Archivio del Tag ‘pluralismo’
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Bergoglio, il tempo stringe: per lui o per la Chiesa di potere?
Il tempo stringe: non solo per il Papa, ma anche e soprattutto per la Chiesa, ingombra di strutture di potere finanziario e ancora dominata da una nomenklatura che vive nel lusso. Annunciando l’anno giubilare straordinario, Bergoglio ha detto di ritenere che il suo sarà un “pontificato breve”. «L’interpretazione più ovvia è che abbia in mente delle dimissioni dopo un certo periodo», premette Aldo Giannuli. «Certo, non l’automatismo degli 80 anni che porta fuori del conclave i cardinali, ma forse dimissioni entro un termine non prestabilito, ma non lontano, quando sentirà che le forze non lo assistono più». Alle soglie degli ottant’anni, il Papa argentino “sente” che il suo pontificato «non abbia probabilità di essere lungo come quello di Pio XII, o lunghissimo come quello di Giovanni Paolo II». Ma parlare di un pontificato breve, aggiunge Giannuli, fa pensare a qualcosa che durerà altri tre o quattro anni, come per Giovanni XXIII che fu Papa per 5 anni. «E allora: decisione di dimettersi? Modo per dire di aver scoperto una grave malattia?». Eppure, «c’è un’altra interpretazione possibile», e cioè «un messaggio ai suoi oppositori, sempre più numerosi nella Curia e fuori».Questo, scrive Giannuli nel suo blog, il succo del possibile messaggio di Bergoglio: «La riforma della Chiesa procederà a spron battuto, perché il Papa non ritiene (a torto o a ragione) di avere molto tempo davanti a sé». Forse, aggiunge lo storico dell’università di Milano, «la suggestione del parallelo con Giovanni XXIII porta a pensare al preannuncio di un Concilio». Tutte cose possibili, ma l’unica certa è «lo scontro in Vaticano e nella Chiesa», un conflitto «sempre più acuto e aperto», di cui si capisce il perché: «Quella di Bergoglio non è una semplice riforma della Curia o del sistema di governo della Chiesa, ma una profonda mutazione dello stesso ruolo di essa». Dal primo Medioevo sin qui, ricorda Giannuli, la Chiesa si è proposta come maestra di verità di fede e di morale. «Questo perché il “sapere socialmente necessario”, in una formazione economico-sociale a dominante religiosa quale era quella europea dal V secolo in poi, era appunto il sapere di fede e di morale, per guadagnarsi il premio della vita eterna». Infatti, «tutta la vita del fedele era orientata a questo fine e guidata dalla Chiesa, e tutta la vita quotidiana era profondamente permeata dai riti, dalle devozioni, dalle preghiere, dalle ricorrenze religiose».La produzione di sapere teologico, continua Giannuli, rispondeva in primo luogo all’esigenza di giustificare il ruolo del clero e della sua gerarchia, cui spettava in esclusiva il compito di leggere le Scritture e interpretarle. «E il magistero morale fu una forza pervasiva di controllo sociale, diventata tanto più cogente, dopo l’XI secolo, con l’istituzione della confessione auricolare». E’ ovvio che, in un simile contesto, era primario il potere della Chiesa di stabilire cosa fosse vero e cosa no, nella fede, e di stabilire i precetti morali. Un potere superiore, «a mala pena contrappesato (e non sempre con efficacia) da quello secolare», tant’è vero che «il trono era spesso in conflitto con l’altare», eppure «l’insediamento del nuovo sovrano avveniva con una cerimonia religiosa nella quale era una autorità ecclesiale ad incoronare il re». Secondo il monaco e filosofo francese Roscellino da Compiegne, vissuto nel primo secolo dopo l’anno Mille, l’unzione regale era addirittura l’ottavo sacramento. Poi, attraverso i secoli, le cose sono cambiate: «Il sapere socialmente necessario – continua Giannuli – divenne quello del sapere secolare umanistico e scientifico». Nel frattempo «si affermava il pluralismo religioso e, con esso, anche il sorgere di codici morali diversi».Parallelamente, «il potere politico si affrancava definitivamente da quello religioso», e le istituzioni sanitarie e scolastiche divennero progressivamente laiche. «Già nel XIX secolo, nella maggior parte dei paesi europei, la “presa” ecclesiale sulla società era ridotta a fatto residuale, per diventare del tutto marginale nel secolo successivo», prosegue Giannuli. «La Chiesa, nonostante tutto, ha proseguito nel suo ruolo di “mater et magistra”, senza curarsi del crescente disinteresse dei suoi stessi fedeli». Oggi non è più certo che la maggioranza dei cattolici conosca i principali dogmi (da quello trinitario al culto mariano, fino a quello della natura umana e divina di Cristo), «se non per averli orecchiati durante l’infanzia o l’adolescenza». La pratica dei sacramenti ormai «riguarda una parte del tutto minoritaria dei fedeli, soprattutto la pratica della confessione», mentre la stessa partecipazione alla messa domenicale, almeno in Europa, «riguarda molto meno di un quinto dei fedeli». Quanto alla morale, «la grande maggioranza dei cattolici si comporta esattamente come tutti gli altri, in particolare per quel che attiene alla morale sessuale e matrimoniale».Benedetto XVI, ricorda Giannuli, coltivò il disegno della “ri-evangelizzazione d’Europa” ma, a quanto pare senza il minimo risultato. «Per di più, la Chiesa ha perso molta della sua credibilità per i troppi scandali sessuali e finanziari, per l’inaudito e ingiustificabile lusso della Curia, per l’opportunistico silenzio di fronte a clamorose ingiustizie», sottolinea Giannuli. «Su questa strada, il futuro più probabile della Chiesa è quello di una setta povera di credenti ma ricchissima di denaro e potere, destinata comunque a scomparire». Ecco allora perché Francesco «sta cercando un destino diverso per la sua Chiesa, accettando anche un secco ridimensionamento del suo potere finanziario e del suo apparato». Come si è capito, Bergoglio non ha nessun particolare interesse per la teologia dogmatica. Quanto alla morale, «ha accettato implicitamente che i fedeli si regolino individualmente in un personale dialogo con Dio: “Chi sono io per giudicare un gay che cerca Dio?”».Il nuovo Papa «apre su temi come la comunione ai divorziati», e lo stesso giubileo «è indetto all’insegna del perdono e dell’accoglienza in Chiesa anche dei gay, dei divorziati e di ogni altro peccatore». Papa Francesco, spiega Giannuli, centra la sua attenzione sulla funzione pastorale della Chiesa, riprendendo il tema centrale del Concilio Vaticano II, il cui cinquantenario celebra con questo giubileo. «Ridimensionando la funzione di ministero teologico e morale, Bergoglio ripropone la Chiesa come portatrice di una particolare visione antropologica», quindi «non i dogmi stratificati in duemila anni, ma l’antropologia cristiana». Un discorso squisitamente religioso, di interesse per i fedeli ma anche per i laici, attenti all’evoluzione della principale confessione organizzata del pianeta: «Bergoglio lancia la Chiesa come principale agenzia di mediazione culturale nel mondo globalizzato». Riprenderà il tema dell’inculturazione, cardine del Vaticano II?«Questo mutamento di funzione non è indolore per la Chiesa e impone una svolta organizzativa che va verso una autonomizzazione delle Chiese locali, che hanno un loro punto di riferimento unitario nel Papa ma senza più la necessaria mediazione della Curia», che Bergoglio ha definito «l’ultima corte europea». In una struttura di questo tipo, completamente ridisegnata, «il Papa esercita un ruolo soprattutto carismatico, che non ha bisogno di un apparato elitario come la Curia». E’ comprensibile, scrive Giannuli, che i diretti interessati non siano così disposti a rinunciare al loro ruolo e ai connessi privilegi. «E si capisce anche come mai lo scontro verta soprattutto sullo Ior, che è la garanzia della sopravvivenza economica del sistema». Francesco, forse, «ha mandato a dire che i tempi sono brevi». E non solo «quelli del suo pontificato». Senza una rivoluzione “francescana”, ad avere i giorni contati è la Chiesa stessa, a cominciare dai suoi ricchissimi burocrati.Il tempo stringe: non solo per il Papa, ma anche e soprattutto per la Chiesa, ingombra di strutture di potere finanziario e ancora dominata da una nomenklatura che vive nel lusso. Annunciando l’anno giubilare straordinario, Bergoglio ha detto di ritenere che il suo sarà un “pontificato breve”. «L’interpretazione più ovvia è che abbia in mente delle dimissioni dopo un certo periodo», premette Aldo Giannuli. «Certo, non l’automatismo degli 80 anni che porta fuori del conclave i cardinali, ma forse dimissioni entro un termine non prestabilito, ma non lontano, quando sentirà che le forze non lo assistono più». Alle soglie degli ottant’anni, il Papa argentino “sente” che il suo pontificato «non abbia probabilità di essere lungo come quello di Pio XII, o lunghissimo come quello di Giovanni Paolo II». Ma parlare di un pontificato breve, aggiunge Giannuli, fa pensare a qualcosa che durerà altri tre o quattro anni, come per Giovanni XXIII che fu Papa per 5 anni. «E allora: decisione di dimettersi? Modo per dire di aver scoperto una grave malattia?». Eppure, «c’è un’altra interpretazione possibile», e cioè «un messaggio ai suoi oppositori, sempre più numerosi nella Curia e fuori».
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Estorsioni e bugie, perché la Germania non cambia mai
Spezzare le reni alla Grecia per mettere in chiaro le cose: chi comanda non avrà pietà di nessuno. Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Si chiama: capitalismo tedesco. Mordeva l’Europa già prima di Hitler, è deflagrato nella Seconda Guerra Mondiale e ora ha ripreso a correre, col Quarto Reich dei poteri forti che manovrano la loro figurina politica, Angela Merkel. I regimi cambiano, ma le linee geopolitiche di fondo restano le stesse: «La tracotanza delle classi dominanti tedesche al tavolo negoziale di Bruxelles sulla questione greca non si spiega solo ricorrendo alle origini luterane della loro cultura», sostiene Moreno Pasquinelli. «Si può comprendere piuttosto alla luce delle costanti della politica di potenza tedesca». Sono evidenti le medesime tendenze espansionistiche, attraverso i secoli:da Federico II il Grande alla cancelliera Merkel, passando prima per Bismarck e poi per Hitler. «Com’è ovvio nessun regime confessa i suoi appetiti, tanto più se sono imperialistici». La verità, quindi, esplode solo con la guerra: allora, «ciò che è latente si disvela e viene alla luce». E riecco dunque la vecchia Germania, col suo pericoloso suprematismo mercantilista: sottomettere economie per conquistare mercati.Da Bismarck in poi, «l’espansionismo militare germanico ha sempre fatto seguito a una strategia economica mercantilistica». Oggi l’ordine dei fattori sembra invertito, ma il risultato (disastroso per l’Europa) è lo stesso, scrive Pasquinelli su “Sollevazione”. Attenzione: se una potenza imperialistica viene contrastata e i suoi mercati di sbocco tendono a sfuggirle, prima o poi sviluppa la sua potenza bellica. «La posizione punitiva e oltranzista di Berlino verso la Grecia non dev’essere fraintesa», perché – oggi come ieri – non è certo il Mediterraneo «il boccone succulento che brama davvero l’imperialismo tedesco», ma «le praterie euroasiatiche, Russia in primis – e di cui Polonia, baltici e Ucraina sono solo dei ponti». Per lanciarsi ad Est, proprio come il Terzo Reich ieri, anche oggi «Berlino non avere nemici né ad Ovest né a Sud». Infatti, prima di marciare su Mosca, «Hitler dovette coprirsi le spalle ad Occidente, e lo fece – non senza prima essersi assicurata la benevolenza russa col Patto Ribbentrop-Molotov – annientando militarmente la Francia».Perché allora la Merkel tiene duro contro i greci, fino al punto di spingerli fuori dall’Eurozona? «Berlino deve “spezzare le reni” alla piccola Grecia per ribadire, anzi irrobustire, la sua supremazia, non più solo economica ma politica, sull’Europa occidentale, e avere quindi mani libere ad Est». Oggi, le armi tedesche sono l’Unione Europea e l’euro: Ue e moneta unica «sono i ferri con i quali la Germania soggioga e incatena a sé la Francia e tutti i suoi alleati». Hollande? Ridotto a comparsa, anche ai negoziati di Minsk. E se qualcuno crede alla sincerità – talora drammatica – dei tedeschi, si sbaglia di grosso. E’ la storia a smentirlo: «Contrariamente a quanto si pensa, Hitler fu un maestro nell’arte dell’occultamento dei suoi piani di aggressione», ricorda Pasquinelli. La famigerata Conferenza di Monaco del settembre 1938, con la quale ottenne da inglesi, francesi e italiani l’autorizzazione ad annettersi (dopo l’Austria) la Cecoslovacchia, «fu anche il frutto della sua memorabile abilità nell’ingannare i suoi interlocutori». Ne abbiamo le prove, data la risaputa meticolosità tedesca: i nazisti trascrissero anche le discussioni informali tra loro.«Grazie a queste – continua Pasquinelli – sappiamo non solo che tutti i piani di aggressione erano stati pensati e preparati fin nei dettagli molti anni prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale; abbiamo un’immagine icastica di quale fosse realmente il disegno strategico del grande capitalismo tedesco che sosteneva il regime nazista». Non ci credete?«Chi trova esagerato quanto noi affermiamo, che cioè esista una linea di continuità tra l’attuale geopolitica tedesca e quella nazista – scrive Pasquinelli – dovrebbe leggere con attenzione quanto affermò Hitler nelle sue conversazioni coi suoi più stretti collaboratori. Al netto delle farneticazioni razziali (“Herrenvolk”) e dei deliri di onnipotenza hitleriani, questa linea di continuità e una certa peculiare “essenza” del capitalismo tedesco, emergono con chiarezza». L’europeismo di facciata della Germania, paese da sempre ultra-nazionalista, «sfocia nell’esterofobia e nello sciovinismo conclamato». Non stupitevi, dunque, se la Germania minaccia sistematicamente l’Europa. Vale la pena considerare «quanto conti, nella psicologia dell’élite tedesca, l’amorevole adesione dei propri sudditi», e quindi oggi «quanto quindi pesi, per la Merkel, il sostegno dei suoi connazionali, la cui dimensione è direttamente proporzionale alla spietata durezza che ostenta col popolo greco».«L’ultimo degli apprendisti, il più modesto dei carrettieri tedeschi, è più vicino a me che non il più importante dei lord inglesi», chiarì Hitler nel marzo del 1942. Per Pasquinelli, «sarebbe sbagliato sottovalutare, malgrado i reiterati proclami di fede globalistici e cosmopolitici delle classi dominanti tedesche, quanto insomma pesi, nella psicologia di quelle élite, il “Deutschtum”, la germanitudine. Se si va alle radici di certo pensiero politico nazionalistico tedesco non c’è solo il reazionario Carl Schmitt col suo concetto geopolitico di “Grossraum”, che egli non a caso declinava come “comunità pluralistica di liberi popoli”. C’è Herbert Backe, che enunciò la tesi del “Grossraumordung”, come premessa del predominio imperialistico tedesco non solo ad Est ma anche ad Ovest (“Nahrungsfreiheit”). E come dimenticare Franz Albert Six, uno dei massimi e più arguti teorici della politica estera nazista? Egli vedeva “nella concentrazione delle forze economiche europee sotto l’egida del Reich l’attuazione del principio della solidarietà europea”».L’europeismo? «Si può declinare in modi molto diversi, quello nazista compreso», che è la “versione estrema” della tradizionale geopolitica tedesca. «Una politica egemonica connaturata a quello che riteniamo sia il Quarto Reich, quello che ha avuto i suoi natali con il crollo del Muro di Berlino e quindi l’annessione della Germania orientale». Ancora Hitler affermava: «Lo spazio russo è la nostra India. Come gli inglesi, noi domineremo questo impero con un pugno di uomini». E poi: «La sicurezza dell’Europa non sarà assicurata se non quando avremo ricacciato l’Asia dietro agli Urali». Quanto alla rozza plebe della Romania, «farebbe bene a rinunciare nei limiti del possibile ad avere un’industria propria», perché in quel modo «dirigerebbe le ricchezze del suo suolo, e specialmente il grano, verso il mercato tedesco; in cambio riceverebbe da noi i prodotti manifatturati di cui ha bisogno». Oggi il menù è cambiato, ma la musica no: deindistrializzare il Sud Europa, a cominciare dall’Italia, per fornire al capitalismo tedesco manodopera a basso costo.L’11 aprile 1942, nell’euforia delle prime folgoranti vittorie, Hitler sintetizza la politica tedesca in questi termini: «Per dominare i popoli che abbiamo sottomessi nei territori a est del Reich, dovremo di conseguenza rispondere nella misura del possibile ai desideri di libertà individuale che essi potranno manifestare, privarli dunque di qualsiasi organizzazione di Stato e mantenerli così a un livello culturale il più basso possibile». Chiaro, no? «Bisogna partire dal concetto che questi popoli non hanno altro dovere che servirci sul piano economico. Il nostro sforzo deve dunque consistere nel trarre dai territori che essi occupano tutto quanto se ne può trarre. Per impegnarli a consegnarci i loro prodotti agricoli, a lavorare nelle nostre miniere e nelle nostre fabbriche d’armi, li adescheremo aprendo un po’ dappertutto spacci di vendita nei quali potranno procurarsi i prodotti manifatturati dei quali abbisognano. Se vogliamo preoccuparci del benessere individuale di ognuno, non otterremo alcun risultato imponendo loro un’organizzazione sul modello della nostra amministrazione. In tal modo non faremmo che attirarci il loro odio. Infatti, quanto più gli uomini sono primitivi, tanto più avvertono come una costrizione insopportabile qualsiasi limitazione della loro libertà personale».Spezzare le reni alla Grecia per mettere in chiaro le cose: chi comanda non avrà pietà di nessuno. Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Si chiama: capitalismo tedesco. Mordeva l’Europa già prima di Hitler, è deflagrato nella Seconda Guerra Mondiale e ora ha ripreso a correre, col Quarto Reich dei poteri forti che manovrano la loro figurina politica, Angela Merkel. I regimi cambiano, ma le linee geopolitiche di fondo restano le stesse: «La tracotanza delle classi dominanti tedesche al tavolo negoziale di Bruxelles sulla questione greca non si spiega solo ricorrendo alle origini luterane della loro cultura», sostiene Moreno Pasquinelli. «Si può comprendere piuttosto alla luce delle costanti della politica di potenza tedesca». Sono evidenti le medesime tendenze espansionistiche, attraverso i secoli: da Federico II il Grande alla cancelliera Merkel, passando prima per Bismarck e poi per Hitler. «Com’è ovvio nessun regime confessa i suoi appetiti, tanto più se sono imperialistici». La verità, quindi, esplode solo con la guerra: allora, «ciò che è latente si disvela e viene alla luce». E riecco dunque la vecchia Germania, col suo pericoloso suprematismo mercantilista: sottomettere economie per conquistare mercati.
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Kapò tedeschi e pagliacci europei? Usciamo dalla barbarie
L’Europa si è bruscamente risvegliata sotto il tallone della Germania. Oramai i nazisti che guidano il governo tedesco, Merkel e Schaeuble su tutti, non rispettano più neppure le forme. La Commissione Europea così come l’Eurogruppo o la Bce appaiono finalmente per quello che in realtà sono: paraventi buoni per mascherare l’assoluto dominio teutonico su tutti i popoli del Vecchio Continente. L’antico sogno hitleriano si è realizzato in pieno senza neppure dover ricorrere all’utilizzo di fucili e carri armati. Come abbia potuto la signora Merkel uccidere impunemente la democrazia in Europa resta un mistero. Una nazione sconfitta e umiliata, messa nelle condizioni di non nuocere all’indomani della seconda guerra mondiale, decide oggi per tutti, scegliendo di fatto arbitrariamente chi è degno di ricevere i fondi e chi no. Siamo all’assurdo. Il neoeletto premier greco Tsipras è costretto ad andare a Berlino con il cappello in mano nella speranza di ammorbidire la posizione dell’arcigna Germania. Ma chi ha deciso che la Germania è il nostro indiscusso nume tutelare? Nessun cittadino europeo ha mai conferito alla signora Merkel un mandato democratico.I tedeschi quindi stanno palesemente violando la sovranità di nazioni ancora oggi formalmente libere e indipendenti. L’Europa ha imboccato una deriva terribile, tenuta brutalmente al laccio da un manipolo di fanatici che dimostrano di non tenere la democrazia in nessun conto. I vari Renzi, Hollande e Rajoy sono poco più che valletti nelle mani del feroce gabinetto germanico, burattini che tradiscono il mandato ricevuto per guadagnare sul campo la benevolenza dei conquistatori. E’ perciò inutile sperare in un sussulto d’orgoglio da parte di simili soggetti, anime nere che mentono continuamente sapendo di mentire. L’unica prospettiva possibile è quella che punta a creare e sedimentare una solidarietà pan-europea organizzata dal basso. C’è bisogno cioè di un nuovo movimento trans-nazionale che raccolga all’interno di un unico contenitore tutti i sinceri democratici ovunque dislocati. Un contenitore libero e plurale, cementato però dalla radicale avversione nei confronti del totalitarismo finanziario e tecno-fascista oggi incarnato da un triumvirato famelico composto da Angela Merkel, Wolfang Schaeuble e Mario Draghi.Questa è la strada giusta. E’ sbagliato invece fomentare contrapposizioni di tipo prettamente nazionalistico. L’élite che oggi sovraintende lo svuotamento della democrazia sostanziale in Europa è apolide. I tedeschi, per indole e costituzione, si limitano soltanto a recitare meglio degli altri la parte dei kapò. Ma Hollande e Renzi, pavidi comprimari, non sono migliori di Angela Merkel, aggiungendo un pizzico di ignavia condita di ipocrisia alla conclamata e unanime predisposizione al sopruso e al raggiro. Nel frattempo in Italia come in Francia proseguono le controriforme di stampo neoliberista approvate da governi formalmente progressisti e di sinistra. Rileggendo i punti della lettera scritta nell’agosto del 2011 dalla Bce di Trichet e Draghi c’è da restare sbalorditi. I governi Monti, Letta e Renzi hanno palesemente applicato l’indirizzo politico deciso d’imperio da un istituto sprovvisto di mandato democratico.Siamo tornati al Medioevo, quando il potere promanava da Dio e i sudditi erano chiamati a non turbare un immutabile ordine costituito. Il nuovo Dio si chiama mercato finanziario e Mario Draghi è il suo profeta. Gli uomini liberi che non intendono arrendersi all’oscurantismo di ritorno si preparino a combattere un battaglia decisiva in difesa del progresso e contro la barbarie. Noi non permetteremo a nessuno di fondare sulla nostra pelle una nuova aristocrazia dello spirito desiderosa di dominare masse informi e abbrutite. Noi combatteremo a viso aperto, con coraggio e spirito di servizio, orgogliosi di stare senza dubbio dalla parte giusta della Storia. Alla lunga, trionferemo!(Francesco Maria Toscano, “Uniti sconfiggeremo il rigurgito nazista che opprime l’Europa”, dal blog “Il Moralista” del 20 febbraio 2015. Insieme a Gioele Magaldi, fondatore del Grande Oriente Democratico e autore del libro “Massoni”, Toscano è tra i promotori dell’assemblea costitutiva del “Movimento Roosevelt”, in programma a Perugia il 21 marzo 2015, per dare impulso a una riconversione democratica dell’assetto europeo).L’Europa si è bruscamente risvegliata sotto il tallone della Germania. Oramai i nazisti che guidano il governo tedesco, Merkel e Schaeuble su tutti, non rispettano più neppure le forme. La Commissione Europea così come l’Eurogruppo o la Bce appaiono finalmente per quello che in realtà sono: paraventi buoni per mascherare l’assoluto dominio teutonico su tutti i popoli del Vecchio Continente. L’antico sogno hitleriano si è realizzato in pieno senza neppure dover ricorrere all’utilizzo di fucili e carri armati. Come abbia potuto la signora Merkel uccidere impunemente la democrazia in Europa resta un mistero. Una nazione sconfitta e umiliata, messa nelle condizioni di non nuocere all’indomani della seconda guerra mondiale, decide oggi per tutti, scegliendo di fatto arbitrariamente chi è degno di ricevere i fondi e chi no. Siamo all’assurdo. Il neoeletto premier greco Tsipras è costretto ad andare a Berlino con il cappello in mano nella speranza di ammorbidire la posizione dell’arcigna Germania. Ma chi ha deciso che la Germania è il nostro indiscusso nume tutelare? Nessun cittadino europeo ha mai conferito alla signora Merkel un mandato democratico.
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La scheda bianca di Silvio e il colpo di spugna che arriverà
Il “Patto Mattarella” svela il piatto forte del Patto del Nazareno: Berlusconi non ha voluto votare l’uomo del Colle per poter poi rivendicare il diritto di nomina dei due giudici costituzionali mancanti. Obiettivo: utilizzare la Consulta per neutralizzare la retroattività della legge Severino che esclude i condannati, e quindi ridiventare eleggibile e tornare in Parlamento. Lo sostiene Olinda Moro, rileggendo le tappe fondamentali della “resistenza” del Cavaliere contro la magistratura e il recente accordo sotterraneo con Renzi, fino alla scelta di «un nome secco, quello di Mattarella, votato da tutti e non concordato con nessuno, neanche con il proprio partito». Salendo al Quirinale, Mattarella lascia libera la poltrona di giudice costituzionale. Se fino a ieri alla Corte mancava un magistrato, ora i nuovi giudici da eleggere sono dunque due, entrambi di nomina parlamentare. Già così, la Consulta potrebbe non essere anti-Cavaliere, grazie ai giudici nominati da Napolitano. Se poi fosse proprio Berlusconi a proporre i due nomi mancanti, per la legge Severino i giorni potrebbero essere contati. Ecco dunque il “Patto Mattarella”?Berlusconi ha ripetutamente denunciato la “dittatura dei giudici” nel paese che governava, ricorda Olinda Moro su “Megachip”. Nel 2011 arrivò a lamentarsi con Obama di «una dittatura dei giudici di sinistra». E due anni prima aveva spiegato alla Merkel che «la sovranità in Italia è passata dal Parlamento al partito dei giudici», perché la Corte Costituzionale «ha 11 componenti su 15 che appartengono alla sinistra». Di questi, «cinque sono di sinistra in quanto di nomina del presidente della Repubblica: e noi abbiamo avuto purtroppo tre presidenti della Repubblica consecutivi tutti di sinistra». Oggi la Corte deve decidere sulla retroattività della legge Severino che, come noto, a seguito della condanna definitiva per frode fiscale, ha determinato la sua decadenza dal Senato e la sua incandidabilità per sei anni. Cinque giudici sono nominati dal presidente della Repubblica, cinque sono eletti dai magistrati di ciascuna delle tre magistrature superiori e cinque sono eletti dal Parlamento in seduta comune, cioè dalle due Camere riunite. Vale la maggioranza dei due terzi nei primi tre scrutini e poi dei tre quinti (circa 570 parlamentari su 950) dal quarto scrutinio in poi.Ogni giudice è nominato per nove anni. La lunga durata del mandato (originariamente 12 anni) è superiore a quella di ogni altro mandato elettivo, proprio per assicurare l’indipendenza dei giudici anche dagli organi che li designano. La stessa Corte, sul proprio sito, chiarisce che «i cinque giudici nominati dal Capo dello Stato sono scelti normalmente in funzione di integrazione o di equilibrio rispetto alle scelte effettuate dal Parlamento, in modo tale che la Corte Costituzionale sia lo specchio il più possibile fedele del pluralismo politico, giuridico e culturale del paese». E’ chiaro, aggiunge Olinda Moro, che una forte inclinazione del bilanciamento e dell’equilibrio costituzionale l’ha determinata l’anomala rielezione di Napolitano, confermato peraltro da un Parlamento con un premio di maggioranza dichiarato anticostituzionale dalla Corte medesima. E Napolitano si è dimesso «solo dopo avere esercitato in fretta e furia il suo potere di nomina (novembre 2014) di ulteriori due giudici (Nicolò Zanon e Daria De Pretis)», dopo aver già nominato nel 2013 Giuliano Amato, in aggiunta agli altri due nomi indicati nel primo settennato (Paolo Grossi e Marta Cartabia).«Insomma, alla faccia dell’equilibrio costituzionale e del bilanciamento delle garanzie – scrive la Moro – oggi abbiamo una Corte Costituzionale con cinque giudici eletti da un solo uomo, ovvero dal medesimo presidente della Repubblica». Questo strapotere esercitato sulla Consulta potrebbe avere i connotati di incostituzionalità, aggiunge l’analista. «Certamente è un chiaro cortocircuito costituzionale, su cui il Parlamento non ha avuto il coraggio di indagare e risolvere: sarà solo un caso che sul sito della Presidenza della Repubblica sono riportati solo i primi tre nominati?». Inoltre, due giudici nominati da Napolitano (Zanon e Amato) hanno già espresso pubblicamente dubbi sulla costituzionalità della legge Severino e in particolare riguardo al caso di Berlusconi, il che fa sorgere perplessità anche sulle altre nomine fatte da Napolitano in seno alla Consulta: «Dopo questo “regio” capolavoro abbiamo quindi 14 giudici, di cui 5 nominati dal medesimo presidente Napolitano e di cui, almeno l’altro giorno, 4 eletti dal Parlamento: Mattarella e Sciarra (in quota centrosinistra), Napolitano e Frigo (in quota centrodestra)». La Corte decide in modo collegiale, ma se non trova un accordo delibera a maggioranza. «Oggi i giudici sono in 13, di cui 5 nominati da Napolitano e 2 di area centrodestra. Attualmente la maggioranza per accogliere una decisione è di 7».A questo punto, continua Olinda Moro, «potrebbe essere utile ma forse neanche necessaria la nomina dei 2 giudici mancanti». E laddove sia necessaria, «è evidente che la rivendicazione a scegliere i giudici mancanti da parte di chi, almeno ufficialmente, si è tirato fuori dall’elezione del presidente della Repubblica sarà la prova provata del vero Patto del Nazareno». Se cioè la Corte dovesse dichiarare l’incostituzionalità della legge Severino nella parte in cui prevede la decadenza dalla carica di parlamentare e l’incandidabilità di 6 anni per coloro che abbiano avuto condanne definitive superiori ai due anni e per fatti antecedenti all’entrata in vigore della legge, «allora Berlusconi rientrerebbe in Senato in pompa magna e potrebbe ricandidarsi liberamente». Quando fu stanata la “manina” che cercava di cancellare il reato di evasione e di frode per importi non superiori al 3% dell’imponibile, «un colpo di spugna finalizzato non solo a dare agibilità politica ma a garantire la partecipazione nella compagine societarie a Berlusconi e tanti altri», Renzi ripeteva che non avrebbe «mai modificato la legge Severino», nonostante la “manina” fosse diretta a cancellare un reato di frode e di evasione fiscale e non a modificare la legge. «Excusatio non petita, accusatio manifesta: si sentiva stanato su altre manovre?».Il “Patto Mattarella” svela il piatto forte del Patto del Nazareno: Berlusconi non ha voluto votare l’uomo del Colle per poter poi rivendicare il diritto di nomina dei due giudici costituzionali mancanti. Obiettivo: utilizzare la Consulta per neutralizzare la retroattività della legge Severino che esclude i condannati, e quindi ridiventare eleggibile e tornare in Parlamento. Lo sostiene Olinda Moro, rileggendo le tappe fondamentali della “resistenza” del Cavaliere contro la magistratura e il recente accordo sotterraneo con Renzi, fino alla scelta di «un nome secco, quello di Mattarella, votato da tutti e non concordato con nessuno, neanche con il proprio partito». Salendo al Quirinale, Mattarella lascia libera la poltrona di giudice costituzionale. Se fino a ieri alla Corte mancava un magistrato, ora i nuovi giudici da eleggere sono dunque due, entrambi di nomina parlamentare. Già così, la Consulta potrebbe non essere anti-Cavaliere, grazie ai giudici nominati da Napolitano. Se poi fosse proprio Berlusconi a proporre i due nomi mancanti, per la legge Severino i giorni potrebbero essere contati. Ecco dunque il “Patto Mattarella”?
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Magaldi a Grillo: insieme, contro l’élite che minaccia l’Italia
Matteo Renzi è un “wannabe” (contrazione di “want to be”, voler essere) massone, cioè è un uomo che aspira a fare parte non tanto del Grande Oriente d’Italia o di altre comunioni massoniche italiane che hanno un’incidenza mediocre sulle vere dinamiche del potere, ma a una delle Ur-Lodges che stanno guidando i processi di destrutturazione sociale ed economica europea. E sono Ur-Lodges in cui è in gran parte protagonista Mario Draghi, un uomo che viene costantemente osannato dalla grande stampa manipolatoria che tratta gli italiani come bambini deficienti. E invece è un uomo che, bisognerebbe ricordarlo, non solo è padre di questa austerità europea che sta massacrando popoli, ma è colui che ha gestito le grandi privatizzazioni all’italiana che sono state una svendita, a favore di amici e amici degli amici, di importanti asset pubblici della nostra nazione. Se non fossero stati dei bambinoni deficienti, gli italiani non avrebbero accolto con le fanfare Monti, Letta, Renzi. Monti appartiene alle aristocrazie massoniche delle Ur-Lodges. Enrico Letta è un paramassone di rango, non è stato mai ammesso nel santa sanctorum delle superlogge più importanti ma è sempre stato al loro servizio in modo subalterno e ancillare.Le dimissioni Napolitano sono state, da qualcuno, messe anche in connessione con questa operazione editoriale che noi abbiamo lanciato (il libro “Massoni”, edito da Chiarelettere). Questa nostra operazione, unita ad altre, ha creato molti nervosismi. Questi fattori, naturalmente insieme ad altri, hanno indotto Napolitano a dimettersi. Il sostituto di Napolitano? Noi vigileremo, perché nel libro si parla non soltanto di massoneria aristocratica, quella che gestisce da 30-40 anni i grandi processi di globalizzazione e di insana costruzione europea, ma si parla anche di riscatto delle Ur-Lodges progressiste, l’ambiente democratico, di cui sono un “gran maestro”. Noi vigileremo su chi sarà il prossimo inquilino del Colle. In termini democratici, limpidi e trasparenti diremo di evitare che vada al Quirinale un altro personaggio nefasto come Napolitano. Se uno guarda l’Ur-Lodge a cui appartiene Napolitano e ne vede la storia, non esce benissimo uno che, come lui, è stato appartenente fino al 1978. Il prossimo presidente non sarà però influente e importante come lo è stato Napolitano, perché i tempi sono cambiati e la gente inizia ad aprire gli occhi e le orecchie. Prodi? E’ senz’altro parte del network massonico sovranazionale, in termini perfino clamorosi e insospettabili.Il “Movimento 5 Stelle”? E’ nato su esigenze molto importanti e utili, avrebbe da modificare alcune cose. Ha poi un problema interno di articolazione democratica e liberale. Noi stiamo fondando un movimento metapartitico che quindi non chiederà il consenso e non sarà concorrente né del Movimento 5 Stelle né di altri partiti, ma vuole riunire tutti i progressisti italiani ed extra-italiani, europei, per cambiare paradigma in Italia, in Europa e nel mondo, in questa cattiva globalizzazione. Questo movimento si chiama “Movimento Roosevelt” e vedrà la luce tra gennaio e febbraio 2015. Riunisce massoni e non massoni, purché accomunati da una vocazione progressista. Il nome “Movimento Roosevelt” richiama la dichiarazione dei diritti umani patrocinata da Eleanor Roosevelt, richiama la grande lezione del New Deal di Franklin Delano Roosevelt e la lezione economica di John Maynard Keynes, dimenticata in questa Europa tutta quanta friedmaniana e basata sui principi di un neoliberismo feroce e anche ottuso, se non fosse che è un neoliberismo in malafede, è fatto apposta, con le sue valide declinazioni per destrutturare la società europea, i suoi principi di welfare la sua prosperità.La massoneria rivendica la costruzione delle società aperte, libere, democratiche, e del pluralismo di informazione. Anche le lamentele sullo svuotamento di sostanzialità, la democrazia contemporanea, si possono fare, oggi, perché qualcuno in passato l’ha inventata, la democrazia: la democrazia e la libertà non le ha portate la cicogna, ma i massoni progressisti. L’opinione pubblica media, non solo italiana, purtroppo è facilmente manipolata dai grandi mezzi di informazione, concentrati nelle mani di editori non puri in gran parte, e questo è un caso eclatante per l’Italia. Da noi c’è poca editoria pura, il Quarto Potere che controlli gli altri tre poteri non esiste perché giornali e televisioni sono in mano a signori che hanno anche banche, assicurazioni e altri interessi industriali o finanziari. Agli italiani, e non solo a a loro, viene fatta una narrazione delle cose che prepara poi l’arrivo con le fanfare di personaggi come Monti e Letta e poi anche di Renzi che è un grande affabulatore molto più carismatico e vendibile di Monti e Letta, ma che nella sostanza ha proseguito le stesse politiche recessive e distruttive dell’interesse pubblico.Invito il “Movimento 5 Stelle” e i suoi dirigenti ad abbeverarsi, perché faremo una scuola di alta formazione politologica: faremo una Fondazione Roosevelt con interventi importanti di welfare sul territorio europeo per dimostrare che la politica dovrebbe essere intervento sulle cose, sui territori, riunendo le persone di sano intelletto e buona volontà anche di diversi schieramenti. Ma vorrei dare un ultimo consiglio agli ispiratori e ai gestori del “Movimento 5 Stelle”: accettino l’idea che non si possono abolire i partiti, e che l’alleanza tra diversi, pur mantenendo la propria identità, è l’unica possibilità di ridare sostanza alla democrazia italiana e non solo italiana. Se il “Movimento 5 Stelle” accetterà di dialogare e di allearsi con chi li considera il meno peggio nel panorama politico italiano, noi potremo avere una svolta politica importante, altrimenti si rischia di congelare milioni di voti che credono e hanno creduto, giustamente, al Movimento 5 Stelle come fattore di rinnovamento.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate al blog di Beppe Grillo per il “Passaparola” del 5 gennaio 2015).Matteo Renzi è un “wannabe” (contrazione di “want to be”, voler essere) massone, cioè è un uomo che aspira a fare parte non tanto del Grande Oriente d’Italia o di altre comunioni massoniche italiane che hanno un’incidenza mediocre sulle vere dinamiche del potere, ma a una delle Ur-Lodges che stanno guidando i processi di destrutturazione sociale ed economica europea. E sono Ur-Lodges in cui è in gran parte protagonista Mario Draghi, un uomo che viene costantemente osannato dalla grande stampa manipolatoria che tratta gli italiani come bambini deficienti. E invece è un uomo che, bisognerebbe ricordarlo, non solo è padre di questa austerità europea che sta massacrando popoli, ma è colui che ha gestito le grandi privatizzazioni all’italiana che sono state una svendita, a favore di amici e amici degli amici, di importanti asset pubblici della nostra nazione. Se non fossero stati dei bambinoni deficienti, gli italiani non avrebbero accolto con le fanfare Monti, Letta, Renzi. Monti appartiene alle aristocrazie massoniche delle Ur-Lodges. Enrico Letta è un paramassone di rango, non è stato mai ammesso nel santa sanctorum delle superlogge più importanti ma è sempre stato al loro servizio in modo subalterno e ancillare.
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Giulietto Chiesa: decalogo dell’Impero padrone del mondo
Come tenere in pugno il mondo. E’ «il decalogo che ha creato l’Impero e che ci ha portato alla guerra, anzi alla Superguerra», dice Giulietto Chiesa, rispolverando le pagine scritte nel 2002 per il profetico “La guerra infinita”, edito da Feltrinelli. Dieci regole d’oro, anzi: di ferro. La prima: “Fai in modo che la tua moneta sia l’insostituibile moneta di riserva per tutti, o quasi tutti, gli altri paesi”. La seconda: “Non tollerare alcun controllo esterno sulla tua creazione di moneta. Potrai così finanziare i tuoi deficit commerciali con il resto del mondo, rendendoli praticamente illimitati”. La terza: “Definisci la tua politica monetaria in base, esclusivamente, ai tuoi interessi nazionali e mantieni gli altri paesi in condizioni di dipendenza dalla tua politica monetaria”. Ancora sulla moneta la quarta regola: “Imponi un sistema internazionale di prestiti a tassi d’interesse variabile espressi nella tua valuta. I paesi debitori in crisi dovranno ripagarti di più proprio quando la loro capacità di pagare è minore. Li avrai in pugno”. E così – regola numero 5 – sarà possibile mantenere nelle proprie mani “le leve per determinate, all’occorrenza, situazioni di crisi e d’incertezza in altre aree del mondo”. Risultato: “Stroncherai sul nascere ogni eventuale aspirante competitore”.Già, la competizione esasperata dalla globalizzazione neoliberista: “Imponi, con ogni mezzo, la massima competizione tra esportatori del resto del mondo. Avrai un afflusso d’importazioni a prezzi decrescenti rispetto a quelli delle tue esportazioni”, recita la regola numero 6, strettamente collegata con la successiva, la numero 7: “Intrattieni i migliori rapporti con le élite e le classi medie degli altri paesi, a prescindere dalle loro credenziali democratiche, perché esse sono decisive per sostenere la tua architettura”. Le élite, ovviamente, perché cospirino contro i loro popoli: “E’ essenziale che le élite e le masse di quei paesi non si uniscano attorno a idee di sviluppo nazionale, o comunque ostili al tuo dominio e alla tua egemonia”. Per questo – regola numero 8 – è fondare promuovere con ogni mezzo “una totale mobilità dei capitali, insieme alla libertà d’investimento internazionale”. In questo modo i capitali, nelle condizioni sopra delineate, “verranno al tuo indirizzo”, semplicemente “perché è il luogo migliore, il più sicuro e il più redditizio”.Quanto agli investimenti esteri, “assicurati che le tue corporations possano liberamente soccorrere le élites nazionali nella gestione delle loro proprietà finanziarie, dell’educazione privata e pubblica, della tutela della salute, dei sistemi pensionistici”. Regola numero 9: “Promuovi con ogni mezzo il libero commercio. Esso varrà per tutti, cioè per gli altri, che non potranno sottrarvisi, mentre tu lo applicherai se e quando ti converrà”. E infine, decimo comandamento: “Per controllare che tutto ciò si realizzi ordinatamente, senza conflitti troppo evidenti, ti occorre una struttura di istituzioni sovranazionali che all’apparenza si presentino come riunioni di membri a pare diritto. Darai l’impressione di rispettare un certo pluralismo, mantenendo il loro finanziamento e il loro controllo nelle tue mani”. Giulietto Chiesa aggiungeva una nota: tutto questo si può fare con la persuasione, con l’aiuto dei media, e anche con la coercizione, con l’uso della forza.“I piani si formano camminando, nella pratica, ma ci vogliono gli intellettuali per dar loro una forma, per magnificarli agli occhi del pubblico, per nobilitarli e spiegarli”, recita la nota del 2002. “Bisogna formarli, questi propagandisti, convincerli e, se necessario, comprarli, corromperli. E poi bisogna togliere di mezzo gli ostacoli, i testardi, gli increduli, i cacasenno. Con le buone, se è possibile, altrimenti con le cattive”. All’epoca, annota oggi Chiesa sul “Fatto Quotidiano”, Edward Snowden non era ancora apparso all’orizzonte. Dunque, «non sapevamo che “loro” potevano sapere tutto quello che facciamo prima ancora che cominciamo a farlo, basta che ne sospiriamo. Vale anche per la signora Merkel e per il nostro Matteo». Ma, se non ci fossero stati i giornalisti e gli economisti, tutti perfettamente allineati e compiacenti, come avrebbe potuto realizzarsi un simile sogno? «Infatti si è realizzato. Adesso, però bisogna andarlo a spiegare agli altri sei miliardi».Come tenere in pugno il mondo. E’ «il decalogo che ha creato l’Impero e che ci ha portato alla guerra, anzi alla Superguerra», dice Giulietto Chiesa, rispolverando le pagine scritte nel 2002 per il profetico “La guerra infinita”, edito da Feltrinelli. Dieci regole d’oro, anzi: di ferro. La prima: “Fai in modo che la tua moneta sia l’insostituibile moneta di riserva per tutti, o quasi tutti, gli altri paesi”. La seconda: “Non tollerare alcun controllo esterno sulla tua creazione di moneta. Potrai così finanziare i tuoi deficit commerciali con il resto del mondo, rendendoli praticamente illimitati”. La terza: “Definisci la tua politica monetaria in base, esclusivamente, ai tuoi interessi nazionali e mantieni gli altri paesi in condizioni di dipendenza dalla tua politica monetaria”. Ancora sulla moneta la quarta regola: “Imponi un sistema internazionale di prestiti a tassi d’interesse variabile espressi nella tua valuta. I paesi debitori in crisi dovranno ripagarti di più proprio quando la loro capacità di pagare è minore. Li avrai in pugno”. E così – regola numero 5 – sarà possibile mantenere nelle proprie mani “le leve per determinate, all’occorrenza, situazioni di crisi e d’incertezza in altre aree del mondo”. Risultato: “Stroncherai sul nascere ogni eventuale aspirante competitore”.
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Orsi: la disperazione di chi vorrebbe uccidere Putin
«La demonizzazione di Putin non è una politica – dice Kissinger – ma un alibi per l’assenza di una politica». Per quanto autorevole sia la fonte, sostiene Roberto Orsi, analista internazionale e docente all’università di Tokyo, l’ossessione collettiva contro il presidente russo ha raggiunto il record durante l’attuale crisi geopolitica in Ucraina: tra le élite occidentali si sta facendo strada l’idea che, se Putin potesse incontrare sul suo cammino, anche tramite mezzi violenti, una fine prematura, questo risolverebbe la crisi ucraina e il “problema” della rinascita della Russia. Illuminanti le parole di Herbert Meyer, già dirigente della Cia, secondo cui il capo del Cremlino «è una grave minaccia per la pace mondiale», quindi un criminale. Attenzione: «I teppisti come Putin non si fermano davanti a punizioni o restrizioni», come le sanzioni Ue, «hanno un’alta tolleranza al dolore e non cambiano il loro comportamento, vanno avanti finché qualcuno non gli assesta un colpo mortale». Quindi, i russi dovrebbero sbarazzarsi di Putin, magari «tirandolo fuori dal Cremlino in modo orizzontale, con un foro di proiettile dietro la testa», soluzione che «andrebbe bene anche a noi».Il pensiero di Meyer, scrive Orsi in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, non è che uno sfogo esplicito e definitivo dopo anni di incessante propaganda occidentale: Putin come l’assassino di Anna Politkovskaya e dell’ex 007 Alexander Litvinenko, Putin come persecutore del gruppo rock delle “Pussy Riot”, Putin l’“omofobo”, Putin che «vive in un altro mondo» (secondo Angela Merkel), Putin che è chiaramente «un lato sbagliato della storia» (secondo Barack Obama). Insomma: Putin il malato di mente, il “nuovo Hitler”, come già Saddam Hussein. L’Anticristo, simbolo del male assoluto, annunciatore dell’imminente fine del mondo. «Molti sono stati gli europei etichettati come emissari del diavolo: Napoleone Bonaparte, Federico II di Prussia e Pietro il Grande», scrive Orsi. «L’identificazione di Putin come manifestazione di un male assoluto metafisico, che giustifica il ricorso a misure estreme, invece di essere semplicemente accennata attraverso semplici metafore e ridotta a una banale questione propagandistica di bassa lega, dovrebbe diventare il centro di una più profonda discussione».Il caso Putin evoca la pratica dell’omicidio politico, in tempo di pace oppure in guerra. La “decapitazione” del leader avversario, ovviamente, finisce sempre per «legittimare atti di ritorsione, aprendo scenari a spirale di violenze indiscriminate con conseguenze imprevedibili». In Occidente, continua Orsi, «c’è stata una sorprendente varietà di opinioni sulla corretta conduzione della “guerra giusta”». Per esempio, «le guerre tra nazioni cristiane dovevano essere altamente regolamentate, mentre erano ammessi diversi gradi di guerra senza restrizioni contro gli infedeli». L’assassinio del leader del nemico «sembra essere un atto di disperazione, di solito associato a guerre genocide definitive». Mentre nasceva una moderna concezione di politica internazionale e globale, che prendeva le distanze dalla dicotomia tra cristiani e non-cristiani, nel saggio “La pace perpetua” Immanuel Kant mise in guardia la società del suo tempo contro questo tipo di pratiche: il filosofo auspicò il divieto, nelle guerre, di tutte quelle pratiche che potrebbero rendere impossibile la reciproca fiducia nei futuri accordi di pace, come appunto l’assassinio, l’avvelenamento, la violazione della capitolazione, l’istigazione al tradimento.«Essere contrari alla demonizzazione del nemico e a un suo assassinio a sangue freddo non significa sostenere la totale assenza di odio o di conflitto», scrive Orsi. «Al contrario, secondo una vecchia teoria purtroppo troppo poco apprezzata, proprio la guerra senza restrizioni (fin troppo familiare) ad ogni forma di lotta, è in sé contraddittoria, poiché conduce ad una forma di guerra totale». E’ possibile evitare che uno scontro sia completamente distruttivo? «Il punto è quello di limitare e contenere il conflitto», conferendogli una legittimazione all’interno di argini precisi: «Ci può essere inimicizia tra la Nato e la Russia, ma non vi è alcuna ragione per trasformarla in una guerra totale globale». Proprio in questo quadro, aggiunge Orsi, «la denigrazione del nemico diminuisce la dignità di chi lo denigra e il valore dei suoi sforzi durante il conflitto». Invece di inventare nuove rappresentazioni denigratorie del nemico, «sarebbe bene non scendere in queste forme di demonizzazione, perché il compromesso politico e il dialogo diplomatico restino sempre un’opzione possibile». In che non significa sradicare l’ostilità, ma gestirla. Chi invece cede alla violenza della degradazione verbale, si condanna da sé: «Mentre Putin costituisce certamente un avversario temibile per le élite che attualmente governano il mondo occidentale, è proprio per questo che dovrebbero apprezzare l’occasione storica di poter dimostrare il loro valore».Una seconda linea di pensiero, continua Orsi, fa riferimento alla tradizione intellettuale che permette – o addirittura raccomanda – l’assassinio di un leader politico ogni volta che questi imponga un dominio tirannico. Storia lunga, da Pisistrato a Giulio Cesare. «Tuttavia, il tirannicidio solleva per lo meno due questioni: la prima riguarda la definizione stessa della tirannia, la seconda il suo rapporto con la politica internazionale». Tirannia, dittatura, autocrazia, autoritarismo, dispotismo, assolutismo: «Sono cose tra loro diverse, nonostante alcune comuni aree di sovrapposizione». La tirannia è «una forma autocratica degenerata, in cui il potere è esercitato contro il principio del bene comune, al di fuori e contro le regole costituzionali stabilite, e con una sistematica crudeltà nei confronti dei propri sudditi». Ora, non c’è dubbio che Putin sia l’individuo più potente nella Federazione Russa, ma questo non basta a farne a un “tiranno”. Al contrario, è il politico che ha risollevato il paese dopo il crollo dell’Urss e la “colonizzazione” occidentale.Certo, la nuova Russia di Putin resta «uno Stato autoritario, la cui classe dirigente – un’alleanza in qualche modo eterogenea di intelligence, militari, leader religiosi, magnati e influenti personaggi locali – è sufficientemente coesa da mantenere un efficace controllo del paese, ma non abbastanza ampia da promuovere una più sofisticata prospettiva pluralistica». Tuttavia, aggiunge Orsi, «nessuno sta dicendo che Putin sta esercitando il suo potere al di fuori del quadro costituzionale dello Stato russo, e tantomeno tenendo in ostaggio l’intera popolazione attraverso una violenza sadica e onnipresente». Inoltre, «Putin gode di un autentico sostegno popolare, pur tenendo conto dello stretto controllo dei principali mezzi d’informazione da parte del Cremlino». Senza contare che il presidente «rappresenta una figura moderata nel panorama della politica russa: la sua estromissione probabilmente aprirebbe la strada ad altre figure politiche significativamente più radicali».Infine, la responsabilità morale e politica della “detronizzazione” del leader «non può che essere presa da coloro che sono soggetti al potere tirannico, non da soggetti esterni». Sicché, «fatta esclusione del caso deprecabile di una guerra totale, non vi è alcun motivo per considerare tale atto come un’azione politica raccomandabile». Riguardo alla tentazione di accelerare l’eliminazione di Putin, quindi, «ci sono tanti motivi per respingere questo flusso di pensieri e ritenerli gravemente controproducenti». La demonizzazione del presidente russo? «Non è una politica sana, né una pratica moralmente onorevole». Quanto alla venuta dell’Anticristo e alla fine del mondo, «nessuno ne conosce l’ora». Per dirla con l’evangelista Matteo: «Di quel giorno e ora nessun uomo sa, né gli angeli del Cielo, né il Figlio, ma solo il Padre».«La demonizzazione di Putin non è una politica – dice Kissinger – ma un alibi per l’assenza di una politica». Per quanto autorevole sia la fonte, sostiene Roberto Orsi, analista internazionale e docente all’università di Tokyo, l’ossessione collettiva contro il presidente russo ha raggiunto il record durante l’attuale crisi geopolitica in Ucraina: tra le élite occidentali si sta facendo strada l’idea che, se Putin potesse incontrare sul suo cammino, anche tramite mezzi violenti, una fine prematura, questo risolverebbe la crisi ucraina e il “problema” della rinascita della Russia. Illuminanti le parole di Herbert Meyer, già dirigente della Cia, secondo cui il capo del Cremlino «è una grave minaccia per la pace mondiale», quindi un criminale. Attenzione: «I teppisti come Putin non si fermano davanti a punizioni o restrizioni», come le sanzioni Ue, «hanno un’alta tolleranza al dolore e non cambiano il loro comportamento, vanno avanti finché qualcuno non gli assesta un colpo mortale». Quindi, i russi dovrebbero sbarazzarsi di Putin, magari «tirandolo fuori dal Cremlino in modo orizzontale, con un foro di proiettile dietro la testa», soluzione che «andrebbe bene anche a noi».
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Cremaschi: Renzi come Reagan, e nessuno osa fermarlo
Se le parole sono pietre, si devono lanciare con la giusta forza verso il bersaglio scelto. Invece le iniziative concrete di coloro che denunciano il disegno autoritario di Renzi non corrispondono alla gravità dell’allarme lanciato e così la denuncia stessa rischia di risultare inefficace. Sul terreno economico e sociale il governo ha adottato tutti i peggiori dogmi del liberismo. La vicenda Alitalia, come al solito presentata dal regime come l’ultima spiaggia dello sviluppo, non è solo una svendita all’incanto dopo il fallimento bipartisan di imprese, banche, governo. È anche e prima di tutto un terribile esperimento sociale, perché per la prima volta dagli anni ‘50 del secolo scorso un governo autorizza il licenziamento in tronco di migliaia di lavoratrici e lavoratori, rifiutando l’utilizzo della cassa integrazione. È un altro pezzo del Jobs Act, che intende sostanzialmente cancellare la Cig. Solo il presidente più di destra del ‘900 americano, Ronald Reagan, aveva attuato con i controllori di volo una misura del genere.Ci si rende conto, dalle parti del mondo che si definisce democratico, che cosa vuol dire con la crisi economica che si aggrava dare il via ai licenziamenti di massa nelle grandi aziende? Significa che sul piano sociale non tiene più niente, che siamo come la Grecia. E infatti, dopo quel paese, il nostro è la seconda cavia dell’Europa dell’austerità e del Fiscal Compact. Con la prima si è proceduto in modo troppo brutale, al punto da suscitare una reazione politica che rischia di compromettere il disegno. Con l’Italia, che Monti e Letta stavano portando alla stessa crisi di consenso della Grecia, si è deciso di correggere la rotta. Meno bastone e, almeno all’inizio, più carota. La carota è Renzi. Il progetto di controriforma costituzionale di Renzi serve a costruire in anticipo quel sistema di potere autoritario che dovrà gestire la distruzione sociale dell’Italia.Per questo Renzi lo vende all’estero al posto dei tagli di bilancio dei suoi predecessori. E per questo banche e finanza per ora si accontentano di riforme politiche al posto di quelle economiche. Perché i poteri finanziari che hanno fatto diventare presidente del consiglio uno sconosciuto sindaco di Firenze vogliono che, una volta avviato, il percorso liberista non si fermi più. Ci vuole allora una manomissione complessiva e organica della Costituzione, che garantisca a un potere insindacabile di poter privatizzare servizi, chiudere ospedali, vendere alle multinazionali, cancellare contratti e diritti, licenziare, precarizzare, selezionare. Quello che le élites speravano facesse Berlusconi nel 1994. Dopo venti anni quel disegno viene realizzato da Renzi, con ben altro sostegno in Italia ed in Europa.Non facciamo i provinciali, la controriforma renziana non è tanto figlia della P2 quanto di Bilderberg. Il principio che la ispira è molto semplice e in fondo e quello di tutte le dittature: si vota una volta e poi chi vince comanda per sempre, impedendo l’organizzazione e la rappresentanza ad ogni forma di vera critica, contestazione, dissenso. Di fronte a tutto questo il campo avverso o critico è complessivamente incerto, contraddittorio, confuso. Nel mondo sindacale, Cisl, Uil e Ugl sono oramai paracarri del sistema renziano, al quale son stati concessi in dono da Marchionne. La Cgil si muove come un pugile suonato, e i colpi che riceve non la fanno reagire. Intanto l’accordo del 10 gennaio diventa la trasposizione del’Italicum sul terreno della rappresentanza sindacale. Anzi è persino peggio, perché quell’intesa programma l’esclusione del dissenso addirittura prima del (e non con il) voto.Dalla Fiom, alla sinistra Cgil, ai sindacati di base non sono poche le forze che si oppongono a questo sistema, ma non lo stanno facendo assieme e con la dovuta determinazione comune. Soprattutto la Fiom non trasforma il suo dissenso in vera disobbedienza e così avanza la normalizzazione sindacale. Sul piano politico il “Movimento 5 Stelle”, con tutto il rispetto, pare entrato dopo le europee in una fase confusionale, nella quale sta forse emergendo la debolezza delle sue basi politiche di fondo. Così oscilla tra la denuncia della svolta autoritaria e le letterine di buoni propositi indirizzati a chi di quella svolta è l’artefice. Le sinistre che si sono raccolte attorno alla Lista Tsipras non hanno ancora chiarito cosa vogliono fare da grandi. E quando ci provano, si spaccano. La sinistra radicale italiana non è in crisi per l’assenza di buoni propositi, belle idee e bei programmi, ma per una storia di incoerenze tra il dire ed il fare. Queste forze sono oggi disponibili a combattere il Pd renziano ovunque, per esempio e per cominciare in Emilia Romagna nelle elezioni del prossimo autunno? O si pensa ancora a tenere assieme chi vuol contrastare davvero il sistema renziano e chi si illude di condizionarlo dal suo interno?I movimenti sociali, le lotte ambientali e territoriali sono oggi una forza diffusa, che subisce una repressione autoritaria vergognosa. Ma i loro gruppi dirigenti non pensano ad una politica di alleanze con gli altri che si oppongono, lanciano le loro scadenze e si aspettano che tutti aderiscano. Così anche qui ci si logora. Il non molto vasto mondo degli intellettuali rimasto fuori dal regime delle larghe intese si muove con efficacia ridotta anche rispetto alle proprie forze reali. Pesa evidentemente la fine della guerra fredda tra mondo Fininvest e mondo Repubblica-Espresso. Entrambi oggi sono nel pacchetto di mischia renziano, con qualche dissidenza che, se non esagera, fa molto pluralismo. È comprensibile quanto sia difficile rompere con storie e schieramenti ventennali, ma la critica del pensiero unico renziano proprio questo dovrebbe fare per essere efficace.Ciò che unifica tutte queste deboli opposizioni al regime renziano è la convinzione di chi le guida di poter andare avanti come ha sempre fatto. Così si fanno la petizione, la manifestazione, l’appello, l’assemblea, come sempre. E così si contraddice il senso profondo dello stesso allarme che si lancia. Se si fanno le stesse cose di sempre, allora forse non è vero che la situazione sia così grave come la si denuncia. Se si andrà avanti così, questo periodo verrà ricordato come quello in cui, grazie anche alla fiacchezza e all’opportunismo di chi denunciava il regime, il regime nacque. Per concludere, tutte le forze democratiche che intendono davvero opporsi a Renzi e a ciò che rappresenta, ci provano a interloquire tra loro e magari a sedersi attorno ad un tavolo per discutere, anche in streaming, su cosa fare assieme per fermare il regime? O andiamo avanti così fino al disastro e alle recriminazioni finali?(Giorgio Cremaschi, “Per fermare la svolta autoritaria non bastano gli appelli”, da “Micromega” del 17 luglio 2014).Se le parole sono pietre, si devono lanciare con la giusta forza verso il bersaglio scelto. Invece le iniziative concrete di coloro che denunciano il disegno autoritario di Renzi non corrispondono alla gravità dell’allarme lanciato e così la denuncia stessa rischia di risultare inefficace. Sul terreno economico e sociale il governo ha adottato tutti i peggiori dogmi del liberismo. La vicenda Alitalia, come al solito presentata dal regime come l’ultima spiaggia dello sviluppo, non è solo una svendita all’incanto dopo il fallimento bipartisan di imprese, banche, governo. È anche e prima di tutto un terribile esperimento sociale, perché per la prima volta dagli anni ‘50 del secolo scorso un governo autorizza il licenziamento in tronco di migliaia di lavoratrici e lavoratori, rifiutando l’utilizzo della cassa integrazione. È un altro pezzo del Jobs Act, che intende sostanzialmente cancellare la Cig. Solo il presidente più di destra del ‘900 americano, Ronald Reagan, aveva attuato con i controllori di volo una misura del genere.
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Castells: grazie a Internet, la libertà non è più utopia
Premessa: «Il potere sta nella mente delle persone». Se controlli il modo in cui la gente pensa, comunica, si informa, controlli il potere. La riflessione non è certo nuova o rivoluzionaria, ma sono nuove (rivoluzionarie?) le conseguenze che produce in un’epoca come la nostra, in cui ogni minuto «in rete vengono mandati all’incirca centomila tweet, condivisi un milione e mezzo tra aggiornamenti e commenti Facebook e inviate oltre centosettanta milioni di mail». Ecco perché «le battaglie per la libertà nel nuovo sistema di comunicazione sono battaglie più importanti di quelle sul salario minimo». Lo dice Manuel Castells, il sociologo catalano-statunitense che ha insegnato a Berkeley per 25 anni (oggi è docente all’University of Southern California) e ha scritto libri celebri come “Galassia Internet”, “Comunicazione e potere” e la trilogia “L’età dell’informazione”.Lo spiega in un dialogo con Tomás Ibañez, a cui dobbiamo un ottimo “elogio del relativismo” pubblicato da Elèuthera nel 2012 (”Il libero pensiero”). Elèuthera ora ripropone anche questo botta e risposta informale, pubblicato in Spagna nel 2006. Titolo: “Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale”. Un libretto agile. Più che altro un’introduzione al tema. In cui si sostiene che l’era digitale ha creato le condizioni perché l’anarchismo (lui lo definisce “neoanarchismo”) e il pensiero libertario tornassero d’attualità. «Nella società attuale esiste un’esigenza di libertà» che va al di là dell’ideologia o delle battaglie condotte dai nuovi movimenti “alteromondisti”. E’ una questione empirica e strutturale. Ha a che vedere con la possibilità di costituire facilmente «reti di relazioni tra individualità», quindi non più individui atomizzati che subiscono passivamente il mercato anonimo e la comunicazione di massa.I movimenti si auto-organizzano e a volte riescono a darsi strutture autonome senza gerarchie stabilite, che lavorano in una sorta di assemblea permanente (una delle pratiche utopiche tipiche del pensiero anarchico). D’altra parte oggi è «la stessa struttura produttiva a richiedere, per essere più efficiente di prima, un funzionamento basato su strutture organizzative non gerarchizzate». Sta cambiando anche il modello di sviluppo, nel quale si intravvedono «modalità e relazioni che si allontanano dalle posizioni propriamente capitaliste e che si avvicinano al libertarismo». Nei tempi in cui viviamo, lo Stato, contro cui ha tradizionalmente lottato l’anarchismo, è diventato uno “strumento di dominio secondario”. La battaglia si è spostata sul piano della produzione e diffusione delle idee.E’ vero che le tecnologie informatiche non sono in grado di «promuovere, di per sé, un cambiamento sociale positivo», anche perché consentono alle autorità di avere un controllo senza precedenti sugli individui e le reti che li uniscono. Ma è pur vero che si tratta di “tecnologie di libertà” malleabili, flessibili: sono insomma un’occasione senza precedenti. Attraverso Internet ti possono sorvegliare, certo, ma potevano farlo anche prima, la differenza è che ora, grazie a Internet (a un suo utilizzo consapevole) «anche tu li puoi sorvegliare». Molto utile la postfazione di Andrea Staid, che mette i puntini sulle “i” e aggiorna il dialogo ai tempi (recentissimi) delle cosiddette “wikirivolte”, i nuovi movimenti insurrezionali che hanno spazzato via dittature longeve «nel più completo stupore delle democrazie occidentali».Non c’è rivoluzione che non abbia sfruttato il medium dell’epoca (una citazione di Foucault ci ricorda la funzione rivoluzionaria dei discorsi di Khomeini diffusi sotto forma di audiocassette) e quindi anche i social media possono essere uno strumento importante. Ma non potranno mai sostituire «la condivisione fisica delle emozioni» che avviene nelle strade e nelle piazze. Staid avverte: «Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che sarà la rete a salvarci… Non basterà Internet per risolvere il problema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sugli animali, sulla terra. La mutazione culturale libertaria deve essere in grado di penetrare nelle reti di rapporti reali fra esseri umani». Insomma, la cara vecchia battaglia per “decostruire il dominio”». Una cosa è certa: il pensiero libertario (l’anarchismo) non può che essere pluralista, “in divenire” e anti-dogmatico, si deve nutrire di una “concezione relativista critica”, quindi deve essere in grado di adattarsi ai contesti e alle circostanze, soprattutto oggi, in un’epoca in cui, come dice Castells, «il nodo problematico che caratterizza la società rimanda all’idea di libertà», che non può essere solo quella dell’individuo ma la «libertà di tutti».(Fabrizio Tassi, “Tecnologie di libertà”, da “Micromega” dell’11 marzo 2014. Il libro: Manuel Castells e Tomàs Ibañez, “Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale”, Eléuthera, 67 pagine, 7 euro).Premessa: «Il potere sta nella mente delle persone». Se controlli il modo in cui la gente pensa, comunica, si informa, controlli il potere. La riflessione non è certo nuova o rivoluzionaria, ma sono nuove (rivoluzionarie?) le conseguenze che produce in un’epoca come la nostra, in cui ogni minuto «in rete vengono mandati all’incirca centomila tweet, condivisi un milione e mezzo tra aggiornamenti e commenti Facebook e inviate oltre centosettanta milioni di mail». Ecco perché «le battaglie per la libertà nel nuovo sistema di comunicazione sono battaglie più importanti di quelle sul salario minimo». Lo dice Manuel Castells, il sociologo catalano-statunitense che ha insegnato a Berkeley per 25 anni (oggi è docente all’University of Southern California) e ha scritto libri celebri come “Galassia Internet”, “Comunicazione e potere” e la trilogia “L’età dell’informazione”.
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Il socialista Hitler: riuscirò dove Marx e Lenin fallirono
Il 16 giugno 1941, mentre Hitler preparava le sue forze per l’Operazione Barbarossa (l’invasione dell’Unione Sovietica), Josef Goebbels lavorava al “nuovo ordine” che i nazisti avrebbero imposto alla Russia, una volta conquistata. Non ci sarebbe stato ritorno, egli scriveva, per i capitalisti, per i preti e per gli Zar. Piuttosto, in luogo del degradato bolscevismo ebraico, la Wehrmacht avrebbe imposto “Der echte Sozialismus”: il socialismo reale. Goebbels non ha mai dubitato del fatto di essere un socialista. Egli concepiva il nazismo come una migliore e più plausibile forma di socialismo, rispetto a quella che veniva propagandata da Lenin. Invece di diffondersi attraverso le nazioni, il socialismo avrebbe operato all’interno del Volk, il popolo. Così totale è la vittoria culturale della sinistra moderna, che finanche il mero racconto di questi eventi finisce con l’essere stridente. Ma è una questione che pochi, all’epoca, avrebbero trovato particolarmente controversa.George Watson così ha scritto nel “The Lost Literature of Socialism”: «E’ chiaro oltre ogni ragionevole dubbio che Hitler ed i suoi collaboratori credevano di essere socialisti e che altri, inclusi i socialdemocratici, la pensavano allo stesso modo». L’indizio è nel nome. Le generazioni successive della sinistra hanno cercato di spiegare la presenza (imbarazzante) del termine “socialista” nel nome di quel partito, Partito Nazionale Socialista dei Lavoratori Tedeschi, definendola come una cinica trovata pubblicitaria, o un’imbarazzante coincidenza. Il termine, invece, indicava esattamente quello che lo Nsdap si proponeva. Ad Hermann Rauschning, un prussiano che aveva brevemente lavorato per i nazisti – prima di respingere quest’ideologia e fuggire dal paese – e che aveva molto ammirato il pensiero dei rivoluzionari conosciuti in gioventù e che credeva fossero, però, più dei chiacchieroni che dei prevaricatori, Hitler, in effetti, disse: «Ho messo in pratica ciò che questi venditori ambulanti, questi pennivendoli, avevano timidamente cominciato a fare», aggiungendo che l’intero nazionalsocialismo si basava su Marx.Hitler credeva che l’errore di Marx fosse stato quello di favorire la guerra di classe, invece dell’unità nazionale – ovvero di aver volto i lavoratori contro gli industriali, invece di arruolare entrambi i gruppi nel rispettivo ordine corporativo. Il suo scopo, come sosteneva il suo consigliere economico, Otto Wagener, era quello di convertire il “Volk” tedesco al socialismo, senza eliminare al contempo i vecchi individualisti – termine con il quale indicava i banchieri ed i proprietari della fabbriche – che potevano meglio servire il socialismo, egli pensava, generando entrate per lo Stato. «Quello che il marxismo, il leninismo e lo stalinismo non sono riusciti a raggiungere – sosteneva Wagener – saremo in grado di ottenerlo noi». I lettori di sinistra staranno ormai ribollendo. Ogni volta che tocco quest’argomento, quelli che si ritengono progressisti e considerano l’antifascismo come parte della propria ideologia, danno in escandescenze. Beh, ragazzi, forse ora sapete com’è che ci sentiamo noi conservatori quando associate liberamente il nazismo con “la destra”.Per essere chiaro, non credo assolutamente che le sinistre moderne abbiano delle subliminali tendenze naziste, o che il loro odio per Hitler sia in alcun modo una finzione. Non è questo quello che voglio dire. Quello che voglio sostenere, in tutta sincerità, è che la continuità ideologica tra libero mercato e fascismo è un’idea altrettanto falsa. L’idea che il nazismo non sia che una forma di conservatorismo, seppur più estrema, si è fortemente insinuata nella cultura popolare. Ce ne rendiamo conto non solo quando dei foruncolosi studenti gridano “fascista” ai Tories, ma anche quando gli esperti definiscono i partiti rivoluzionari anticapitalisti – come ad esempio il Bnp, British National Party, e Alba Dorata – come “estrema destra”. Su che cosa si basa questa connessione? E’ come se si dicesse, puerilmente, che quelli di sinistra sono compassionevoli, mentre quelli di destra sono brutti, e che i fascisti sono cattivi.Messa giù in questo modo l’idea sembra un po’ idiota… ma pensate ai gruppi di tutto il mondo che la Bbc, ad esempio, definisce “di destra”: ovvero ai talebani (che vogliono la proprietà comune dei beni), oppure ai rivoluzionari iraniani (che hanno abolito la monarchia, sequestrato le industrie e distrutto la classe media), o a Vladimir Zhirinovsky, che si strugge per lo stalinismo. La barzelletta che “i nazisti erano di estrema destra” non è che un sintomo della più ampia nozione riguardo il termine “destra”, che non è altro che un sinonimo di “cattivo”. Uno dei miei elettori, una volta, si lamentò con la Bbc per un rapporto sulla repressione dei popoli indigeni del Messico, il cui governo veniva etichettato come “di destra”. Il partito al governo, fece notare, era un membro dell’Internazionale Socialista e questa cosa era rilevabile dal suo stesso nome: Partito Rivoluzionario Istituzionale. Impagabile fu la risposta della Bbc. Sì, accettiamo il fatto che si trattava di un partito socialista, «ma ciò che il nostro corrispondente stava cercando di far passare è che si trattava di un partito autoritario».L’autoritarismo, nella realtà, è stata una caratteristica comune ai socialisti di entrambe le varietà (quelli di tipo nazionale e quelli di tipo leninista), che si attaccavano l’un l’altro nei campi di prigionia, e usavano reciprocamente i plotoni di esecuzione. Ogni fazione detestava l’altra in quanto eretica, ma entrambi disprezzavano gli individualisti del libero mercato perché irrecuperabili. Friedrich von Hayek sottolineò, nel 1944, che la loro battaglia fu molto feroce perché si trattava, in realtà, di una battaglia tra fratelli. L’autoritarismo – ovvero, tanto per dargli un nome meno carico, la convinzione che la coazione statale sia giustificata dal perseguimento di un obiettivo più alto, come ad esempio il progresso scientifico o una maggiore uguaglianza – è stato tradizionalmente una caratteristica sia dei socialdemocratici che dei rivoluzionari.Jonah Goldberg ha lungamente descritto il fenomeno nella sua opera magna, “Liberal Fascism”. Molte persone si sentono offese dal suo titolo, evidentemente senza averlo letto perché, fin dalle prime pagine, egli rivela che la frase non era sua. Citava un impeccabile progressista, HG Wells, il quale, nel 1932, disse ai giovani liberali che dovevano diventare “liberal-fascisti” e “nazisti illuminati”. In quei giorni molti tra i più importanti intellettuali progressisti, tra cui Wells, Jack London, Havelock Ellis ed i Webbs, erano a favore dell’eugenetica, convinti che solo le ossessioni dei religiosi stavano trattenendo lo sviluppo di una specie più sana. Il modo asettico con cui ne furono precisate le conseguenze è stato ampiamente modificato nel nostro discorso, come del resto le reali parole di Hitler. George Bernard Shaw, ad esempio, così ebbe a dire nel 1933: «Lo sterminio deve essere fatto su base scientifica (se mai uno sterminio sia mai stato effettuato con umanità e con rimorso) e fino in fondo… Se vogliamo un certo tipo di civiltà e di cultura, dobbiamo sterminare il genere di persone che non vi rientra».L’eugenetica, naturalmente, sfocia facilmente nel razzismo. Lo stesso Engels parlò di «spazzatura razziale», riferendosi a quei gruppi che sarebbero stati necessariamente soppiantati una volta che il socialismo scientifico fosse stato attuato. Condite tutto ciò con una spolverata di anticapitalismo e spesso otterrete l’antisemitismo di sinistra, un qualcosa che abbiamo tagliato dalla nostra memoria, ma che una volta sarebbe passata senza obiezioni. «Com’è possibile che un socialista possa non essere antisemita?». E’ questo quello che Hitler aveva chiesto ai membri del suo partito, nel 1920. Gli intellettuali della sinistra contemporanea che criticano Israele sono, in segreto, antisemiti? No. Non nella stragrande maggioranza dei casi. Sono, i socialisti moderni, interiormente desiderosi di mettere nei campi di prigionia gli scettici del riscaldamento globale? No. Vogliono, i keynesiani, introdurre l’intero impianto del corporativismo, che fu definito da Mussolini come «tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato»? Ancora una volta, no.Ci sono degli idioti, ovviamente, che finiscono con lo screditare ogni causa, ma la maggior parte delle persone di sinistra è sincera nel suo dichiarato impegno per i diritti umani, per la dignità personale e per il pluralismo. Il mio risentimento verso molte persone di sinistra (non tutte) è semplice da descrivere. Rifiutando di restituire il complimento, assumendo quindi una sorta di superiorità morale, rendono il dialogo politico quasi impossibile. Usare il termine “destra” per significare un qualcosa di “indesiderabile” ne costituisce un piccolo ma importante esempio. La prossima volta che sentite le sinistre usare la parola “fascista” come un insulto a carattere generale, sottolineate delicatamente la differenza che c’è tra ciò che a loro piace immaginare dello Nsdap e ciò che questo partito ha effettivamente proclamato.(Daniel Hannah, “La sinistra diventa incandescente se qualcuno ricorda le radici socialiste del nazismo”, da “The Telegraph”del 25 febbraio 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Giornalista e politico britannico, esponente del Partito Conservatore, Hannah è deputato al Parlamento Europeo).Il 16 giugno 1941, mentre Hitler preparava le sue forze per l’Operazione Barbarossa (l’invasione dell’Unione Sovietica), Josef Goebbels lavorava al “nuovo ordine” che i nazisti avrebbero imposto alla Russia, una volta conquistata. Non ci sarebbe stato ritorno, egli scriveva, per i capitalisti, per i preti e per gli Zar. Piuttosto, in luogo del degradato bolscevismo ebraico, la Wehrmacht avrebbe imposto “Der echte Sozialismus”: il socialismo reale. Goebbels non ha mai dubitato del fatto di essere un socialista. Egli concepiva il nazismo come una migliore e più plausibile forma di socialismo, rispetto a quella che veniva propagandata da Lenin. Invece di diffondersi attraverso le nazioni, il socialismo avrebbe operato all’interno del Volk, il popolo. Così totale è la vittoria culturale della sinistra moderna, che finanche il mero racconto di questi eventi finisce con l’essere stridente. Ma è una questione che pochi, all’epoca, avrebbero trovato particolarmente controversa.
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Una testa, un voto: solo nel proporzionale c’è democrazia
Nell’esperienza italiana, il proporzionale è la democrazia. Lo è sempre stato, del resto. Quando esistevano davvero dei democratici, le loro rivendicazioni fondamentali erano: suffragio universale e sistema proporzionale. Non era un metodo elettorale come un altro, ma una civiltà. Significava opporsi al sistema dei notabili, dei maggiorenti che si riunivano al Circolo dei Nobili, nella Loggia massonica o nell’ufficio del Prefetto, e designavano il candidato per il collegio, che avrebbe ottenuto il consenso dei possidenti e il sostegno delle autorità. Una minoranza che si trasformava in maggioranza escludendo le classi popolari o riducendo ai minimi termini la loro rappresentanza. Era la rivendicazione naturale dei partiti popolari con una visione nazionale (o anche internazionale) che andasse oltre la ristretta dimensione localistica, contro la piccola politica ridotta a pura gestione di clientele e favori nel proprio collegio.Nell’unica occasione in cui nel Regno d’Italia si votò con il proporzionale, imposto nel 1919 dalla situazione postbellica, dall’ingresso forzato delle masse nella vita dello Stato e voluto anche dall’unico presidente del consiglio che si fosse autodefinito “democratico”, Francesco Saverio Nitti, il mondo rivelato da quelle elezioni sovvertiva tutte le raffigurazioni ufficiali e usuali. Era un’Italia in cui socialisti e cattolici erano la maggioranza del paese, e i liberali una minoranza. Contro quel mondo venne mossa una guerra dura e spietata, sanguinosa, e la conquista del proporzionale venne presto schiacciata. Ma va ricordato che nelle elezioni del 1924 con la fascistissima legge Acerbo entrarono comunque in Parlamento il Psu con 5,90% e 24 deputati, il Psi, 5,03%, 22 deputati e il Pcd’I, col 3,74% e 19 deputati. Ai reazionari seri importava prendere a tutti i costi il premio di maggioranza (con le buone e soprattutto con le cattive) ma non c’erano le soglie di sbarramento all’8% o al 12% del bipolarismo straccione del nostro tempo.Dal 1945, con la conquista della democrazia e del suffragio realmente universale (maschile e femminile) il proporzionale divenne il naturale metodo di formazione del Parlamento. Non si trova indicato nella Costituzione perché implicito nella Costituzione stessa e nei suoi principi ispiratori. L’unico tentativo di stravolgere la democrazia parlamentare fu l’approvazione nel 1952 della “legge truffa”, definita tale per tre motivi: 1) non voleva assicurare governabilità, ma spadroneggiamento, perché andava a chi aveva già raggiunto la maggioranza assoluta; 2) era possibile da conseguire solo per il blocco di centro, perché le opposizioni socialcomuniste e fasciste non avrebbero mai potuto coalizzarsi; 3) e soprattutto dava un premio spropositato che consentiva alla maggioranza di cambiare la Costituzione a suo piacimento. Fallito di misura quel tentativo, sulla civiltà del proporzionale si è retta la Repubblica italiana nell’epoca delle sue maggiori conquiste sociali, civili, culturali.Preparata da una lunghissima campagna rivolta all’opinione pubblica e da una vera e propria demonizzazione della democrazia parlamentare, nel 1993 la forma della Repubblica è stata cambiata surrettiziamente attraverso un referendum demagogico che minava alla base la struttura della nostra democrazia. Da allora i voti dei cittadini non valgono tutti allo stesso modo. Il maggioritario ha scardinato il principio della rivoluzione francese “una testa, un voto”. Il popolo è stato convinto di eleggere direttamente un governo e un premier, nella “Costituzione reale” che si è sovrapposta alla Costituzione scritta. E’ una convinzione profondamente radicata, dopo vent’anni di maggioritario, di ideologia o addirittura di “religione” ad esso espirate. Un popolo di sudditi pensa che la democrazia consista nell’investire di un potere quasi assoluto un caudillo.Tutti hanno potuto constatare il crollo verticale di credibilità e di rappresentanza che la politica ha vissuto negli ultimi vent’anni. Eppure persistono leggende radicatissime che demonizzano la “prima Repubblica”. C’erano troppi partiti, si dice. Erano mediamente sette: nulla a che fare con gli oltre quaranta raggruppamenti censiti all’epoca dei governi di Silvio Berlusconi. C’erano piccoli partiti, si dice. C’era qualche piccolo partito, dignitoso e pieno di storia, come il partito repubblicano di La Malfa: nulla a che fare con gli “amici di Mastella”, i “responsabili” di Scilipoti e via dicendo. Cambiavano troppi governi, si dice, vero, ma si dimentica la sostanziale continuità di un sistema politico che ha avuto pochissime svolte nell’arco della sua esistenza. Se si fosse voluto veramente ovviare a questo problema si poteva inserire in Costituzione il principio della sfiducia costruttiva, che garantisce la stabilità della più solida democrazia europea, quella tedesca, che era – con molte differenze – anche la più vicina al nostro ordinamento.E a proposito di sistema tedesco, va ricordato come, nel suo totale analfabetismo istituzionale, Matteo Renzi abbia dichiarato più volte che è inconcepibile che la Merkel pur avendo vinto le elezioni sia stata costretta a fare “inciuci” con le opposizioni. Ma si chiama democrazia parlamentare, non è la “Ruota della Fortuna”, per governare devi avere una maggioranza in Parlamento, e anche prima delle ultime elezioni la Merkel non aveva la maggioranza assoluta ma governava assieme ai liberali, ora scomparsi dal Parlamento. E non è vero che “in tutto il mondo” la minoranza che prende un voto in più delle altre si prende tutto il cucuzzaro, come ritiene il politico di Rignano sull’Arno: questa assurdità esisteva solo nel nostro sistema elettorale che la Corte ha dichiarato incostituzionale.Oggi dalla fossa biologica del maggioritario si levano voci preoccupate di opinionisti che ammoniscono a non tornare nella “palude del proporzionale”. L’ideologia del maggioritario, con l’invocazione di maggiore governabilità a scapito della rappresentanza, ricorda ormai un alcolizzato all’ultimo stadio che invoca sempre più alcool di pessima qualità invece di provare a disintossicarsi. Si usa dire, anche a sinistra, che il proporzionale renderebbe obbligatorie le larghe intese. Non è affatto vero: perché un sistema elettorale comporta scelte diverse da parte degli elettori, come si vide nell’Italia del 1919 (e come, in negativo, abbiamo visto nell’Italia del 1994), e un voto libero da assilli e ricatti di voto “utile” o coartato può finalmente rispecchiare il paese reale e dargli rappresentanza. Certo questo sistema richiederebbe comunque intese come è nella normalità della democrazia parlamentare, e richiederebbe capacità di far politica, di trovare mediazioni, di dare rappresentanza alla complessità della società.Temo che qui si aprirebbe una battaglia molto difficile, soprattutto a sinistra, dove la droga maggioritaria ha fatto perdere completamente la cognizione della realtà e dei rapporti di forza. Non riguarda solo il Pd, nato con una “vocazione maggioritaria” (che in genere è servita a creare maggioranze altrui), ma anche i cespuglietti subalterni che non sarebbero in grado di superare il quorum ma conducono vita parassitaria in simbiosi con l’organismo del partito maggiore. Basare tutte le obiezioni alla legge elettorale sul tema delle preferenze (una particolarità italiana che non esiste in quasi nessun paese europeo) rivela una debole ipocrisia, laddove sono in gioco temi molto più seri e gravi: rappresentanza della società, pluralismo politico, la stessa sopravvivenza di una democrazia parlamentare e costituzionale. Ma qui viene a galla l’equivoco che ha accompagnato tutte le mobilitazioni dell’autoproclamata “società civile” contro il Porcellum, che non si sono mosse contro lo stravolgimento della rappresentanza e il maggioritario in sé, ma in nome del ritorno al collegio uninominale dei notabili e degli accordi preventivi tra piccoli e grandi partiti. Ed è incredibile che oggi in Italia la battaglia di civiltà del proporzionale sia affidata al solo Beppe Grillo.Bisogna che qualcuno cominci a dire che non accetterà la legittimità di governi di minoranza, che i premi di maggioranza sono un furto di rappresentanza, che una legge elettorale che trasforma una minoranza in maggioranza è comunque una truffa, qualunque nomignolo latino si voglia dare a questo sopruso. I due partiti che si mettono d’accordo per spartirsi il Parlamento ed escludere milioni di cittadini dalla rappresentanza mettono assieme soltanto il 45% dei voti espressi: non possono pretendere di ritagliarsi un sistema elettorale su misura che escluda il resto del paese. Andiamo verso tempi difficilissimi, forse drammatici, per tutta l’Europa e anche e soprattutto per il nostro paese.Abbiamo bisogno di istituzioni che rappresentino tutti i cittadini, che non escludano nessuno, che riattivino un tessuto di solidarietà che è stato lacerato negli ultimi decenni. Abbiamo bisogno di veri partiti e non di comitati elettorali o formazioni personali, abbiamo bisogno di vera politica dopo vent’anni di ubriacature dell’antipolitica. Una legge elettorale l’abbiamo già, ed è quella disegnata dalla Corte Costituzionale. Chiamiamola Perfectum se è obbligatorio un nome latino. Si sciolgano le Camere e si vada a votare con quella: avremo un Parlamento che rispecchia realmente il paese e che sarà l’unico legittimato a cambiare la Costituzione, nelle forme previste dalla Costituzione stessa.(Gianpasquale Santomassimo, “Elogio del proporzionale”, da “Il Manifesto” del 29 gennaio 2014, intervento ripreso da “Micromega”).Nell’esperienza italiana, il proporzionale è la democrazia. Lo è sempre stato, del resto. Quando esistevano davvero dei democratici, le loro rivendicazioni fondamentali erano: suffragio universale e sistema proporzionale. Non era un metodo elettorale come un altro, ma una civiltà. Significava opporsi al sistema dei notabili, dei maggiorenti che si riunivano al Circolo dei Nobili, nella Loggia massonica o nell’ufficio del Prefetto, e designavano il candidato per il collegio, che avrebbe ottenuto il consenso dei possidenti e il sostegno delle autorità. Una minoranza che si trasformava in maggioranza escludendo le classi popolari o riducendo ai minimi termini la loro rappresentanza. Era la rivendicazione naturale dei partiti popolari con una visione nazionale (o anche internazionale) che andasse oltre la ristretta dimensione localistica, contro la piccola politica ridotta a pura gestione di clientele e favori nel proprio collegio.
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De Benoist: guarire il mondo, oltre destra e sinistra
Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».Per Preve, ricorda Zarelli su “La Voce del Ribelle” (post ripreso da “Come Don Chisciotte) la società contemporanea è dominata da un’ideologia che intreccia due formule dogmatizzate, destra e sinistra intese come «categorie generiche, non più identificate con concrete forze sociali». Di destra è il cosiddetto “pensiero unico”, ovvero l’idea che la società di mercato e il capitalismo internazionale – con tutti i suoi corollari, compresa la guerra intesa come operazione di “polizia internazionale” – costituiscano l’unico orizzonte possibile e auspicabile; di sinistra invece è lo stile “politically correct”, imperniato sull’esaltazione dei diritti dell’individuo, sul moralismo e sull’esigenza di politeness della politica, che viene ridotta a mero dibattito o pura chiacchiera. «Pressoché tutte le agenzie operanti all’interno dell’industria culturale, così come il sapere accademico, si muovono all’interno di questo codice dominante, la cui funzione è quella di legittimare il sistema vigente, raccogliendone i benefici in termini di visibilità mediatica e di carriere “intellettuali”».Idee di destra, valori di sinistra? De Benoist non è allineato con questa combinazione, dato che il suo pensiero politico potrebbe essere rappresentato con una formula esattamente contraria: valori di destra, idee di sinistra. Oggi, scrive Zarelli, destra e sinistra sono state entrambe «soppiantate dall’adozione di un trasversale criterio di governance, che evita accuratamente di mettere in discussione il quadro generale di riferimento di una società di mercato – ovvero di una società che è diventata mercato – sulla quale ormai quasi tutti concordano». Alain de Benoist invece «esprime una posizione che è esattamente l’opposto rispetto a quella dominante, la quale sostiene l’uguaglianza di principio tra gli uomini e al contempo cristallizza però le differenze sociali e le conseguenti ingiustizie». Il che, come sostenne già nel 1995 a Perugia, «non significa dunque che non esisterà più una destra o una sinistra», ma «le linee di frattura sono ormai trasversali: passano all’interno della destra come all’interno della sinistra». Le due categorie sono destinate a diventare complementari, «assumendo ciò che di meglio e di più vero esse possono avere».La ricerca meta-politica di de Benoist è orientata verso un ambito «in cui collocare la sua prospettiva di valore», che però «non coincide più con l’appartenenza a un’identità politica data». Per questo, lanciando la rivista “Krisis” alla fine degli anni ‘80, la definì «di sinistra, di destra, del fondo delle cose e del mezzo del mondo». Intellettuale “non catalogabile”, de Benoist considera post-moderno il suo pensiero, che critica la modernità. Dal suo avamposto isolato, riflette: la dicotomia destra-sinistra è un’invenzione «recente e localizzata», cioè «legata all’avvento delle democrazie di tipo parlamentare». Infatti, «non appena ci si allontana dall’Occidente per andare verso il terzo mondo, i concetti di destra e sinistra appaiono sempre meno pertinenti». E visto che quei concetti sorgono in Europa solo con la Rivoluzione Francese, bisogna ammettere che ciò che designano «non esisteva prima», e quindi non contengono «niente di immutabile». Dato che si tratta di categorie moderne, andrebbero riscritte in modo diacronico: la modernità (individual-universalista) sarebbe “di sinistra” e le società dell’Ancien Régime “di destra”. Ma questo è vero solo per noi occidentali: «Che cosa dire, allora, delle società tradizionali? E di quale utilità per l’analisi può essere una “destra” che finirebbe con l’inglobare i nove decimi della storia dell’umanità?».Il dogma fondamentale della civilizzazione moderna, scrive Zarelli, è lo sviluppo economico, o “progresso”, che consiste «nella sistematica sostituzione dell’ecosfera o mondo reale (la fonte dei benefici naturali) con la tecnosfera o mondo surrogato (la fonte dei benefici artificiali)». Problema: «Nessun “credente” accetta l’idea che sia proprio questo “sacro” processo la causa della sistematica distruzione sociale e ambientale cui stiamo assistendo, che egli imputa invece a deficienze o difficoltà nella sua realizzazione; di conseguenza, la visione del mondo del “modernismo” gli impedisce di comprendere il rapporto con il mondo reale, quello in cui vive, e di adattarsi a esso in modo da massimizzare il proprio benessere e la propria reale ricchezza». La visione del mondo del modernismo, e in particolare i paradigmi della scienza e dell’economia, «servono invece a razionalizzare lo sviluppo economico, o “progresso”, che sta portando l’uomo alla distruzione del mondo naturale». Com’è possibile che l’obiettività scientifica si comporti in modo tanto poco oggettivo? Semplice: «La scienza non è oggettiva, e questo è stato ben argomentato da alcuni dei maggiori filosofi della scienza contemporanea, come Thomas Khun, Imre Lakatos o Paul Feyerabend».Gli scienziati, continua Zarelli, accettano il paradigma della scienza – e quindi la concezione del modernismo – perché «razionalizza le politiche che hanno fatto nascere il mondo moderno in cui essi credono». Del resto, «è molto difficile, per una persona, evitare di considerare il mondo in cui vive – l’unico che ha mai conosciuto – come la condizione normale della vita umana su questo pianeta». Sicché, «è improrogabile l’affermazione di una “visione del mondo” ecologica, alla luce della quale sia possibile invertire la tendenza e ricomporre la frattura tra natura e cultura, aprendosi a una interpretazione sacrale del vivente che reincanti la realtà». Per Edward Goldsmith, l’obiettivo primario di una “società ecologica” deve essere un modello di comportamento teso a preservare l’ordine fondamentale del mondo naturale e del cosmo.In molte culture tradizionali esiste una parola per definire quel modello di comportamento: gli indiani dell’epoca vedica lo chiamavano “rta”, nell’Avesta il termine è “a_a”, gli antichi egizi lo chiamavano “maat”, gli indù e i buddisti “dharma”, i cinesi “Tao”. «Il Tao come “principio primo”, onnicomprensivo. Gli esseri umani, seguendo il Tao, o la Via, si comportano naturalmente». In termini spirituali, questo significa attenersi al principio del “Wu wei” (agire senza agire) di Lao-Tzu, perché «le cose, quando obbediscono alle leggi del Tao, formano un tutto armonioso e l’universo diventa un tutto integrato». In altre parole, quello che comunemente viene definito come “progresso” è la negazione stessa della “evoluzione” all’interno del processo naturale, sostiene Zarelli. «Poiché l’evoluzione deve essere identificata con la Via, che mantiene l’ordine naturale e quindi la stabilità dell’ecosfera», il progresso (o anti-evoluzione) «sconvolge l’ordine naturale pregiudicandone la stabilità».La “rivoluzione conservatrice”, controversa tendenza culturale affermatasi tra le due guerre mondiali, tentò di conciliare mito e scienza. Una vocazione che ricorda la l’impegno culturale di «rifondazione dei riferimenti filosofico-politici» sviluppato da Alain de Benoist «in una prospettiva comunitaria e pluralista». Impegno riassumibile in due punti: la fine della dicotomia destra-sinistra (in favore dell’elaborazione di una nuova cultura) e l’intuizione secondo cui «la trasversalità tra destra e sinistra deve essere raggiunta attraverso nuove sintesi», come «positiva contraddizione» e non «mera reciproca negazione». Da qui la ricerca di «nuovi, ulteriori e proficui paradigmi» per interpretare e cogliere le contraddizioni della civilizzazione occidentale. Riuscirà De Benoist a rinnovare lessico, modalità ideative e contenuti del dibattito politico-culturale contemporaneo? Siamo certi, conclude Zarelli, che l’impegno «è all’altezza della sua intelligenza», confortata dall’onestà intellettuale di questo «pensatore “epocale”, oltre il moderno».Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».