Archivio del Tag ‘pensiero unico’
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Magaldi: all’Ue serve Keynes (e a Martina uno psichiatra)
Cercasi psichiatra per Maurizio Martina e i suoi colleghi del Pd. Un vero fenomeno, il successore di Renzi: «Si lamenta della rapacità del neo-capitalismo che ha impoverito gli italiani, ma poi contesta il governo gialloverde se appena prova a uscire dalle regole di ferro del “pilota automatico” che vieta il ricorso al deficit». E’ esterrefatto, Gioele Magaldi, di fronte alle ultime esternazioni di Martina: «Sembra psichicamente dissociato. Capisce quello che dice?». Ben diverse le posizioni espresse da esponenti della sinistra come Fausto Bertinotti, favorevole al reddito di cittadinanza così come Stefano Fassina e lo stesso Michele Emiliano, «che almeno ha avuto il coraggio di dissentire dal suo partito». Il centrosinistra? Nebbia: «Protesta contro il rigore, ma al tempo stesso vorrebbe che il governo Conte cedesse alle pressioni anti-italiane continuamente esercitate da Draghi, Mattarella, Visco, Juncker e Moscovici, proprio per impedire all’esecutivo di invertire la rotta e investire finalmente sul benessere del paese». Quanto ai “gialloverdi”, il presidente del Movimento Roosevelt è prudente: «Li sosteniamo, perché vanno nella giusta direzione pur avendo contro l’establishment e i media. Però devono avere più coraggio: guai, ad esempio, se pensano di compensare il deficit aumentando l’Irpef».Tra i peggiori in campo, come al solito, i media mainstream: ultimamente, dice Magaldi in collegamento web-streaming su YouTube con Marco Moiso, c’è chi arriva a citare Keynes come cattivo esempio (sprechi, assistenzialismo) dopo averlo letteralmente rimosso, lo stesso Keynes, padre dell’economia democratica moderna, propinando al pubblico la narrazione tragicamente ridicola del pensiero unico neoliberista, basata sulla favola dell’austerity espansiva: più si fanno tagli, più cresce “miracolosamente” il Pil. E’ indispensabile, sottolinea Magaldi, che l’anima keynesiana del governo Conte emerga in modo più deciso: e non mancano, specie nella Lega, gli economisti post-keynesiani come Alberto Bagnai. Se non bastasse, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, bisognerà dare corpo a un nuovo partito ultra-keynesiano, che si batta per ripristinare la democrazia sociale in tutta Europa, con una governance democratica dell’economia, sancita da una vera Costituzione Europea. «Rifiutiamo la narrazione che vorrebbe contrapposti sovranisti-nazionalisti da una parte ed europeisti dall’altra: sono fasulli, i sedicenti europeisti che si contrappongono ai sovranisti, ed è un errore madornale lasciarsi incasellare nella categoria di comodo del “sovranismo”». Il nazionalismo? Un binario morto: «Non ha mai prodotto democrazia diffusa, ma solo inimicizia tra popoli».Per Magaldi, massone progressista, «abbiamo bisogno di un cosmopolitismo democratico, che contrasti la “politìa” post-democratica e neo-aristocratica che questi decenni di globalizzazione sbagliata hanno prodotto». Molto meglio una “glocalizzazione”, «che metta al primo posto la dignità del cittadino: ovunque, sotto ogni cielo del pianeta». Tra i soggetti che “remano contro” la svolta liberal-progressista di cui l’Italia avrebbe bisogno, Magaldi indica il capo dello Stato: «Io credo che Mattarella goda di credibilità soltanto presso chi non abbia riflettuto abbastanza su quello che dovrebbe essere il ruolo del presidente della Repubblica, e su come i suoi predecessori in questi anni abbiano avallato questa sorta di svendita della sovranità politica ed economica italiana a potentati privati». Perché di questo si tratta: «Dietro le maschere evanescenti e cialtronesche di diversi burocrati europei – aggiunge – si nascondo interessi privati: interessi apolidi, che predano la ricchezza di popoli, nazioni e interi continenti». Mattarella, continua Magaldi, viene esaltato da chi s’è ubriacato dall’idea che siano i mercati a doverci governare, e pensa che in fondo la linea dell’Europa è responsabile, e che si sono irresponsabili populisti i politici al governo, che osano proporre un rapporto deficit-Pil del 2,4% (inferiore al tetto stabilito a Maastricht).«Personalmente – insiste Magaldi – non ho alcuna stima politica nei confronti di Mattarella, che è un modestissimo personaggio, “pescato” da Renzi (altro modestissimo personaggio) su suggerimento di Draghi». Oggi il capo dello Stato incontra il presidente della Bce «come un maggiordomo che va a prendere gli ordini dal suo dante causa». Sicuri che sia ferrato, in materia economica, il capo dello Stato? «Probabilmente, Mattarella nulla capisce di economia: esegue degli ordini, per quanto riguarda la sua posizione sulla manovra economica del governo, ma ha anche un problema di insispienza, di limiti cognitivi». In definitiva, «è amato da gente che non capisce nulla di economia né di politica, e oltretutto spreca la propria devozione verso un personaggio che sicuramente non la merita – sottolinea Magaldi – anche perché ha attentato alla Costituzione già in occasione della mancata ratifica della nomina di Paolo Savona al ministero dell’economia». Una pagina estremanente controversa della cronaca politica recente: molti i giuristi che contestarono l’operato del Quirinale, in quella occasione, che spinse Di Maio – a caldo – a ventilare la richiesta di impeachment del presidente.«Continueremo a difendere la bontà del tentativo del governo Conte, che è comunque impegnato a fare qualcosa a conforto di una società italiana in difficoltà, fatta di famiglie e imprese», ribadisce Magaldi, che però non è soddisfatto del bilancio gialloverde. «Finora non c’è stata una narrazione netta, limpida, forte e lungimirante, del tipo: noi non siamo qui per discutere del 2,4 o 2,8%». Persino Salvini s’è abbassato, con fare rassicurante, a sottolineare che il deficit previsto dal Def è comunque inferiore a quello imposto dai parametri di Maastricht. Non ci siamo, protesta il presidente del Movimento Roosevelt: «Qui serve qualcos’altro, serve di più. Servirebbe qualcuno che dicesse: signori, guardate che quei parametri sono arbitrari. Dobbiamo fare grandi investimenti in infrastrutture, lo si è visto a Genova, e questo comporta che all’inizio il rapporto deficit-Pil sarà da aumentare di molte cifre, rispetto al 2,4%. E questo proprio nella prospettiva di rigenerare l’economia italiana, quindi anche di ridurre lo stesso debito pubblico (ma solo in prospettiva, perché il debito di uno Stato non è il debito di una famiglia)». E in più: «Eliminiamo alla radice il problema dello spread mediante l’emissione di eurobond».Una proposta forte dal governo Conte? «Potrebbe dire, come Italia: facciamo una Costituzione Europea. Facciamo dell’Italia il propulsore, in senso democratico, delle istituzioni europee». Sono questi, sottolinea Magadi, i temi che andrebbero affrontati sui tavoli di Bruxelles e Francoforte, «mettendo in scacco gli apparati tecnocratici e anche tutta l’opposizione al governo Conte». In altre parole, la maggioranza gialloverde si decida a evolvere «in una prospettiva che non sia sovranista, nazionalista, populista, mercanteggiatrice di pochi punti percentuali». O si abbandona questa narrativa di basso profilo, o non se ne esce. «E allora sarà inevitabile la costruzione di un partito politico che invece assuma su di sé l’onere di dire con chiarezza quello che va fatto, in termini radicali, e anche di aiutare Lega e Movimento 5 Stelle, e non solo: magari si sposasse davvero un’ottica keynesiana anche dalle parti del centrosinistra e del centrodestra, ne sarei contentissimo». Invece, Martina raccomanda l’eterno rigore europeo – esattamente come Tajani, portavoce del Cavaliere. «E allora – chiosa Magaldi – si mettano ufficialmente insieme e se lo facciano, il loro Partito della Nazione: prendano il 5% dei voti e “si levino dai cabbasìsi” come direbbe il Montalbano di Camilleri».Cercasi psichiatra per Maurizio Martina e i suoi colleghi del Pd. Un vero fenomeno, il successore di Renzi: «Si lamenta della rapacità del neo-capitalismo che ha impoverito gli italiani, ma poi contesta il governo gialloverde se appena prova a uscire dalle regole di ferro del “pilota automatico” che vieta il ricorso al deficit». E’ esterrefatto, Gioele Magaldi, di fronte alle ultime esternazioni di Martina: «Sembra psichicamente dissociato. Capisce quello che dice?». Ben diverse le posizioni espresse da esponenti della sinistra come Fausto Bertinotti, favorevole al reddito di cittadinanza così come Stefano Fassina e lo stesso Michele Emiliano, «che almeno ha avuto il coraggio di dissentire dal suo partito». Il centrosinistra? Nebbia: «Protesta contro il rigore, ma al tempo stesso vorrebbe che il governo Conte cedesse alle pressioni anti-italiane continuamente esercitate da Draghi, Mattarella, Visco, Juncker e Moscovici, proprio per impedire all’esecutivo di invertire la rotta e investire finalmente sul benessere del paese». Quanto ai “gialloverdi”, il presidente del Movimento Roosevelt è prudente: «Li sosteniamo, perché vanno nella giusta direzione pur avendo contro l’establishment e i media. Però devono avere più coraggio: guai, ad esempio, se pensano di compensare il deficit aumentando l’Irpef».
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Ho visto un Re: a piangere è Calabresi, “ferito” da Di Maio
«E sempre allegri bisogna stare», cantava Jannacci, «ché il nostro piangere fa male al Re». Fa male «al ricco e al cardinale», al punto che «diventan tristi se noi piangiam». C’è qualcosa di più insopportabile del vittimismo (grottesco) da parte del potere che “chiàgne e fotte”? Nell’arcaico pantheon medievale evocato dall’immenso cantautore milanese non c’era ancora posto, ovviamente, per il giornalista. Senza contare che allora, nel mitico 1968 – quando quel brano fu composto – erano ancora in circolazione giornalisti veri e propri. Magari non erano infallibili neppure loro, ma si chiamavano Bocca, Biagi, Montanelli. Ciascuno amato o detestato, a seconda delle platee, ma tutti rispettati: non cantavano in nessun coro e, nel caso, “sbagliavano” in proprio, senza prendere ordini dall’editore, dal partito, dall’establihment. Erano i tempi in cui sul “Corriere” scriveva Pasolini. Si era lontani anni luce dalle “carte false” che poi Giampaolo Pansa avrebbe messo alla berlina, denunciando la vocazione al servilismo che avrebbe fatalmente rovinato il giornalismo italiano, trasformandolo in docile strumento di propaganda.Giornali a fari spenti nella notte: tutti addosso ai ladri di polli di Tangentopoli, senza vedere il furto vero e colossale – sovranità, democrazia – messo a segno nel frattempo dall’élite finto-europeista. Oggi è diverso, è persino peggio: non si può più dire che i giornali sbaglino, non vedano, non capiscano. Oggi i giornali picchiano. Malmenano il nemico del padrone, ogni giorno, spudoratamente. Il primo a farlo è “Repubblica”, quotidiano fondato dall’ex fascista e poi socialista Scalfari, quindi a lungo diretto da quell’Ezio Mauro che demolì Berlusconi per i sexgate di Arcore, trasformando l’ultimo premier italiano eletto in qualcosa di cui gli anti-italiani Merkel e Sarkozy potevano ridere, proprio mentre si preparavano a spedire in Italia il loro uomo, Mario Monti, per inguaiare famiglie e aziende mettendo in ginocchio il sistema-Italia, comodamente spolpato da Germania e Francia, tra una risata e l’altra. Ridotta in macerie la politica – il populista Renzi, dopo il “sicario” Monti – oggi la ribellione di un paese scientificamente impoverito, terremotato dall’euro-crisi pilotata dai poteri che controllano la Bce, si esprime in modo grossolano per bocca di Salvini e Di Maio, il quale ha addirittura l’ardire di denunciare apertamente che il Re è nudo: tutto racconta, fuor che la verità. Apriti cielo: l’attuale direttore di “Repubblica”, Sergio Calabresi, apre il fazzoletto.Niente manganello, per una volta, ma fiumi di lacrime: i «nuovi potenti», singhiozza Calabresi, si sono accorti che – grazie al web – oggi «possono sperare di realizzare il sogno di ogni governante della storia: liberarsi dei corpi intermedi, delle critiche e delle domande scomode». Se queste parole fossero lette da archeologi fra tremila anni, e se non fosse più rintracciabile nessuna copia di “Repubblica”, nessuna prima pagina e nessun editoriale, qualcuno potrebbe persino prenderlo sul serio, Calabresi. Cosa ha detto, il mai impeccabile Di Maio? Due verità sacrosante. La prima: i giornali come “Repubblica” non fanno più informazione ma solo propaganda, spacciando “fake news”. La seconda: per fortuna, non li legge più nessuno. Esatto: vendono un terzo, un quarto delle copie che vendevano ai tempi di Biagi, Bocca e Montanelli, all’epoca in cui Ilaria Alpi faceva giornalismo d’inchiesta in Somalia, e in televisione campeggiavano Renzo Arbore e Gianni Minà. Persino i comici facevano pensare: Paolo Villaggio, Cochi e Renato diretti dallo stesso Jannacci (oggi il pubblico deve rassegnarsi a Crozza, che riesce a trasformare in eroe il sindaco di Riace, paragonandolo nientemeno che ai partigiani che “violarono la legge”, quando la legge era quella di Hitler).«Siamo “pericolosi”», dice Di Maio, perché i gialloverdi – raccontando il contrario della versione unilaterale dell’establishment – invadono (con verità insopportabili) quello che i giornali «considerano il loro territorio, la loro prateria». Per fortuna, aggiunge, «ci siamo vaccinati anni fa dalle bufale, dalle “fake news” dei giornali, e si stanno vaccinando anche tanti altri cittadini». Sarà per questo che il sistema sta aumentando le dosi di chemioterapia quotidiana con cui accecare il pubblico? Come spiegare diversamente la mostruosa tecnocrate Elsa Fornero trasformata in guru dell’economia dal valletto Floris, o l’inaudito Cottarelli – uomo del Fmi, coinvolto nella rovina della Grecia – venerato settimanalmente nel felpato salottino di Fazio? Ma il problema non è la fogna a cui è ridotto il mainstream italiano. Macchè, il problema è il minaccioso, terribile Di Maio. «Non abbiamo paura», proclama Calabresi, asciugandosi le lacrime copiosamente sparse. «Siamo preoccupati per noi e per il paese, per lo scadimento del dibattito che avvelena l’opinione pubblica». Lo scadimento di quale dibattito, please? Ai gialloverdi, il mainstream ha solo e sempre tolto il microfono dalle mani, presentandoli come appestati, folli, velleitari, cialtroni, razzisti e sessisti, violenti e scellerati, incompetenti. E’ accaduto l’impensabile, ecco il punto: oggi sono al governo, i mascalzoni. Non potendoli più ignorare, li si prende a cannonate dal mattino alla sera, a reti unificate.Non è cambiato, lo schema del regime insediato in Italia dopo la rimozione forzata, per via giudiziaria, dei politici della Prima Repubblica: ad avere l’ultima parola non sono gli elettori, ma il “vincolo esterno” in base al quale l’oligarchia europea governa l’Italia al posto del governo italiano, sorretta dall’establihment locale (politico, industriale, finanziario e, naturalmente, mediatico). L’algido Ferruccio De Bortoli lancia anatemi e auspica il ritorno alle Crociate: guai, se il governo italiano dovesse spuntarla contro Bruxelles sulla storia del deficit al 2,4%. L’opinione pubblica è strettamente sorvegliata da ex giornalisti come Lilli Gruber, in quota al Bilderberg, come ieri lo era da Monica Maggioni, presidente della Rai, oggi a capo della sezione italiana della Trilaterale. E se alla Rai gli impudenti Salvini e Di Maio riescono a piazzare un non-allineato come Foa, un giornalista indipendente, sono dolori: il mite Marcello Foa diventa, in un battibaleno, una specie di pericoloso terrorista. La sua colpa? Di tanti colleghi, ha la stessa opinione di Di Maio: venduti a un potere che ormai se ne frega, della democrazia. E se qualcosa per una volta va storto, se cioè la democrazia vince davvero, i nuovi eletti vanno abbattuti, anche per dare una lezione ai maledetti italiani che, dopo averli votati, hanno pure il coraggio di continuare a sostenerli.Non c’è bisogno di ricordare che ognuno ha il diritto di coltivare qualsiasi opinione, purché non leda l’altrui libertà. A proposito di Crociate, il conte di Tolosa – che difendeva la libertà di religione nel Midi pre-francese – protestò per la “desmisura” con cui veniva oppresso dal potere vaticano, folle di rabbia per la scelta dei tolosani di difendere i diritti religiosi dei Catari. “Desmisura”, in occitano medievale, significa questo: violare le regole, soffocare l’avversario, negargli la possibilità di esistere come soggetto pensante. Una tentazione totalitaria, che – secondo Simone Weil – in quel drammatico inizio del 1200 gettò il seme velenoso dei peggiori incubi europei dei Novecento. Soffocare le voci altrui: non un fiato, dalle testate dirette da uomini come Calabresi, s’è levato contro l’infame legge europea sul copyright, promossa dal galantuomo tedesco Günther Oettinger. Bavaglio al web: social media e motori di ricerca saranno costretti a bloccare la circolazione di idee scomode. E’ proprio lo stesso Oettinger che disse che sarebbero stati “i mercati”, i signori dello spread, a insegnare agli italiani come votare. Per questo, come cantava Jannacci, è meglio non fidarsi delle lacrime del Re: quello del lupo che si mette a piangere, travestito da agnello, è uno spettacolo esteticamente osceno, prima ancora che ipocrita sul piano politico.«E sempre allegri bisogna stare», cantava Jannacci, «ché il nostro piangere fa male al Re». Fa male «al ricco e al cardinale», al punto che «diventan tristi se noi piangiam». C’è qualcosa di più insopportabile del vittimismo (grottesco) da parte del potere che “chiàgne e fotte”? Nell’arcaico pantheon medievale evocato dall’immenso cantautore milanese non c’era ancora posto, ovviamente, per il giornalista. Senza contare che allora, nel mitico 1968 – quando quel brano fu composto – erano ancora in circolazione giornalisti veri e propri. Magari non erano infallibili neppure loro, ma si chiamavano Bocca, Biagi, Montanelli. Ciascuno amato o detestato, a seconda delle platee, ma tutti rispettati: non cantavano in nessun coro e, nel caso, “sbagliavano” in proprio, senza prendere ordini dall’editore, dal partito, dall’establihment. Erano i tempi in cui sul “Corriere” scriveva Pasolini. Si era lontani anni luce dalle “carte false” che poi Giampaolo Pansa avrebbe messo alla berlina, denunciando la vocazione al servilismo destinata a rovinare fatalmente il giornalismo italiano, trasformandolo in docile strumento di propaganda.
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Draghi a Mattarella: obbedite, o vi faremo morire di spread
Dallo spread ti può difendere la Bce, a una condizione: il commissariamento sostanziale dello Stato, non più libero di decidere come indirizzare la spesa pubblica. Secondo il “Fatto Quotidiano”, sarebbe questo il piano che Mario Draghi ha esposto a Sergio Mattarella, nei giorni scorsi, al Quirinale. «Si tratta dell’acquisto diretto da parte della Bce di titoli di Stato a breve termine emessi dallo Stato in difficoltà, che però per accedervi deve concordare una sorta di memorandum con il Meccanismo Europeo di Stabilità. Di fatto un commissariamento». Nella sostanza: la Banca Centrale Europea, che continua a non voler emettere “eurobond” a garanzia del debito pubblico dei paesi dell’Eurozona, si appresterebbe a esercitare indebite pressioni – modello Grecia – su un paese come l’Italia, di cui non si tollera la decisione di andare in controtendenza, rispetto al pensiero unico neoliberista di Bruxelles, espandendo il deficit. In una nota, la Commissione Europea “avverte” che la previsione del Def gialloverde (disavanzo al 2,4%) non sarà digerita dall’Ue, anche se Lega e 5 Stelle ritengono indispensabile, quel disavanzo, per cominciare a finanziare reddito di cittadinanza, pensioni più dignitose e taglio del carico fiscale. Misure che, secondo il governo, rilancerebbero il Pil già nel 2019.
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Lo Stato non è una famiglia: se risparmia, siamo rovinati
L’esposizione ripetuta a un’immagine o a un contenuto fa sì che l’individuo modifichi la propria percezione della realtà e interiorizzi il messaggio veicolato. E’ quello che gli psicologi chiamano “effetto priming”, e che pubblicitari ed esperti della comunicazione conoscono molto bene. Quanto più un messaggio viene ripetuto ed enfatizzato, magari attraverso la forma dello spot, tanto più esso risulterà familiare. Così può accadere che un concetto privo di veridicità, ma ripetuto con insistenza e in modo convincente, acquisisca il rango di verità. E’ quanto accaduto con la fake news economica del momento, tanto assurda quanto apparentemente efficace: il bilancio dello Stato sarebbe come quello di una famiglia. La ripetono all’unisono giornalisti, conduttori televisivi, economisti e qualunquisti. Così la gente comune, digiuna di economia e soprattutto in buona fede, ha interiorizzato un pensiero del tutto fuorviante. Secondo questa logica, quando un paese presenta un debito pubblico – dunque la normalità in un’economia moderna – dovrebbe assumere il comportamento di una brava e accorta casalinga: stringere la cinghia e tagliare le spese familiari. Così, come una donna morigerata risparmierà sul cibo, sul vestiario e, in condizioni di estrema ratio, alle cure sanitarie per sé, per il coniuge e per i figli, così lo Stato dovrebbe seguire il suo virtuoso esempio.Dunque, poiché la “famiglia” dello Stato è lo Stato stesso, ossia l’insieme dei cittadini che lo abitano, il suo territorio e le sue istituzioni, i tagli si ripercuoteranno sull’intera collettività. Per risparmiare occorre innanzitutto che contravvenga a quello che in un sistema socio-economico civile dovrebbe essere la sua funzione principale: tutelare chi non ha tutela, chi per nascita o per eventi sopravvenuti o condizioni particolari si trova in una situazione di evidente svantaggio. E qui gli esempi potrebbero essere infiniti, dal disoccupato all’invalido, alle vittime di disastri naturali. Potrebbe poi, in un’ottica di far quadrare il bilancio, ristrutturare la sanità pubblica in un’ottica mercatistica orientata al profitto, trasformando il paziente in un cliente. Continuare poi in un’opera di privatizzazione dei servizi pubblici e delle infrastrutture, facendoli gestire al mercato – considerato per antonomasia efficiente. A parte qualche piccola eccezione come successo a Genova. Così si potrebbe abbracciare un modello di scuola privata, in cui i genitori offriranno ai loro figli un livello di istruzione strettamente legato al proprio reddito. Ci sarebbe solo il piccolo inconveniente di bloccare l’ascensore sociale e rinstaurare il censo.Siccome non amo la retorica, mi fermo qui, ma gli esempi pratici per smontare l’assurda comparazione tra bilancio pubblico e familiare potrebbero andare avanti ancora a lungo. Lo Stato non è una famiglia perché esso ha come obiettivo il benessere e la tutela di tutti cittadini, non solo dei suoi figli come la famiglia, e opera su un orizzonte temporale di lungo periodo. Deve inoltre garantire il funzionamento delle istituzioni a garanzia del diritto e della democrazia. Infine, come dicono gli inglesi last but not least, da un punto di vista economico e contabile adottare la condotta della brava casalinga, che per uno Stato significa adottare l’austerity, vuol dire licenziare, rendere i servizi pubblici essenziali sempre più costosi, aumentare il livello di povertà, di disuguaglianza e disoccupazione. Così potrebbe accadere che la stessa virtuosa casalinga a causa dell’austerity debba rinunciare a curarsi o, addirittura, che suo marito perda il lavoro. Esiste infatti una relazione diretta, alquanto intuitiva, tra tagli dello Stato e diminuzione della ricchezza privata perché, per dirla con le parole del premio Nobel Krugman, «la tua spesa è il mio reddito». Potremmo dunque a ragion veduta ribaltare lo spot e affermare: «Il bilancio dello Stato è il contrario di quello della famiglia». Ma i pregiudizi si sa, una volta sedimentati sono difficili da scardinare.(Ilaria Bifarini, “Lo Stato è il contrario di una famiglia”, dal blog della Bifarini del 28 settembre 2018).L’esposizione ripetuta a un’immagine o a un contenuto fa sì che l’individuo modifichi la propria percezione della realtà e interiorizzi il messaggio veicolato. E’ quello che gli psicologi chiamano “effetto priming”, e che pubblicitari ed esperti della comunicazione conoscono molto bene. Quanto più un messaggio viene ripetuto ed enfatizzato, magari attraverso la forma dello spot, tanto più esso risulterà familiare. Così può accadere che un concetto privo di veridicità, ma ripetuto con insistenza e in modo convincente, acquisisca il rango di verità. E’ quanto accaduto con la fake news economica del momento, tanto assurda quanto apparentemente efficace: il bilancio dello Stato sarebbe come quello di una famiglia. La ripetono all’unisono giornalisti, conduttori televisivi, economisti e qualunquisti. Così la gente comune, digiuna di economia e soprattutto in buona fede, ha interiorizzato un pensiero del tutto fuorviante. Secondo questa logica, quando un paese presenta un debito pubblico – dunque la normalità in un’economia moderna – dovrebbe assumere il comportamento di una brava e accorta casalinga: stringere la cinghia e tagliare le spese familiari. Così, come una donna morigerata risparmierà sul cibo, sul vestiario e, in condizioni di estrema ratio, alle cure sanitarie per sé, per il coniuge e per i figli, così lo Stato dovrebbe seguire il suo virtuoso esempio.
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Corbyn e Mélenchon, prove tecniche di socialismo europeo
Nazionalizzare le ferrovie privatizzate, restituire allo Stato il settore energetico e le Poste. Patrimoniale selettiva: tasse sugli “immobili secondari” per finanziare gli alloggi per i senza-casa. E inoltre, l’obbligo per le imprese con più di 250 impiegati di riservare ai dipendenti un terzo dei seggi nei consigli di amministrazione. Sono i caposaldi del nuovo, possibile “socialismo europeo” secondo l’inglese Jeremy Corbyn e il francese Jean-Luc Mélenchon, accorso a Liverpool per il grande festival politico “The World Transformed”, con migliaia di partecipanti. «In Gran Bretagna c’è sete di un diverso tipo di politica e di una nuova società, che strappi il potere all’establishment e lo metta nelle mani dei più», dice uno degli organizzatori, Fergal O’Dwyer. Per Angus Satow, il leader laburista e quello di “France Insoumise” rappresentano «la sinistra che si impadronisce del futuro». Un dirigente laburista come David Broder immagina la creazione di un vasto think-tank con partiti e movimenti della sinistra di tutto il mondo. Certo, annota Giacomo Marchetti su “Contropiano”, Corbyn e Mélenchon non sono esattamente giovanotti: ma, pur veleggiando verso i settanta, hanno entrambi hanno avuto un discreto successo tra i giovani, proprio il loro omologo statunitense Bernie Sanders, rendendo i “millenials” nuovamente protagonisti della politica.Aditya Chakrabortty, sul “Guardian”, domanda se qualcuno ha notato che il Labour ha appena dichiarato la “guerra di classe”, dopo che per decenni si è consentito al neoliberismo di fare quello che voleva. Nel 2015, il capo-economista della Bank of England, Andy Haldane, ha tracciato ciò che è accaduto al reddito nazionale dei lavoratori nel lungo periodo. E ha scoperto che il lavoro ha avuto fette sempre più piccole della torta: dal 70% negli anni ’70 al 55% di oggi. Secondo i suoi calcoli, «gli impiegati ottengono proporzionalmente meno ora di quanto ottenevano all’inizio della rivoluzione industriale, negli anni ‘70 del Settecento». Ovvero: «Se i salari degli operai fossero stati mantenuti in linea con l’aumento della loro produttività dal 1990, il lavoratore medio sarebbe oggi più ricco del 20%». Osserva Marchetti su “Contropiano”: «Non stupisce che, nel paese che in Europa, per primo, ha conosciuto l’applicazione delle ricette liberiste grazie alla Thatcher, e lo svuotamento tra le file laburiste di ogni istanza progressista con la parabola del “New Labour” di Tony Blair, abbia votato prima per uscire dalla Ue e poi per il Labour di Corbyn, che ora è “testa a testa” nei sondaggi con il 35% delle preferenze di voto e una non escludibile ipotesi di elezione anticipata a novembre».Tornando alla “strana coppia” formata da Corbyn e Mélenchon, continua Marchetti, «entrambi sono due “pellacce” che vengono da esperienze “di minoranza” nei propri ranghi, ma non hanno smesso di perseguire una politica “radicale” divenuta sempre più mainstream nei rispettivi paesi». Tra loro si parlano in spagnolo, data la comune passione per le lotte dei popoli latino-americani. «Entrambi sono stati oggetto, e lo sono tuttora, del linciaggio mediatico da parte dei media internazionali, cioè dei grandi gruppi della comunicazione che dominano il mercato: il partito unico dell’informazione e le sue propaggini nella sinistra “liberal”». Le solite trappole: «Le critiche alla politica israeliana da parte di Corbyn gli sono costate le accuse di antisemitismo, piattamente riprese anche dalla stampa nostrana». E al di là della Manica, un’identica “macchina del fango” si è attivata nella campagna elettorale per le ultime presidenziali francesi, man mano che Mélenchon cresceva nei sondaggi: più aumentava il numero di seguaci, specie giovani, e più crescevano «il “bashing” mediatico e le narrazioni tossiche», cosa che peraltro è avvenuta anche con Corbyn, «le cui copertine dedicategli in fase elettorale da alcuni tabloid rimangono un capolavoro di “fake news” da ammannire al popolo». Ora tutto è cambiato: Corbyn è quotato alla pari con i conservatori, mentre Mélenchon è il leader più popolare in Francia, dove Macron è crollato sotto il 20%.Nazionalizzare le ferrovie privatizzate, restituire allo Stato il settore energetico e le Poste. Patrimoniale selettiva: tasse sugli “immobili secondari” per finanziare gli alloggi per i senza-casa. E inoltre, l’obbligo per le imprese con più di 250 impiegati di riservare ai dipendenti un terzo dei seggi nei consigli di amministrazione. Sono i caposaldi del nuovo, possibile “socialismo europeo” secondo l’inglese Jeremy Corbyn e il francese Jean-Luc Mélenchon, accorso a Liverpool per il grande festival politico “The World Transformed”, con migliaia di partecipanti. «In Gran Bretagna c’è sete di un diverso tipo di politica e di una nuova società, che strappi il potere all’establishment e lo metta nelle mani dei più», dice uno degli organizzatori, Fergal O’Dwyer. Per Angus Satow, il leader laburista e quello de “La France Insoumise” rappresentano «la sinistra che si impadronisce del futuro». Un dirigente laburista come David Broder immagina la creazione di un vasto think-tank con partiti e movimenti della sinistra di tutto il mondo. Certo, annota Giacomo Marchetti su “Contropiano”, Corbyn e Mélenchon non sono esattamente giovanotti: ma, pur veleggiando verso i settanta, hanno entrambi hanno avuto un discreto successo tra i giovani, proprio il loro omologo statunitense Bernie Sanders, rendendo i “millenials” nuovamente protagonisti della politica.
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Si è spento Crozza (il comico, non Maurizio). Lo rivedremo?
Una delle cose più tristi a cui possa capitare di assistere è la morte, artistica, di un grande comico. Maurizio Crozza lo è stato per anni, pennellando deliziose caricature sulle maschere del potere, dal vanesio Renzi iper-dentuto al micidiale avatar DiMa.Ios, docile ventriloquo dell’infido e spregiudicato burattinaio Beppe Grillo. Minniti e Briatore, De Luca e Berlusconi, gli imbarazzanti “gnomi” leghisti, il cannibale Feltri. Sembrava alzare progressivamente l’asticella, il nazionalpopolare e intelligente Crozza, fino al giorno cui osò l’inosabile: all’indomani del massacro francese del Bataclan, 13 novembre 2015 (venerdì 13, anniversario del martirio dei Templari), il super-guitto genovese mise in scena una rappresentazione intensamente drammatica, inoltrandosi nel grottesco – dalle parti del teatro brechtiano – alludendo (temerariamente) a una regia “domestica” del terrorismo targato Isis, orchestrato da “men in black” come l’inquietante, cinico manager della fantomatica “InCool8”, vera e propria multinazione dell’orrore. Quella fu l’ultima volta in cui Maurizio Crozza, sui teleschermi, andò oltre il collaudato, gustosissimo cliché della parodia riservata ai piccoli eroi quotidiani del mainstream nazionale, politico e mediatico. Ma per scendere sotto il minimo sindacale c’è voluto il maledetto, temutissimo governo gialloverde.La puntata di “Fratelli di Crozza” andata in onda il 28 settembre su “La9” lascia addosso un senso di sgomento, quasi di lutto, per la perdita – irrimediabile? – di una voce critica a cui il pubblico s’era ormai abiutato. Quando si trasforma in pedestre propagandista del pensiero unico, tanto per cominciare, un comico non fa più ridere. Se poi insiste, per tutta la puntata, a prendere di mira solo il governo in carica, chiunque capisce che c’è qualcosa di profondamente stonato, nella sua perfomance. La satira, si sa, è efficace quando spara cannonate contro il potere. E solo un cieco, oggi, potrebbe non vedere che il potere – quello vero – non siede a Palazzo Chigi o nei ministeri, ma sta altrove: è nei giornali e nelle televisioni, alla Banca d’Italia, al Quirinale, alla Bce, nel direttivo di Confindustria, negli uffici della Commissione Europea e nei santuari della Borsa. E’ un assedio impressionante, quello che sta subendo il governo Conte: non si era mai visto un tale accanimento contro un esecutivo nazionale (ottimo, pessimo o mediocre che fosse). Va da sé: tanto zelo, nel contrastarlo, induce a sospettare che il governo in carica, comunque lo si valuti, stia creando effettivamente problemi all’establishment, all’oligarchia del denaro che – ormai l’hanno capito anche i sassi – tiene in ostaggio intere nazioni. Possibile che il brillante Maurizio Crozza non ne tenga conto? Ebbene, sì.Nel fatale autunno 2018, non pago di presentarsi al suo pubblico ormai nelle malinconiche vesti di ex comico, Crozza sale in cattedra come un Mario Monti qualsiasi, tentando di spacciare per verità di fede – alla platea – l’incresciosa storiella neoliberista dello Stato equiparato alla famiglia: che imperdonabile imprudenza, fare debiti, se poi i soldi bisogna restituirli. Ha mai sentito parlare di sovranità monetaria, Crozza? E’ convinto che Mario Draghi disponga di appena 100 soldi, finiti i quali resterebbe in bolletta? Si è mai chiesto, Crozza – feroce, col ministro Toninelli alle prese con la grana del viadotto Morandi – come fece, l’Italia, a costruire quel viadotto genovese? Crede che il governo dell’epoca abbia usato i risparmi della nonna saggiamente accantonati sotto il materasso? E poi: non si rende conto, Crozza, che il 70% degli italiani lo sostiene, questo precario governo che denuncia l’impostura dell’austerity? Non riesce a spiegarselo, il perché? Non sospetta che, forse, gli italiani abbiano fiutato il grosso imbroglio con il quale sono stati raggirati per decenni, dai cantori del rigore altrui? Tutto questo accade mentre un altro mattatore del piccolo schermo, Fazio Fabio, ospita stabilmente l’oligarca Carlo Cottarelli, presentandolo come neutrale scienziato dell’economia. La differenza? Cottarelli e Fazio non faranno ridere, ma almeno non sono accreditati come comici. Maurizio Crozza, invece, a far ridere non ci prova neppure più.Una delle cose più tristi a cui possa capitare di assistere è la morte, artistica, di un grande comico. Maurizio Crozza lo è stato per anni, pennellando deliziose caricature sulle maschere del potere, dal vanesio Renzi iper-dentuto al micidiale avatar DiMa.Ios, docile ventriloquo dell’infido e spregiudicato burattinaio Beppe Grillo. Minniti e Briatore, De Luca e Berlusconi, gli imbarazzanti “gnomi” leghisti, il cannibale Feltri. Sembrava alzare progressivamente l’asticella, il nazionalpopolare e intelligente Crozza, fino al giorno in cui osò l’inosabile: all’indomani del massacro francese del Bataclan, 13 novembre 2015 (venerdì 13, anniversario del martirio dei Templari), il super-guitto genovese mise in scena una rappresentazione intensamente drammatica, inoltrandosi nel grottesco – dalle parti del teatro brechtiano – alludendo (temerariamente) a una regia “domestica” del terrorismo targato Isis, orchestrato da “men in black” come l’inquietante, cinico manager della fantomatica “InCool8”, vera e propria multinazione dell’orrore. Quella fu l’ultima volta in cui Maurizio Crozza, sui teleschermi, andò oltre il collaudato, gustosissimo cliché della parodia riservata ai piccoli eroi quotidiani del mainstream nazionale, politico e mediatico. Ma per scendere sotto il minimo sindacale c’è voluto il maledetto, temutissimo governo gialloverde.
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Cestinare i Cottarelli: New Deal, o l’Italia muore con l’Ue
L’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli è tornato a farsi sentire. Dopo aver visto sfumare la possibilità di sedere a Palazzo Chigi a capo di quello che, in assenza di accordo fra Lega e M5S, sembrava destinato a configurarsi come “governo del presidente”, sembra sempre pronto a fare le pulci alle proposte economiche dell’esecutivo Conte. Ecco quindi che nelle ultime ore, è tornato a definire irrealizzabili il reddito di cittadinanza, la Flat Tax e la riforma della Fornero. “Lo Speciale” ha chiesto un commento all’economista Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, influencer su Twitter e autrice di libri economici di successo. Quanto di vero o di sbagliato c’è nel pensiero di Cottarelli, già criticato da altri autorevoli economisti come Nino Galloni, Antonio Maria Rinaldi e Giulio Sapelli? «Quello di Cottarelli e di tutti gli economisti “allineati” al pensiero unico neoliberista, che trova nella Ue la sua compiuta realizzazione, è il solito approccio, come da contabile», sostiene Bifarini. «Si guardano unicamente i numeri di bilancio, senza nessuno sguardo sul futuro e sulla crescita del paese. L’unica preoccupazione è quella di rispettare i vincoli dettati da Bruxelles, ignorando che le loro ricette economiche fallimentari non fanno che peggiorare lo stato di salute di tutti i paesi nei quali vengono adottate».Sul reddito di cittadinanza però sono molti ad avanzare dubbi effettivi sulla sua fattibilità – anche economisti come Sapelli, per esempio, non pregiudizialmente ostili a questo governo. «Per valutare il costo del reddito di cittadinanza occorre tener conto di come verrà realizzato, quanto si riuscirà ad agganciarlo a investimenti pubblici produttivi. Mai come in questo momento – sostiene Ilaria Bifarini – ci rendiamo conto di quanto il nostro territorio abbia bisogno di manutenzione e nuove infrastrutture. Se lo Stato, anche attraverso lo strumento del reddito di cittadinanza, ben strutturato e collegato ai centri territoriali per l’impiego, riuscisse ad avviare un nuovo “New Deal”, offrendo opportunità di lavoro alla enorme schiera di giovani disoccupati nel recupero del territorio e nel rilancio del prezioso settore del turismo, i benefici sul medio e lungo periodo sarebbero senz’altro superiori ai costi». Di fatto, aggiunge l’economista, si innescherebbe un circolo virtuoso capace di riportare l’economia sul sentiero della crescita. Finché invece «si ragiona con la miopia dell’obbedienza ai parametri contabili dell’Ue», si rivela impossibile uscire dal tunnel, nel quale Cottarelli e gli altri sembrano voler imprigionare l’Italia in eterno.C’è chi vede all’orizzonte un autunno nero con l’assalto dei mercati e lo spread alle stelle? «Lo spread ha andamenti altalenanti che risentono di fattori contingenti, come la fine del quantitative easing e la crisi della Turchia e, ultimo, il giudizio delle agenzie di rating, che hanno provocato dei rialzi temporanei, che non sono comunque allarmanti», risponde Ilaria Bifarini, sempre nell’intervista rilasciata a “Lo Speciale”. «Ad ogni modo – aggiunge – essendo in un sistema a valuta unica in cui la politica monetaria non è prerogativa nazionale, finché il debito continua a salire, la minaccia (reale o presunta) dello spread continuerà a farsi sentire». Il problema, sottolinea Bifarini, è che – come provato dalla teoria e dall’evidenza in tutti i paesi in cui sono state applicate – le politiche di austerity provocano un aumento del debito stesso. «Un esempio plateale è quello della Grecia. Solo introducendo misure anticicliche capaci di stimolare la domanda e l’occupazione si può uscire da questa trappola». In altre parole: «Se vuole sopravvivere, l’Europa deve rivedere completamente le sue politiche di intervento, fornendo sostegno e garanzie a paesi che si trovino ad affrontare situazioni di crisi».Urge un New Deal europeo, appunto, che permetta di «abbandonare una volta per tutte la logica “fault the victim” di cui la Germania è portatrice». E a proposito della politica di Berlino, direttamente connessa all’impazzimento dello spread italiano proprio quando serviva a detronizzare Berlusconi per imporre il “commissario” Monti, Ilaria Bifarini dichiara: «La crisi dello spread del 2011 è stato un vero e proprio golpe finanziario messo in atto dalla Deutsche Bank e architettato per attuare un cambio di governo in Italia». Oggi, per fortuna, la situazione è molto diversa: «Credo che sia l’attuale governo che il suo elettorato abbiano più esperienza e consapevolezza degli strumenti utilizzati dagli eurocrati per preservare il sistema economico e finanziario». Come dire: l’Italia sembra aver finalmente sviluppato precisi anticorpi politici. «Sarà dunque improbabile che si possa replicare una situazione analoga, anche se i rischi di speculazioni sui mercati sono forti, come ha avvertito lo stesso Giorgetti».L’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli è tornato a farsi sentire. Dopo aver visto sfumare la possibilità di sedere a Palazzo Chigi a capo di quello che, in assenza di accordo fra Lega e M5S, sembrava destinato a configurarsi come “governo del presidente”, sembra sempre pronto a fare le pulci alle proposte economiche dell’esecutivo Conte. Ecco quindi che nelle ultime ore, è tornato a definire irrealizzabili il reddito di cittadinanza, la Flat Tax e la riforma della Fornero. “Lo Speciale” ha chiesto un commento all’economista Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, influencer su Twitter e autrice di libri economici di successo. Quanto di vero o di sbagliato c’è nel pensiero di Cottarelli, già criticato da altri autorevoli economisti come Nino Galloni, Antonio Maria Rinaldi e Giulio Sapelli? «Quello di Cottarelli e di tutti gli economisti “allineati” al pensiero unico neoliberista, che trova nella Ue la sua compiuta realizzazione, è il solito approccio, come da contabile», sostiene Bifarini. «Si guardano unicamente i numeri di bilancio, senza nessuno sguardo sul futuro e sulla crescita del paese. L’unica preoccupazione è quella di rispettare i vincoli dettati da Bruxelles, ignorando che le loro ricette economiche fallimentari non fanno che peggiorare lo stato di salute di tutti i paesi nei quali vengono adottate».
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“Progressisti” alle europee: Laura Boldrini, una garanzia
«Le prossime elezioni europee saranno una sfida tra due visioni del mondo. Che ne dite, se per sfidare la destra, i partiti progressisti rinunciassero ai propri simboli per dare vita a una lista unitaria nel segno dell’apertura e dell’innovazione?». Lei, Laura Boldrini, ha già pronto l’hashtag: #ListaUnitariaEuropea. A vederla così, l’ex presidente della Camera – politicamente defunta da tempo, e ora miracolosamente riportata in vita solo grazie al provvidenziale attivismo dell’Uomo Nero, cioè Matteo Salvini – fa venire in mente, ai progressisti (quelli veri, lontani anni luce dal Pd e dai suoi cespugli già appassiti) che in fondo è proprio vero, le prossime elezioni europee saranno realmente “una sfida tra due visioni del mondo”. E se sarà in campo anche lei, Laura Boldrini, per i progressisti sarà facilissimo scegliere: non certo tra “la destra” e “la sinistra”, categorie tragicamente archiviate dal pensiero unico della Seconda Repubblica, ma – appunto – tra oligarchia e democrazia, privatizzazioni e welfare, autoritarismo economico e diritti sociali, Disunione Europea e sovranità nazionale (non solo italiana, anche degli altri paesi europei che dovevano essere partner, e invece sono diventati spietati concorrenti grazie al feroce mercantilismo dell’establishment, che si rifugia sempre – per coprire i propri misfatti – nel cosmetico “politically correct” di cui è campionessa la signora Boldrini).Per un progressista italiano – un sincero democratico – avere di fronte Laura Boldrini alle prossime elezioni europee sarebbe magnifico: un perfetto replay del funesto referendum costato la vita, politicamente, a Matteo Renzi, altro campione (scorrettissimo) del “politicamente corretto”. Che ghiotta occasione, per milioni di elettori: se molti di loro non saranno ancora pienamente convinti dall’ibrida alleanza gialloverde, a chiarir loro le idee provvederebbe all’istante Laura Boldrini, icona perfetta di tutto quello che in Italia ha smesso di funzionare – ma nel modo più subdolo, cioè evitando di farlo sapere agli italiani. L’erosione dei diritti del lavoro, la flessibilità del precariato, i tagli sanguinosi al welfare e alle pensioni, i ticket della sanità privatizzata. E in generale, tutto il paese regalato – a fette, a trance, a tonnellate – a imprenditori affamati di profitto, a capitali franco-tedeschi, a consorterie paramassoniche di origine atlantica che poi magari evitano di spendere soldi nella manutenzione dei beni ottenuti in omaggio, fino al punto da lasciar crollare – con morti e feriti – anche i viadotti autostradali. Chi c’era, a Palazzo Chigi, mentre tutto questo accadeva? Romano Prodi, Massimo D’Alema, Giuliano Amato. Un’ombra di autocritica, dal centrosinistra? Non pervenuta. In compenso, riecco Laura Boldrini.Resuscita, la Boldrini – e con lei Martina e i gregari del Pd e dintorni, comparse di cui si stenta a ricordare i nomi – solo grazie al furore mediatico che si abbatte su Salvini, il quale insiste nel bloccare gli sbarchi dei migranti per mettere in difficoltà gli strozzini europei dell’Italia, per niente sicuro che il suo governo gialloverde riesca, in autunno, a disobbedire all’eterno diktat di Bruxelles riuscendo a finanziare almeno in parte la riduzione delle tasse, la riforma della legge Fornero, l’istituzione dello sbandierato reddito di cittadinanza. Tutte cose che suonano estremamente democratiche, persino “di sinistra” per usare l’obsoleto lessico boldriniano, visto che si tratterebbe che lasciare più soldi in tasca agli italiani. Ma appunto, non se ne parla: deve morire (sotto l’accusa di xenofobia) il primo governo che lavora per gli italiani, non a caso temuto e detestato dai poteri che tifano per Laura Boldrini e contro il popolo italiano. Che dire, ad esempio, del campione dei diritti umani Emmanuel Macron, devoto amico di Papa Bergoglio? E che dire del venerabile Günther Oettinger, secondo cui saranno “i mercati” a insegnare agli italiani come votare? A proposito: è stato proprio Oettinger a proporre a Strasburgo il disegno di legge che avrebbe imbavagliato il web, pochi mesi dopo la martellante campagna finanziata dalla stessa Boldrini contro le “fake news” della Rete. Che ticket formidabile, Boldrini-Oettinger: un invito a nozze, per gli elettori progressisti impegnati a scegliere, nella primavera 2019, tra “due visioni del mondo”.Così come oggi Laura Boldrini non esisterebbe neppure più, senza Matteo Salvini, è una vera fortuna che l’ex presidente della Camera sia ancora in campo, in vista delle prossime europee: la sua candidatura avrà il potere, prodigioso, di motivare gli incerti. Tutto diventerà lampante: gli elettori avranno un’occasione d’oro per bocciare sonoramente, una volta per tutte, partiti e politicanti sedicenti progressisti, che hanno letteralmente assassinato ogni residua istanza progressista in Italia, ogni barlume di residuale democrazia. Sono gli infidi maggiordomi del rigore, i sacerdoti dell’austerity, i cavalieri del Fiscal Compact. Sono i farisaici notai del pareggio di bilancio inflitto all’Italia come una micidiale piaga biblica, da cui il paese non si è ancora ripreso – né potrà farlo, come noto, senza una robusta, radicale, rivoluzionaria sterzata. Una mareggiata, a livello europeo, con centinaia di milioni di elettori disposti a inviare a Bruxelles l’ultimo avvertimento: o si straccia il Trattato di Maastricht, che affida ai banchieri della Bce il governo del continente, o l’Europa salta per aria. Servirà un plebiscito, come quello che mandò a casa Renzi. E quindi servirà – più che mai – Laura Boldrini, a ricordare agli italiani come votare, per mandare finalmente a casa tutti gli Oettinger, i ladri, i bari e i professori del “politically correct” che ancora fanno la morale all’Italia, dopo averla razziata e affondata per conto dei soliti, potenti padroni stranieri.«Le prossime elezioni europee saranno una sfida tra due visioni del mondo. Che ne dite, se per sfidare la destra, i partiti progressisti rinunciassero ai propri simboli per dare vita a una lista unitaria nel segno dell’apertura e dell’innovazione?». Lei, Laura Boldrini, ha già pronto l’hashtag: #ListaUnitariaEuropea. A vederla così, l’ex presidente della Camera – politicamente defunta da tempo, e ora miracolosamente riportata in vita solo grazie al provvidenziale attivismo dell’Uomo Nero, cioè Matteo Salvini – fa venire in mente, ai progressisti (quelli veri, lontani anni luce dal Pd e dai suoi cespugli già appassiti) che in fondo è proprio vero, le prossime elezioni europee saranno realmente “una sfida tra due visioni del mondo”. E se sarà in campo anche lei, Laura Boldrini, per i progressisti sarà facilissimo scegliere: non certo tra “la destra” e “la sinistra”, categorie tragicamente archiviate dal pensiero unico della Seconda Repubblica, ma – appunto – tra oligarchia e democrazia, privatizzazioni e welfare, autoritarismo economico e diritti sociali, Disunione Europea e sovranità nazionale (non solo italiana, anche degli altri paesi europei che dovevano essere partner, e invece sono diventati spietati concorrenti grazie al feroce mercantilismo dell’establishment, che si rifugia sempre – per coprire i propri misfatti – nel cosmetico “politically correct” di cui è campionessa la signora Boldrini).
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Gentiloni “gonfia” lo spread per mentire sul governo Conte
Il Partito Democratico perde la fiducia degli elettori – per l’esattezza due milioni e mezzo di voti in meno in cinque anni – ma si vanta pur sempre di avere quella dei mercati. Il concetto è semplice, quasi banale. La teoria dei dirigenti Dem è semplice, anzi semplicistica. Il programma del nuovo governo, unito al suo supposto dilettantismo, non convince e non convincerà gli investitori, che vendono e venderanno i nostri titoli di Stato. Il loro prezzo scenderà, e il rendimento – dato dal rapporto fra cedola e prezzo – salirà. Esploderà quindi il costo del debito, cui dovremo far fronte aumentando le imposte o diminuendo la spesa per i servizi. Saranno i mercati a punire gli elettori, che così impareranno a punire la forza tranquilla del Nazzareno. E’ il mercato, bellezza. Gli anni passano ma il copione resta bene o male lo stesso. Ieri la magistratura, oggi i mercati. La sinistra che perde sul campo trova sempre la sua rivincita negli spogliatoi. Un modo di ragionare molto poco democratico. Un paese dovrebbe infatti essere sempre libero di adottare le politiche economiche dei partiti scelti dagli elettori. Nel nostro caso, dalla maggioranza assoluta degli elettori; cosa che non accadeva dal 1987. Proposte che potranno pure non piacere. E al Nazzareno senz’altro non sono gradite. Ma questa è la democrazia.Saranno pur sempre gli elettori a giudicare i risultati ottenuti, confermando o meno il governo in carica alle prossime consultazioni. Ma stabilire in anticipo che una data politica economica non possa essere attuata perché non piace a qualcuno che potrebbe a sua volta punirci con lo spauracchio dello spread, se permettete, anche no! Anche perché la legge dei mercati non è fenomeno di natura, come l’eruzione di un vulcano o un terremoto contro cui nulla possiamo. Ma è la semplice e deliberata conseguenza di una stortura tipica solo dell’Eurozona. Prendiamo ad esempio il Giappone, con un rapporto debito/Pil pari al 250%. Quanto paga sui propri titoli di Stato a 10 anni? Praticamente lo 0%. Oppure il Regno Unito, reduce da un combattutissimo referendum sulla sua permanenza Ue cui sono seguiti negoziati internazionali e scontri politici interni altrettanto aspri. Quanto paga Londra sui propri Gilt a a 10 anni? La metà esatta dei nostri Btp. Il debito enorme da una parte e le tensioni politiche dall’altra – incubi persistenti agitati dal pensiero politico dominante di casa nostra – non sembrano scalfire la preoccupazione dei creditori di Tokyo e Londra. La spiegazione è elementare. Giappone e Regno Unito possiedono una “loro” banca centrale che emette e quindi controlla una “loro” moneta e che, più o meno di concerto con i rispettivi esecutivi, decide quanta parte del “loro” debito acquistare e a quale tasso.L’emissione di titoli di Stato, nei paesi monetariamente sovrani, non serve tanto a reperire le risorse necessarie a finanziare la spesa o rifinanziare il debito in scadenza, ma a determinare soprattutto il livello dei tassi di interesse cui si adatteranno gli altri segmenti del mercato dei capitali. Un’operazione di politica monetaria più che fiscale, diversamente da quanto invece accade in Eurozona dove i governi sono monetariamente castrati e quindi costretti a racimolare sui mercati ogni singolo centesimo loro necessario, al pari ed anzi in concorrenza con imprese, banche e famiglie. Sarebbe sufficiente che la Bce dichiarasse (notate bene non ho scritto “facesse” ma “dichiarasse”) che, per un efficace funzionamento dei canali di trasmissione della propria politica monetaria, non è più disposta a tollerare differenziali di rendimento superiori allo 0,5% fra i vari debiti dell’Eurozona, che immediatamente quegli investitori che oggi puniscono l’Italia correrebbero ad acquistare a mani basse anche i nostri Btp facendo salire i prezzi e abbassando il costo del nostro debito, così facendo un ottimo affare e portando il differenziale dei rendimenti a quanto prefissato da Francoforte; nella consapevolezza che una banca centrale, se solo lo volesse, avrebbe mezzi illimitati per arrivare a quel risultato, potendo essa stessa emettere tutta la moneta che desidera.E invece no, così non è; dobbiamo sorbirci l’ex premier Gentiloni che a distanza di poco più di venti giorni – dalle colonne prima de “La Stampa” e poi de “La Repubblica” – ci rampogna con la stessa identica profezia: «In due mesi lo spread è salito di oltre 100 punti. Solo questo ci costa oltre 5 miliardi». Ma sarà vero? E’ sufficiente consultare il bollettino trimestrale del ministero di Via XX Settembre per scoprire, ad esempio, che nei due mesi appena trascorsi sono stati emessi qualcosa come 34 miliardi di Btp. Un aggravio dei rendimenti pari all’1% si traduce in un costo aggiuntivo per le nostre tasche di 341 milioni. Mentre nei prossimi 12 mesi il governo emetterà circa 140 miliardi di Btp ed in caso di aumento del costo di finanziamento pari all’1% (ricordiamolo ancora, per una scelta deliberata della Bce) i maggiori interessi ammonterebbero ad 1,4 miliardi e non 5. Circa il 70% in meno della fosca previsione del nostro ex premier. Insomma se proprio volete appendervi allo spread, almeno fatelo coi numeri giusti.(Fabrio Dragoni, “La balla miliardaria di Gentiloni sullo spread”, da “Scenari Economici” del 1° agosto 2018).Il Partito Democratico perde la fiducia degli elettori – per l’esattezza due milioni e mezzo di voti in meno in cinque anni – ma si vanta pur sempre di avere quella dei mercati. Il concetto è semplice, quasi banale. La teoria dei dirigenti Dem è semplice, anzi semplicistica. Il programma del nuovo governo, unito al suo supposto dilettantismo, non convince e non convincerà gli investitori, che vendono e venderanno i nostri titoli di Stato. Il loro prezzo scenderà, e il rendimento – dato dal rapporto fra cedola e prezzo – salirà. Esploderà quindi il costo del debito, cui dovremo far fronte aumentando le imposte o diminuendo la spesa per i servizi. Saranno i mercati a punire gli elettori, che così impareranno a punire la forza tranquilla del Nazzareno. E’ il mercato, bellezza. Gli anni passano ma il copione resta bene o male lo stesso. Ieri la magistratura, oggi i mercati. La sinistra che perde sul campo trova sempre la sua rivincita negli spogliatoi. Un modo di ragionare molto poco democratico. Un paese dovrebbe infatti essere sempre libero di adottare le politiche economiche dei partiti scelti dagli elettori. Nel nostro caso, dalla maggioranza assoluta degli elettori; cosa che non accadeva dal 1987. Proposte che potranno pure non piacere. E al Nazzareno senz’altro non sono gradite. Ma questa è la democrazia.
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Contro Marcello Foa in Rai, il complotto dei morti viventi
Nella desolante bocciatura di Marcello Foa, da parte del comitato parlamentare che dovrebbe vigilare sulla lottizzatissima televisione di Stato, si legge in controluce la bancarotta politica e intellettuale di un establishment disperato. A infliggere gli ultimi colpi di coda sono i rottami della Seconda Repubblica neoliberista, finto-liberale e finto-progressista, ridotti a fischiare e demonizzare qualsiasi iniziativa del governo gialloverde, la cui vera e unica colpa è quella di esistere, per volere dei maledetti elettori che hanno osato rovesciare milioni di voti sui 5 Stelle sulla Lega. Neutralizzata dall’ennesima legge elettorale fatta apposta per rifilare al paese il solito inciucio maleodorante, la democrazia è riuscita comunque a infiltrarsi in Parlamento, mettendo in piedi – contro tutti i poteri forti – un esecutivo problematico e squilibrato, pieno di incognite e di falle, ma quantomeno distante mille miglia dalla politica senza speranza e senza verità che aveva stremato l’Italia negli ultimi 25 anni, sotto il dominio del “pensiero unico” dell’austerity interpretato dal falso centrodestra in combutta con l’altrettanto falso centrosinistra. Due pugili suonati, travolti dai rispettivi fallimenti, ma ancora capaci di far male all’Italia, privando il paese della possibilità – storica – di disporre di un presidente Rai antropologicamente diversissimo dai precedessori. Un giornalista di razza: onesto, coraggioso, pulito.Per contro, il “complotto dei sorci” rende ancora più palese la disperazione degli ex partiti caduti in rovina, specchio perfetto – e piuttosto vomitevole – dei grandi poteri che li hanno utilizzati per decenni, allo scopo di ridurre in cenere la sovranità italiana e svendere il patrimonio nazionale, fino a precipitare il paese in una crisi presentata come fisiologica e incurabile. Sono ancora a piede libero, e armati fino ai denti, i killer politici dell’Italia che fu: possono infatti contare sul plumbeo mainstream cartaceo e radiotelevisivo, lesto nel trasformare in una specie di pazzo visionario un reporter come Foa, allievo di Montanelli, distintosi – nella sua lunga carriera – per equilibrio, indipendenza politica e capacità di fornire opinioni illuminanti e giudizi altamente critici sullo stato delle cose, a cominciare dal giornalismo declassato a far west dove ormai gli “stregoni della notizia” fabbricano quotidianamente le “fake news” suggerite dai governi. Era decisamente troppo, Marcello Foa – troppo abile, troppo trasparente – per essere tollerato dagli omuncoli del Pd e dai loro compari, i residuati bellici ancora al servizio del nonno di Arcore. C’è anche un che di lugubre, nella congiura dei ratti livorosi, pieni di furore per i successi di Salvini: hanno bocciato Foa, ma non hanno niente di meglio da proporre agli italiani. Sanno di non essere nient’altro che cadaveri politici.Tutti i sondaggi attribuiscono ai gialloverdi un consenso che supera il 60%, senza contare gli elettori di Fratelli d’Italia e quel 27% di italiani che il 4 marzo ha scelto di non votare, nauseato dalle performance dei renziani e dei loro colleghi berlusconiani. In modo sbilenco e “gridato”, tra proclami e slogan che sarà difficile trasformare in provvedimenti legislativi, il nuovo governo è comunque assistito dalla sostanziale indulgenza di un paese che non riesce più a digerire gli zombie che ancora infestano, ventiquattr’ore al giorno, i salotti televisivi. E’ in atto un scontro epocale, socio-culturale prima ancora che politico: il sentimento di rivolta generalizzata, per comodità chiamato populismo, segnala che la narrazione dei leghisti e dei pentastellati ha comunque colto nel segno, visto che risponde a un preciso stato d’animo largamente condiviso. Non sarà più possibile truccare completamente la politica, al punto da spacciare per “riforme” endogene la traduzione sistematica dei diktat dell’oligarchia finanziaria euro-pilotata. I morti viventi ancora in circolazione possono, appunto, sabotare l’elezione di Marcello Foa alla presidenza della Rai. Ma la storia è contro di loro. Si è innescata una sorta di rivoluzione culturale: e più la crisi continua a mordere, meno comprensione ci sarà chi ha osato cestinare un gentleman come Marcello Foa, vero e proprio alieno in questa Italia di roditori in via di estinzione.Nella desolante bocciatura di Marcello Foa, da parte del comitato parlamentare che dovrebbe vigilare sulla lottizzatissima televisione di Stato, si legge in controluce la bancarotta politica e intellettuale di un establishment disperato. A infliggere gli ultimi colpi di coda sono i rottami della Seconda Repubblica neoliberista, finto-liberale e finto-progressista, ridotti a fischiare e demonizzare qualsiasi iniziativa del governo gialloverde, la cui vera e unica colpa è quella di esistere, per volere dei maledetti elettori che hanno osato rovesciare milioni di voti sui 5 Stelle sulla Lega. Neutralizzata dall’ennesima legge elettorale fatta apposta per rifilare al paese il solito inciucio maleodorante, la democrazia è riuscita comunque a infiltrarsi in Parlamento, mettendo in piedi – contro tutti i poteri forti – un esecutivo problematico e squilibrato, pieno di incognite e di falle, ma quantomeno distante mille miglia dalla politica senza speranza e senza verità che aveva stremato l’Italia negli ultimi 25 anni, sotto il dominio del “pensiero unico” dell’austerity interpretato dal falso centrodestra in combutta con l’altrettanto falso centrosinistra. Due pugili suonati, travolti dai rispettivi fallimenti, ma ancora capaci di far male all’Italia, privando il paese della possibilità – storica – di disporre di un presidente Rai antropologicamente diversissimo dai precedessori. Un giornalista di razza: onesto, coraggioso, pulito.
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Foa su Wikipedia: come distruggere un giornalista scomodo
È così che si distrugge la reputazione di un giornalista scomodo: il 28 luglio alle 16:37 (cioè soltanto sabato, “casualmente” nel pieno della discussione per la sua nomina alla presidenza Rai!) è stata modificata la pagina Wikipedia di Marcello Foa, aggiungendo la sezione “Controversie” (prima inesistente, basta controllare la cronologia che riporto qui sotto) in cui viene denigrato come un “complottista” per aver sostenuto l’esistenza di “false flag” e per aver parlato della teoria gender (che viene liquidata come una “teoria del complotto nata nell’ambito ecclesiastico negli anni ’90”). Ho la fortuna di conoscere personalmente Foa da qualche anno. Ci siamo incontrati a una riunione per il Wac (Web Activists Community) a Roma nello studio di Giulietto Chiesa quando scesi in rappresentanza della Uno Editori per discutere del progetto. Ovviamente lo conoscevo già di fama, lo avevo spesso citato nelle mie opere, a partire dal mio libro-inchiesta su Renzi. Lo avevo sentito telefonicamente ma non lo avevo mai incontrato di persona. Mi sono trovata davanti un uomo gentilissimo, tanto umile quando disponibile, dotato di carisma e di ironia (dote rara), mentalmente elastico e al contempo metodico. Da quel momento ho potuto soltanto rafforzare la stima che ho di lui.
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Il Pd è finito perché ha scelto la finanza archiviando Keynes
L’ultima assemblea nazionale del Pd consegna alla storia della sinistra italiana una fotografia drammatica e al tempo stesso quasi patetica, dopo il ko del 4 marzo e poi quello delle amministrative. Quello che addirittura lascia esterrefatti, scrive Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, è che il partito è privo di qualsiasi strategia: ci si trova di fronte all’ennesimo ed effimero rinvio del nulla, del vuoto pneumatico. C’è il fantasma di Renzi, il Re degli Sconfitti, che arriva a contestare tutti, da Gentiloni a Martina, preoccupato solo di galleggiare ancora tra le macerie di un partito dal quale non si salva nessuno. Da Rold segnala la retromarcia di Bersani, che definisce «uomo di sinistra, magari anche di modeste ma oneste visioni politiche», che ha invitato i dirigenti Pd a fare un passo indietro per tornare ad ascoltare la società italiana. E poi c’è il lamento del leghista Giancarlo Giorgetti, navigato sottosegretario alla presidenza del Consiglio: è preoccupato, Giorgetti, che il governo gialloverde non abbia una vera opposizione, cosa che rende ancora più desolante la già fragile democrazia italiana. Velo pietoso sugli scenari da “fronte antipopulista” evocando Macron, cioè il politico francese che odia l’Italia. La realtà della sinistra italiana sarebbe lampante, dice Da Rold, se solo il Pd si decidesse a vederla: il centrosinistra è tale solo di nome, perché di fatto ha svolto una politica neoliberista, tipica della destra antisociale.Tra i tanti peccati che ha da scontare, scrive Da Rold, l’ex sinistra italiana «deve fare i conti con l’accettazione quasi acritica del “pensiero unico” neoliberista, scambiato per modernità». Nei dettagli, deve scontare il via libera alla nuova funzione della banca dopo l’abbandono del Glass-Steagall Act voluto da Roosevelt per separare nettamente il credito produttivo dalla finanza speculativa. L’ex sinistra, aggiunge l’analista, «non può dimenticarsi della concezione di un capitalismo basato su un’impresa responsabile, che cura innovazione, investimenti e occupazione». Tantomeno la sinistra poi dimenticarsi «del welfare, dei diritti dei lavoratori conquistati in anni di lotte sindacali», all’epoca in cui si puntava alla piena occupazione. «Il capitalismo che ha conosciuto e con cui si è confrontata la sinistra europea, dopo l’ultimo conflitto mondiale, era il capitalismo già corretto da Keynes, dal welfare di Lord Beveridge, dalla lezione della grande crisi del 1929 risolta da Roosevelt», scrive Da Rold. «E’ vero che la sinistra italiana, unica in Occidente, straparlava di Lenin più ancora che di Marx e conosceva poco Keynes. Ma nella sostanza, il boom e il benessere vennero proprio dalle dottrine e dalle pratiche keynesiane».Quello che è avvenuto negli ultimi anni era impensabile solo trent’anni fa, aggiunge Da Rold sul “Sussidiario”. «Mentre la sinistra socialdemocratica europea si ingolfava in sperimentazioni di sempre maggiore apertura neoliberista, la sinistra italiana abbandonava addirittura di colpo il marxismo post-classico per abbracciare il neoliberismo in versione monetarista. Un delirio». E non capiva, il centrosinistra, che «anche se Keynes avrebbe potuto essere superato e aggiornato, era lui il vero bersaglio della nuova destra rampante, non Lenin o Marx». Parole al vento: il risultato sono state «privatizzazioni forzate e, in molti casi, demenziali». Tutto questo, senza contare «le tappe forzate della globalizzazione, la crisi del 2007, l’assetto istituzionale italiano che non è mai stato aggiornato, con le procure interventiste nel campo politico che si muovono come feudi indipendenti e spesso in aperta opposizione all’esecutivo». Che cosa ha fatto, di fronte a tutto questo, la sedicente sinistra? «E’ stata a guardare, passivamente, godendo di una rendita di egemonia spesso usurpata».Poi, nel momento in cui questa egemonia si è frantumata, «la sinistra non si è neppure scomposta a ricercare le cause di una crisi storica, a rivedere e correggere alcune concezioni, a cercare di comprendere le nuove ragioni di un potenziale e molto ampio popolo di sinistra, che si è moltiplicato per l’aumento delle povertà, delle diseguaglianze sociali e della disoccupazione». La sedicente sinistra italiana «si è fermata a crogiolarsi nella subordinazione al potere dettata dalla grande finanza internazionale e da alcuni poteri istituzionali del paese», accusa Da Rold. Lo spettacolo dell’ultima assemblea Pd? Penoso. «E’ proprio impossibile che si possa avviare, anche con ritardo, una autocritica collettiva, non distruttiva, affrontando i nuovi problemi sociali, nazionali e internazionali? Si è ancora in grado di fare un congresso a tesi, come si è sempre fatto?». Se non si ripensa al passato, non si guarda al presente e non si pensa il futuro – conclude Da Rold – si è destinati a restare al palo. «E’ questa l’impressione che oggi comunica il Partito Democratico. E sembra che resti poco tempo per rimediare».L’ultima assemblea nazionale del Pd consegna alla storia della sinistra italiana una fotografia drammatica e al tempo stesso quasi patetica, dopo il ko del 4 marzo e poi quello delle amministrative. Quello che addirittura lascia esterrefatti, scrive Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, è che il partito è privo di qualsiasi strategia: ci si trova di fronte all’ennesimo ed effimero rinvio del nulla, del vuoto pneumatico. C’è il fantasma di Renzi, il Re degli Sconfitti, che arriva a contestare tutti, da Gentiloni a Martina, preoccupato solo di galleggiare ancora tra le macerie di un partito dal quale non si salva nessuno. Da Rold segnala la retromarcia di Bersani, che definisce «uomo di sinistra, magari anche di modeste ma oneste visioni politiche», che ha invitato i dirigenti Pd a fare un passo indietro per tornare ad ascoltare la società italiana. E poi c’è il lamento del leghista Giancarlo Giorgetti, navigato sottosegretario alla presidenza del Consiglio: è preoccupato, Giorgetti, che il governo gialloverde non abbia una vera opposizione, cosa che rende ancora più desolante la già fragile democrazia italiana. Velo pietoso sugli scenari da “fronte antipopulista” evocando Macron, cioè il politico francese che odia l’Italia. La realtà della sinistra italiana sarebbe lampante, dice Da Rold, se solo il Pd si decidesse a vederla: il centrosinistra è tale solo di nome, perché di fatto ha svolto una politica neoliberista, tipica della destra antisociale.