Archivio del Tag ‘prezzi’
-
Putin: Usa fermatevi, abbiamo missili iper-sonici ‘imparabili’
Scordatevi di passarla liscia, dopo aver colpito la Russia con un “first strike”, un attacco nucleare preventivo come quello lungamente accarezzato dai neocon annidati alla Casa Bianca sotto la presidenza Obama: Mosca dispone di armi nuovissime e micidiali, in grado di annullare l’intero arsenale balistico statunitense. Ha del clamoroso, il recente annucio di Putin: i russi hanno a disposizione armamenti fino a ieri inimmaginabili. Missili atomici intercontinentali fulminei, non intercettabili: viaggiano a una velocità pari a 20 volte quella del suono, e non in base a un’orbita prestabilita. I missili Avangard e Sarmat sono a guida remota, pilotati a distanza e diretti sul bersaglio, su cui piombano dopo un volo a bassissima quota. In più, la Russia annuncia di aver varato il primo drone sommergibile della storia, un natante senza pilota in grado di filare a 200 chilometri orari a grande profondità, anch’esso armato con missili atomici. «Non esiteremo a impiegare questi armamenti – avverte Putin – per difendere il suolo russo e anche i nostri più vicini alleati». Il che, tradotto, «significa una sola cosa: la protezione strategica russa si estende alla Cina», sostiene Giulietto Chiesa su “Pandora Tv”. Di colpo, l’annuncio del Cremlino vanifica 15 anni di continue provocazioni da parte degli Usa, che hanno sostanzialmente accerchiato la Federazione Russa.Tutto comincia nel 2002, un anno dopo l’11 Settembre, quando George W. Bush decide di stracciare il trattato Abm stipulato nel 1975: impegnava Usa e Urss a non sviluppare difese strategiche contro i missili balistici, esponendo in tal mondo le due superpotenze, in modo simmetrico, alla rappresaglia incrociata – la famosa “pax nucleare”, fondata sulla reciproca deterrenza atomica. Dopo il crollo delle Torri Gemelle, in piena era Bush, gli Usa hanno avviato la loro “guerra infinita” col pretesto del terrorismo islamico, di fatto chiudendo l’ex Unione Sovietica in una sorta di assedio progressivo. Afghanistan e Georgia, estensione della Nato nell’Est Europa (violando la storica promessa fatta da Bush senior a Gorbaciov), quindi la clamorosa provocazione del golpe in Ucraina travestito da rivolta democratica, a ridosso della frontiera russa, e infine la guerra in Siria, per tentare di rovesciare l’alleato mediorientale di Putin, a capo dell’unico paese che ospiti una base militare di Mosca (quella di Tartus, nel Mediterraneo) situata fuori dai confini russi. Ultimo capitolo del piano pluriennale di accerchiamento: la tensione (pirotecnica) con la Corea del Nord. Obiettivo generale degli Usa, secondo Chiesa: posizionare truppe e missili a ridosso dei missili di Mosca, per poterli colpire al momento del lancio.Di recente, aggiunge Chiesa, gli Stati Uniti hanno annunciato che tra 5-6 anni sarà pronto il loro “scudo spaziale antimissile”, progettato probabilmente per neutralizzare i vecchi armamenti russi. Le nuove super-armi di Putin invece sono già pronte, e l’annuncio del Cremlino (difficile che si tratti di un bluff) potrebbe avere conseguenze politiche inaudite: ristabilisce l’antica parità strategica infranta dagli Usa e mette anzi la Russia in posizione di vantaggio. Come dire: finiamola una volta per tutte, con questa corsa folle, perché nessuno potrà colpire l’altro senza rimetterci la pelle. I super-missili russi possono radere al suolo il Giappone e colpire l’America, ma è ovvio che nel mirino c’è soprattutto l’Europa (Italia in primis) trasformata in “fortezza” con decine di basi Nato: le installazioni missilistiche europee, par di capire, sarebbero le prime a essere colpite. La mossa di Putin, che aveva sperato invano nell’elezione di Trump per poter voltare pagina, ha un valore geopolitico inaudito. Fino alla vigilia delle sanzioni euro-atlantiche contro l’economia russia, all’epoca dei giochi olimpici di Sochi, Putin aveva ripetuto un messaggio chiarissimo: la Russia chiede rispetto e vuole essere un partner dell’Occidente, non un antagonista. Obama e la Clinton hanno risposto con la demonizzazione del Cremlino, trasformando l’Est Europa in una caserma Nato.Ora, Putin rimette la palla al centro. Non provateci, è come se dicesse: non vi conviene. Bisogna cambiare politica: e se non basta la diplomazia, a pesare sarà la minaccia dei super-missili. E’ di enorme portata, osserva Chiesa, il passaggio in cui Putin avverte: reagiremo anche se a venir colpita fosse la Cina, che evidentemente non è ancora in grado di schierare armi analoghe: rivela la profondità dell’alleanza difensiva russo-cinese, maturata in risposta all’offensiva americana. Inoltre, aggiunge Chiesa, se queste armi sono già in funzione, la loro presenza cambia completamente il quadro strategico, sul piano militare: annulla, di colpo, la storica superiorità navale degli Usa, trasformando le portaerei in “barchette di carta”, «perché questi missili non sono “parabili”, attualmente: sono troppo veloci e imprevedibili». Di fatto, «va a farsi benedire l’idea stessa della guerra nucleare, così com’era stata concepita in tutti i decenni precedenti». Tramonta la storica superiorità strategica defli Stati Uniti? Implicazioni sconcertanti: archiviano «l’idea stessa della possibilità di uno scontro». E c’è di più: Russia e Cina si muoveranno insieme, nella conquista dello spazio. «Significa avere una proiezione prima impensabile, nel campo delle armi spaziali, grazie alla tecnologia russa e ai mezzi finanziari cinesi».«Con questa mossa – aggiunge Giulietto Chiesa – la Russia comunica che la parte militare della “guerra ibrida” è ancora disinnescabile: una bomba ancora fermabile». Ma quella che Papa Francesco chiama “Terza Guerra Mondiale a pezzi” è appunto “ibrida” e pienamente in corso: guerra mediatica, guerra tecnologica, guerra biologica, guerra climatica, guerra finanziaria. Poi c’è una guerra ancora più invisibile, affidata ad armi segrete in fase di sperimentazione. «E in tutte queste guerre – dice Chiesa – ho l’impressione che la Russia sia in grande svantaggio: sicuramente l’immensa rete web è interamente in mani americane». Altro problema, per Mosca: l’energia. «I russi sono molto vulnerabili sotto il profilo energetico, perché l’intero mercato del petrolio è ancora nelle mani dell’Opec, cioè degli Usa. A stabilire il prezzo del barile sono 9 grandi banche internazionali, di cui 6 statunitensi, che possono infliggere colpi durissimi a chi non sta al loro gioco, cioè paesi come Venezuela, Iran e Russia». La guerra biologica, sottolinea Chiesa, è basata sulle nano-tecnologie, con esiti inimmaginabili: «Parliamo di strumenti di controllo e di previsione che hanno la dimensione di una molecola, inseribili in qualsiasi corpo». Quanto alla guerra climatica, è la stesa marina Usa ad annunciare che, nel 2025 gli Stati Uniti avranno il controllo del clima mondiale: potranno condizionare la vita di milioni di persone, in ogni continente.«Tutto è aperto, ma questo quadro dipende comunque dalla realizzabilità di un attacco militare distruttivo e definitivo», conclude Giulietto Chiesa. «La Russia si conferma in questo momento una forza deterrente cruciale, anche se gli europei non l’hanno ancora capito. I cittadini sono fuori causa, dal momento che non sono informati: ma i dirigenti europei dei paesi Nato? Sono consapevoli del rischio che stiamo correndo, e della tendenza a uno scontro?». Il gruppo dirigente Usa puntava al “first strike” risolutivo entro 8-10 anni, che ora non è più pensabile: assisteremo quindi a un ragionevole cambiamento di strategia, o i gruppi che vogliono la guerra reagiranno invece con un’accelerazione? «Sfortunatamente, il sistema mediatico ha mascherato questa realtà: non l’ha fatta arrivare alle orecchie e agli occhi del grande pubblico occidentale. E’ tempo di rimettere al passo le lancette degli orologi, rendendoci conto di quello che sta davvero avvenendo». Dall’alto dei suoi nuovissimi missili supersonici, Vladimir Putin annuncia “cinque anni di tempo per rinsavire”.Scordatevi di passarla liscia, dopo aver colpito la Russia con un “first strike”, un attacco nucleare preventivo come quello lungamente accarezzato dai neocon annidati alla Casa Bianca sotto la presidenza Obama: Mosca dispone di armi nuovissime e micidiali, in grado di annullare l’intero arsenale balistico statunitense. Ha del clamoroso, il recente annucio di Putin: i russi hanno a disposizione armamenti fino a ieri inimmaginabili. Missili atomici intercontinentali fulminei, non intercettabili: viaggiano a una velocità pari a 20 volte quella del suono, e non in base a un’orbita prestabilita. I missili Avangard e Sarmat sono a guida remota, pilotati a distanza e diretti sul bersaglio, su cui piombano dopo un volo a bassissima quota. In più, la Russia annuncia di aver varato il primo drone sommergibile della storia, un natante senza pilota in grado di filare a 200 chilometri orari a grande profondità, anch’esso armato con missili atomici. «Non esiteremo a impiegare questi armamenti – avverte Putin – per difendere il suolo russo e anche i nostri più vicini alleati». Il che, tradotto, «significa una sola cosa: la protezione strategica russa si estende alla Cina», sostiene Giulietto Chiesa su “Pandora Tv”. Di colpo, l’annuncio del Cremlino vanifica 15 anni di continue provocazioni da parte degli Usa, che hanno sostanzialmente accerchiato la Federazione Russa.
-
La piovra del rating: ecco chi ha vinto (davvero) le elezioni
La questione cruciale elusa da tutti: l’Italia non ha più alcuna sovranità. Come stabilito all’estero nei piani alti del sistema di dominio, la colonia Italia ha votato con una legge truffaldina (incostituzionale) e ora si ritrova alcuni aspiranti inquilini di Palazzo Chigi senza arte né parte, razzisti e analfabeti funzionali che in economia si sono affidati ai soliti esperti allineati di regime. Così dalla padella del piddì si cadrà nella brace. Le agenzie di rating, nate agli inizi del Novecento negli Stati Uniti, analizzano la solidità finanziaria di soggetti quali Stati, enti, governi, imprese, banche, assicurazioni. Le principali agenzie sono tutte statunitensi: Moody’s, Standard & Poors e Fitch. Il 19 ottobre 2006, due delle tre agenzie di rating internazionali che agiscono in regime di oligopolio, avevano deciso di declassare l’Italia, dando un voto negativo alla capacità dell’Italia di gestire la sua economia. Non era la prima volta che questo accadeva, anche in presenza di governi di differente orientamento politico e le motivazioni della “pagella” sono sempre di una ripetitività e di una banalità quasi disarmanti: i tagli nelle spese di bilancio non sono sufficienti e la “riforma delle pensioni” (leggi privatizzazione delle pensioni) va troppo a rilento.L’effetto immediato del voto negativo è un aumento dei tassi di interesse per “ricomprare” la fiducia dei sottoscrittori di obbligazioni e di altre forme di credito, per cui tutto il debito pubblico e privato di una nazione costa subito di più, con ricadute negative sul bilancio statale e con l’aggiunta di ulteriori tagli alla spesa sociale. Per le nazioni più deboli, queste decisioni provocano anche una caduta del valore di scambio della moneta, con effetti devastanti sulle importazioni (che costano di più), sulle esportazioni (che valgono di meno) del paese, sul suo bilancio statale e sui livelli di vita della popolazione; con la deregolamentazione dell’economia, soprattutto dall’inizio degli anni Novanta, queste agenzie sono diventate il “grande fratello” finanziario e hanno progressivamente accumulato un potere immenso, superiore a quello degli Stati e delle banche centrali, sia nella valutazione delle politiche dei governi che dell’andamento economico di qualsiasi entità privata, determinando le decisioni di tutti gli attori economici.All’inizio le agenzie offrivano, a pagamento, ai detentori di titoli di credito i loro giudizi sul comportamento dei debitori. Adesso persino i debitori pagano per avere un “voto” prima di emettere un’obbligazione o attingere a qualsiasi altra forma di credito. Senza il voto delle agenzie, economicamente non si esiste più. Per poter comprare o vendere, per prendere o dare a prestito, bisogna pagare il “pizzo” per ricevere la protezione o il semplice riconoscimento da parte di questi nuovi potentati. Ora le tre maggiori agenzie di rating sono delle entità private strutturate come società per azioni e quindi parte della logica di mercato e sottoposte al principio del massimo profitto possibile; inoltre le agenzie in questione hanno partecipazioni dirette, anche attraverso i membri dei loro consigli direttivi, board of directors, nelle più grandi corporation internazionali e delle più grandi banche internazionali, pesantemente coinvolte nelle operazioni di finanza derivata, cioè in quelle speculazioni finanziarie principalmente responsabili delle bolle speculative e dell’attuale crisi finanziaria sistemica globale.La Standard & Poor’s (S&P) è sussidiaria della multinazionale McGraw-Hill Companies, con sede centrale a New York, colosso delle comunicazioni, dell’editoria, delle costruzioni e presente in quasi tutti i settori economici. La multinazionale, proprietaria anche di “Business Week”, nel 2005 vantava un fatturato di 6 miliardi e un profitto di 844 milioni di dollari. Il presidente di McGraw-Hill è Harold McGraw III, che è, tra le altre cose, contemporaneamente membro del Board of Directors della United Technology (multinazionale degli armamenti) e della ConocoPhillips (petrolio ed energia). È stato anche membro del “Transition Advisory Committe on Trade” del presidente George W. Bush, padre dell’ex capo della Casa Bianca. Tra i membri del Board of Directors della McGraw-Hill, che decidono quindi anche dell’attività della S&P, figurano: sir Winfried Bishoff, presidente della Citigroup Europa e uomo di punta della Henry Schroder Bank di Londra; Dougals N. Daft, presidente della Coca Cola Co.; Hilde Ochoa-Brillenmbourg, alto responsabile della Credit Union del Fmi-World Bank; James H. Ross, della British Petroleum; Edward B. Rust Jr., presidente dell’assicurazione State Farm Insurance Company (gigante del settore assicurativo, bancario e immobiliare, sotto scrutinio per le politiche troppo disinvolte dopo l’urgano Katrina), direttore della Helmyck & Payne, colosso del settore petrolifero e già membro del Transition Advisory Team Committee on Education della presidenza di George W. Bush (padre); Sidney Taurel, presidente della farmaceutica Eli Lilly (che in passato ha vantato tra i suoi dirigenti anche Kenneth Lay, condannato per la bancarotta della Enron) ex direttore dell’Ibm, già membro nel 2002 dell’Homeland Security Advisory Council.L’agenzia di rating Fitch di New York è sussidiaria della multinazionale dei servizi finanziari Fimalac, con sede centrale a Parigi. Nel 2005 la multinazionle americana delle comunicazioni Hearst Corporation ha rilevato il 20 per cento del pacchetto azionario. Il suo presidente è Marc Ladreit de Lacharriere, uomo della Renault e della Banque Suez. Tra i membri del Board of Directors figurano: David Dautresme della banca Lazard Freres; Philippe Lagayette della Jp Morgan & Cie; Bernard Mirat della Cholet-Dupont (finanza); Bernard Pierre della Fremapi (metalli preziosi). La Fimalac vanta anche un International Advisory Board per dare più lustro e potere alla multinazionale, che nel 2002 annoverava tra gli altri: Felix Rohatyn della Lazard Freres, l’uomo che ha recentemente smantellato l’industria americana dell’auto, Sholley della Ubs Warburg, Reimnits della Kommerz Bank, Peberan della Paribas, rappresentanti della Nestlè, della Bentelsmann e anche l’ex presidente della Federal Reserve americana Paul Volker e l’italiano Lamberto Dini.L’agenzia di rating Moody’s è sussidiaria della Moody’s Corporation, con sede centrale a New York. Il presidente è Raymond W. McDaniel Jr. Tra i membri del Board of Directors figurano: Basil L. Anderson della Stables Inc. e della Hasbro Inc (due giganti del settore vendite e servizi); Robert Glauber della Ing Group (settore bancario e assicurativo con base in Olanda), già sottosegretario del ministero delle finanze americano nel periodo 1989-92; Henry Mc Kinnell, della multinazionale farmaceutica Pfizer e della Exxon Mobil (petrolio); Nancy S. Newcomb della Citigroup e della Sysco Corporation (settore alimentare); John K. Wulff, della multinazionale chimica Herculer, della Kpmg (la multinazionale di consulenza finanziaria e di certificazione dei bilanci), della Sunoco (petrolio) e della Fannie Mae (che, insieme alla Freddie Mac, detiene quasi per intero il pacchetto ipotecario immobiliare americano).Le suddette tre agenzie americane di rating non sono solamente l’espressione dell’intreccio dominante delle multinazionali, ma in particolar modo sono una struttura organizzata delle principali banche del pianeta che controllano il sistema finanziario e debitorio delle nazioni e di tutti i settori dell’economia sia privata che pubblica. Le tre agenzie in questione non solo non sono qualificate nella pretesa di valutare la solidità economica e finanziaria degli Stati e delle imprese, ma sono parte integrante del problema sta portando il mondo economico verso il crack e la crisi sistemica con conseguenze devastanti per l’intera vita economica, sociale e politica del pianeta.(Gianni Lannes, “Grullini o grulloni?”, dal blog “Su la Testa” del 6 marzo 2018).La questione cruciale elusa da tutti: l’Italia non ha più alcuna sovranità. Come stabilito all’estero nei piani alti del sistema di dominio, la colonia Italia ha votato con una legge truffaldina (incostituzionale) e ora si ritrova alcuni aspiranti inquilini di Palazzo Chigi senza arte né parte, razzisti e analfabeti funzionali che in economia si sono affidati ai soliti esperti allineati di regime. Così dalla padella del piddì si cadrà nella brace. Le agenzie di rating, nate agli inizi del Novecento negli Stati Uniti, analizzano la solidità finanziaria di soggetti quali Stati, enti, governi, imprese, banche, assicurazioni. Le principali agenzie sono tutte statunitensi: Moody’s, Standard & Poors e Fitch. Il 19 ottobre 2006, due delle tre agenzie di rating internazionali che agiscono in regime di oligopolio, avevano deciso di declassare l’Italia, dando un voto negativo alla capacità dell’Italia di gestire la sua economia. Non era la prima volta che questo accadeva, anche in presenza di governi di differente orientamento politico e le motivazioni della “pagella” sono sempre di una ripetitività e di una banalità quasi disarmanti: i tagli nelle spese di bilancio non sono sufficienti e la “riforma delle pensioni” (leggi privatizzazione delle pensioni) va troppo a rilento.
-
Salari cinesi per tutti: ormai sono più alti che in Est Europa
O la Cina sta raggiungendo alcune zone dell’Europa in termini di salari, o le retribuzioni nei paesi entrati più di recente nell’Unione Europea sono schiacciati dalla competizione globale sul lavoro, una competizione che la Cina vince a mani basse. «In realtà, si tratta di entrambe le cose», scrive Kenneth Rapoza su “Forbes”. La notizia? Sarà la Cina a dettare, nel mondo, la futura quota del salario medio – anche in Europa. A Shangai le retribuzioni medie mensili ammontano a 1.135 dollari, a Pechino sono 983 e a Shenzen 938. «Sono più alte che in Croazia, nuovo paese membro dell’Unione Europea: lo stipendio medio netto in Croazia è di 887 dollari al mese». Le paghe di Shanghai, in particolare, sono anche superiori a quelle di altri neo-membri dell’Eurozona, paesi baltici come la Lituania (956 dollari al mese) e la Lettonia (1.005), mentre in Estonia – paese che ha aderito all’euro nel 2011 – il reddito medio è pari a 1.256 dollari. Negli ultimi dieci anni, scrive Rapoza in un’analisi tradotta da “Voci dall’Estero”, l’Europa ha cercato di integrare nell’Ue la manodopera qualificata a basso costo dall’Europa dell’Est, mentre già nel 2002 la Cina si è pienamente integrata nella forza lavoro globale, entrando a far parte del Wto. L’ingresso di questi due enormi bacini di manodopera nella forza lavoro mondiale «ha posto le basi per la stagnazione dei salari tra i lavoratori meno qualificati delle catene di montaggio in tutto il mondo».In gergo economico, il fenomeno è descritto come “appiattimento della curva di Phillips”, come spiega Neil MacKinnon, economista di Vtb Capital. «L’impatto della globalizzazione e l’ingresso della Cina nel Wto nel 2002 ha aumentato notevolmente l’offerta di manodopera globale», afferma MacKinnon. L’eccesso di offerta di manodopera cinese e il flusso di merci cinesi a basso costo nell’economia mondiale ha creato un vantaggio per i consumatori globali, ma ha significato anche che determinati prodotti e posti di lavoro dell’Europa orientale hanno dovuto competere con la Cina, che ha prezzi più bassi. Catene di approvvigionamento e mercati a parte, il costo maggiore per un’azienda è la sua forza lavoro, e quella cinese viene finalmente remunerata. «Le retribuzioni dell’Europa orientale, simili a quelle cinesi, fanno parte di un mondo il cui motto è diventato: qualsiasi cosa tu possa fare, la Cina può farla a minor costo», scrive Rapoza. «La Cina stabilisce il prezzo per la manodopera manifatturiera e, in futuro, per la logistica relativa all’e-commerce. Alcuni europei dovrebbero sperare nei continui aumenti salariali della Cina se vogliono aumentare le loro stesse retribuzioni lorde».La quota della Cina nel commercio mondiale, continua Rapoza, è aumentata: da poco meno del 2% nel 1990 a quasi il 15% di oggi, secondo la Bank for International Settlements. «Da allora, l’economia di mercato cinese si è integrata all’economia globale, guidata principalmente dalla sua forza lavoro, con un rapporto capitale-lavoro inferiore agli standard globali». Inoltre, la Cina sta iniziando solo ora ad automatizzare la produzione. E in un arco di tempo simile, dagli anni ’90 ad oggi, i paesi dell’Europa orientale sono usciti dall’orbita della Russia e si sono spostati verso ovest. «Prima della caduta del comunismo, questi paesi erano rimasti più o meno isolati. La forza lavoro era abbondante e ben istruita, ma il capitale e il management erano limitati. Ne è seguita una combinazione fruttuosa: l’Europa occidentale ha fornito i soldi e il management, l’Europa dell’Est ha fornito la manodopera a basso costo». I dati relativi all’integrazione della Cina e dell’Est Europa sono impressionanti, aggiunge Rapoza. Contando solo la forza lavoro potenziale, la popolazione attiva in Cina e nell’Europa orientale tra i 20 e i 64 anni era di 820 milioni di persone nel 1990 e ha raggiunto 1,2 miliardi nel 2015. La popolazione attiva disponibile nei paesi europei industrializzati era di 685 milioni prima della crisi dell’Unione Sovietica nel 1990 e raggiungeva i 763 milioni nel 2014.«Parliamo quindi di un aumento una tantum del 120% della forza lavoro, che ha schiacciato i salari per i lavoratori meno qualificati», secondo la Bri. Usando come indicatore le tre grandi città cinesi – Shangai, Pechino e Shenzen – gli stipendi mediani dei lavoratori dipendenti sono più alti dei salari della parte più povera d’Europa: i vecchi Balcani dell’area comunista. «Proprio sul Mar Adriatico, di fronte alla ricca frontiera italiana, si trova una manodopera di tipo cinese: anzi ancora più economica, in realtà». I lavoratori cinesi a Shanghai, Shenzhen e Pechino, in media, guadagnano più dei lavoratori in Albania, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Montenegro, nuovo paese membro della Nato, che ha un reddito medio equivalente ad appena 896 dollari al mese. I salari medi di Shanghai non sono molto diversi da quelli della Polonia, da 1.569 dollari. Lo stesso vale per la Repubblica Ceca, dove lo stipendio medio a Praga, la sua città più ricca, si aggira intorno all’equivalente di 1.400 dollari. E il salario medio lordo dell’Ungheria sta proprio al livello di Shanghai: 1.139 dollari al mese. «La crescita dei salari in Cina è impressionante», conclude Rapoza. «Ottimo per i cinesi, ma ha lasciato indietro la crescita dei salari in molti dei paesi a basso reddito in Europa». Attenzione: «Ciò che questi numeri dimostrano è che il ruolo della Cina come centro manifatturiero ha posto le basi per qualsiasi aumento futuro delle retribuzioni, in particolare per gli operai non qualificati del settore manifatturiero, ma anche ben presto in altri nuovi settori come l’e-commerce».O la Cina sta raggiungendo alcune zone dell’Europa in termini di salari, o le retribuzioni nei paesi entrati più di recente nell’Unione Europea sono schiacciati dalla competizione globale sul lavoro, una competizione che la Cina vince a mani basse. «In realtà, si tratta di entrambe le cose», scrive Kenneth Rapoza su “Forbes”. La notizia? Sarà la Cina a dettare, nel mondo, la futura quota del salario medio – anche in Europa. A Shangai le retribuzioni medie mensili ammontano a 1.135 dollari, a Pechino sono 983 e a Shenzen 938. «Sono più alte che in Croazia, nuovo paese membro dell’Unione Europea: lo stipendio medio netto in Croazia è di 887 dollari al mese». Le paghe di Shanghai, in particolare, sono anche superiori a quelle di altri neo-membri dell’Eurozona, paesi baltici come la Lituania (956 dollari al mese) e la Lettonia (1.005), mentre in Estonia – paese che ha aderito all’euro nel 2011 – il reddito medio è pari a 1.256 dollari. Negli ultimi dieci anni, scrive Rapoza in un’analisi tradotta da “Voci dall’Estero”, l’Europa ha cercato di integrare nell’Ue la manodopera qualificata a basso costo dall’Europa dell’Est, mentre già nel 2002 la Cina si è pienamente integrata nella forza lavoro globale, entrando a far parte del Wto. L’ingresso di questi due enormi bacini di manodopera nella forza lavoro mondiale «ha posto le basi per la stagnazione dei salari tra i lavoratori meno qualificati delle catene di montaggio in tutto il mondo».
-
Di Maio, Ciocca e la decrescita infelice dell’Italia in svendita
Nonostante ben 5 anni di esperienza nelle istituzioni e di evidenze empiriche il M5S come proposta “di punta” ha ancora oggi quella sui vitalizi immediatamente “fagocitata” dalla protesta come “Dio Marketing” vuole. Facendo credere al cittadino medio “conti qualcosa”, lo si è portato a inveire contro questioni secondarie ma comprese da tutti e volutamente distratto. E’ stato portato a credere che 70 milioni di euro di vitalizi (quanto potrebbe costare il cartellino di Alex Sandro della Juventus) siano più odiosi delle decine e decine di miliardi che lo Stato annualmente paga a pochi soggetti della finanza internazionale. Una speculazione parassitaria (cioè ottenuta senza dietro un “lavoro”), imposta ai nostri contribuenti mediante leggine da abolire presenti tanto nell’Italia pre moneta unica, quanto in quella post moneta unica; nel secondo contesto la situazione è divenuta critica perché causante perdita di competitività e debito estero. Trasformando quindi la materia “economia” in un reality, il M5S ha potuto compiere un’opera di trasformismo senza precedenti, proponendo per il relativo ministero Pier Luigi Ciocca senza essere praticamente notato. Chi è Ciocca?Per capirlo partiamo dalla Germania: dal dopoguerra in poi i tedeschi hanno percorso una strada di costante “austerity sostenibile”, mantenendo i salari bassi rispetto ai profitti delle imprese (“quota salari”). Invece di alimentare politiche di domanda interna spesso poco etiche (e di aumento dei prezzi), i teutonici hanno conquistato fette di mercato estero incamerando ricchezza: in tal modo si sono ritrovati un salario reale molto più alto senza deprezzare o svalutare la propria moneta. L’Italia, tuttavia, riusciva ad essere altamente competitiva grazie ai cambi flessibili e ad una struttura produttiva in parte differente. Quando l’Italia sull’onda emotiva di Mani Pulite (…) chiese di far parte della moneta unica,la Germania, che per 50 anni era stata “austera”, chiese al nostro paese di pagare un dazio di altrettanta “sobrietà” immediatamente: competizione al ribasso dei diritti e dei salari mediante alta disoccupazione (ed ingresso di manodopera a basso costo dall’Africa), taglio dei servizi anche essenziali, totale separazione della moneta rispetto all’economia, distruzione delle economie locali. Per ottenere tale risultato serviva come “precursone” un valore di ingresso (nell’euro) marco/lira che non rispecchiasse il reale rapporto di forza tra le due economie (1 marco = 1.200 lire circa) ma ipervalutasse la nostra valuta (mettendo così in difficolta la nostra bilancia commerciale, prodromo di tutte le crisi economiche, con tutti i sacrifici annessi).Ad accordarsi per un valore di 1 marco = 990 lire furono proprio Prodi, Ciampi, Draghi e… Ciocca! Per legittimare questo rapporto “drogato”, nei mesi precedenti la decisione, ci avevano pensato i mercati finanziari “drogando” il rapporto cioè vendendo appositamente marchi e comprando lire. Una volta compreso il contributo storico di Ciocca per il proprio paese, quello che va rimarcato è che il M5S è riuscito a proporre un simile prospetto senza essere notato dall’opinione pubblica. Per fare un esempio eloquente, se i pentastellati avessero cercato un ex di Forza Italia per quel ministero (senza responsabilità sulla crisi rispetto ai summenzionati) ci sarebbero state le barricate. Secondo la stessa logica tocca sentire un Prodi (cui affidammo il futuro dei nostri figli e nipoti) dichiarare «abbiamo svalutato la lira sul marco del 600% rispetto a quando ero uno studente universitario», confondendo moneta ed economia sempre profittando della totale ignoranza (in materia) del cittadino medio. In questo contesto quindi ha buon gioco chi riesce a far passare inosservate, insieme a figure come Ciocca, le pericolose carenze di un programma economico confusionario ed impraticabile.Alcuni media hanno espresso preoccupazione per l’estrema fragilità interna del M5S, una fragilità che, secondo loro, si andrebbe a ripercuotere sul paese una volta al governo; altri hanno ravvisato nella ricetta M5S numerosi copia incolla eseguiti da programmi di altre forze politiche e da Wikipedia (inquietanti indizi di incompetenza) ma nessuno si è cimentato nell’analisi della proposta economica. A prima vista parrebbe che a dettare la linea economica sia sempre Beppe Grillo visto il suo “innamoramento” per il default, eppure non credo che stiano così le cose: inizialmente fu la “decrescita felice”, una teoria rudimentale, di pochi capitoletti, che durante la stagnazione ci costerebbe il default; successivamente fu il turno del default stesso, auspicato da Grillo; poi fu la volta del referendum sull’euro che avrebbe portato sempre al fallimento; adesso è il turno di questa proposta che favorirebbe una speculazione internazionale senza precedenti con “scenari greci” (cioè il dimezzamento dei livelli pensionistici) o addirittura “argentini”, cioè il… default! Come noto, se si escludono le persone che hanno conti all’estero, il default comporta l’immediata evaporazione di tutti i risparmi degli italiani: una crisi debitoria in Italia a qualche soggetto estero conviene sempre…Per uscire dalle recessioni, secondo l’approccio keynesiano, è opportuno “fare deficit” per incrementare la domanda aggregata (acquisto di beni e servizi da parte dei cittadini) dando lavoro, infrastrutture, detassando, ecc. In questo modo tornano a circolare danari, l’economia riparte, i contribuenti aumentano di numero e con essi le entrate dello Stato che vanno a ripianare non solo il nuovo deficit ma anche a ridurre lo stock debitorio. In altre parole si va ad incidere sul denominatore del rapporto debito/Pil incrementandolo, e non sul numeratore (cercare di ridurlo significa fare austerità). Purtroppo l’economia non è una materia da affrontare in modo virtuale bensì chirurgico, considerando in primo luogo in che contesto ci si muove: al minimo errore si rischia una macelleria sociale senza precedenti. Su un piano strettamente economico, nell’ambito dell’Eurozona, se espandiamo la domanda aggregata ed i partner europei non fanno altrettanto, la conseguenza è il peggioramento dei conti verso l’estero e della bilancia commerciale, a causa dell’impennata dell’import rispetto all’export con probabile crisi debitoria (di tipo economico).Il candidato premier pentastellato pare quindi mettere il carro davanti ai buoi visto che i principali partner europei optano senza titubanze verso dinamiche ultra-competitivie e marcatamente mercantiliste. Di Maio, insistendo sullo sforamento del parametro del 3%, denota che a sfuggirgli è pure un importante dettaglio: “fare deficit” non significa erogare beni e servizi aggiuntivi rimanendo scoperti, ma vuol dire ottenere un prestito da un investitore (sotto forma di Bot, Btp, ecc) per poterli pagare. Successivamente lo Stato, per evitare il fallimento, è obbligato a saldare il debito col creditore quando egli chieda indietro i soldi o alla scadenza prestabilita del prestito con interessi annessi. Se uno Stato paventa la violazione di regole comunitarie, perde credibilità e diviene costosissimo per esso ottenere finanziamenti, visto che una simile prospettiva può comportare dinamiche punitive da parte di numerosi soggetti finanziari (compresi gli Stati creditori). Di Maio è corso ai ripari evidenziando come anche Francia e Spagna in passato abbiano disatteso il 3% ma non ha tenuto conto del fatto che questi Stati possiedono un debito pubblico minore del nostro. Poco importa ai partner dell’Eurozona che il concetto di debito pubblico sia emotivamente enfatizzato e confuso con il debito estero.Un altro punto estremamente critico del candidato premier è dare per scontato che i propri interventi siano “ad altissimo moltiplicatore” e che in brevissimo tempo comportino una crescita del Pil tale da ottenere maggiori entrate fiscali (utili ad onorare le scadenze con vecchi e nuovi creditori e quindi ad evitare il default). Al netto del fatto che le dinamiche di questo tipo sono estremamente imprevedibili, il moltiplicatore si esprime in tutta la sua forza quando il danaro “gira”, cioè quando proviene da capitali fino ad allora giacenti e finisce nelle tasche di chi consuma fino all’ultimo euro di stipendio per poter vivere. Se va ad accumularsi nei forzieri delle multinazionali che stanno dietro larga parte della Green Economy, della Virtual Economy e delle infrastrutture, l’effetto è contrario (al netto del fatto che se sono capitali esteri la moneta “emigra” peggiorando ancor più lo stato delle cose). In altre parole, è lecito attendersi che i licenziamenti presenti nel piano Cottarelli e gli investimenti nei settori auspicati da Di Maio e dal suo staff economico, comportino una riduzione degli effetti del moltilicatore nel breve/medio periodo (e con essa una riduzione dei livelli occupazionali, proprio secondo Keynes!), una contrazione del Pil, minori entrate e tagli ai servizi e alle infrastrutture che nelle intenzioni si vorrebbero potenziare.Per quanto eticamente auspicabile, la “moralizzazione” della spesa pubblica nel breve può comportare al massimo un incremento della soddisfazione dei cittadini che, se si rivolgono a un fannullone, non ottengono un servizio pronto e decente. Solo nel medio-lungo periodo una burocrazia efficiente, un paese sicuro e ricco di infrastrutture possono attrarre investimenti sensibili ma finché ciò non avviene, di effetti moltiplicatori “nemmeno l’ombra”, quindi non si hanno maggiori entrate mentre i creditori, aumentati di numero, pretendono subito il pagamento delle scadenze pena il fallimento dello Stato e questo contesto innesca fenomeni speculativi. Non saper “moltiplicare” l’economia e prospettare la violazione di norme comunitarie (perdita di credibilità) è il viatico certo per ritrovarci con il cappio al collo delle scadenze verso i creditori. Quando uno Stato è nell’urgenza di ottenere finanziamenti, i potenziali “prestatori” (detti “investitori” ma anche detti “speculatori”) chiedono interessi sempre più alti (speculazione/spread), il paese sotto attacco finisce per avvitarsi nei debiti e per onorare scadenze sempre più pressanti ed evitare il default è costretto a svendere assets strategici a prezzi di saldo (con ulteriore desertificazione dell’economia), di norma proprio ai soggetti che hanno compiuto questa aggressione. E’ l’azione della tipica “finanza volatile” con sede a Londra che non comporta un incremento dell’economia reale (industrie, lavoro) bensì emorragia di benessere verso l’estero e deflazione salariale. In questo caso la crisi debitoria ha tratti più finanziari che economici e di nuovo il M5S pare incamminato in quella direzione.Di Maio è reduce da incontri con non ben definiti “investitori” a porte chiuse quando in gioco c’è l’interesse nazionale: perché questo gap in termini di trasparenza proprio quando la posta in gioco è così alta? Ricordo che nel 1992 il governo italiano optò per l’uscita dallo Sme e consapevole che la grande svalutazione che ne sarebbe seguita avrebbe comportato un pari sconto sui “gioielli di Stato”, sul panfilo Britannia, si accordò con soggetti esteri per la svendita degli stessi. A completare un quadro di estrema incertezza la salita agli onori della cronaca di Fioramonti come responsabile della politica economica pentastellata, per i legami (da lui smentiti) con lo speculatore internazionale Soros, con i Rockefeller, i Rothschild ed Anspen Institute. Egli insegna economia in Sud Africa ma è laureato in scienze politiche (quindi non è un economista) ed è un teorico della della “decrescita felice”. Superfluo rimarcare come tale teoria non scopra niente (è lapalissiano che gli sprechi vadano ridotti e che il Pil non sia un indice della felicità ma economico) ma viene percepita da creditori e partner europei (che spesso coincidono) come indizio di approssimazione e come indice di un potenziale disimpegno sul lato dei conti pubblici da parte degli “italiani”. Insomma, più che del “Moltiplicatore di Di Maio” e di un clima alla Mani Pulite 2.0 (utile a difendere la Religione della Moneta Unica) questo paese necessita di maggiore lealtà nei confronti di chi non “mastica” economia: volendo esprimere un giudizio nazional-popolare, si dichiari chiaramente che dal punto di vista della “crisi” il problema del nostro paese non sono tanto i “corrotti”, che evidenze scientifiche mostrano pesare tra un 5% e un 10% alla voce “debito”, ma i “venduti” (a soggetti esteri) che hanno approvato una Maastricht irriformabile.(Marco Giannini, “Di Maio e la decrescita (infelice) dell’Italia in svendita”, riflessione pubblicata su “Libreidee” il 27 febbraio 2018).Nonostante ben 5 anni di esperienza nelle istituzioni e di evidenze empiriche il M5S come proposta “di punta” ha ancora oggi quella sui vitalizi immediatamente “fagocitata” dalla protesta come “Dio Marketing” vuole. Facendo credere al cittadino medio “conti qualcosa”, lo si è portato a inveire contro questioni secondarie ma comprese da tutti e volutamente distratto. E’ stato portato a credere che 70 milioni di euro di vitalizi (quanto potrebbe costare il cartellino di Alex Sandro della Juventus) siano più odiosi delle decine e decine di miliardi che lo Stato annualmente paga a pochi soggetti della finanza internazionale. Una speculazione parassitaria (cioè ottenuta senza dietro un “lavoro”), imposta ai nostri contribuenti mediante leggine da abolire presenti tanto nell’Italia pre moneta unica, quanto in quella post moneta unica; nel secondo contesto la situazione è divenuta critica perché causante perdita di competitività e debito estero. Trasformando quindi la materia “economia” in un reality, il M5S ha potuto compiere un’opera di trasformismo senza precedenti, proponendo per il relativo ministero Pier Luigi Ciocca senza essere praticamente notato. Chi è Ciocca?
-
Giannini: lo spettro del Britannia e il reddito di cittadinanza
Una importante novità nell’anno 2018 compare di fronte agli elettori: l’analisi dei principali aspetti riguardanti i programmi dei partiti, soprattutto sul piano dei costi. Tra le ricette che sono state presentate, quella del Movimento 5 Stelle ha destato subito interesse quando ci si è resi conto che conteneva passi copiati da Wikipedia o addirittura dal programma Pd. Per quanto la vicenda possa apparire come un indice di scarsa competenza e conoscenza e quindi suscitare inquietudine, l’attenzione andrebbe focalizzata piuttosto sui concetti di fondo della proposta pentastellata. Secondo gli economisti di stampo keynesiano, per uscire dalle situazioni di crisi economica si deve “fare deficit” per attuare politiche di espansione (di crescita) dando lavoro, investendo in infrastrutture, detassando, conferendo nuovi diritti sociali, ecc. In questo modo la disoccupazione si dovrebbe ridurre, i contribuenti dovrebbero aumentare e con essi le entrate andrebbero a ripianare non solo il nuovo deficit ma anche a ridurre lo stock del debito pregresso. Di Maio, apparentemente in linea con questo approccio, ha insistito sullo sforamento del parametro di bilancio del 3%, un parametro di scarsissima scientificità ma concordato con gli altri soggetti europei: «Prenderemo un po’ di debito e lo investiremo per lo sviluppo», è stato lo slogan in diverse conferenze elettorali.
-
Tagliare le tasse non basta: la concorrenza globale è sleale
«Dopo cinquant’anni di attività redistributiva del reddito, l’Italia si ritrova con una pressione fiscale pari al doppio e un debito pubblico quintuplicato, senza che la distribuzione del reddito sia migliorata, anzi con prospettive di un suo peggioramento che va oltre gli effetti della recente crisi internazionale depressiva del Pil e dell’occupazione». Lo afferma l’economista Paolo Savona, già ministro con Ciampi e con alle spalle incarichi all’Ocse. Tutti a sparare sulle tasse, scrive Savona in un articolo su “Milano Finanza”, come se il taglio del carico fiscale migliorasse di per sé il benessere di tutti. «Non c’è leader di partito che non prometta una specifica o più generale riduzione della pressione fiscale, a prescindere dalla coerenza delle rispettive posizioni», premette Savona. Ad esempio: come si fa a dire che sono stati incassati 20 miliardi di euro dalla lotta all’evasione (un dato che equivale a un aumento della pressione fiscale) – e affermare che le tasse sono diminuite e in futuro ancora lo saranno? E poi, come conciliare le promesse di riduzione con gli impegni di spesa già in atto e i vincoli di bilancio europei?
-
Povera Europa, plaude alle “lezioni” del suo killer: la Merkel
Nell’immane declino europeo non si capisce cosa sia più sinistro, le “lezioni” di un’insegnante di cui tutti faremo a memo (Angela Merkel) o il tappeto rosso che la stampa le stende ai piedi, nel momento in cui l’oligarca di Berlino, donna simbolo delle sofferenze imposte dalla crisi, si mette a bacchettare Donald Trump dal forum di Davos, santuario continentale della globalizzazione più feroce. «Noi crediamo che l’isolazionismo non ci faccia andare avanti», dice la Merkel: «Il protezionismo non è la risposta giusta, dobbiamo cooperare». Il tipo di “cooperazione” di cui è capace il regime finanziario incarnato dalla Merkel lo si è visto in Grecia, con le famiglie sul lastrico e gli ospedali senza più medicine per curare i bambini. Tutto il Sud Europa ha visto crollare il suo tenore di vita, in una spirale sistematicamente devastante: guerra teologica al debito pubblico, e quindi tagli ai salari e alle pensioni, precarizzazione del lavoro, esplosione della tassazione, licenziamenti, aziende fallite a decine di migliaia, disoccupazione alle stelle, crollo del mercato immobiliare, erosione dei risparmi. Il fantasma della povertà minaccia l’Europa: nella sola Italia, dove la crisi indotta dal rigore tedesco è costata 450 miliardi di euro in appena tre anni, sono oltre 10 milioni le persone che secondo Eurostat faticano a consumare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a pagare l’affitto e a riscaldare a sufficienza la casa.Una vera festa, la spettacolare crisi italiana, per l’industria tedesca che ha fatto shopping a prezzi di saldo accaparrandosi quote rilevanti dell’eccellenza del “made in Italy”, altro classico esempio di “cooperazione” ordoliberista di stampo teutonico. «La Germania è un problema cronico e fisiologico per l’Europa», sostiene Paolo Barnard, «proprio a causa del suo tipo di economia sbilanciato verso l’export». Il che significa compressione dei salari in patria (gli scandalosi mini-job da 450 euro mensili) e aggressività competitiva verso i paesi confinanti, trattati come colonie a cui rubare fatturato e sottrarre la miglior forza lavoro di formazione universitaria avanzata, dando vita al flagello della “fuga dei cervelli”. «I personaggi come la “sorella” Angela Merkel, esponente della Ur-Lodge reazionaria Golden Eurasia, sono i veri nemici dell’Europa unita, i veri e irriducibili antieuropeisti», sostiene Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere) che svela i retroscena supermassonici del vero potere neoliberista. «Quelli che vengono spacciati per statisti sono in realtà pedine di interessi esclusivamente privati, che traggono i massimi profitti proprio dalla distruzione dell’unità europea: assistiamo infatti a una spietata concorrenza fra Stati, di cui il neo-mercantilismo tedesco è l’espressione più tristemente significativa».Sempre la Germania, racconta l’economista Nino Galloni (vicepresidente del Movimento Roosevelt presieduto da Magaldi) ottenne – dalla Francia di Mitterrand, in cambio della rinuncia al marco – il via libera per la deindustrializzazione progressiva dell’Italia, cioè del massimo antagonista del sistema manifatturiero tedesco. E’ questa la motivazione di fondo – squisitamente industriale e concorrenziale – dietro alle politiche di austerity dell’Ue a trazione tedesca, che hanno tentato ininterrottamente di demolire il sistema economico italiano. E’ il Belpaese il vero bersaglio degli eurocrati tedeschi come Angela Merkel, ai piedi dei quali si sono genuflessi i vari Letta, Renzi e Gentiloni, dopo il “ko tecnico” procurato a Monti e Napolitano, commissari italiani del super-potere che tiene in scacco l’Europa utilizzando Berlino come cane da guardia. Per questo, le affermazioni della cancelleria a Davos suonano sincere quanto le parole del killer al funerale della propria vittima: «Nel mondo c’è tr6oppo egoismo nazionale», scandisce la professoressa. «Fin dai tempi dell’Impero Romano e della Grande Muraglia sappiamo che limitarci a rinchiuderci non aiuta». Viste dalla Grecia ridotta alla fame, queste parole – in una ipotetica, seconda Norimberga – assicurerebbero ad Angela Merkel una fucilazione di prima classe, con tutti gli onori che spettano ai grandi traditori.Nell’immane declino europeo non si capisce cosa sia più sinistro, le “lezioni” di un’insegnante di cui tutti faremmo a meno (Angela Merkel) o il tappeto rosso che la stampa le stende ai piedi, nel momento in cui l’oligarca di Berlino, donna simbolo delle sofferenze imposte dalla crisi, si mette a bacchettare Donald Trump dal forum di Davos, santuario continentale della globalizzazione più feroce. «Noi crediamo che l’isolazionismo non ci faccia andare avanti», dice la Merkel: «Il protezionismo non è la risposta giusta, dobbiamo cooperare». Il tipo di “cooperazione” di cui è capace il regime finanziario incarnato dalla Merkel lo si è visto in Grecia, con le famiglie sul lastrico e gli ospedali senza più medicine per curare i bambini. Tutto il Sud Europa ha assistito al crollo epocale del suo tenore di vita, in una spirale sistematicamente devastante: guerra “teologica” al debito pubblico, e quindi tagli ai salari e alle pensioni, precarizzazione del lavoro, esplosione della tassazione, licenziamenti, aziende fallite a decine di migliaia, disoccupazione alle stelle, crollo del mercato immobiliare, erosione dei risparmi. Il fantasma della povertà minaccia l’Europa: nella sola Italia, dove la crisi indotta dal rigore tedesco è costata 450 miliardi di euro in appena tre anni, sono oltre 10 milioni le persone che secondo Eurostat faticano a consumare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a pagare l’affitto e a riscaldare a sufficienza la casa.
-
Borsa nera, come in guerra, dopo l’abolizione del contante
In un paper pubblicato lo scorso marzo, Alexei Kireyev del Fondo Monetario Internazionale consiglia di abolire il denaro contante senza informare i cittadini. Inizialmente bisognerebbe ritirare dalla circolazione le banconote di grosso taglio, quindi devono essere imposti i limiti sulle transazioni in contanti, poi il sistema finanziario mondiale deve essere informatizzato e messe sotto controllo le transazioni internazionali in contanti e, infine, le imprese private devono essere incoraggiate ad evitare operazioni in contanti. Kireyev si basa sulle idee dell’ex capo del Fmi Kenneth Rogoff. Nel suo libro del 2016 “The Curse of Money”, raccomanda l’abolizione del contante, perché, a suo parere, ciò contribuirebbe alla lotta contro la criminalità, l’evasione fiscale e la riduzione del settore sommerso. La Bce lo ha subito sostenuto e ha promesso di non stampare la banconota da 500 euro dopo il 2018. Il governo dell’India ha fatto la stessa cosa: nel novembre 2016 ha inaspettatamente messo fuori corso, da un giorno all’altro, tutte le banconote da 500 e 1000 rupie – un bel colpo contro l’economia in nero e la corruzione! Il giorno seguente, sulle strade dell’India regnava il caos – folle di persone davanti a banche, sportelli bancomat vuoti – tutti volevano ritirare i propri soldi, scambiare le vecchie rupie con quelle nuove e valide, e ci sono state anche delle vittime.Gli altri governi hanno subito seguito con entusiasmo le idee dei grandi guru dell’economia, senza curarsi di ciò che stava accadendo nelle strade indiane: l’Australia vuole ritirare dalla circolazione le sue banconote da 100, e il Venezuela ha già abolito la banconota da 100 bolivar. Francia, Italia, Spagna e Grecia hanno già dei limiti massimi per i prelievi di contante e in Germania è attualmente in discussione un tetto di Eur 5000. In alcuni paesi, l’abolizione del contante sta diventando un mezzo di lotta politica. In Polonia, il primo ministro Mateusz Morawiecki ha introdotto i pagamenti cashless al servizio postale pubblico. Presto sarà anche possibile pagare le multe direttamente alla pattuglia della polizia. Probabilmente, non tutti i politici polacchi vanno pazzi per l’idea che i funzionari non entrino in contatto con denaro contante – ad esempio il capo della Banca nazionale polacca Adam Glapiński, che ha contemporaneamente introdotto la nuova banconota da 500 zloty. L’abolizione del contante è solo un passo sulla strada verso una follia ancora peggiore: Kenneth Rogoff ha altre insane idee da vendere. La più assurda: ha raccomandato ai politici europei gli interessi negativi, sulla base del fatto che si renderanno comunque necessari quando verrà la prossima crisi.Ricordiamo al lettore che il tasso di interesse negativo trova il suo limite nel contante. Se l’interesse diventa troppo negativo, i risparmiatori si rifugeranno nel contante. Quali conseguenze avrebbe la sua idea se fosse implementata? Cosa accadrebbe se fossero introdotti tassi di interesse negativi? I risparmi dai conti correnti confluirebbero verso beni tangibili, specialmente gioielli, lingotti d’oro e altri metalli preziosi. I loro prezzi salirebbero a livelli senza precedenti, così come l’inflazione guidata dalla speculazione. A ciò si aggiungerebbe l’aumento dei prezzi degli immobili, in quanto le persone preferiscono investire nelle case piuttosto che in inutili carte di credito. Il baratto e il mercato nero prospererebbero come in tempo di guerra: si otterrebbe l’opposto di ciò che si desidera. E i criminali e i politici corrotti troverebbero certamente un altro mezzo di scambio per condurre i loro affari – è noto che i commercianti di armi e i gruppi terroristici pagano con diamanti.L’abolizione del contante e l’introduzione del tasso di interesse negativo colpirebbero solo i cittadini ordinari, rendendoli in qualsiasi momento completamente trasparenti di fronte alle autorità – dopotutto, è più facile controllare e influenzare persone assolutamente trasparenti, la cui intera vita può essere tracciata da un estratto conto. I famosi economisti, banchieri e uomini di governo dimenticano che il contante non può essere abolito, solo la moneta stampata dalle banche centrali può essere abolita. Fanno i conti nelle loro torri d’avorio senza considerare l’oste, i cittadini ordinari. I cittadini si indigneranno e scenderanno in piazza, come hanno fatto dopo l’abolizione delle banconote in India. Alla fine troveranno delle valute alternative per condurre i loro affari, liberi dall’interferenza del governo. Ma ai guru economici non interessa – l’esperimento sulla popolazione è l’unica cosa che conta per loro, anche a costo di mietere vittime.(“Cittadini trasparenti, tassi di interesse negativi e altre folli idee degli ‘esperti’ in economia”, da Gifra.org del 15 dicembre 2017, post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).In un paper pubblicato lo scorso marzo, Alexei Kireyev del Fondo Monetario Internazionale consiglia di abolire il denaro contante senza informare i cittadini. Inizialmente bisognerebbe ritirare dalla circolazione le banconote di grosso taglio, quindi devono essere imposti i limiti sulle transazioni in contanti, poi il sistema finanziario mondiale deve essere informatizzato e messe sotto controllo le transazioni internazionali in contanti e, infine, le imprese private devono essere incoraggiate ad evitare operazioni in contanti. Kireyev si basa sulle idee dell’ex capo del Fmi Kenneth Rogoff. Nel suo libro del 2016 “The Curse of Money”, raccomanda l’abolizione del contante, perché, a suo parere, ciò contribuirebbe alla lotta contro la criminalità, l’evasione fiscale e la riduzione del settore sommerso. La Bce lo ha subito sostenuto e ha promesso di non stampare la banconota da 500 euro dopo il 2018. Il governo dell’India ha fatto la stessa cosa: nel novembre 2016 ha inaspettatamente messo fuori corso, da un giorno all’altro, tutte le banconote da 500 e 1000 rupie – un bel colpo contro l’economia in nero e la corruzione! Il giorno seguente, sulle strade dell’India regnava il caos – folle di persone davanti a banche, sportelli bancomat vuoti – tutti volevano ritirare i propri soldi, scambiare le vecchie rupie con quelle nuove e valide, e ci sono state anche delle vittime.
-
Bezos l’uomo più ricco della storia, 105 miliardi in 25 anni
Di lui, persino i super-squali della finanza come Lloyd Blankfein della Goldman Sachs parlano con un misto di ammirazione e timore reverenziale: il boom di Amazon ha infatti distrutto interi comparti industriali, lasciando a casa decine di migliaia di lavoratori. E oggi, sostiene “Bloomberg”, Jeff Bezos è l’uomo più ricco della storia, avendo accumulato 105 miliardi di dollari in venticinque anni. Non è isolato, Bezos: gli analisti indipendenti ricordano il super-contratto da 600 milioni con la Cia (forniture elettroniche) e l’acquisizione nel 2013 del “Washington Post”, da allora punta di lancia della politica estera Usa contro i nemici della Cia e del Pentagono, mentre i lavoratori di Amazon – spesso lasciati senza tutele – guadagnano appena 233 dollari al mese in India, e in media solo 12,40 dollari l’ora negli Stati Uniti. Uno sfruttamento piramidale, che cambia i connotati antropologici dei consumatori e ammassa miliardi al vertice. Bezos ha scavalcato Bill Gates: il patron della Microsoft è fermo a 93,3 miliardi di dollari, a cui però andrebbero aggiunti i 63 miliardi di dollari donati alla sua fondazione. Ricchezza e immaginazione: certamente Bezos è uno dei personaggi-chiave del nostro tempo. Libri e poi dvd, videogiochi, macchine fotografiche, elettrodomestici. L’espansione di Amazon è stata fulminea, inarrestabile e mondiale.Cresciuto a Seattle come Bill Gates e lo stesso Steve Jobs della Apple, nel 1994 Jeff Bezos era già un trentenne brillante, ricorda il “Corriere della Sera”. «Laurea in ingegneria a Princeton, un passaggio a Wall Street, una prima esperienza nel commercio internazionale con la Fitel, l’approdo all’hedge fund di New York, De Shaw & Co. Qui, nel 1992, aveva conosciuto MacKenzie Tuttle, che sposò l’anno dopo: la compagna della vita con cui ha avuto quattro figli. Jeff veniva da un’infanzia non semplice: sua madre, Jacklyn Gise, lo ebbe nel 1964 quando era ancora adolescente da Ted Jorgensen, da cui divorziò l’anno dopo. Nel 1968 Jacklyn si trasferì a Houston con Miguel Bezos, un immigrato cubano che prestò diventò ingegnere della Exxon». In quel 1994, dunque, Jeff aveva soldi, posizione sociale, un impiego d’élite: quanto bastava per soddisfare anche le ambizioni più esigenti. «Niente rispetto a quello che sarebbe accaduto in quell’anno: Jeff inventa un nuovo formato commerciale, una libreria online che chiama Cadabra e poi Amazon, come il Rio delle Amazzoni. «Nel 1999 è già sulla copertina di “Time”, come persona dell’anno. Il decollo è stato verticale, un po’ come quello del razzo New Glenn, l’ultimo progetto di Blue Origin, una delle società dell’imprenditore».Se si vuole provare a definire la “dottrina Bezos”, scrive Giuseppe Sarcina sul “Corriere”, si deve partire da questa voracità insaziabile, questa spinta a debordare. «Jeff è un onnivoro che ama raccontarsi come un uomo di grandi curiosità e passioni». A cinque anni, dice, rimase «folgorato» dallo sbarco sulla Luna. Per questo nel 2009 fondò Blue Origin, che ora pianifica i primi voli di turismo spaziale per il 2019. «Ma anche sulla Terra l’orizzonte è ampio. Nel 2013 il businessman rivolge lo sguardo all’editoria, uno dei settori più maturi del mercato. Compra, per 250 milioni di dollari, il “Washington Post”, uno de quotidiani più importanti, a quel tempo piuttosto sofferente». Un giornale con 800 reporter, in utile per il secondo anno consecutivo: guadagna con gli abbonamenti, raddoppiati dal gennaio scorso. «Il dato più sorprendente è che l’azienda ha aumentato i ricavi anche con la pubblicità digitale, nonostante la concorrenza micidiale di Facebook e di Google». C’è un po’ di “effetto Trump” in tutto questo. Sotto la testata si legge: «Democray dies in darkness».Il core business, però, ruota sempre intorno ad Amazon, cui ha affiancato, nell’agosto del 2017, Whole Foods, la grande catena di supermercati di qualità negli Stati Uniti: un’acquisizione record da 13,7 miliardi di dollari. «Il progetto prevede: riduzione dei prezzi, distribuzione a domicilio ancora più capillare». Ma non mancano le contraddizioni, aggiunge il “Corriere” L’editore del “Post” litiga spesso con i sindacati e con i “maratoneti”, cioè i dipendenti dei magazzini Amazon, che percorrono chilometri al giorno tra le linee di distribuzione. La Commissione Europea lo accusa di non pagare il dovuto al fisco. «Intanto però tutti continuano a cercarlo. Bezos ha aperto un’asta per la nuova sede di Amazon negli Stati Uniti. Le più importanti città americane, a cominciare da New York, si sono messe in coda».Di lui, persino i super-squali della finanza come Lloyd Blankfein della Goldman Sachs parlano con un misto di ammirazione e timore reverenziale: il boom di Amazon ha infatti distrutto interi comparti industriali, lasciando a casa decine di migliaia di lavoratori. E oggi, sostiene “Bloomberg”, Jeff Bezos è l’uomo più ricco della storia, avendo accumulato 105 miliardi di dollari in venticinque anni. Non è isolato, Bezos: gli analisti indipendenti ricordano il super-contratto da 600 milioni con la Cia (forniture elettroniche) e l’acquisizione nel 2013 del “Washington Post”, da allora punta di lancia della politica estera Usa contro i nemici della Cia e del Pentagono, mentre i lavoratori di Amazon – spesso lasciati senza tutele – guadagnano appena 233 dollari al mese in India, e in media solo 12,40 dollari l’ora negli Stati Uniti. Uno sfruttamento piramidale, che cambia i connotati antropologici dei consumatori e ammassa miliardi al vertice. Bezos ha scavalcato Bill Gates: il patron della Microsoft è fermo a 93,3 miliardi di dollari, a cui però andrebbero aggiunti i 63 miliardi di dollari donati alla sua fondazione. Ricchezza e immaginazione: certamente Bezos è uno dei personaggi-chiave del nostro tempo. Libri e poi dvd, videogiochi, macchine fotografiche, elettrodomestici. L’espansione di Amazon è stata fulminea, inarrestabile e mondiale.
-
Grimaldi: golpe Cia in corso in Iran, via rivoluzione colorata
«Si è scatenato quello che promette essere un rinnovato tentativo USraeliano, con il conforto saudita e il beneplacito dell’Ue, al cambio violento di regime in Iran, stavolta mettendoci tutto l’impegno dei due terroristi di Stato della cosiddetta “comunità internazionale (leggi Nato), Trump (con lo Stato Profondo Usa) e Netanyahu (sostenuto dalla lobby) e arrivando fino all’aggressione armata, con conseguenze apocalittiche non solo per il Medioriente». Fulvio Grimaldi, per lunghi anni giornalista Rai e autore del documentario “Target Iran”, che racconta la nuova realtà dell’ex Persia affrancatasi dall’Occidente, teme che la guerriglia scatenatasi a Teheran sia l’antipasto dell’ennesima, sanguinosa “rivoluzione colorata” per rovesciare il governo iraniano, che insieme a quello russo si è opposto con successo, in Siria, alla guerra contro Assad organizzata dalla Cia utilizzando i miliziani dell’Isis. «L’anticipazione di questa strategia, lubrificata dallo tsunami di falsità e diffamazioni di cui si incaricano i media mainstream, con particolare efficacia quelli di “sinistra” e la loro clientela di utili idioti e amici del giaguaro imperialista – scrive Grimaldi – la si è avuta nel 2009, al tempo delle elezioni che hanno rinnovato il mandato al migliore, più laico, antimperialista (si ricordi la sua amicizia con Hugo Chavez) e socialmente sensibile presidente iraniano, Mahmud Ahamdinejad».All’epoca, scrive Grimaldi sul suo blog, venne scatenata la sedicente “rivoluzione verde”, dove «settori della borghesia ricca, nostalgica della sanguinaria dittatura del fantoccio occidentale Reza Pahlevi e famelica di neoliberismo per poter sottrarre beni e diritti ai ceti popolari valorizzati da Ahmadinejad, vennero mandati, da agenti infiltrati del terrorismo internazionale, allo scontro con lo Stato». Il pretesto era il solito: «Brogli nella vittoria di Ahamedinejad, riscatto delle donne oppresse da burka e bigottismo patriarcale». Allora, continua Grimaldi, si trattava di ridurre la crescente influenza di Teheran sul cosiddetto “arco scita”, «espressione depistante utilizzata per descrivere governi e popolazioni resistenti all’imperialismo Usa e israeliano, neutralizzare il suo ruolo di prezioso fornitore di gas e petrolio a paesi su cui l’Occidente intende esercitare il dominio energetico, bloccare il modello di emancipazione sociale messo in atto da Ahmadinejad e l’impetuoso sviluppo industriale del paese». Al centro della “sceneggiata” era la presunta volontà di Teheran di dotarsi di armamento atomico, quando la stessa Aiaea, l’agenzia Onu per l’energia atomica, insisteva a dimostrare che lo sviluppo nucleare dell’Iran era dedicato esclusivamente a uso civile, sanitario ed energetico.Con l’avvento del “moderato” Hassan Rouhani, reso possibile dal fatto che il “conservatore” Ahmadinejad non poteva presentarsi per un terzo mandato e che il suo schieramento aveva fronteggiato le elezioni diviso (“moderato” e “conservatore” sono i termini «che i media ci infliggono per designare chi è gradito e chi sgradito all’Occidente»), avviene secondo Grimaldi «l’indecorosa resa, la rivincita dei “quartieri alti” di Teheran, un’offensiva privatizzatrice e, pietra angolare dell’indipendenza o meno del paese, l’accordo sul nucleare con gli Usa che ha privato l’Iran quasi interamente del suo potenziale di nucleare civile». Il che avrebbe dovuto portare alla normalizzazione dei rapporti con Usa e Occidente, alla fine di sanzioni tra le più feroci e genocide mai inflitte, alla pacificazione della regione. Invece, «è sotto gli occhi di tutti a cosa ha portato l’arrendevolezza di Rouhani». Il progetto di “regime change” mancato da Obama, Hillary Clinton e Netanyahu è fallito clamorosamente, ma i nemici dell’Iran non hanno mai mollato la presa, tra fake news e attentati terroristici contro scienziati iraniani e contro la stessa popolazione civile, «affidati a una setta di fuorusciti riparata a Parigi e a Washington e da lì foraggiata e armata: i Mek, Mujahedin del Popolo».A far saltare i nervi al blocco occidentale, aggiunge Grimaldi, è stato il sostegno dato dall’Iran «alla resistenza irachena e iraniana contro Usa, Israele, Nato e loro mercenariato jihadista», nonché «l’impetuosa crescita del suo prestigio e della sua influenza nella regione». E così «siamo ai pogrom di oggi, che annunciano una nuova “rivoluzione verde” che in Occidente si spera risolutrice». Ma che non lo sarà, sostiene sempre Grimaldi, «alla luce dell’unità del popolo iraniano, della sua coscienza politica, del suo patriottismo». Dal giorno in cui la rivoluzione khomeinista ha posto fine alle ingerenze colonialiste e poi imperialiste (si ricordi il colpo di Stato angloamericano contro il premier Mossadeq nel 1952 e la restaurazione imperiale sotto lo Shah), «l’Occidente non ha mai cessato di fornire all’opinione pubblica un quadro grottescamente distorto dell’Iran e dei suoi 80 milioni di abitanti». Oggi, prosegue Grimaldi, «si riparte con la totale falsità di una dittatura, una società oppressa dal clero, una catastrofe economico-sociale, una matrice di terrorismo e instabilità in tutta la regione». Tutto “merito” degli Stati Uniti: «La potenza che s’inventa interferenze russe nelle proprie elezioni, ma che non ha trascurato di intervenire, con tangenti, ricatti, manipolazione di settori sociali, tsunami mediatici e colpi di Stato, in praticamente ogni processo elettorale e genericamente politico dove fosse in gioco il dominio Usa, rinnova l’operazione fallita del 2009: obiettivo, ancora una volta il “regime change” e, in mancanza, l’aggressione, o diretta, o affidata a surrogati».Secondo Grimaldi, le politiche neoliberiste di Rouhani «hanno annullato in parte il progresso delle classi popolari realizzato da Ahmadinejad». Soprattutto, le sanzioni che l’accordo nucleare avrebbe dovuto far sospendere (ma che Trump ha rafforzato) hanno peggiorato le condizioni di vita di vaste masse: aumento dei prezzi di carburanti ed energia, annullamento dei sussidi alimentari, inflazione, crisi del bazar, disoccupazione. «Ed è successo quanto s’è visto e documentato a Kiev, Bengasi in Libia, Deraa in Siria, Caracas». Un copione: «Parte una pacifica rivendicazione di piazza in varie città iraniane, nel giro di ore, secondo un programma dettagliato pubblicato in rete, in varie città spuntano gruppetti di non più di 50 soggetti che, alle richieste di aumenti salariali e altri interventi economici, sovrappongono slogan anti-sistema, contro il governo e, con particolare virulenza contro il “dittatore” Khamenei, che è dittatore quanto lo è il capo di Stato di qualsiasi paese europeo». Se “morte al dittatore” e “morte a Khamenei” ci riportano dritti agli auspici indirizzati a Maduro, Gheddafi o Assad, «l’inconfutabile marchio israeliano risuona nelle imprecazioni contro il ruolo regionale dell’Iran e contro l’impegno per la Palestina, Gaza e il Libano: “Giù le mani dal Medioriente”, “No Gaza”, “No Libano”».Non passano che poche ore e, immancabili, partono colpi di arma da fuoco, non si capisce bene da quale parte (per i media occidentali inconfutabilmente dalla polizia) e cadono le prime vittime. Poi, a tempo scaduto, «escono fuori prove, video, testimonianze e confessioni che attestano la presenza di infiltrati impegnati a sparare sulla folla: su questo aspetto, tuttavia, i mass media appaiono distratti». Intanto, aggiunge Grimaldi, «hanno lucidato le proprie trombe tutti gli squalificatissimi arnesi della cosiddetta “società civile” e dei “diritti umani”, gli scontati travestimenti dell’intelligence imperialista, da Amnesty International a Hrw e alla National Endowment for Democracy, con pesce pilota, da noi, il “Manifesto”, zelantissimo su tutte le campagne delle false sinistre e vere destre internazionali: russofobia, “dittatori”, migranti e Ong sorosiane, molestie, gender, “populisti”, “sovranisti”, “minaccia fascista” incombente (che, per carità, non riguarda mica censura, militarizzazione, securitarismo, bellicismo, colonialismo, guerra ai poveri su entrambi i lati dell’Atlantico)».Una di queste entità, «la Foundation for Defense of Democracies, del talmudista Mark Dubowitz», ha sintetizzato il programma di distruzione dell’Iran, nel plauso del direttore della Cia, Mike Pompeo e del segretario di Stato Tillerson, nei termini di un appello a Trump di lanciare «l’offensiva finale contro il regime di Teheran, indebolendone le finanze attraverso più massicce sanzioni economiche e minandone la direzione attraverso la mobilitazione delle forze pro-democrazia». E il Congresso «ha votato cospicui finanziamenti ai terroristi del Mek, la cui presidente, Maryam Rajavi, non ha perso l’occasione peri incitare “l’eroico popolo dell’Iran” all’assassinio del dittatore Khamenei e alla liberazione dei prigionieri politici». Presto, conclude Grimaldi, emergerà anche una nuova eroina-simbolo della “rivoluzione democratica”, sul modello di Neda Soltan. Ricordate la giovane manifestante di Teheran “uccisa” dagli agenti del regime «di cui, poi, un video dimostrava la finta morte allestita con finto sangue dai suoi compari e un giornale tedesco, la “Sueddeutsche Zeitung”, la “resurrezione” in Germania». Nulla di nuovo sotto il sole: «Solo che questa volta temo che, constatati i propri rovesci in Medio Oriente, grazie anche all’Iran, i veri Stati canaglia vogliano andare fino in fondo. E qui, amici, la controinformazione è vitale».«Si è scatenato quello che promette essere un rinnovato tentativo USraeliano, con il conforto saudita e il beneplacito dell’Ue, al cambio violento di regime in Iran, stavolta mettendoci tutto l’impegno dei due terroristi di Stato della cosiddetta “comunità internazionale (leggi Nato), Trump (con lo Stato Profondo Usa) e Netanyahu (sostenuto dalla lobby) e arrivando fino all’aggressione armata, con conseguenze apocalittiche non solo per il Medioriente». Fulvio Grimaldi, per lunghi anni giornalista Rai e autore del documentario “Target Iran”, che racconta la nuova realtà dell’ex Persia affrancatasi dall’Occidente, teme che la guerriglia scatenatasi a Teheran sia l’antipasto dell’ennesima, sanguinosa “rivoluzione colorata” per rovesciare il governo iraniano, che insieme a quello russo si è opposto con successo, in Siria, alla guerra contro Assad organizzata dalla Cia utilizzando i miliziani dell’Isis. «L’anticipazione di questa strategia, lubrificata dallo tsunami di falsità e diffamazioni di cui si incaricano i media mainstream, con particolare efficacia quelli di “sinistra” e la loro clientela di utili idioti e amici del giaguaro imperialista – scrive Grimaldi – la si è avuta nel 2009, al tempo delle elezioni che hanno rinnovato il mandato al migliore, più laico, antimperialista (si ricordi la sua amicizia con Hugo Chavez) e socialmente sensibile presidente iraniano, Mahmud Ahamdinejad».
-
Le cryptovalute? Sono solo materie prime, possono crollare
Tocca alla nonna capire questa cosa fondamentale, e che nessuno vi dice. Ma è già incazzata… Lei parte dall’Abc, fa domande. Cos’è una valuta? E’ una moneta emessa da uno Stato, e regolata dalla banca centrale di quello Stato. Essendo emessa da uno Stato, la valuta ha valore legale. Ah! E cos’è una cryptovaluta? E’ una fantasia che può essere inventata da chiunque abbia un computer e una connessione Internet. Non ha nessun valore di per sé, né ha valore legale. E da quando le fantasie costano delle fortune? Da quando due categorie di umani hanno deciso che le frittelle d’aria (le cryptovalute) avevano un valore X. Sono gente disposta a pagare per le frittelle d’aria, letteralmente, e si dividono in furbi speculatori e in coglioni del condominio. E più questi comprano le frittelle d’aria, più quelle aumentano di prezzo, come tutte le cose. Ma sono scemi, ’sti qui? Sì. Ma bada bene, nonna: i furbi speculatori sanno come cavare oro dalle rape, i coglioni del condominio no, e questi nel complesso alla fine ci smeneranno il sedere. Non sono valute, ma le chiamano lo stesso cryptovalute: perché? Perché i furbi speculatori usando il termine ‘valute’ infinocchiano i coglioni del condominio. Se le chiamavano cryptofrittelle nessuno le comprava, e il prezzo non aumentava.“Ma non è che sei tu lo scemo? Tutti le chiamano valute”. No. Una valuta è solo quella emessa da uno Stato, regolata dalla banca centrale, e con valore legale. Le cryptovalute sono come le materie prime, cioè sono cose che hanno un dato valore sul mercato, come il grano, il ferro, il carbone, ecc. Ma non sono valute. “Non ho capito un cazzo”. Nonna, cazzo non si dice. “Fanculo, Barnard, non ho capito un cazzo!”. Ok, ok, oh, calma! Spiego: quello che succede oggi con ’ste cryptovalute – cioè frittelle d’aria con un valore inventato, ma non riconosciute dagli Stati – è che vengono scambiate sui mercati esattamente come, ad esempio, il ferro, che è una materia prima. Più c’è richiesta, più il valore del ferro aumenta, chiaro? Lo stesso per le cryptovalute, anche se sono frittelle d’aria. Ma nonna, dimmi, tu puoi pagare le tasse allo Stato, alla Regione e al Comune con il ferro? No. Brava, con il ferro o col grano ad esempio, che sono materie prime, non ci puoi pagare le tasse a Stato, Regione e Comune. Questo è il preciso motivo per cui oggi il ferro o il grano non sono valute (lo furono in passato), sono materie prime.Se con una cosa non ci puoi pagare le tasse al tuo Stato, Regione, Comune, quella cosa non è una valuta valida per te. Punto. E siccome con le cryptovalute non ci puoi pagare nessuna tassa, e in nessuno Stato al mondo, le cryptovalute non sono valute, ma sono come il ferro o il grano: sono cioè materie prime che vengono scambiate sui mercati a un prezzo. Nulla di più. “E adesso che so ’ste cose, mio bel giovane, cosa mi cambia?”. Ti cambia questo: 1) Sai che se i maggiori Stati del mondo dichiareranno che non accettano le cryptovalute come pagamento delle tasse, le cryptovalute sopravviveranno solo fino a che qualcuno le vuole, a capriccio. Mentre invece una vera valuta di Stato sopravviverà finché lo vorrà, ed esisterà, quello Stato. Ben altra sicurezza per chi la possiede. 2) Sai che le cryptovalute sono materie prime come il ferro. Allora, immagina il giorno in cui scoprono un metallo migliore del ferro, là dove oggi lo impiegano. Che succede? Nessuno vuole più il ferro e non vale più un cazzo, nonna…“Non si dice cazzo, maleducato!”. Va bè nonna… per finire il punto 2), volevo dire che il giorno in cui qualcuno s’inventerà delle altre frittelle d’aria che faranno fare più soldi delle cryptovalute, queste andranno al cesso, e assieme a loro tutti i coglioni del condominio che in quel momento le hanno nel portafoglio. Nonna, tu fai come ti pare, ma ricorda sempre questo: fino al giorno in cui il tuo Stato accetterà le cryptovalute come pagamento delle tue tasse, fino a quel giorno le cryptovalute sono solo materie prime, e basta, e come tali vanno trattate. Quindi se ti metti in tasca delle cryptovalute è come se comprassi ferro, grano o carbone. Per farci su dei soldi, devi conoscere benissimo i mercati. Magari ti va bene perché di colpo il valore del grano va alle stelle, o ti va da cani perché invece crolla. E queste cose non le sanno i coglioni di condominio. Ripeti con me: le cryptovalute sono materie prime, non valute. Le cryptovalute sono materie prime, non valute. Le cryptovalute… Nonna?(Paolo Barnard, “Le cryptovalute sono materie prime, non valute – spiegate alla nonna incazzatissima”, dal blog di Barnard del 27 dicembre 2017).…..valuta, moneta, emissione, Stato, banche centrali, valore, legalità, criptovalute, cryptovalute, fantasia, computer, Internet, speculazione, ingenuità, prezzi, materie prime, mercato, grano, ferro, carbone, tasse, bollette, imposte, Regioni, Comuni, validità, sovranità, bolle, sicurezza, metalli, crollo, Paolo Barnard,Tocca alla nonna capire questa cosa fondamentale, e che nessuno vi dice. Ma è già incazzata… Lei parte dall’Abc, fa domande. Cos’è una valuta? E’ una moneta emessa da uno Stato, e regolata dalla banca centrale di quello Stato. Essendo emessa da uno Stato, la valuta ha valore legale. Ah! E cos’è una cryptovaluta? E’ una fantasia che può essere inventata da chiunque abbia un computer e una connessione Internet. Non ha nessun valore di per sé, né ha valore legale. E da quando le fantasie costano delle fortune? Da quando due categorie di umani hanno deciso che le frittelle d’aria (le cryptovalute) avevano un valore X. Sono gente disposta a pagare per le frittelle d’aria, letteralmente, e si dividono in furbi speculatori e in coglioni del condominio. E più questi comprano le frittelle d’aria, più quelle aumentano di prezzo, come tutte le cose. Ma sono scemi, ’sti qui? Sì. Ma bada bene, nonna: i furbi speculatori sanno come cavare oro dalle rape, i coglioni del condominio no, e questi nel complesso alla fine ci smeneranno il sedere. Non sono valute, ma le chiamano lo stesso cryptovalute: perché? Perché i furbi speculatori usando il termine ‘valute’ infinocchiano i coglioni del condominio. Se le chiamavano cryptofrittelle nessuno le comprava, e il prezzo non aumentava.
-
I pm: Deutsche Bank barò sullo spread, rovinando l’Italia
Alla sbarra i responsabili del crollo finanziario dell’Italia, per favorire il commissariamento del paese con la regia di Giorgio Napolitano? La prima banca tedesca, Deutsche Bank, con alcuni dei suoi ex top manager è indagata dalla Procura di Milano per la mega-speculazione in titoli di Stato italiani effettuata nel primo semestre del 2011. Operazione che contribuì a far volare lo spread dei rendimenti tra i Btp e i Bund tedeschi e a creare le condizioni per dimissioni del governo Berlusconi, a cui subentrò l’esecutivo di Mario Monti, con in tasca la ricetta “lacrime e sangue” per l’Italia, dalla legge Fornero sulle pensioni al pareggio di bilancio in Costituzione. Secondo l’“Espresso”, che ricostruisce la vicenda svelandone i dettagli, l’ipotesi di reato è la manipolazione del mercato, avvenuta attraverso operazioni finanziarie finite sotto la lente dei pm per un totale di circa 10 miliardi di euro. Affari realizzati da Deutsche Bank dopo il crac della Grecia, quando la crisi del debito pubblico cominciava a minacciare altri paesi mediterranei, tra cui Italia e Spagna, scrive Marcello Zacché sul “Giornale”.A onor del vero, scrive Zacché, l’indagine sul gruppo bancario di Francoforte è vecchia di due anni, avviata dalla Procura pugliese di Trani (già attivasi in altri procedimenti finanziari come per esempio quello contro le agenzie di rating). E nel settembre scorso è arrivato l’avviso di conclusione delle indagini, con i magistrati pugliesi pronti a chiedere il rinvio a giudizio di cinque banchieri che guidavano il gruppo nel 2011 (tra cui l’ex presidente Josef Ackermann e gli ex ad Anshuman Jail e Jurgen Fitschen) e della stessa Deutsche Bank. Poi però non se n’era saputo più nulla. Ora invece si apprende che l’indagine è stata trasferita a Milano dalla Corte di Cassazione, per motivi di competenza territoriale, su richiesta dei difensori della banca. «Come noto – ricorda il “Giornale” – la vicenda riguarda la forte riduzione negli investimenti in titoli di Stato italiani avvenuta nei primi sei mesi del 2011, quando Deutsche Bank smobilitò 7 dei circa 8 miliardi dei Btp che deteneva, comunicando tutto soltanto il 26 luglio». Una notizia bomba, tanto che il “Financial Times” titolò in prima pagina sulla «fuga degli investitori internazionali dalla terza economia dell’Eurozona».Ora l’indagine che i pm milanesi hanno riaperto ricostruisce l’intera serie di operazioni decise dalla banca tedesca. E, secondo l’accusa, emergerebbe che già alla fine dello stesso mese di luglio del 2011, Deutsche Bank aveva ripreso a comprare Btp (per almeno due miliardi) senza annunciarlo, mentre altri 4,5 miliardi di titoli italiani erano posseduti da un’altra società tedesca acquisita nel 2010 dalla stessa mega-banca. Il 26 luglio, dunque, «Deutsche Bank comunicò le vendite avvenute entro il 30 giugno, ma non gli acquisiti successivi», avendo quindi «venduto prima del crollo dei prezzi, e ricomprato dopo». Una speculazione «che sembra aver fatto perno sulla crisi finanziaria italiana, causandone poi anche quella politica». Mario Monti, incaricato da Napolitano, ha così avuto modo di fare quello che i “mercati” (la Germania) chiedevano da tempo: demolire la domanda interna del paese, il cui Pil è crollato di colpo del 10% insieme alla produzione inustriale, calata vertiginosamente del 25% aprendo la porta all’acquisto, a prezzi di saldo, di alcune tra le migliori firme del made in Italy.Alla sbarra i responsabili del crollo finanziario dell’Italia, per favorire il commissariamento del paese con la regia di Giorgio Napolitano? La prima banca tedesca, Deutsche Bank, con alcuni dei suoi ex top manager è indagata dalla Procura di Milano per la mega-speculazione in titoli di Stato italiani effettuata nel primo semestre del 2011. Operazione che contribuì a far volare lo spread dei rendimenti tra i Btp e i Bund tedeschi e a creare le condizioni per dimissioni del governo Berlusconi, a cui subentrò l’esecutivo di Mario Monti, con in tasca la ricetta “lacrime e sangue” per l’Italia, dalla legge Fornero sulle pensioni al pareggio di bilancio in Costituzione. Secondo l’“Espresso”, che ricostruisce la vicenda svelandone i dettagli, l’ipotesi di reato è la manipolazione del mercato, avvenuta attraverso operazioni finanziarie finite sotto la lente dei pm per un totale di circa 10 miliardi di euro. Affari realizzati da Deutsche Bank dopo il crac della Grecia, quando la crisi del debito pubblico cominciava a minacciare altri paesi mediterranei, tra cui Italia e Spagna, scrive Marcello Zacché sul “Giornale”.