche centrali e governi, si omette sempre di scoprire chi c’è dietro. Sempre gli stessi, sempre loro: un club ristrettissimo di padreterni, di “contro-iniziati” che si credono onnipotenti e autorizzati, come per diritto divino, a manipolare in eterno il popolo bue, ridotto a bestiame umano. Lo ricorda Patrizia Scanu, segretaria del Movimento Roosevelt, sodalizio fondato dal massone progressista Gioele Magaldi proprio con l’intento di smascherare l’attuale governance europea finto-democratica, dopo la clamorosa denuncia contenuta nel saggio “Massoni”, edito nel 2014 da Chiarelettere. Una rivelazione: dietro ai principali tornanti della nostra storia recente ci sono sempre gli stessi personaggi, i medesimi circoli occulti: grazie a loro, in fondo, poi in Italia crollano anche i viadotti autostradali.
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E le nostre sono anche le autostrade più care d’Europa
La tragedia del ponte Morandi di Genova sta portando alla luce uno dei più grandi scandali del nostro paese, quello legato ai contratti sulle concessioni autostradali a beneficio esclusivo di pochi gruppi industriali privati. Ma come funziona nel resto dell’Europa? Quello italiano è un caso unico: le nostre autostrade sono le più care d’Europa. In Germania, Olanda e Belgio le autostrade sono pubbliche e parzialmente gratuite. Dal primo luglio scorso la Germania ha deciso di inserire un pedaggio solo per i camion, che consentirà di investire entro il 2022 circa 7 miliardi di euro nelle infrastrutture stradali. Per inciso, il governo tedesco ha da poco risolto un contenzioso con alcune aziende a cui aveva dato l’appalto per l’inserimento dei pedaggi per i mezzi pesanti. Il ritardo di 16 mesi nella realizzazione dell’opera, rispetto a quanto previsto dal contratto, è costato alle società una multa di 3,2 miliardi di euro, denaro che è finito nelle casse dello Stato. Esattamente l’opposto di ciò che è accaduto in questi anni in Italia, dove Atlantia si è permessa per anni di non realizzare gli interventi previsti e assolutamente necessari, facendo cassa a scapito dei cittadini senza che lo Stato muovesse un dito. E ora, davanti alla devastazione e ai morti, ha ancora il coraggio di parlare di perdite per gli azionisti, contratti e penali, sostenuta in questa campagna scandalosa dal Partito Democratico e da Forza Italia.Ci sono poi altri paesi come Austria, Svizzera e Slovenia che hanno autostrade a pagamento, ma con prezzi decisamente più convenienti rispetto a quelli italiani. In Austria l’abbonamento alle autostrade costa 87,30 euro l’anno, in Svizzera 40 franchi (circa 38,12 euro), in Slovenia 110 euro. Con questi soldi in Italia si percorrono appena 1.200 chilometri.Regno Unito, Spagna e Francia hanno affidato la gestione delle reti a società private tramite contratti di concessione. A differenza dell’Italia, però, nessun segreto di Stato e soprattutto più gestori, dunque più concorrenza. Nel nostro paese il 70% delle concessioni per la rete autostradale se lo spartiscono da anni due gruppi: il gruppo Atlantia (Benetton) che con Autostrade per l’Italia gestisce oltre 3.000 chilometri, e il gruppo Gavio, che gestisce oltre 1.200 chilometri. Nei pochi paesi dove la concessione è in mano ai privati, inoltre, sono stati stipulati contratti fortemente vincolanti. Nello specifico, in Spagna il pagamento del pedaggio è previsto soltanto sul 20% della rete e viene definito dal ministero dei lavori pubblici. Nel Regno Unito il guadagno degli operatori viene vincolato alla qualità del servizio, al livello di sicurezza e alla capacità di gestire al meglio la circolazione.In Francia sono ben diciannove le società concessionarie, le quali – a fronte della riscossione dei pedaggi – devono assicurare “la costruzione, l’estensione, la manutenzione e il funzionamento della rete”. Ogni cinque anni o in caso di necessità vengono stipulati accordi di piano tra lo Stato e queste società per finanziare ulteriori investimenti inizialmente non previsti. Perché la gestione di un bene pubblico, come la rete autostradale, non deve e non può essere una rendita finanziaria. Chiunque lavori al servizio dello Stato – e dunque dei cittadini italiani – deve garantire una gestione etica di quel bene, ponendo in cima valori quali efficienza, trasparenza, legalità e sicurezza. Se i Benetton hanno potuto lucrare su un bene pubblico indisturbati, però, è perché un’intera classe politica ha offerto loro per anni una sponda politica. I precedenti governi – da Prodi a D’Alema, passando per Berlusconi e Renzi – hanno prima regalato ai Benetton e poi prorogato per periodi sempre più lunghi gran parte della rete autostradale nazionale, senza pretendere investimenti in manutenzione e una compartecipazione degli utili.Tra il 2008 e il 2016, secondo dati del ministero dei trasporti, mancano all’appello 1,5 miliardi di investimenti preventivati sulla rete autostradale, a fronte di un incremento dei pedaggi del 25% (lievitati addirittura del 65,9% dal 1999 al 2013). Insomma, meno investi più guadagni, a scapito della sicurezza. Ma non solo. Oltre a favorire guadagni miliardari, il contratto prevede che, in caso di decadimento della concessione per gravi inadempienze da parte del concessionario, quest’ultimo venga indennizzato di tutti i profitti che avrebbe conseguito per gli anni residui di concessione. In sostanza, un risarcimento per i danni provocati dallo stesso imprenditore negligente. La classica privatizzazione della vecchia politica collusa con le lobbies: del resto, se si può fare un favore a un amico, quest’ultimo poi ricambierà. E in questi casi abbiamo imparato che per certi personaggi le regole non contano, conta solo fare profitti con i soldi dei cittadini italiani (e anche sulla loro pelle). È questa la logica che ha spolpato questo paese negli ultimi trent’anni.(“Italia, le autostrade più care d’Europa. Eccome come funziona degli altri paesi Ue”, dal “Blog delle Stelle” del 24 agosto 2018).La tragedia del ponte Morandi di Genova sta portando alla luce uno dei più grandi scandali del nostro paese, quello legato ai contratti sulle concessioni autostradali a beneficio esclusivo di pochi gruppi industriali privati. Ma come funziona nel resto dell’Europa? Quello italiano è un caso unico: le nostre autostrade sono le più care d’Europa. In Germania, Olanda e Belgio le autostrade sono pubbliche e parzialmente gratuite. Dal primo luglio scorso la Germania ha deciso di inserire un pedaggio solo per i camion, che consentirà di investire entro il 2022 circa 7 miliardi di euro nelle infrastrutture stradali. Per inciso, il governo tedesco ha da poco risolto un contenzioso con alcune aziende a cui aveva dato l’appalto per l’inserimento dei pedaggi per i mezzi pesanti. Il ritardo di 16 mesi nella realizzazione dell’opera, rispetto a quanto previsto dal contratto, è costato alle società una multa di 3,2 miliardi di euro, denaro che è finito nelle casse dello Stato. Esattamente l’opposto di ciò che è accaduto in questi anni in Italia, dove Atlantia si è permessa per anni di non realizzare gli interventi previsti e assolutamente necessari, facendo cassa a scapito dei cittadini senza che lo Stato muovesse un dito. E ora, davanti alla devastazione e ai morti, ha ancora il coraggio di parlare di perdite per gli azionisti, contratti e penali, sostenuta in questa campagna scandalosa dal Partito Democratico e da Forza Italia.
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Blondet: giustizia per Genova? Ho un brutto presentimento
«Se la vicenda dei migranti continua ad essere in mano a Salvini è giunto il momento di pensare alla lotta di popolo armato», scrive su Facebook Guglielmo Allodi, già dirigente del Pci-Pds. «Questo Allodi non è un qualunque militante senza potere e fuori di testa», scrive Maurizio Blondet nel suo blog. «E’ stato il capo della segreteria politica di Bassolino, già ministro nel primo governo D’Alema», quando l’ex sindaco di Napoli divenne presidente della Regione Campania, carica che mantenne fino al 2010. Stiamo quindi parlando di «un grand commis del potere, un esponente di livello della “sinistra”». E ora invoca la “lotta armata” per fermare Salvini? «Ho un orribile presentimento», confessa Blondet, giornalista di lungo corso, già inviato di “Oggi”, “Il Giornale” e “Avvenire”. Sono trascorsi otto giorni – un’enormità, secondo Blondet – prima che l’autorità giudiziaria sequestrasse materiali negli uffici di Autostrade per l’Italia, dopo il collasso del viadotto Morandi. «Cerchiamo il filmato del crollo», disse ai giornali il pm di Genova, ammettendo però che non ci fosse ancora alcun indagato. Dunque, conclude Blondet, il filmato del crollo che non c’è più: «Hanno sequestrato le macerie, ma il 20 agosto non avevano perquisito la sede della concessionaria». E l’iscrizione nel registro degli indagati, spesso considerata un atto dovuto? «Una settimana, e nemmeno un imputato. Neppure un capo d’imputazione: non sanno di cosa accusare chi». La procura di Genova? «E’ la stessa che ha indagato Salvini per la storia dei finanziamenti della Lega».«Ho un orrendo presentimento – insiste Blondet – dovuto alla mia esperienza di vecchio giornalista». Un sospetto, «rafforzato dal fatto che i Benetton non solo hanno offerto una cifra ridicola alle vittime del disastro, ma dopo qualche ora hanno ripreso sicurezza e stanno cominciando ad accusare il governo di aver fatto cadere il titolo in Borsa». Sicché non sarebbe stato il crollo del viadotto Morandi a far precipitare la quotazione della società, ma «gli strilli di Salvini e Di Maio contro la concessionaria», a cui i governi precedenti hanno regalato un monopolio clamoroso e miliardario. «Insomma: sono loro, i Benetton, che pretendono i danni dallo Stato. Lo fanno con uno stuolo di avvocati potentissimi, fra cui la nota Paola Severino: quella che ha fatto la ministra della giustizia nel governo Monti», tanto per capire da che parte stia. «Nessun sospetto di conflitto d’interessi: tutto legale. Ovvio, questi si sono fatti le leggi a loro vantaggio, dunque tutto ciò che fanno loro è legale per definizione». Il “bruttissimo presentimento” di Blondet è questo: «Non avrete mai più il vostro ponte, o genovesi. Non lo rifaranno certo i Benetton – perché dovrebbero spenderci un centesimo, ormai? – né potrà farlo il governo, perché dovrà rifondere i miliardi necessari agli azionisti di Atlantia, oltre che ai Benetton che sono stati così danneggiai dalle esternazioni di Salvini».Lo stesso Blondet invita a tenere d’occhio la “classs action” americana avviata dallo studio legale Bronstein, Gewirtz & Grossman, il quale «sta esaminando potenziali rivendicazioni per conto di acquirenti» dopo che, sulla notizia della possibile revoca della concessione e di una sanzione, il prezzo delle azioni è crollato. Questo studio legale, aggiunge Blondet, vanta una speciale competenza nella «ricerca aggressiva di richieste di contenzioso». Chi conosce queste capacità “aggressive”, aggiunge il giornalista, sa già cosa accadrà: «Si prenderanno tutti i miliardi gli americani per conto dei loro azionisti, poi Atlantia opportunamente “fallirà”, ossia resterà senza un soldo», e così «ai genovesi e alle vittime non resteranno nemmeno le briciole». Secondo il trader finanziario Giovanni Zibordi, i Benetton «non hanno investito niente, comprarono Autostrade con i soldi di Autostrade». O meglio: hanno creato una società apposta che ha fatto un debito immane, poi – ottenuta la concessione da Prodi, D’Alema e soci – l’hanno fusa con Autostrade, a cui hanno accollato l’enorme debito: «Hanno fatto il debito e lo stanno ripagando coi profitti del pedaggio», sottolinea Zibordi, che parla apertamente di “rapina”, benché perfettamente legale grazie ai regaloni dei politici della Seconda Repubblica.Uno di questi, l’avvocato Giovanni Maria Flick, ministro della giustizia nel primo governo Prodi (in carica dal maggio ‘96 all’ottobre del ‘98), ebbe come direttore dell’Ufficio Rapporti con il Parlamento lo stesso Francesco Cozzi, cioè il pm genovese che ora sta indagando sul crollo del viadotto Morandi, dopo aver “dato la caccia” ai miliardi scomparsi dalle casse della Lega. «Insomma, il pm Cozzi ha avuto un incarico altamente politico e di parte nel governo Prodi», ricorda Blondet. Quanto a Flick, legale di Raul Gardini all’epoca del presunto suicidio (“con due colpi alla tempia, entrambi mortali”) del manager Enimont, su Genova e Autostrade l’ex ministro prodiano si schiera, da giurista, contro Salvini e Di Maio, applauditi dalla folla ai funerali delle vittime del disastro. «Mi preoccupa la tendenza all’inversione del principio di non colpevolezza», dichiara Flick. «Mi lascia perplesso l’assunzione di un ruolo molto autoritario e di dogmatica condanna preventiva, fra l’altro sostituendosi alla autorità giudiziaria». Dice ancora Flick: «A me non convince questo modo di procedere. Tutta una serie di sintomi, indicazioni e provocazioni mi lasciano perplesso e non mi paiono in linea con l’impostazione costituzionale della nostra Repubblica».«Se la vicenda dei migranti continua ad essere in mano a Salvini è giunto il momento di pensare alla lotta di popolo armato», scrive su Facebook Guglielmo Allodi, già dirigente del Pci-Pds. «Questo Allodi non è un qualunque militante senza potere e fuori di testa», scrive Maurizio Blondet nel suo blog. «E’ stato il capo della segreteria politica di Bassolino, già ministro nel primo governo D’Alema», quando l’ex sindaco di Napoli divenne presidente della Regione Campania, carica che mantenne fino al 2010. Stiamo quindi parlando di «un grand commis del potere, un esponente di livello della “sinistra”». E ora invoca la “lotta armata” per fermare Salvini? «Ho un orribile presentimento», confessa Blondet, giornalista di lungo corso, già inviato di “Oggi”, “Il Giornale” e “Avvenire”. Sono trascorsi otto giorni – un’enormità, secondo Blondet – prima che l’autorità giudiziaria sequestrasse materiali negli uffici di Autostrade per l’Italia, dopo il collasso del viadotto Morandi. «Cerchiamo il filmato del crollo», disse ai giornali il pm di Genova, ammettendo però che non ci fosse ancora alcun indagato. Dunque, conclude Blondet, il filmato del crollo che non c’è più: «Hanno sequestrato le macerie, ma il 20 agosto non avevano perquisito la sede della concessionaria». E l’iscrizione nel registro degli indagati, spesso considerata un atto dovuto? «Una settimana, e nemmeno un imputato. Neppure un capo d’imputazione: non sanno di cosa accusare chi». La procura di Genova? «E’ la stessa che ha indagato Salvini per la storia dei finanziamenti della Lega».
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Toninelli: nazionalizzare le autostrade conviene agli italiani
Che le indagini facciano il proprio corso mi pare naturale. Qui siamo su un altro piano, quello dell’opportunità: come si può pensare che i vertici di un’azienda che non è stata in grado di evitare una strage, facendo ciò che era obbligata per contratto a fare, cioè la manutenzione, possano rimanere al proprio posto? È semplicemente disumano. Autostrade è una società privata e dunque il governo non può obbligarla? Privata è la società, non il servizio pubblico che avrebbe dovuto garantire. Quindi, oltre che legittima, è assolutamente doverosa la richiesta di dimissioni. Anzi, in un paese civile, non sarebbero nemmeno da chiedere. Accettare la proposta di Autostrade di costruire un ponte in acciaio in 8 mesi o scegliere una soluzione diversa con altri soggetti? Non ci sarà alcuno scambio tra eventuali opere di risarcimento danni a cose e beni, semplicemente doverose e scontate, e la procedura di ritiro della concessione già avviata. A parte che ricostruire il ponte è comunque un obbligo in capo al concessionario. Oggi lo Stato sarebbe in grado di costruire da sé il ponte? Difficile per lo Stato fare peggio di ciò che abbiamo visto il 14 agosto.Toglieremo il segreto dalle parti non note dei contratti fra lo Stato e Autostrade e anche sulle altre concessioni con altre società? Assolutamente sì. Non può esistere segreto commerciale o di Stato di fronte a contenuti di preminente interesse pubblico. Stiamo per mettere fine alla opacità che ha garantito il patto inconfessabile tra vecchia politica e certi potentati economici. Togliendo la concessione ad Autostrade, si dice che gli oneri per lo Stato sarebbero comunque alti, fino a 20 miliardi secondo alcune stime. La nazionalizzazione, al netto di un costo iniziale, sarebbe invece sarebbe più conveniente. Pensate a quanti ricavi e margini tornerebbero in capo allo Stato attraverso i pedaggi, da utilizzare non per elargire dividendi agli azionisti, ma per rafforzare qualità dei servizi e sicurezza delle nostre strade. Autostrade ha accumulato 10 miliardi di utili in 15 anni. Nel frattempo, il concessionario resta obbligato a proseguire nell’ordinaria amministrazione dell’esercizio delle autostrade fino al trasferimento della gestione stessa. E d’ora in poi lo dovrà fare con i livelli di manutenzione e di sicurezza previsti dal contratto e dalla legge.Controlli più adeguati, anche da parte del ministero delle infrastrutture? Non mi nascondo dietro un dito: la vecchia politica ha portato lo Stato ad abdicare prima dal suo ruolo di gestore e poi da quello di efficace controllore. Tuttavia le responsabilità sostanziali sulla tenuta strutturale delle opere sono del concessionario. Autocritica da parte di noi 5 Stelle per alcune prese di posizione sulla Gronda, a cominciare dall’aver definito “una favoletta” il rischio che il ponte Morandi crollasse, e più in generale sull’ostilità alla grandi infrastrutture? Il tema Gronda è un falso problema, meschinamente strumentalizzato in questi giorni. Stiamo parlando di un’opera che ottimisticamente sarebbe pronta nel 2029: cosa c’entra con un ponte crollato nel 2018? Non siamo assolutamente contrari alle grandi opere utili. Anzi, ne servono tante al paese. Ma qui c’è un problema diverso, di manutenzione ordinaria e straordinaria dell’esistente. Che è proprio quello che non hanno fatto quelli delle grandi opere che oggi ci contestano e che invece dovrebbero chiedere scusa e poi tacere.(Danilo Toninelli, dichirazioni rilasciate al “Corriere della Sera” per l’intervista pubblicata il 21 agosto 2018, ripresa dal “Blog delle Stelle”).Che le indagini facciano il proprio corso mi pare naturale. Qui siamo su un altro piano, quello dell’opportunità: come si può pensare che i vertici di un’azienda che non è stata in grado di evitare una strage, facendo ciò che era obbligata per contratto a fare, cioè la manutenzione, possano rimanere al proprio posto? È semplicemente disumano. Autostrade è una società privata e dunque il governo non può obbligarla? Privata è la società, non il servizio pubblico che avrebbe dovuto garantire. Quindi, oltre che legittima, è assolutamente doverosa la richiesta di dimissioni. Anzi, in un paese civile, non sarebbero nemmeno da chiedere. Accettare la proposta di Autostrade di costruire un ponte in acciaio in 8 mesi o scegliere una soluzione diversa con altri soggetti? Non ci sarà alcuno scambio tra eventuali opere di risarcimento danni a cose e beni, semplicemente doverose e scontate, e la procedura di ritiro della concessione già avviata. A parte che ricostruire il ponte è comunque un obbligo in capo al concessionario. Oggi lo Stato sarebbe in grado di costruire da sé il ponte? Difficile per lo Stato fare peggio di ciò che abbiamo visto il 14 agosto.
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Autostrade: ma perché cedere ai privati tutti quei miliardi?
Lo Stato italiano incassa il 2,4 per cento netto dei pedaggi autostradali, che peraltro sono in costante aumento e da tempo i più cari d’Europa. Come vengono utilizzati quei soldi di automobilisti e autotrasportatori? La maggior parte dei ricavi al casello, come è noto, vanno a finanziare i guadagni delle società concessionarie (per la maggior parte gruppi privati). Non è un caso che i due principali concessionari (i Benetton e i Gavio) figurino regolarmente tra i Paperoni della Borsa e che stiano facendo, proprio in questi mesi, shopping di società all’estero. Semplificando, potremmo dire che i pedaggi (che ormai sono diventata una vera e proprio tassa occulta e salatissima a carico degli automobilisti) finiscono per finanziare l’espansione dei gruppi privati, le loro acquisizioni, oltre che l’arricchimento personale dei principali azionisti attraverso la distribuzione dei dividendi. Chi deve stabilire se un concessionario come Autostrade per l’Italia, che fa acquisizioni all’estero e distribuisce dividendi molto elevati, gestisce in maniera corretta i soldi dei pedaggi e investe abbastanza per la manutenzione? Spetta al ministero delle infrastrutture e dei trasporti. E’ quest’ultimo, infatti, che gestisce le concessioni dello Stato.Ed è inspiegabile l’ostinazione con cui negli ultimi anni, sotto la gestione dei precedenti governi, il ministero delle infrastrutture abbia autorizzato aumenti delle tariffe a volte davvero esorbitanti, a tutto vantaggio dei privati, e insieme il prolungamento delle concessioni, anche a fronte di investimenti – da parte dei concessionari – inferiori a quelli previsti dal piano economico e finanziario. Perché permettere di aumentare le tariffe e insieme prolungare la durata della concessione, se il concessionario non fa tutto quello che deve? In alcuni casi (si veda per esempio quello che è successo sulla Livorno-Civitavecchia) il ministero ha sfidato l’Europa, incappando in un deferimento alla Corte di giustizia per violazione del diritto Ue, pur di prolungare, ostinatamente, la concessione al gruppo dei Benetton… Come si è arrivati ad affidare la gestione di questo monopolio a privati come le imprese dei Benetton? Che risultati ha prodotto questa scelta compiuta negli anni Novanta? E’ stato nel 1999, all’epoca delle privatizzazioni, volute dal governo Prodi.Secondo alcuni esperti, per altro, la privatizzazione delle autostrade (la “gallina delle uova d’oro”) fu fatta quando non erano più necessarie dismissioni frettolose per tappare le falle dei conti pubblici, e a condizioni a tutti gli effetti assurde per lo Stato. A guidare le operazioni, come presidente dell’Iri, c’era il professor Gian Maria Gros-Pietro, il quale poi, subito dopo la privatizzazione, è stato assoldato dai Benetton come presidente della loro società di gestione delle Autostrade. Il risultato complessivo di questa operazione è che lo Stato ha ceduto un proprio asset importante senza riuscire a strappare condizioni particolarmente vantaggiose per sé (si poteva imporre un prezzo più alto? O almeno canone più oneroso?) e nemmeno per gli utenti-automobilisti (si potevano imporre condizioni più stringenti per i concessionari? O almeno aumenti limitati?). Di fatto si è permesso che una ricchezza pubblica transitasse nelle tasche di alcuni privati.Che giudizio dare di un sistema in cui i concessionari si arricchiscono con i soldi dei cittadini, gestendo un servizio regolato da un contratto secretato e finanziando giornali e politica che dovrebbero controllarne e regolarne l’operato? Dico non da ora che è un sistema folle, che va completamente scardinato. Spiace che ci siano volute decine e decine di vittime perché il paese si accorgesse di questa assurda anomalia. Ma se vogliamo dare un senso alla tragedia, occorre che il sistema delle concessioni sia profondamente rivisto e modificato, in primo luogo per quanto riguarda i concessionari privati (Benetton, Gavio, Toto) ma anche per i concessionari pubblici (si veda il caso Autobrennero). Ovviamente, mentre si procede alla revisione totale del sistema, sarebbe importante fin da subito procedere con il blocco degli aumenti tariffari (che meraviglia se il prossimo Capodanno fosse il primo della storia “No Aumento Pedaggio”) e dei prolungamenti delle concessioni.(“Autostrade: così una ricchezza pubblica è finita nelle tasche di alcuni privati”, intervista di Mario Giordano sul “Blog delle Stelle” del 19 agosto 2018).Lo Stato italiano incassa il 2,4 per cento netto dei pedaggi autostradali, che peraltro sono in costante aumento e da tempo i più cari d’Europa. Come vengono utilizzati quei soldi di automobilisti e autotrasportatori? La maggior parte dei ricavi al casello, come è noto, vanno a finanziare i guadagni delle società concessionarie (per la maggior parte gruppi privati). Non è un caso che i due principali concessionari (i Benetton e i Gavio) figurino regolarmente tra i Paperoni della Borsa e che stiano facendo, proprio in questi mesi, shopping di società all’estero. Semplificando, potremmo dire che i pedaggi (che ormai sono diventata una vera e proprio tassa occulta e salatissima a carico degli automobilisti) finiscono per finanziare l’espansione dei gruppi privati, le loro acquisizioni, oltre che l’arricchimento personale dei principali azionisti attraverso la distribuzione dei dividendi. Chi deve stabilire se un concessionario come Autostrade per l’Italia, che fa acquisizioni all’estero e distribuisce dividendi molto elevati, gestisce in maniera corretta i soldi dei pedaggi e investe abbastanza per la manutenzione? Spetta al ministero delle infrastrutture e dei trasporti. E’ quest’ultimo, infatti, che gestisce le concessioni dello Stato.
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Prodi, Draghi & C: chi ha regalato l’Italia, autostrade incluse
Partiamo dall’inizio. Perché una società strategica per gli italiani, con un fatturato annuo di oltre 6 miliardi di euro e introiti certi – che sono aumentati vertiginosamente negli anni com’era prevedibile – è stata ceduta a imprenditori privati? Facciamo un passo indietro: è il 1992; il cartello finanziario internazionale mette gli occhi e le mani sul nostro paese con la complicità e la sudditanza di una nuova classe politica imposta dal cartello stesso. Il suo compito è quello di cedere le banche e i gioielli di Stato italiani ai potentati finanziari internazionali anche attraverso il filtro di imprenditori nostrani. E’ l’anno della riunione sul Britannia, quando il Gotha della finanza internazionale attracca a Civitavecchia con lo yacht della Corona inglese. Sono venuti a ridisegnare il capitalismo in Italia a danno degli italiani, a fare incetta delle nostre migliori aziende e ad arruolare quelli che saranno i loro fedeli servitori al governo del paese, a cui garantiranno incarichi di prestigio: il maggior beneficiario sarà Mario Draghi ma tra i più benemeriti sono Prodi, Andreatta, Ciampi, Amato, D’Alema. I primi tre erano già entrati a pieno titolo nel Club Bilderberg, nella Commissione Trilaterale e in altre organizzazioni del capitalismo speculativo angloamericano, che aveva deciso di attaccare e conquistare il nostro paese con l’appoggio di banche d’affari come la Goldman Sachs, che favorirà gli incredibili scatti di carriera dei suoi ex dipendenti: Prodi e Draghi prima, Mario Monti dopo.E’ l’anno in cui in soli 7 giorni cambiano il sistema monetario italiano, che viene sottratto dal controllo del governo e messo nelle mani della finanza speculativa. Per farlo vengono privatizzati gli istituti di credito e gli enti pubblici, compresi quelli azionisti della Banca d’Italia; è l’anno in cui viene impedito al ministero del Tesoro di concordare con la Banca d’Italia il tasso ufficiale di sconto (costo del denaro alla sua emissione), che viene quindi ceduto a privati. E’ l’anno della firma del Trattato di Maastricht e l’adesione ai vincoli europei. In pratica è l’anno in cui un manipolo di uomini palesemente al servizio del cartello finanziario internazionale ha ceduto ogni nostra sovranità. Bisognava passare alle aziende di Stato: l’attacco speculativo di Soros che aveva deprezzato la lira di quasi il 30% permetteva l’acquisto dei nostri gioielli di Stato a prezzi di saldo, e così arrivarono gli avvoltoi. La maggior parte delle nostre aziende statali strategiche passò in mano straniera o comunque fu privatizzata. Ma la cosa più eclatante fu che l’Iri (istituto di ricostruzione industriale) che nella pancia alla fine degli anni ’80 aveva circa 1.000 società, fiore all’occhiello del nostro paese, fu smembrato e svenduto, sotto la presidenza di Prodi (dal 1982 al 1989 e durante un periodo tra il 1993 ed il 1994), poi premiato dal cartello che favorì la sua ascesa alla presidenza del Consiglio in Italia e poi alla Commissione Europea.A sostituirlo come presidente del Consiglio in Italia e a continuare il suo lavoro di smembramento delle aziende di Stato ci penserà Massimo D’Alema, che nel 1999 favorirà la cessione, tra le altre, di Autostrade per l’Italia e Autogrill alla famiglia Benetton, che di fatto hanno, così, assunto il monopolio assoluto nel settore del pedaggio e della ristorazione autostradale. Un’operazione che farà perdere allo Stato italiano miliardi di fatturato ogni anno. Le carte ci dicono che in quegli anni il presidente dell’Iri era tale Gian Maria Gros-Pietro. Lo conoscevate? Io credo di no. Invece il cartello finanziario speculativo lo conosceva bene, e nel 2001 lo convocò alla riunione del Bilderberg in Svezia, indovinate insieme a chi? Insieme a Mario Draghi e ad un certo Mario Monti. Entrambi saranno ampiamente ripagati dal cartello stesso, che in futuro riuscì a piazzare Draghi alla Banca d’Italia e poi alla Bce, e Mario Monti dalla Goldman Sachs alla Commissione Europea e poi a capo del governo (non eletto) in Italia. E che cosa ne è stato di Gian Maria Gros Pietro? Qui viene il bello. E arriviamo al tema di questo post.Gian Maria Gros-Pietro, che già nel fatidico 1992 era presidente della commissione per le strategie industriali nelle privatizzazioni del ministero dell’industria, nel 1994 diviene membro della commissione per le privatizzazioni – istituita indovinate da chi? Da Mario Draghi. Ora capite come lavora il cartello finanziario-speculativo per mettere tentacoli ovunque e per far sì che ci sia sempre un proprio esponente nei ruoli-chiave. Ma non finisce qui. Come abbiamo visto, nel 1997 Gros-Pietro è presidente dell’Iri mentre viene organizzata la cessione a prezzi di saldo di Autostrade per l’Italia, che avverrà nel 1999 col passaggio al Gruppo Atlantia Spa, controllato da Edizione srl, la holding di famiglia dei Benetton. Gros-Pietro firma la cessione, la famiglia Benetton gli strizza l’occhio. Cosa voleva dire metaforicamente quella strizzatina d’occhio? Ora immaginate l’inimmaginabile.Cosa accade nel 2002? Gian Maria Gros-Pietro, dopo aver gestito la privatizzazione dell’Eni, andrà a presiedere per quasi 10 anni indovinate che cosa?… proprio la Atlantia Spa, la società alla quale solo tre anni prima, come dipendente pubblico, aveva svenduto la gestione dei servizi autostradali italiani. Le jeux sont fait.A questo punto proviamo a leggere i termini del contratto di concessione della rete autostradale. Mi dispiace, cari amici. Non si può. Sono stati coperti da segreto di Stato, manco si trattasse di una riservatissima operazione militare. Ma com’è stato svolto in questi anni il servizio di manutenzione ordinaria da parte dei concessionari di Autostrade per l’Italia? La macabra risposta è descritta nei tragici eventi di Genova, e non solo. Leggendo quanto emerge dalla relazione annuale (2017) sull’attività del settore autostradale in concessione pubblicata sul sito del ministero dei trasporti, si evince una crescita esponenziale del fatturato (quasi 7 miliardi) e dei pedaggi. In calo solo gli investimenti (calati addirittura del 20%) e la spesa per manutenzioni in controtendenza, rispetto alla logica che dovrebbe prevedere un aumento dei costi della manutenzione contestualmente all’aumento del traffico. Ma la sicurezza degli automobilisti è stata messa in secondo piano rispetto alla massimizzazione dei profitti, già di per sé abnormi.E com’è andata invece con gli interventi straordinari ad opera dei ministeri preposti? Non c’erano soldi da destinare ad interventi straordinari, seppur richiesti dagli esperti, a causa dei vincoli di bilancio da rispettare e imposti dal pareggio di bilancio. Quali vincoli? Quelli europei. E da chi sono stati imposti questi vincoli? dal Trattato di Maastricht del 1992, da quello di Lisbona del 2007 e dal pareggio di bilancio in Costituzione del 2011. E chi li ha voluti? Indovinate? Nell’ordine: Romano Prodi, Massimo D’Alema e Mario Monti, con l’appoggio esterno di Mario Draghi. Ma non erano quelli che insieme partecipavano alle organizzazioni del cartello finanziario speculativo che voleva far crollare il nostro paese Esattamente. Il cerchio si chiude. Solidarietà alle vittime di Genova, per il crollo del ponte autostradale. Solidarietà agli italiani per il crollo annunciato e pianificato del loro paese.(“Giornalista d’inchiesta svela importanti retroscena su Autostrade per l’Italia”, dal blog di Marco Della Luna del 18 agosto 2018. Parte del testo è tratta dal libro-inchiesta “La Matrix Europea”, di Francesco Amodeo. Avvocato e saggista, Della Luna attribuisce il testo della ricostruzione giornalistica a Maurizio Blondet, per anni inviato di “Oggi”, “Il Giornale” e “Avvenire”).Partiamo dall’inizio. Perché una società strategica per gli italiani, con un fatturato annuo di oltre 6 miliardi di euro e introiti certi – che sono aumentati vertiginosamente negli anni com’era prevedibile – è stata ceduta a imprenditori privati? Facciamo un passo indietro: è il 1992; il cartello finanziario internazionale mette gli occhi e le mani sul nostro paese con la complicità e la sudditanza di una nuova classe politica imposta dal cartello stesso. Il suo compito è quello di cedere le banche e i gioielli di Stato italiani ai potentati finanziari internazionali anche attraverso il filtro di imprenditori nostrani. E’ l’anno della riunione sul Britannia, quando il Gotha della finanza internazionale attracca a Civitavecchia con lo yacht della Corona inglese. Sono venuti a ridisegnare il capitalismo in Italia a danno degli italiani, a fare incetta delle nostre migliori aziende e ad arruolare quelli che saranno i loro fedeli servitori al governo del paese, a cui garantiranno incarichi di prestigio: il maggior beneficiario sarà Mario Draghi ma tra i più benemeriti sono Prodi, Andreatta, Ciampi, Amato, D’Alema. I primi tre erano già entrati a pieno titolo nel Club Bilderberg, nella Commissione Trilaterale e in altre organizzazioni del capitalismo speculativo angloamericano, che aveva deciso di attaccare e conquistare il nostro paese con l’appoggio di banche d’affari come la Goldman Sachs, che favorirà gli incredibili scatti di carriera dei suoi ex dipendenti: Prodi e Draghi prima, Mario Monti dopo.
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Benetton, pedaggio italiano al feroce buonismo globalista
I Benetton non hanno prodotto solo maglioni e gestito autostrade ma sono stati la prima fabbrica nostrana dell’ideologia global. Sono stati non solo sponsor ma anche precursori dell’alfabeto ideologico, simbolico e sentimentale della sinistra. Sono stati il ponte, è il caso di dirlo, tra gli interessi multinazionali del capitalismo global e dell’americanizzazione del pianeta, coi loro profitti e il loro marketing e i messaggi contro il razzismo, contro il sessismo, a favore della società senza frontiere, lgbt, trasgressiva e progressista. Le loro campagne, affidate a Oliviero Toscani, hanno cercato di unire il lato choc, che spesso sconfinava nel cattivo gusto e nel pugno allo stomaco, col messaggio progressista umanitario: società multirazziale, senza confini, senza distinzioni di sessi, di religioni, di etnie e di popoli, con speciale attenzione ai minori. Via le barriere ovunque, eccetto ai caselli, dove si tratta di prendere pedaggi. Di recente la Benetton ha fatto anche campagne umanitarie sui barconi d’immigrati e ha lanciato un video “contro tutti i razzismi risorgenti”. Misterioso il nesso tra le prediche sulla pelle dei disperati e il vendere maglioni o far pagare pedaggi alle auto.Dietro la facciata “progressista” di Benetton c’è però la realtà di Maletton, il lato B. È il caso, ad esempio del milione d’ettari della Benetton in Patagonia, sottratto alle popolazioni locali come le comunità Mapuche, vanamente insorte e sanguinosamente represse. O lo sfruttamento senza scrupoli dell’Amazzonia, ammantato dietro campagne in difesa dell’ambiente. O la storia dei maglioni prodotti a costi stracciati presso aziende che sfruttavano lavoratori, donne e minori a salari da fame e condizioni penose, come accadde in Bangladesh a Dacca, dove morirono un migliaio di sfruttati che lavoravano in un’azienda che produceva anche per Benetton. Le loro facce non le abbiamo mai viste negli spot umanitari di Benetton, così come non vedremo nessuna maglietta rossa, nessun cappellino rosso sponsorizzato da Benetton o promosso da Toscani per le vittime di Genova. A questo si aggiunge per la Benetton l’affarone di gestire prima gli autogrill e poi interamente le Autostrade, dopo che lo Stato italiano ha investito per decenni miliardi per far nascere la rete autostradale. Un “regalo” del pubblico al privato, come succede solo in Italia.Il capitalismo italiano ha sempre avuto questo lato parassitario e rapace: non investe, non rischia di suo ma campa a ridosso del settore pubblico o delle sue commesse. A volte socializza le perdite e privatizza i profitti, come spesso faceva per esempio la Fiat, o piazza i suoi prodotti scartati dal mercato allo Stato, come faceva ad esempio De Benedetti accollando materiali un po’ vecchiotti dell’Olivetti alla pubblica ammministrazione. Aziende che si scoprivano nazionaliste quando si trattava di mungere dallo Stato italiano e poi si facevano globalità quando si trattava di andarsene all’estero per ragioni di produzione, fisco o costi minori. O si rileva la gestione delle Autostrade come i Benetton e i loro soci, con sontuosi profitti ma poi è tutto da verificare se si siano curati di investire adeguatamente per ammodernare la rete e fare manutenzione efficace. La tragedia di Genova pende come un gigantesco punto interrogativo tra i cavi sospesi sulla città.Di tutto questo, naturalmente, si parla poco nei media italiani, soprattutto nei grandi; non dimentichiamo che Benetton, oltre che importante cliente pubblicitario nei media, è azionista nel gruppo de “La Repubblica-L’Espesso-La Stampa”, dove si sono incrociati – ma guarda un po’ – i sullodati Agnelli e De Benedetti. In miniatura, segue lo stesso modello ideologico e d’affari alla Benetton, anche Oscar Farinetti, il patron di Eataly. Il capitalismo nostrano da un verso sostiene battaglie “progressiste” appoggiando forze politiche pendenti a sinistra e finanziando campagne global e antirazziste; poi dall’altro si trova invischiato in storie coloniali di espropriazione delle terre alle popolazioni indigene, di sfruttamento delle risorse e di uomini per produrre a costi minimi e senza sicurezza, ottenendo il massimo profitto. Poi vi chiedete perché in Italia certe opinioni politically correct sono dominanti: si è cementato un blocco tra un ceto ideologico-politico progressista, radical, di sinistra che fornisce il certificato di buona coscienza a un ceto affaristico di capitalisti marpioni. Un ceto che è viceversa adottato, tenuto a libro paga, dal medesimo. In questa saldatura d’interessi si formano i potentati e contro quest’intreccio ha preso piede il populismo.Però alle volte insorge la realtà. Drammaticamente, come è stato il caso di Genova. Dove ci sono da appurare le responsabilità, i gradi e i livelli. Inutile aggiungere che con ogni probabilità non ci sarà un solo colpevole, ci saranno differenti piani di responsabilità, anche a livello di amministratori locali, di governi centrali e ministeri dei trasporti che avrebbero dovuto vigilare e imporre alla società autostrade di spendere di più in sicurezza, pena la decadenza della concessione. Col senno di poi è facile dire che se gli azionisti della società autostrade avessero speso la metà dei loro utili (oltre un miliardo di euro l’anno) per ulteriore manutenzione, sicurezza e rifacimento di strutture a rischio, come era notoriamente il ponte Morandi a Genova, oggi probabilmente non staremmo a piangere i morti e una città stravolta, sventrata. Ma richiamare altre responsabilità non vuol dire buttarla sulla solita prassi del tutti colpevoli nessun condannato; no, ci sono gradi e livelli di responsabilità diversi, e qualcuno dovrà pagare per quel che è successo, ciascuno secondo il suo grado di colpa effettivamente accertata.A questo punto rivedere le concessioni è necessario. Ma non può essere la sola risposta. C’è da ripensare al modello italiano che non funziona più da anni, vive di rendita sul passato e manda in malora il suo patrimonio. Bisogna ripensare alla nostra scassata modernità, al nostro obsoleto repertorio strutturale, vecchio come i capannoni di archeologia industriale e le cattedrali nel deserto che spesso deturpano il nostro paesaggio e ricordano il nostro passato, quando l’industria era il radioso futuro. Un paese che non sa più pensare in grande, investire, intraprendere, far nascere, pensare al futuro. Resistono i ponti dei romani, resistono i ponti di epoca fascista, opere “aere perennius”, ma scricchiolano o crollano le opere recenti, perché non c’è stata vera manutenzione, perché c’è stato sovraccarico, o perché furono fatte in origine con materiali inadeguati, con permessi ottenuti in modo obliquo, perché qualcuno vi speculò, e non solo le imprese di costruzione.In tutto questo, purtroppo, la linea grillina del non fare, del tagliare, del risparmiare sulle grandi opere o sui grandi rifacimenti non è una risposta adeguata ai problemi e alle urgenze. Non dimentichiamo che per i grillini fino a ieri era una “favoletta” il rischio di crollo del ponte Morandi di Genova, era solo un modo per mungere soldi; e dunque pur di frenare eventuali corrotti e corruttori, per loro è meglio tenersi strade scassate e ponti insicuri. Intanto è necessario rimettere in discussione il modello imperante, con un residuo di statalismo incapace e impotente, che si accompagna a un capitalismo vorace e parassitario sotto le vesti progressiste e umanitarie, con tutte le sue connivenze politiche denunciate da Di Maio. Quelle aziende che mettevano in cerchio i bambini del mondo, salvo vederli sfruttare nelle aziende del Terzo mondo o espropriare delle loro terre. Quelle aziende che volevano abbattere muri e frontiere nel mondo e nel frattempo crollavano i ponti di casa…(Marcello Veneziani, “Benetton Maletton”, dal “Tempo” del 17 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).I Benetton non hanno prodotto solo maglioni e gestito autostrade ma sono stati la prima fabbrica nostrana dell’ideologia global. Sono stati non solo sponsor ma anche precursori dell’alfabeto ideologico, simbolico e sentimentale della sinistra. Sono stati il ponte, è il caso di dirlo, tra gli interessi multinazionali del capitalismo global e dell’americanizzazione del pianeta, coi loro profitti e il loro marketing e i messaggi contro il razzismo, contro il sessismo, a favore della società senza frontiere, lgbt, trasgressiva e progressista. Le loro campagne, affidate a Oliviero Toscani, hanno cercato di unire il lato choc, che spesso sconfinava nel cattivo gusto e nel pugno allo stomaco, col messaggio progressista umanitario: società multirazziale, senza confini, senza distinzioni di sessi, di religioni, di etnie e di popoli, con speciale attenzione ai minori. Via le barriere ovunque, eccetto ai caselli, dove si tratta di prendere pedaggi. Di recente la Benetton ha fatto anche campagne umanitarie sui barconi d’immigrati e ha lanciato un video “contro tutti i razzismi risorgenti”. Misterioso il nesso tra le prediche sulla pelle dei disperati e il vendere maglioni o far pagare pedaggi alle auto.