Archivio del Tag ‘Prima Repubblica’
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Il peggiore dei mondi possibili, nutrito dalla nostra paura
Sembrava il migliore dei mondi possibili, quello che l’Europa aveva di fronte a sé fino al 2001, precisamente il 20 luglio, quando al G8 di Genova esplose la follia opaca della violenza e a lasciarci la pelle fu Carlo Giuliani, immortalato mentre col suo estintore minaccia i carabinieri intrappolati in un gippone. Ma Genova era solo l’antipasto dell’inferno: due mesi dopo, crollarono di colpo le Torri Gemelle di Manhattan. Tremila vittime l’11 settembre, e altre 12.000 negli anni seguenti a causa dei tumori provocati dalla nube d’amianto. Nel 2003, in Italia, le prime ipotesi sul possibile auto-attentato vennero avanzate da Giulietto Chiesa, nel bestseller “La guerra infinita”, ignorato dai media. Nel 2005, a “Matrix”, in prima serata su Canale 5, Enrico Mentana ebbe il coraggio di trasmettere “Inganno globale”, esplosivo documentario in cui Massimo Mazzucco dimostra che la versione ufficiale (terrorismo islamico) è integralmente falsa. Era già cominciata, la grande retromarcia dell’Occidente, ma pochissimi se n’erano accorti. Tra questi Bettino Craxi, che da Hammamet spiegò che l’euro-finanza avrebbe spolpato l’Italia. E prima ancora l’economista keynesiano Federico Caffè, sparito nel nulla nel 1987. E così Olof Palme, l’inventore del welfare svedese, ucciso l’anno prima a Stoccolma. Doveva aver capito tutto anche Aldo Moro, minacciato di morte da Henry Kissinger poco prima che di lui si occupassero, teoricamente, le Brigate Rosse.
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L’euro-ascesa di Gozi, Signor Nessuno e politico senza voti
«Nella Prima Repubblica, quelli come Sandro Gozi erano detti polli in batteria. Allora, i partiti formavano uomini politici identici, per idee e comportamenti. Poi, arrivò il caos della Seconda Repubblica e il suo esercito starnazzante di sprovveduti. Con il quarantanovenne sottosegretario alla presidenza del Consiglio si è tornati all’ordine». Con queste parole assai poco lusinghiere, a fine 2017, Giancarlo Perna presentava, su “La Verità”, quel Signor Nessuno che rispondeva al nome di Sadro Gozi, oggi nella bufera come ministro francese, italiano a Parigi arruolato dal nemico numero uno dell’Italia, Emmanuel Macron. «Come i politici del passato, il renziano Gozi è un individuo a orologeria, costruito a tavolino, perfetto in ogni sua parte», scrive Perna. «Ma la fucina che lo ha prodotto non sono i partiti, ormai inesistenti. Bensì le scuole internazionali, l’ideologia europea, l’elitarismo mondialista». In altre parole, «Gozi è un euroclone. Un ayatollah dell’Ue, come lo definiscono diversi suoi colleghi, infiltrato nel Parlamento italiano.Dopo la laurea in legge a Bologna, Gozi ha frequentato a Parigi scienze politiche, seguito corsi di amministrazione qua e là nell’ Ue, superato il concorso diplomatico alla Farnesina, soggiornato a Bruxelles e Strasburgo. François Hollande lo ha insignito nel 2014 della Legion d’Onore. Con la moglie e i figli parla più francese che italiano. Si esprime altrettanto bene in tedesco, inglese e spagnolo. «Se pensa a un amico, non ne ha uno che disti meno di 1.000 chilometri, appartenendo tutti al mondo esclusivo delle caste globaliste», sostiene Perna. Per riassumere: «Sandro è sideralmente diverso dal comune mortale. Nell’ambito però della sua cerchia elegante, è lo stampino dei suoi simili. Il solito fanatico Ue licenziato dalle grandi scuole, dove i corsi sono in inglese, i libri in tedesco e le idee confuse: il pollo in batteria dei tempi nostri. L’unica anomalia di questo classico esemplare di funzionario europeo è che abbia scelto la politica». Deputato per tre legislature, dal 2014 è stato anche al governo: prima con Matteo Renzi, poi con Paolo Gentiloni. «In tutti i casi, è un cavolo a merenda. Volenteroso e piacione ma impantanato nella carriera».Celebre il fiasco dell’Agenzia Europea del Farmaco, che Milano ha perso per un soffio. La pratica era stata affidata proprio a Gozi, che aveva la delega agli affari europei. Nonostante le credenziali meneghine, l’Ema è finita ad Amsterdam, per estrazione a sorte, dopo un voto segreto a parità. Tra parentesi: con la sua legislazione fiscale super-agevolata, proprio l’Olanda è il paese che ha inferto più danni economici all’Italia, di recente, attraendo grandi aziende italiane grazie al dumping fiscale (stranamente tollerato dall’Ue). «Fatta la frittata, tutti se la sono presa con il povero Gozi, incapace di imporre Milano prima di arrivare ai bussolotti, ma lui non si è scomposto», scrive sempre Perna. «L’uomo si piace molto e ha una solida autostima. Pare che contro di noi abbiano votato Spagna, Francia e Germania. La sola certa è la Spagna, cui Gozi ha dedicato l’unico commento: “Era forse memore della sua antica dominazione dei Paesi Bassi”. Una elegante citazione storica come sola espressione di rammarico. Fa molto feluca e dice tanto dell’uomo».Sandro Gozi? E’ uno che sta benissimo nella sua pelle: «Fiero dei suoi studi alla crème, non si mette mai in discussione. Ha l’acriticità dei robot che escono dalle scuole costose e occupano le poltrone Ue. Stessa testa degli Emmanuel Macron, Ena & co. Considerandosi il migliore prodotto nel migliore dei mondi possibili, ne adotta senza riserve idee e repulsioni. È per i ponti contro i muri, la green economy contro il nucleare, la dieta invece dei cenoni, il moto contro l’ozio». Non a caso, «lo sport sta in cima ai suoi valori: è un provetto corridore del Montecitorio Running Club, fondato dall’alfaniano Maurizio Lupi, che riunisce gli onorevoli patiti della maratona di New York. Gozi ne detiene il record parlamentare, sottratto al medesimo Lupi, col tempo di 3h 38′ 53″. È anche provetto nello squash, di cui nel 2003 è stato campione nazionale». Il gioco consiste nel lanciare con la racchetta una palla contro il muro: l’abilità sta nello schivare la palla di ritorno evitando il tramortimento. «Per riuscire nella disciplina, Sandro consiglia su YouTube questa dieta: a colazione cereali, biscotti secchi, caffè e spremuta; pasta o riso a pranzo; carni bianche e verdura bollita a cena. Per tali meriti, è responsabile delle relazioni internazionali per la federazione squash».Atleta è anche la moglie, Emanuela Mafrolla, amante dei cavalli e consigliera federale degli sport equestri. I figli, Federica e Giulio, ancora in età scolastica, si limitano per ora a frequentare lo Chateaubriand, il liceo francese di Roma, di cui la più illustre ex alunna è Marianna Madia, già ministra renziana. «Apparentemente paradossale è che questo snob sia nato (marzo 1968) a Sogliano al Rubicone, culla del formaggio di fossa, sperduto paesotto della Romagna profonda», continua Perna. «Come ha potuto un provinciale per destino, farsi così integralmente cittadino del mondo? Fatale fu Cesena, il capoluogo, dove seguì gli studi e dove ha tuttora residenza. La città era, tradizionalmente, regno – per così dire – dei repubblicani. E al Pri – ahimè, dissolto – aderì il giovanottello preso a benvolere dal suo personaggio più illustre, Oddo Biasini, segretario del partito negli anni Settanta del Novecento. Costui – preside anche delle scuole locali – lo seguì passo passo finché, una volta laureato, raccomandò il pupillo al corregionale Romano Prodi». Gozi e Biasini: «La simbiosi tra il ragazzo e l’anziano protettore repubblicano fu tale da essere somatizzata nelle sopracciglia folte e scure, eguali nell’uno e nell’altro».Dunque, finiti i suoi studi, i giri in Europa per approfondirli e concorsi vari, Gozi si accasò da Prodi, diventato nel frattempo presidente della commissione Ue (1999-2004). Il giovane Sandro ne fu il consigliere per l’intero mandato e, alla scadenza, passò un altro anno a Bruxelles con il successore, José Manuel Barroso. «Fu un bel farsi le ossa nella cuccagna Ue. A quel punto, dimenticate le origini repubblicane, Sandro era ormai stabilmente piazzato a sinistra in quota Prodi. Tornato in Italia, si fece ancora un annetto in Puglia accanto al governatore Nichi Vendola, con la carica di consigliere diplomatico per la vendita di cozze e mitili nei mercati Ue». Nel 2006, finalmente, entrò a Montecitorio con l’Ulivo mettendo fine al suo errare. «Ci arrivò per il rotto della cuffia come deputato del Veneto, solo perché Prodi, eletto anche altrove, gli cedette il seggio». E qui arriviamo al punto cruciale, scrive Perna: «Gozi è un politico senza base elettorale e senza un voto suo che sia uno». Il Pd di Cesena, che sarebbe il suo luogo naturale, «lo considera un estraneo, per formazione e mentalità».Per uscire dall’anonimato, Gozi ha cercato di candidarsi nel 2012 alle primarie Pd per Palazzo Chigi. «Ha dovuto però rinunciare perché non ha trovato le 95 firme necessarie per la presentazione». Fermo a 70, si è così commiserato: «Continuerò a credere che si possa fare politica con pochi soldi, pochi apparati e molte idee». Con sé è sempre benevolo: «Sono di rara onestà, pulizia e trasparenza», si compiacque in altra occasione. «Ma, ripeto – chiosa Perna – non ha un chiodo di estimatore che gli metta la scheda nell’urna». Se la prima volta grazie a Prodi fu eletto in Veneto, regione «di cui aveva sentito parlare dalla nonna», passato con Renzi non è andata meglio. «È stato sempre imposto a elettori ignari anche del suo nome. Nel 2008 in Umbria, nel 2013 in Lombardia. Un felice caso di incasso d’indennità senza avere un datore di lavoro». O meglio: il vero datore di lavoro, probabilmente, stava lassù, nell’Olimpo dell’oligarchia supermassonica europea che ora infatti l’ha fatto ascendere nei palazzi di Parigi grazie all’Eliseo, dove impera (per modo di dire) il Gozi francese, cioè Macron, fedelissimo esecutore del potere-ombra che l’ha fabbricato e candidato, per poi manovrarlo a piacimento. Fino alla massima perversione possibile: reclutare un italiano nel governo francese per far imbestialire il governo italiano.«Nella Prima Repubblica, quelli come Sandro Gozi erano detti polli in batteria. Allora, i partiti formavano uomini politici identici, per idee e comportamenti. Poi, arrivò il caos della Seconda Repubblica e il suo esercito starnazzante di sprovveduti. Con il quarantanovenne sottosegretario alla presidenza del Consiglio si è tornati all’ordine». Con queste parole assai poco lusinghiere, a fine 2017, Giancarlo Perna presentava, su “La Verità”, quel Signor Nessuno che rispondeva al nome di Sadro Gozi, oggi nella bufera come ministro francese, italiano a Parigi arruolato dal nemico numero uno dell’Italia, Emmanuel Macron. «Come i politici del passato, il renziano Gozi è un individuo a orologeria, costruito a tavolino, perfetto in ogni sua parte», scrive Perna. «Ma la fucina che lo ha prodotto non sono i partiti, ormai inesistenti. Bensì le scuole internazionali, l’ideologia europea, l’elitarismo mondialista». In altre parole, «Gozi è un euroclone. Un ayatollah dell’Ue, come lo definiscono diversi suoi colleghi, infiltrato nel Parlamento italiano.
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Formica: Trump e Putin mollano Di Maio e Salvini per l’Ue
Sapete chi è stato a imporre a Di Maio il voltafaccia sul Tav Torino-Lione, che probabilmente segnerà la morte politica dei 5 Stelle? Non tanto Salvini, quanto il vero padrone di casa: gli Stati Uniti. Ma non è che l’inizio: perché la testa di Luigi Di Maio, insieme a quella di Salvini, sarà servita su un piatto d’argento, sia da parte di Washington che di Mosca, per placare la voglia di vendetta dell’Europa, sfidata (solo a parole, per la verità) dal governo gialloverde. A pronosticarlo è Rino Formica, politico socialista della Prima Repubblica e osservatore smaliziato delle due incerte “repubbliche” successive. Secondo Formica neppure il voto potrebbe sanare la crisi. E nulla potrà la terza forza in campo, il fallimentare partito dei “badogliani”. «Ogni contratto ha valore a due condizioni», osserva Formica: «La prima è considerare l’oggetto del contratto, e dunque la situazione da gestire come statica e immobile. In politica è un grave errore, perché le cose si evolvono continuamente». E la seconda? «La seconda è che ad ogni inadempienza contrattuale corrisponde una sanzione». E nel contratto siglato da Lega e M5S «la clausola sanzionatoria è occulta, perché è scaricata su un terzo che non ha colpe: il popolo italiano», dice Formica, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”.«Prescindere dalla situazione in continuo movimento – spiega l’ex ministro craxiano – fa sì che il dibattito avvenga sulle clausole contrattuali prefissate. Ma queste sono continuamente superate, modificate, cancellate dal processo politico in atto. Di per sé già questo sancisce il fallimento del governo gialloverde». Poi, aggiunge Formica, c’è la crisi della clausola sanzionatoria delle inadempienze che stanno emergendo da una parte e dall’altra, dalla Flat Tax alla futura linea Tav Torino-Lione. E il conto «lo paga il paese», sostiene Formica. Andare al voto anticipato? «Avrebbe poco senso, perché non sarebbe risolutivo». Secondo l’ex ministro, «c’è una responsabilità delle forze di opposizione e dei mezzi di informazione», due “giocatori” che «non fanno emergere la crisi del contratto e la clausola occulta». Ci lasci indovinare, ipotizza Ferraù: l’Italia è incattivita e in preda al “fascismo”? Secondo Formica, chi oggi governa il paese «lo ha potato all’esasperazione, additando come cause fattori esogeni: l’immigrazione, l’incertezza sul lavoro, l’Europa, la corruzione, la mancata crescita. Il voto non risolverebbe i problemi – sostiene Formica – perché gli italiani sarebbero chiamati alle urne su argomenti che provocano lacerazioni: le stesse che vediamo nel nostro tessuto sociale».Ammettiamo che Salvini dichiari conclusa l’esperienza di governo e chieda di andare a votare, ragiona Ferraù. A quel punto, il capo dello Stato troverebbe subito un’altra maggioranza disposta a sostenere un governo di transizione? Non è questo il punto, secondo Formica: «Nel governo ci sono tre forze. M5S e Lega sono entrambi lacerati al proprio interno tra governisti e movimentisti. Due componenti interne, trasversali, che tendono alla divaricazione». E la terza forza? «È data dal gruppo dei ministri badogliani: Conte, Tria e Moavero. Hanno capito che la guerra è persa e non sanno più come evitare che l’edificio crolli loro addosso». Eppure, osserva Ferraù, hanno trovato l’accordo con l’Ue nella scorsa legge di bilancio: hanno evitato la procedura di infrazione e ora aspirano a gestire la prossima manovra. «Ma sono risultati che non hanno avuto effetti sul programma di governo», obietta Formica. I 5 Stelle e la Lega, «invece di fare un bilancio serio, trasparente, del primo anno di governo», finora «hanno enfatizzato il proprio contributo, dal contrasto all’immigrazione al reddito di cittadinanza». E adesso? «Si va verso una crisi profonda, segnata dalla rivolta dentro i 5 Stelle, che probabilmente avverrà anche all’interno della Lega, mentre i badogliani dovranno fare i conti con la propria inefficacia».Formica intravede il peggiore degli scenari possibili, per leghisti e grillini: «Sono dell’opinione che la crisi delle due formazioni passerà per la liquidazione dei due leader, Di Maio e Salvini». Motivo: i 5 Stelle e la Lega «hanno perso la battaglia con l’Unione Europea». Strategia fallimentare: «Avevano scommesso, sulla base di due alleanze (con Putin, con Trump o con entrambi), che sarebbero stati capaci di minare la stabilità dell’Europa. Ma l’instabilità dell’Europa non c’è, perché il voto europeo ha visto la vittoria delle forze europeiste. E gli europeisti regoleranno presto i conti con le forze ostili». Redde rationem: «In quel momento il realismo degli Stati Uniti e della Russia sarà favorevole all’iniziativa europea, e per dimostrarlo Washington e Mosca offriranno all’Europa le teste dei rispettivi “servitori” nei singoli paesi». Ma è così scontata l’obbedienza dei 5 Stelle a Washington? Per Formica, il movimento fondato fa Grillo «è un insieme di tante forze contraddittorie, ma la sua parte maggioritaria guardava e guarda al populismo americano».Cartina di tornasole della sottomissione grillina agli Usa, il diktat che secondo Formica i pentastellati avrebbero subito da parte dell’ambasciatore statunitense riguardo alla Torino-Lione: «Sulla Tav, Lewis Eisenberg ha chiamato Di Maio. Non si sono scambiati un cioccolatino… “Questa storia si deve chiudere, toglietevi dalle scatole”, gli ha fatto capire l’ambasciatore». Sicché, il M5S «non potrà più far finta che il contratto è in piedi e ne è solo rinviata l’attuazione. No: il contratto non c’è più». Secondo Formica, si sta avvicinando anche la fine di Salvini. Eppure – fa notare Ferraù – il leader della Lega ha il consenso di quasi il 40% degli italiani. «Per ora», precisa Formica. Ma domani? «Nenni diceva che alla fine ogni fiume risponde alla sua sorgente». E la sorgente della Lega «è il Nord». Cioè: «La vera Lega, elettoralmente parlando, è quella lombardo-veneta». Salvini? «Ha ottenuto il consenso del resto del paese solo in chiave reazionaria. Non durerà». Le prime scosse sismiche, sempre secondo Formica, arriveranno con la prossima legge di bilancio: «A dicembre, gli italiani si accorgeranno che l’inadempienza contrattuale è stata scaricata su di loro». E addio gialloverdi.Sapete chi è stato a imporre a Di Maio il voltafaccia sul Tav Torino-Lione, che probabilmente segnerà la morte politica dei 5 Stelle? Non tanto Salvini, quanto il vero padrone di casa: gli Stati Uniti. Ma non è che l’inizio: perché la testa di Luigi Di Maio, insieme a quella di Salvini, sarà servita su un piatto d’argento, sia da parte di Washington che di Mosca, per placare la voglia di vendetta dell’Europa, sfidata (solo a parole, per la verità) dal governo gialloverde. A pronosticarlo è Rino Formica, politico socialista della Prima Repubblica e osservatore smaliziato delle due incerte “repubbliche” successive. Secondo Formica neppure il voto potrebbe sanare la crisi. E nulla potrà la terza forza in campo, il fallimentare partito dei “badogliani”. «Ogni contratto ha valore a due condizioni», osserva Formica: «La prima è considerare l’oggetto del contratto, e dunque la situazione da gestire come statica e immobile. In politica è un grave errore, perché le cose si evolvono continuamente». E la seconda? «La seconda è che ad ogni inadempienza contrattuale corrisponde una sanzione». E nel contratto siglato da Lega e M5S «la clausola sanzionatoria è occulta, perché è scaricata su un terzo che non ha colpe: il popolo italiano», dice Formica, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”.
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Il Furbistan grillino: tagliare le poltrone e prolungare le loro
A vederli e sentirli non si direbbe, ma i grillini ogni notte mangiano pane e volpe, ne sanno una più del diavolo e ogni mattina trovi il pacco spedito dal loro amazon politico-elettorale. Tu pensavi che fossero lo Zero assoluto in politica e scienza e loro invece s’inventano un capolavoro matematico-politico da brividi. Sentite cosa è successo. Premessa, il Movimento 5Stelle Cadenti naufraga nei sondaggi, soprattutto dopo che si è appiattito peggio di una sogliola in Europa ai diktat franco-tedeschi; ha per premier un azzeccagarbugli disposto a scrivere per la “Repubblica”, a fare la Tav, allearsi alla sinistra e a chicchesia, a pulire il tinello della Merkel e a eseguire gli ordini degli eurocrati, pur di restare a galla. Il Movimento 5 Stelle col suo premier è perciò considerato dai Suggeritori di Palazzo, come Paolo Mieli e Dario Franceschini, la nuova manovalanza per isolare Salvini e riportare la sinistra al governo. E allora, siccome sentono odore di elezioni anticipate, i grillo-furbetti preparano il loro raccontino per la gente e la loro manovrina per pararsi le cinque chiappe a rischio. L’operazione in due mosse riguarda il Parlamento: la prima è quella che non si conta più da uno per i mandati parlamentari ma da zero, in modo che i loro capetti possano guadagnare un altro mandato e così restare nel giro alle prossime elezioni, ben installati sulle loro poltrone.Non hanno il coraggio di dire ai loro militanti ed elettori che derogano per comodità personale a una loro norma, si adattano come tutti gli altri politicanti e sono trasformisti come i marpioni della vecchia repubblica o dell’antica monarchia. No, loro studiano alta matematica e introducono dopo un attento studio e un serrato confronto con la matematica araba e indiana, il concetto orientale che rivoluzionò la fisica, l’aritmetica e la visione del mondo: l’introduzione dello zero. Lo zero per loro ha pari dignità degli altri numeri, ha diritto di voto e di conteggio; il primo mandato parlamentare è perciò considerato una specie di rodaggio, di tirocinio, un numero zero. C’è la Coca zero, c’è il caffè zero, perché non dovrebbe esserci il mandato zero? Contavano lo zero pure nella piattaforma di Cape Kennedy, perché non dovrebbero conteggiarlo nella piattaforma Rousseau, cioè nella cabina di comando di Grillology? Così il regolamento resta invariato, due mandati, ma la sostanza è che i mandati sono tre. Raggiro di massa con lode.Ma a questa magagna scientifico-napoletana, nota come il gioco delle tre carte diventate due, i grillini del Furbistan aggiungono anche un’astuta strategia di copertura e diversione politico-mediatica: rilanciano la proposta assai popolare di dimezzare il numero dei parlamentari e così ottenere due piccioni con una fava; da una parte galvanizzano il meraviglioso popolo della rete rilanciando il racconto dei grillini contro tutti, vero movimento antisistema e antipappatoria, distraendoli da quota zero; e dall’altro accusano gli alleati leghisti e chiunque voglia il voto, di volerlo per impedire l’approvazione di questa legge taglia-parlamentari. Lo fanno per le poltrone, dicono proprio loro che non vogliono votare per la stessa ragione perché dimezzerebbero le loro poltrone anche senza la legge taglia-seggi. I cervellini più fragili, che pensano cliccando e adorano l’Algoritmo della setta, se la bevono in un sorso. Ma basterebbe un minimo di cervello autonomo e funzionante per capire che Salvini pensa al voto anticipato per capitalizzare il consenso da record che ha, temendo di logorarlo strada facendo e di perderlo perché i grillini ammosciano, frenano ogni sua proposta di cambiamento. Figuratevi se un leader che si gioca la partita delle sua vita per la guida del paese, butta all’aria un governo anche suo, chiede il voto anticipato solo per conservare le “poltrone” ai peones (che sarebbero comunque garantite per la ragione inversa ai grillini, perché la Lega è data coi consensi raddoppiati).Detto tra noi, l’idea di dimezzare il numero dei parlamentari ci è sempre piaciuta, e non per le ragioni banali o minori agitate dai grillini: si risparmiano milioni di euro, dicono loro, ma i grillini non capiscono o non vogliono far capire che i problemi gravi di bilancio del nostro paese sono nell’ordine dei miliardi e non dei milioni. L’algebra grillina, che maneggia così acutamente gli zeri, ritiene o fa ritenere ai suoi elettori che milioni e miliardi siano la stessa cosa. In realtà il dimezzamento del numero dei parlamentari è una cosa buona e giusta perché diminuendo la quantità magari migliora la qualità dei medesimi, più selezionati; rende più agile il pachiderma parlamentare, ci allinea ai parlamenti degli altri paesi; e infine, c’è il risparmio sulle indennità. Però, il numero dei parlamentari è un falso problema, uno specchietto per le allodole e una manovra per distrarre il gentile pubblico dal fatto che loro, nel frattempo, col mandato zero si sono conservati le loro poltrone, proprio mentre accusano gli altri di voler votare per tenersi le poltrone. E si sono dotati di un argomento da campagna elettorale in caso di voto e di una fiaba utile per catturare gli ingenui: ci fanno votare per tenersi le poltrone. E così passano in secondo piano i problemi urgenti dell’Italia, le riforme e le opere da fare, la necessità di avere un governo attivo. Mi auguro che il popolo sia un tantino superiore al livello mentale e civile in cui lo considerano la Casaleggio & Associati & Dissociati.(Marcello Veneziani, “La furbata dei grillini in due mosse”, da “La Verità” del 24 luglio 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).A vederli e sentirli non si direbbe, ma i grillini ogni notte mangiano pane e volpe, ne sanno una più del diavolo e ogni mattina trovi il pacco spedito dal loro amazon politico-elettorale. Tu pensavi che fossero lo Zero assoluto in politica e scienza e loro invece s’inventano un capolavoro matematico-politico da brividi. Sentite cosa è successo. Premessa, il Movimento 5Stelle Cadenti naufraga nei sondaggi, soprattutto dopo che si è appiattito peggio di una sogliola in Europa ai diktat franco-tedeschi; ha per premier un azzeccagarbugli disposto a scrivere per la “Repubblica”, a fare la Tav, allearsi alla sinistra e a chicchesia, a pulire il tinello della Merkel e a eseguire gli ordini degli eurocrati, pur di restare a galla. Il Movimento 5 Stelle col suo premier è perciò considerato dai Suggeritori di Palazzo, come Paolo Mieli e Dario Franceschini, la nuova manovalanza per isolare Salvini e riportare la sinistra al governo. E allora, siccome sentono odore di elezioni anticipate, i grillo-furbetti preparano il loro raccontino per la gente e la loro manovrina per pararsi le cinque chiappe a rischio. L’operazione in due mosse riguarda il Parlamento: la prima è quella che non si conta più da uno per i mandati parlamentari ma da zero, in modo che i loro capetti possano guadagnare un altro mandato e così restare nel giro alle prossime elezioni, ben installati sulle loro poltrone.
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Borrelli: che disastro, dopo Mani Pulite (che risparmiò il Pci)
Rispetto di fronte alla morte, ma anche un sereno giudizio (severo, nel caso) su un personaggio pubblico che ha contribuito a sconvolgere la storia del paese. Gianluigi Da Rold si riferisce a Francesco Saverio Borrelli, capo del pool Mani Pulite. Probabilmente, scrive Da Rold sul “Sussidiario”, la popolarità di Mani Pulite è sempre alta. Eppure, rispetto ai risultati ottenuti «con l’abbattimento della Prima Repubblica e l’avvento di altre ipotetiche repubbliche variamente numerate», si nota qualche ripensamento e anche qualche critica. «Quando nel 1992 iniziò Tangentopoli chiudemmo un occhio sulle esagerazioni e gli eccessi, nella certezza che la mannaia avrebbe colpito indistintamente a destra quanto a sinistra», ha detto Ferruccio De Bortoli, già direttore del “Corriere della Sera”. «Poi a un certo punto – ha ammesso – ci siamo accorti che alcuni erano stati risparmiati o avevano ricevuto un trattamento di riguardo, creandosi una situazione di disparità francamente imbarazzante: chi in galera e chi al potere». Più impressionante quella sorta di “pentimento” che lo stesso Borrelli consegnò a Marco Damilano, oggi direttore dell’“Espresso”, vent’anni dopo l’esplosione della grande inchiesta: abbiamo combinato un bel guaio, ammise il magistrato.Nel saggio “Eutanasia di un potere”, edito da Laterza nel 2013, Borrelli dice a Damilano: «Se fossi un uomo pubblico di qualche paese asiatico, dove è costume chiedere scusa per i propri sbagli, chiederei scusa per il disastro seguito a Mani pulite». E aggiunge: «Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale». Nel libro citato, annota Da Rold, il pensiero di Borrelli viene riproposto un altro paio di volte, «e probabilmente offre la misura della delusione provata anche dal capo del pool di fronte alla parabola politica che parte con Berlusconi, passa dai comprimari del “nuovismo” di sinistra per poi approdare a “Giggino”, “Dibba” e al “Capitano”». Pesa la pochezza culturale dei nuovi leader, peraltro inaugurata da Berlusconi col suo partito-azienda e seguita a ruota dall’altrettanto personalistico Renzi, fino ad arrivare alla “caserma” pentastellata. Fu comunque Berlusconi – poi vittima a sua volta delle “toghe rosse” – il primo ad approfittare dello tsunami di Tangentopoli: tutti ricordano le dirette non-stop di Emilio Fede, con Paolo Brosio in pianta stabile davanti al palagiustizia milanese, ad applaudire i giustizieri. Il resto è cronaca, lo si sconta da trent’anni ma molti se ne accorgono solo oggi: Mani Pulite sguarnì il Belpaese di fronte all’offensiva dei superpoteri europei – industriali e finanziari – che fecero dell’Italia un sol boccone, dal Trattato di Maastricht in poi.In Borrelli e nel suo vitalissimo e popolarissimo pool – scrive Da Rold – c’era purtroppo «il vecchio spirito inquisitorio che l’Italia non vuole abbandonare». In più «c’era, in quei tempi, un’intesa tra magistratura inquirente e mass media che portò molti giornalisti quasi al “disgusto”, alle dimissioni di fronte a certe carte che passavano da una mano all’altra e a certe rivelazioni clamorose ed esclusive». Il 14 luglio 1994, ricorda Da Rold, sugli schermi televisivi apparvero i Pm del pool per affossare il cosiddetto decreto Conso, che tentava di porre un argine all’improvvisa esuberanza di una magistratura per mezzo secolo s’era ben guardata dal “vedere” gli illeciti amministrativi della politica. «Un simile spettacolo di invadenza giudiziaria nella vita politica non sarebbe immaginabile neppure oggi, nemmeno nella piuttosto sgangherata vecchia Gran Bretagna in preda alla Brexit», scrive Da Rold. Da noi, invece, «naturalmente vinsero i “pm” che avrebbero “pulito” l’Italia». Ma quello che più stupisce, aggiunge l’analista, è l’ipocrisia: tutti sapevano che il finanziamento pubblico ai partiti era stato illecito fin dal 1946. «Dati alla mano, si è dimostrato che tutti i bilanci firmati dai presidenti delle Camere, sin dal 1946, erano falsi e che nessun politico e nessun magistrato aveva mai sollevato obiezioni, tranne poi scatenare la “grande lotta alla corruzione”».Inoltre, aggiunge Da Rold, il “nuovismo” politico si è pure rifiutato di creare su Tangentopoli commissione d’inchiesta – doverosa, almeno da quello che appariva. Ora ci risiamo, con le bufale velenose del Russiagate salviniano? Dato che siamo in tema di “Russopoli”, Da Rold ricorda Stephane Courtois, autore de “Il libro nero del comunismo”, che scrive: «L’assordante silenzio che ha accompagnato in Italia le rivelazioni sulla dimensione criminale di quasi un secolo di comunismo, cioè sugli 85 milioni di morti ammazzati, non è nulla rispetto al silenzio, come dire?, rimbombante che è stato steso su quello che riguardava la ‘question financière’, cioè l’oro di Mosca». Alla vigilia della guerra di Corea, nel 1950 – riassume Da Rold – Stalin dava incarico all’armeno Vagan Grigorian di costituire un fondo per finanziare sistematicamente i partiti comunisti di opposizione in Occidente. Il nome che fu stabilito era questo: “Fondo sindacale di assistenza alle organizzazioni operaie di sinistra”. Cose vecchie? Mica tanto: secondo i calcoli di Courtois, sino alla caduta del Muro di Berlino, il Pci – sotto varie forme – intascò il 25% per cento dei finanziamenti di Mosca «anche dopo Stalin, dopo Kruscev, dopo Breznev e dopo le “ultime mummie” del Cremlino». Totale: mille miliardi di vecchie lire. E i magistrati, Borrelli e colleghi? «Non si è mai capito – conclude Da Rold – perché ancora alla fine degli anni Settanta, e forse anche dopo, il Pci avesse a disposizione sulla Bank of Cyprus di Londra il conto numero 100203939/560. Erano archiviate tutte queste possibili inchieste? Forse Borrelli e i suoi “ragazzi” se ne erano dimenticati».Rispetto di fronte alla morte, ma anche un sereno giudizio (severo, nel caso) su un personaggio pubblico che ha contribuito a sconvolgere la storia del paese. Gianluigi Da Rold si riferisce a Francesco Saverio Borrelli, capo del pool Mani Pulite. Probabilmente, scrive Da Rold sul “Sussidiario”, la popolarità di Mani Pulite è sempre alta. Eppure, rispetto ai risultati ottenuti «con l’abbattimento della Prima Repubblica e l’avvento di altre ipotetiche repubbliche variamente numerate», si nota qualche ripensamento e anche qualche critica. «Quando nel 1992 iniziò Tangentopoli chiudemmo un occhio sulle esagerazioni e gli eccessi, nella certezza che la mannaia avrebbe colpito indistintamente a destra quanto a sinistra», ha detto Ferruccio De Bortoli, già direttore del “Corriere della Sera”. «Poi a un certo punto – ha ammesso – ci siamo accorti che alcuni erano stati risparmiati o avevano ricevuto un trattamento di riguardo, creandosi una situazione di disparità francamente imbarazzante: chi in galera e chi al potere». Più impressionante quella sorta di “pentimento” che lo stesso Borrelli consegnò a Marco Damilano, oggi direttore dell’“Espresso”, vent’anni dopo l’esplosione della grande inchiesta: abbiamo combinato un bel guaio, ammise il magistrato.
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Perché Falcone e Borsellino saltarono in aria in quel modo
Saltarono in aria, quei giudici, perché avrebbero fatto saltare per aria il sistema. «Con Falcone arriva il segnale della pace tra Stato e mafia, mentre con la strage di via D’Amelio in cui muore Borsellino si dà il via alle leggi che azzerano i poteri della magistratura». Sul blog “Petali di Loto”, il 19 luglio 2019 – anniversario della strage di via D’Amelio – Stefania Nicoletti richiama le analisi offerte nel corso degli anni dall’avvocato Paolo Franceschetti, con l’aiuto dell’allora collega Solange Manfredi. Già legale delle “Bestie di Satana”, Franceschetti ha dedicato studi coraggiosi al fenomeno dei delitti rituali (dal Mostro di Firenze in poi), tutti “firmati” in realtà da killer dediti a forme di esoterismo degenerate in occultismo criminale. Uomini protetti da forti coperture a livello istituzionale, a volte funzionale alla strategia della tensione o comunque alla manipolazione psicologica delle masse. «Esempio: l’individuo che viene arrestato non è mai un giudice, un politico, un notaio, un medico, un ufficiale, un docente universitario. E’ sempre un contadino semi-analfabeta, una povera madre presentata come pazza, un giovane drogato e sbandato. E’ il capro espiatorio perfetto, attraverso cui far sapere alla gente che è in buone mani e non corre pericoli, visto che il potere è pulito. Invece è vero esattamente il contrario».Lo si è intuito, in modo atrocemente sanguinoso, osservando i retroscena inquinatissimi delle morti ravvicinate di Falcone e Borsellino. Dopo la seconda, in particolare, si cominciò a parlare di “trattativa Stato-mafia”. Affrontò il tema Vincenzo Calcara, uno dei pochi collaboratori di giustizia che possono veramente essere chiamati “pentiti”. «Il dottor Borsellino – scrisse, nel suo memoriale – era in possesso di verità scomode», di fronte alle quali «in tanti si devono vergognare per averlo lasciato solo al suo destino». Calcara era stato segnato dall’incontro col magistrato, che gli aveva cambiato la vita: una vera e propria redenzione morale. C’erano due piani alternativi per uccidere Borsellino, ricorda Franceschetti: il primo prevedeva l’uso di un fucile di precisione ed era affidato proprio a Calcara, mentre nel secondo caso – un’autobomba – il futuro pentito avrebbe svolto soltanto un lavoro di copertura. «Poi però da Palermo arrivò l’ordine, direttamente da Totò Riina: prima, avrebbe dovuto essere ucciso Giovanni Falcone». Così, Calcara riuscì a non uccidere l’uomo che, anni dopo, gli avrebbe salvato la vita, facendolo rinascere come essere umano. Ma Riina era veramente “il capo dei capi”, o invece era solo il “prestanome” di qualcuno molto più potente, protagonista occulto dell’infinita finita strategia delle tensione italiana?Lo stesso Riina affermò che Borsellino non sarebbe stato “condannato” dalla mafia, ma probabilmente da uomini dello Stato. E nel caso, perché mai? «Forse perché aveva capito che la cosiddetta “trattativa” non era altro che un accordo per realizzare un piano eversivo di destabilizzazione dello Stato, condotta da un “sistema criminale” composto da mafia, massoneria deviata e servizi segreti deviati?». Riguardo alla possibile manovalanza, alternativa o contigua a quella strettamente mafiosa, Solange Manfredi cita le dichiarazioni rese da un ex paracadutista della Folgore, Fabio Piselli, coinvolto nelle indagini sul rogo della nave “Moby Prince”. Una ricostruzione scioccante, che mette insieme la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, l’autobomba fiorentina di via dei Georgofili e la bomba romana di via Fauro. Italia fragilissima, all’epoca: Tangentopoli e passaggio cruciale dalla Prima alla Seconda Repubblica, sotto le forche caudine di Bruxelles, dopo aver spazzato via – a colpi di inchieste – l’intera classe politica. Decisivo, secondo Solange Manfredi, il ruolo nefasto di una sigla-fantasma ma onnipresente, in quegli anni: la Falange Armata.Esisteva dal 1985, sembra, ma compare per la prima volta soltanto il 4 gennaio 1991, quando a Bologna vengono uccisi tre carabinieri nel quartiere del Pilastro. L’ultima apparizione mediatica è del 27 novembre 1994, con il seguente comunicato: “Di Pietro è un uomo morto”. Di mezzo ci sono Falcone e Borsellino, le minacce a Di Pietro per le indagini su Craxi, un’autobomba scoperta a Roma in via dei Sabini a cento metri da Palazzo Chigi, il palagiustizia di Padova dato alle fiamme. Il 19 luglio ‘92, la Falange Armata rivendica l’attentato costato la vita a Borsellino. Un anno dopo, il 16 settembre del ‘93, la Procura di Roma individua in 16 ufficiali del Sismi i telefonisti che rivendicarono le azioni della fantomatica sigla terroristica. Cos’era, la Falange Armata? Secondo l’ex parà Fabio Piselli, «è stata una operazione modello, continuata e mai inquinata, compartimentata e soprattutto posta in sonno e mai disattivata da parte di un organo inquirente o ispettivo». In questo modo «ha raggiunto i propri obiettivi». Dopodiché “l’operazione” «è stata semplicemente conclusa», e i suoi “operativi”, di fatto, «hanno continuato a fare il proprio lavoro», dedicandosi ad altre mansioni e lasciando gli inquirenti impegnati a inseguire una falsa pista, cioè «una “organizzazione”, e non una semplice “operazione”».Risultato scontato: indagini finite in un nulla di fatto, «o con l’arresto di mere, ignare pedine, o di qualche povero innocente sacrificato per confondere gli inquirenti, il quale si è fatto qualche mese di galera ingiustamente e la cui vita è stata rovinata». Omicidi, rapine, attentati, sequestri. E poi: infiltrazioni in attività militari e politiche, trafugamento di armi dello Stato, addestramento di civili in attività militari. Ancora: spionaggio politico e militare, intercettazioni illegali, violazione e utilizzo del segreto d’ufficio, peculato, attentato alla democrazia. «E’ ciò che l’operazione Falange Armata ha posto in essere fra il 1985 ed il 1994 attraverso gli operatori, attivati singolarmente o in piccole squadre», dice Piselli. E’ tutto? No, certo. Sulla “trattativa”, la prima indagine fu archiviata nel 2000 per decorrenza dei termini, ricorda Franceschetti, prima che Antonio Ingroia riaprisse il caso, su cui ormai si sono scritti fiumi di inchiostro. Quello di cui invece Franceschetti è rimasto l’unico a parlare, invece, è un dettaglio sfuggente: il ricorrere – veramente impressionante – delle stesse modalità simboliche che costellano i fatti di sangue “mediatici”, sia gli attentati terroristici che molti delitti in apparenza comuni, destinati alla semplice cronaca nera.Dopo anni di ricerche, Franceschetti ha individuato una “firma” ancora più elusiva di quella della Falange Armata: è la Rosa Rossa, specializzata in delitti rituali anche eccellenti, come quelli del cantante Rino Gaetano e del ciclista Marco Pantani. Personaggi da “punire” secondo lo schema – dantesco – della “legge del contrappasso”, attraverso modalità maniacalmente simboliche, a partire dai nomi dei luoghi (mai casuali) e delle date in cui i delitti si consumano. La morte come tragico cerimoniale, in cui si mette in scena – capovolgendolo – ciò che il malcapitato aveva rappresentato, in vita. Gaetano? Vittima di uno stranissimo incidente stradale, soccorso da una strana ambulanza e morto dissanguato dopo esser stato rifiutato da quattro diversi ospedali – esattamente come nella “Canzone di Renzo”, uscita postuma, in cui saranno gli stessi assassini a portare a spalle la bara. Pantani? Ucciso al residence “Le Rose” di Rimini. Accanto al corpo, un biglietto: “Oggi le rose sono contente, e la rosa rossa è la più contata”. A chi dava fastidio, Pantani? Al business del doping, che coinvolge potenti ambienti massonici: droghe prodotte nei laboratori di Big Pharma, testate sui ciclisti e poi immesse sul mercato (anche quello della guerra, destinate ai soldati).E Rino Gaetano? Nel brano “Nuntereggae più” cita Vincenzo Cazzaniga, storico percettore dei fondi neri Usa indirizzati alla Dc, mentre nella canzone “Mio fratello è figlio unico” menziona “il rapido Taranto-Ancona”, che poi le indagini sugli anni di piombo avrebbero rivelato essere “il treno delle spie”, usato dai servizi deviati per trasportare gli esplosivi destinati alle stragi nelle piazze. Secondo Franceschetti, neppure Falcone e Borsellino sono sfuggiti al lugubre copione simbolico del “contrappasso”: riferendosi all’inferno della Divina Commedia, «la persona da eliminare morirà secondo la logica di far patire alla vittima il “peccato” che questa avrebbe commesso». Un classico: «Molti dei testimoni del disastro di Ustica, il Dc-9 dell’Itavia abbattuto, moriranno in un incidente aereo». Lo stesso Fabio Piselli, testimone dell’incendio della “Moby Prince”, è caricato su un’auto che poi viene incendiata: doveva quindi morire in un rogo, anche lui. Oppure il caso del perito Luciano Petrini: stava facendo una perizia sulla strana fine del colonnello Mario Ferraro, del Sismi, trovato impiccato all’asciugamani del bagno. Ebbene, Petrini morirà a colpi di portasciugamani».La casistica esaminata da Franceschetti è davvero vasta. L’antropologa Cecilia Gatto Trocchi, che smascherava crimini di matrice esoterica, volò dal balcone: «Chi sale troppo in alto, viene gettato dall’alto». Le vie dei killer sono pressoché infinite: «Qualcuno può morire fulminato dalla corrente elettrica come il giovane contestatore siciliano Giuseppe Gatì, perché il fulmine simboleggia la folgore di Zeus che punisce la persona che ha osato troppo». E la chiave simbolica della spaventosa morte di Falcone e Borsellino, entrambi dilaniati dall’esplosivo? Tragicamente semplice: «Li hanno fatti letteralmente saltare in aria, perché quei due stavano per far saltare in aria il sistema parallelo che collega la mafia alla parte oscura del potere ufficiale». Falcone, innanzitutto, «doveva morire in Sicilia – e non a Roma, dove sarebbe stato più facile assassinarlo – perché proprio sull’isola si erano svolte le sue indagini: la regola del contrappasso esigeva quindi che morisse nella stessa terra ove aveva “peccato”». Inoltre, aggiunge Franceschetti, «doveva saltare in aria in modo eclatante, proprio perché voleva far saltare il sistema». Attenzione: «Falcone aveva capito che il fulcro del sistema criminale in Italia non è la mafia. E’ lo Stato. E sono le banche. Quindi doveva saltare in aria perché l’esplosione con cui muore fa da contrappasso all’esplosione che lui voleva assestare al “sistema”».Non è casuale neppure la scelta del luogo dell’agguato: «Falcone è morto a Capaci, a simboleggiare che chiunque sia “capace”, deve morire». La cosa può suonare ridicola, ammette Franceschetti, ma suggerisce di riflettere sul fatto che «stiamo parlando di un’associazione che non lascia nulla al caso, neanche i nomi delle persone che vengono messe in determinate posizioni di vertice politico, finanziario, o amministrativo». C’è anche dell’altro, dietro al nome Capaci: la cittadina prese il nome dalla parola “pace” (Capaci, “cca-paci”) per siglare la fine di una leggendaria punizione, la reclusione sulla vicina Isola delle Femmine di 13 fanciulle. Scoppierà una “pace”, dopo “l’attentatone” costato la vita a Falcone e alla sua scorta? «Esatto: non a caso, come risulta dalla sentenza sulla strage di via dei Georgofili (che riuniva in un solo processo ben sette stragi, commesse a Firenze, Milano e Roma) e dalla sentenza sul Capitano Ultimo, dopo la strage di Capaci venne avviata la famosa trattativa tra Stato e mafia, di cui si fece portavoce il generale Mario Mori, per raggiungere, appunto, la pace». Probabilmente, aggiunge Franceschetti, la morte così eclatante di Falcone «segna anche, simbolicamente, uno spartiacque tra il vecchio metodo di eliminazione dei magistrati (ucciderli) e quello nuovo (delegittimarli). Non più attentati, quindi, ma le cosiddette “armi silenziose per una guerra tranquilla”».La morte di Falcone simboleggia quindi una storica tregua? Fateci caso: dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, la mafia siciliana sembra quasi non esistere più: finiscono in carcere Riina e Provenzano, imprendibili per decenni, dopodiché cala il silenzio. «Addirittura, l’allora procuratore antimafia Pietro Grasso è andato al “Maurizio Costanzo Show” a declamare gli immensi successi dello Stato sulla mafia», ormai ridotta – secondo lui – al lumicino. Ricapitolando, il simbolismo della strage di Capaci è: auto, esplosione, Isola delle Femmine, Capaci. «Il probabile significato: Falcone voleva far saltare il sistema (esplosione), quindi dal cielo (auto) arriva la punizione che lo fa saltare in aria; dopodiché dovrà scendere la pace, tra lo Stato e la mafia (Capaci). Così muoiono le persone capaci di arrivare al cuore del sistema». Non è tutto: «A firmare la strage, ci sono due elementi: il gruppo di mafiosi si era posizionato sulla collina vicino Capaci; e la collina si chiama “Raffo Rosso“, ove raffo in ebraico significa “Dio che guarisce”. RR, firma della Rosa Rossa». L’organizzazione di cui parla Franceschetti si ispirerebbe – in modo deformato e deviato – alla confraternita sapienziale inziatica dei Rosa+Croce? Eccola: «La moglie di uno degli agenti di scorta, la donna straziata che fece il famoso discorso ai funerali, si chiama Rosaria Costa: le iniziali, RC).E Borsellino? «Fu ucciso nello stesso modo, anzitutto perché aveva seguito le orme dell’amico. Poi perché anche lui, col Memoriale Calcara, aveva avuto notizie che erano in grado di far saltare il sistema». Non mancano ulteriori indizi simbolici: «Credo che un aspetto della simbologia della sua morte vada trovata anche nella via dove avvenne l’esplosione, via Mariano D’Amelio: un politico che fece leggi sulla magistratura. Chiaro il messaggio: la magistratura deve essere azzerata». Dopo quelle orrende mattanze, «inizialmente sembrò che la magistratura acquistasse più poteri, e che lo Stato volesse realmente fare la guerra alla mafia». Nacque infatti lo strumento del 41 bis, il carcere duro per i mafiosi, e ci furono alcuni ritocchi al codice di procedura penale. «Ma poco dopo – aggiunge Franceschetti – arrivarono leggi che, di fatto, azzerarono il potere della magistratura riducendolo ad un formalismo vuoto, cosicché oggi l’80% dei reati cade in prescrizione, e per reati gravissimi vengono comminate pene ridicole». Sparì di fatto il reato di falso in bilancio, scomparve l’ergastolo per il reato di “attentato agli organi costituzionali”, si cercò di limitare le intercettazioni. Di fatto, dopo la morte di Borsellino, scattò «un’opera sistematica di demolizione dei poteri dei magistrati». Fantasie? Non esattamente, purtroppo.Saltarono in aria, quei giudici, perché avrebbero fatto saltare per aria il sistema. «Con Falcone arriva il segnale della pace tra Stato e mafia, mentre con la strage di via D’Amelio in cui muore Borsellino si dà il via alle leggi che azzerano i poteri della magistratura». Sul blog “Petali di Loto”, il 19 luglio 2019 – anniversario della strage di via D’Amelio – Stefania Nicoletti richiama le analisi offerte nel corso degli anni dall’avvocato Paolo Franceschetti, con l’aiuto dell’allora collega Solange Manfredi. Già legale delle “Bestie di Satana”, Franceschetti ha dedicato studi coraggiosi al fenomeno dei delitti rituali (dal Mostro di Firenze in poi), tutti “firmati” in realtà da killer dediti a forme di esoterismo degenerate in occultismo criminale. Uomini protetti da forti coperture a livello istituzionale, a volte funzionale alla strategia della tensione o comunque alla manipolazione psicologica delle masse. «Esempio: l’individuo che viene arrestato non è mai un giudice, un politico, un notaio, un medico, un ufficiale, un docente universitario. E’ sempre un contadino semi-analfabeta, una povera madre presentata come pazza, un giovane drogato e sbandato. E’ il capro espiatorio perfetto, attraverso cui far sapere alla gente che è in buone mani e non corre pericoli, visto che il potere è pulito. Invece è vero esattamente il contrario».
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I 5 Stelle con Pd e Berlusconi votano in Ue contro l’Italia
Non sottovalutate quello che è successo l’altro giorno al Parlamento Europeo: è un preavviso di ciò che potrebbe accadere nei prossimi giorni in Italia. «I grillini che votano con l’odiato asse franco-tedesco, col Pd, coi popolari e con Forza Italia, contro la Lega e gli eurocritici, e diventano decisivi per eleggere Ursula von der Leyen, non sono solo un esempio di cialtroneria, uno spettacolo di clown e trasformisti», avverte Marcello Veneziani: «Sono un campanello d’allarme su come si potrà evolvere la situazione nostrana, quali pieghe insospettate potrà prendere». Ragiona Veneziani, su “La Verità”: «Quando un non-partito è in caduta libera nei sondaggi e nei voti, quando sa che la partita di governo che si sta giocando non consente repliche né prove supplementari, insomma quando si deve giocare il tutto per tutto, allora diventa disponibile a ogni operazione». Pur essendo incapace di governare, aggiunge Veneziani, il M5S diventa capace di tutto, pur di restare a galla, tenendo conto di due fattori decisivi, l’inconsistenza politica grillina e il ruolo di Conte, il premier venuto dal nulla. «I grillini – sostiene Veneziani – non hanno un’idea, una visione, una linea», visto che «sono una mucillagine coagulata dalla rabbia che assume le forme del momento, della rete, dei sondaggi più o meno pilotati».Sempre secondo Veneziani, i pentastellati «non hanno una storia ma solo una piattaforma mobile», e tantomeno hanno una cultura, un’etica politica, «se non il puerile abecedario forcaiolo che gli ha fornito qualche travagliato maestrino». Ovvero: «Basta gridare ogni tre per due “cacciamolo”, “processiamolo” o “in galera!” e poi si è a posto per ogni giravolta». A questa ameba proteiforme dei 5 Stelle, aggiunge Veneziani, «aderisce perfettamente un leguleio astuto come il premier professor avvocato Giuseppe Conte, che ha una sola linea di governo: sopravvivere a tutti i costi, galleggiare a qualunque prezzo». E quando gli ricapita? «Lui concorre a trasformare i grillini da bufali scatenati in vitel tonné da servire ai tavoli europei». Visti questi presupposti, «i grillini saranno buoni a nulla ma sono pronti a tutto pur di sopravvivere a Salvini e galleggiare: diventare alleati dei franco-tedeschi e di Berlusconi, del Pd e delle Ong, di Benetton e dei Sì-Tav, della Cina e del Venezuela». Pur di abbattere l’orso Salvini, «che è il loro alleato ma anche il loro carceriere e la loro sanguisuga», sono pronti a «sparagli un missile di fabbricazione franco-tedesca».Per Veneziani – filosofo e politologo, scrittore, saggista e giornalista – è evidente la matrice pirandelliana della politica italiana, «che i grillini ripercorrono come i trasformisti della prima, della seconda repubblica e della vecchia monarchia». Pirandelliana è l’alleanza con la Lega, «che li soffoca e li sostiene», e Salvini «è il loro amico principale e il loro nemico principale». Siamo al relativismo assoluto, al gioco delle parti e delle combinazioni, al paradosso come criterio di scelta e di comprensione. Risultato: «Il rovesciamento continuo dei ruoli, delle parti e degli scopi, l’ignoranza come virtù, la cultura come un demerito, l’odio del proprio paese come collante nazionale». Sicché, «tutti possono allearsi con tutti e con nessuno, recitano a soggetto, restano prigionieri di se stessi prima che della situazione, ciascuno a giorni alterni si accorda e si sottrae all’accordo, stringe mani e poi chiede mani libere. Il criterio è stare fuori, dentro, sopra o sotto il governo, l’Europa o i patti, senza mai coincidere in modo definitivo. Le variabili sono infinite e impazzite. È la Babele allo stato puro». Lo disse Leo Longanesi: la democrazia si replica per assenza di dittatore.«Solo Pirandello può spiegare quello che sta succedendo nel Movimento 5 Stelle tra Dima e Diba, nel Pd coi suoi personaggi in cerca d’autore, con Berlusconi funambolo che abbraccia Toti per soffocarlo, o coi sovranisti senza sovranità». E restano pagine di teatro surreale «la mimica di Berlusconi all’uscita dalle consultazioni con Mattarella o le prediche on the road con la testa roteante dell’Imam Ale Diba, o il rapporto perverso tra Renzi, Zingaretti, Minniti e il loro partito». Per Veneziani, «solo Pirandello può dare una spiegazione illogica a ciò che sta accadendo: tutto è esilarante, come il gas, e come il gas è letale». Sarà che non riusciamo a liberarci del negativo «perché si sono chiuse pure le discariche della politica in cui incenerire i rifiuti accumulati». Ma c’è qualcosa di assurdo e malefico, nell’aria, che non riusciamo a decifrare – e che siamo riusciti a esportare anche in sede europea. «Solo Pirandello ci può aiutare, dategli l’incarico di presiedere l’Authority della Pazzia. E il fatto che sia morto da un sacco di tempo – chiosa Veneziani – rende ancora più pirandelliana la situazione».Non sottovalutate quello che è successo l’altro giorno al Parlamento Europeo: è un preavviso di ciò che potrebbe accadere nei prossimi giorni in Italia. «I grillini che votano con l’odiato asse franco-tedesco, col Pd, coi popolari e con Forza Italia, contro la Lega e gli eurocritici, e diventano decisivi per eleggere Ursula von der Leyen, non sono solo un esempio di cialtroneria, uno spettacolo di clown e trasformisti», avverte Marcello Veneziani: «Sono un campanello d’allarme su come si potrà evolvere la situazione nostrana, quali pieghe insospettate potrà prendere». Ragiona Veneziani, su “La Verità”: «Quando un non-partito è in caduta libera nei sondaggi e nei voti, quando sa che la partita di governo che si sta giocando non consente repliche né prove supplementari, insomma quando si deve giocare il tutto per tutto, allora diventa disponibile a ogni operazione». Pur essendo incapace di governare, aggiunge Veneziani, il M5S diventa capace di tutto, pur di restare a galla, tenendo conto di due fattori decisivi, l’inconsistenza politica grillina e il ruolo di Conte, il premier venuto dal nulla. «I grillini – sostiene Veneziani – non hanno un’idea, una visione, una linea», visto che «sono una mucillagine coagulata dalla rabbia che assume le forme del momento, della rete, dei sondaggi più o meno pilotati».
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Trappola per Salvini: Savoini come Mario Chiesa per Craxi
La trappola per Salvini è pronta: “relazioni pericolose” con la Russia. Il nodo: chi era amico di Gianluca Savoini, l’uomo che nella registrazione pubblicata dichiara che Salvini non vuole obbedire all’America e all’Europa ma vuole allearsi con Mosca? «Il premier Giuseppe Conte, in merito, ha farfugliato cose incomprensibili, inframmezzando di non conoscerlo personalmente». In pratica, «una sortita leguleia che sta per: so bene chi è, ma non è mio compagno di giochi», scrive Lao Xi sul “Sussidiario”. «Per Salvini il rapporto con Savoini è certamente più stretto, almeno a vedere le decine di foto pubblicate su tutti i giornali». Il vicepremier «appare sempre più confuso». Prima «ha tentato di metterla in ridere, ha cercato di fingere indifferenza e minimizzare». Ma ogni tentativo «ha finora ingigantito la cosa». L’analista evoca addirittura l’alba di Mani Pulite, quando l’allora segretario del Psi, Bettino Craxi, definì «un mariuolo» Mario Chiesa, il suo primo uomo incappato nelle maglie della giustizia, come se fosse una mela marcia, isolata, in un sistema sano. «In realtà, come ai tempi di Chiesa, oggi la tempesta del Russiagate in cotoletta sta montando ma non è ancora diventata uragano». Però, aggiunge Lao Xi, «la progressione è rapidissima, e forse Salvini ha solo la settimana prossima per districarsene. Dopo, come per Craxi allora, potrebbe essere troppo tardi».Una semi-profezia estremamente sinistra, quella del corrispondente cinese del “Sussidiario”: è noto infatti che la rottamazione giudiziaria della Prima Repubblica, che si avvalse di magistrati che in 50 anni non avevano mai osato contestare la corruzione del sistema politico, scattò solo all’indomani del crollo del Muro di Berlino, quando l’Italia smise di essere un argine altantico contro la minaccia sovietica. «In modo ipocrita – sostiene Gianfranco Carpeoro, saggista e dirigente del Movimento Roosevelt – i partiti italiani (come anche i sindacati) non avevano mai voluto rendere trasparenti i loro bilanci, per non svelare il sistema dei finanziamenti, in realtà necessari a sostenere la politica». Scheletri negli armadi: «La Dc prendeva soldi dagli Usa, e il Pci dall’Urss. Gli altri si arrangiavano come potevano». Tutti sapevano, ma nessuno fiatava (men che meno i giudici). Poi, la svolta: fine dell’Unione Sovietica, e quindi anche della Prima Repubblica italiana. Il seguito è noto: l’unico partito risparmiato da Mani Pulite, il Pci divenuto Pds, designato dai grandi poteri della nascente Ue per commissariare l’Italia imponendo il rigore di bilancio, è stato surclassato da Berlusconi, non a caso subito assediato da indagini a orologeria. Ora tocca a Salvini: «Contro la Lega – avvertiva lo stesso Carpeoro, mesi fa – si scatenerà una tempesta giudiziaria, non essendovi modo di fermare Salvini con i mezzi della politica».Clamorosa, infatti, la richiesta alla Lega di “restituire” 49 milioni di euro, imputabili alla stagione di Umberto Bossi: «Azzerare finanziariamente un partito – sottolinea Carpeoro – significa impedirgli, tecnicamente, di continuare a fare politica». Li ha davvero chiesti a Putin, la Lega, i soldi necessari per finanziare la campagna elettorale delle europee? «Quello che Salvini potrebbe e dovrebbe fare nelle prossime ore – scrive Lao Xi – è capire il punto politico della vicenda. Dovrebbe dire in sostanza: “Io sono fedele all’America e all’Europa e non voglio allearmi alla Russia. Conosco bene Savoini ma lui era lì per tenere contatti, non prendere iniziative e tantomeno attribuirmi tesi politiche che non mi appartengono”. Dopodiché dovrebbe coprirsi il capo di cenere e fare il giro degli alleati a giurare che non succederà mai più». Naturalmente, agiunge Lao Xi, questa è un’operazione delicata e pericolosa, perché Savoini e Mosca potrebbero reagire. «Quindi ci vorrebbero nervi saldi, profondità di analisi e determinazione. Salvini possiede tutto questo?». Lo scenario più probabile, invece, è che «la settimana trascorra in modo inconcludente, con solo una montagna di rivelazioni e dettagli in più che renderanno le azioni della Lega ed il suo leader sempre più confuse».Quindi, sempre secondo Lao Xi, potrebbe arrivare una tempesta ad agosto, quando i mercati sono “sottili” e pochi investimenti in alto o in basso creano sbalzi straordinari. Oppure, anche se agosto passasse liscio, alla ripresa, in settembre, la finanziaria si farebbe tutta all’ombra del Russiagate all’italiana. «Mani Pulite arrivò quando l’Italia era un’economia molto solida e aveva la lira (senza le costrizioni della moneta unica). Oggi il Russiagate arriva con la moneta unica, un’economia traballante e nell’impellenza di varare una finanziaria di lacrime e sangue. Riesce l’Italia a sopportare tutto questo?». Se non altro, aggiunge Lao Xi, «almeno per ora, per fortuna di Salvini, non ci sono alternative chiare». Il partito di opposizione «pare un vecchio motore diesel, che fa fatica a mettersi in marcia». E il Pd «ha tanti “gerarchi” che forse tirano contro il loro segretario Nicola Zingaretti più che contro Salvini». Niente è scontato, però: «Anche i diesel alla fine si mettono in moto», avverte Lao Xi, «e l’aria di sta riempendo di odori di crisi di governo ed elezioni anticipate burrascose dove ogni esito è incerto».La trappola per Salvini è pronta: “relazioni pericolose” con la Russia. Il nodo: chi era amico di Gianluca Savoini, l’uomo che nella registrazione pubblicata dichiara che Salvini non vuole obbedire all’America e all’Europa ma vuole allearsi con Mosca? «Il premier Giuseppe Conte, in merito, ha farfugliato cose incomprensibili, inframmezzando di non conoscerlo personalmente». In pratica, «una sortita leguleia che sta per: so bene chi è, ma non è mio compagno di giochi», scrive Lao Xi sul “Sussidiario”. «Per Salvini il rapporto con Savoini è certamente più stretto, almeno a vedere le decine di foto pubblicate su tutti i giornali». Il vicepremier «appare sempre più confuso». Prima «ha tentato di metterla in ridere, ha cercato di fingere indifferenza e minimizzare». Ma ogni tentativo «ha finora ingigantito la cosa». L’analista evoca addirittura l’alba di Mani Pulite, quando l’allora segretario del Psi, Bettino Craxi, definì «un mariuolo» Mario Chiesa, il suo primo uomo incappato nelle maglie della giustizia, come se fosse una mela marcia, isolata, in un sistema sano. «In realtà, come ai tempi di Chiesa, oggi la tempesta del Russiagate in cotoletta sta montando ma non è ancora diventata uragano». Però, aggiunge Lao Xi, «la progressione è rapidissima, e forse Salvini ha solo la settimana prossima per districarsene. Dopo, come per Craxi allora, potrebbe essere troppo tardi».
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Giornali muti sulla crisi italiana, ma pronti a sbranare Feltri
Basso impero, l’avrebbe definito Giorgio Bocca. Il giornalismo italiano? Scomparso, ridotto a recitare veline di palazzo. Eppure a quanto pare esiste ancora, se è vero che due cronisti – Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi – si appellano addirittura all’Ordine dei giornalisti, letteralmente indignati. Contro il silenzio del mainstream? Contro le bugie quotidiane del sistema radiotelevisivo? Contro l’omertosa reticenza delle redazioni di fronte a qualsiasi evento di rilievo, italiano e internazionale? Macché. Ce l’hanno con Vittorio Feltri, che si è permesso di insolentire nientemeno che il commissario Montalbano, cioè un personaggio letterario, proprio mentre il suo autore – Andrea Camilleri – lotta in ospedale tra la vita e la morte. Borrometi è un giornalista coraggioso, messo in pericolo dalla mafia. Ruotolo, popolare in Tv, è lo storico inviato di Michele Santoro. «Le parole di Vittorio Feltri su Andrea Camilleri e le sue opere – scrivono, in una lettera al presidente dei giornalisti italiani, Carlo Verna – hanno rappresentato per noi la goccia che ha fatto traboccare il vaso». E cos’avrebbe mai detto, Feltri, di così inaccettabile? «Mi dispiace, perché un uomo anche vecchio che muore suscita in te un certo dolore. Però – ecco il passaggio sotto accusa – mi consolerò pensando al fatto che Montalbano non mi romperà più i coglioni».Le parole di Feltri sono andate in onda sulla Rai nella trasmissione radiofonica “I lunatici”, di Radio Due, condotta da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio. «Quel terrone mi ha stancato», dice Feltri, riferendosi al commissario siciliano interpretato in televisione da Luca Zingaretti. Tutte le volte che gli capita di vedere Montalbano in Tv, aggiunge il direttore di “Libero”, gli torna subito alla mente il fratello dell’attore, cioè il neosegretario Pd Nicola Zingaretti, che «non è proprio il massimo della simpatia». Aggiunge Feltri: «Questa però è una mia opinione un po’ così, scherzosa». Quanto all’anziano autore di Montalbano, invece, Feltri si esprime in questi termini: «Camilleri, che ha avuto successo dopo i 70 anni, in me suscita ammirazione perché è stato un grande narratore, che peraltro si inserisce nella tradizione siciliana della letteratura insieme a scrittori come Pirandello e Sciascia». Ma niente da fare, a Borrometi e Ruotolo non basta: «Abbiamo deciso di autosospenderci dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti perché ci consideriamo incompatibili con l’iscrizione di Vittorio Feltri all’albo professionale», scrivono, anche se poi è il presidente stesso, Scarpa, a precisare: è solidale con loro, però dall’Ordine non ci si può “autosospendere”, ma solo cancellare.«Riteniamo gli scritti e il pensiero del direttore Feltri veri e propri crimini contro la dignità del giornalista», scrivono i due. «Ne va della credibilità di ognuno di noi e della nostra categoria. Adesso basta. O noi o lui». E aggiungono: «Quel “terrone che ci ha rotto i coglioni” per noi figli del Sud è inaccettabile. Non è in gioco la libertà di pensiero. Sono in gioco i valori della nostra Costituzione». Accusano: «Ogni suo scritto trasuda di razzismo, omofobia, xenofobia. “Dopo la miseria portano le malattie” (rivolto ovviamente ai migranti), l’ormai tristemente celebre “Bastardi islamici” o, uscendo dal seminato delle migrazioni, robaccia come “Più patate, meno mimose” in occasione dell’8 marzo (e le diverse varianti dedicate anche a Virginia Raggi, con il “patata bollente”) o “Renzi e Boschi non scopano”. Poi gli insulti a noi del sud con il celebre “Comandano i terroni” e infine il penultimo, di qualche mese fa, “vieni avanti Gretina” (dedicato alla visita a Roma di Greta Thunberg)». L’idea che il direttore di “Libero” offre, concludono Borrometi e Ruotolo, «è che si possa, impunemente, permettersi questo avvelenamento chirurgico». A Feltri imputano mancanza di senso del limite, deontologia, misura, buon senso e addirittura dignità. «Continuiamo a batterci contro la censura e gli editti, ma non possiamo accettare tra noi chi istiga all’odio. Ne va della nostra credibilità».Nato a Modica (Ragusa), Borrometi vive sotto scorta da quando è stato aggredito, in Sicilia, per le sue scomode inchieste sul business mafioso. Cronista dell’Agi, è stato trasferito a Roma per metterlo al riparo dalle continue minacce. Il potere lo conosce da vicino: Borrometi è stato ricevuto a Palazzo Chigi da Gentiloni, a Palazzo Madama da Pietro Grasso e in Vaticano da Papa Francesco, mentre Mattarella l’ha fatto “Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana”. Anche Ruotolo vive sotto scorta, dopo le minacce ricevute nel 2015 dal Clan dei Casalesi. Napoletano, è stato a fianco di Santoro dai tempi di “Samarcanda”, fine anni Ottanta. Nel 2013 si è candidato con Antonio Ingroia nella lista “Rivoluzione civile”, rimasta fuori dal Parlamento. Nel corso della campagna elettorale, al termine di un dibattito televisivo si è rifiutato di stringere la mano a Simone Di Stefano (CasaPound) dichiarandosi «orgogliosamente antifascista». E adesso, insieme a Borrometi, tuona contro Feltri: «O lui, o noi». Suona quasi come un appello perché il reprobo sia espulso dall’Ordine dei giornalisti, organismo che peraltro esiste solo in Italia, retaggio dell’occhiuta sorveglianza di Mussolini sulla stampa nazionale. A proposito: perché non abolirlo, l’inglorioso ordine professionale, visto che bastano e avanzano le leggi vigenti per tutelare sia i giornalisti che le vittime del propagandismo squadristico truccato da giornalismo?Ma il tema – libertà dell’informazione, senza recinti polverosamente post-fascisti – non sfiora Rutolo e Borrometi (non oggi, almeno). Il nemico si chiama Vittorio Feltri, monumento nazionale del giornalismo-contro (contro i giornalisti conformisti, in primis). Fieramente ostico, scontroso, sulfureo – spesso urticante, volutamente sgradevole – Feltri affonda i suoi strali quotidiani nella melassa inguardabile del mainstream gracidante, dei colleghi appiattiti sull’imbarazzante galateo del pensiero unico (politicamente corretto, ma per nulla giornalistico). Spariti Bocca, Biagi e Montanelli, è proprio la mediocrità desolante dei replicanti – i vari Giannini, Floris, Berlinguer, Formigli, Annunziata – a fare di Feltri il gigante che probabilmente non è. Amico personale della Fallaci, Feltri ha seguito la grandissima giornalista nella cecità assoluta dimostrata dall’Oriana nazionale di fronte all’11 Settembre, senza vedere che lo “scontro di civiltà” era una montatura terroristica interamente occidentale. Già berlusconiano e sempre controcorrente, pronto alla solitudine delle polemiche più aspre, a Feltri non difetta certo il coraggio: semmai, come quasi tutti gli altri, non ha compreso per tempo la reale natura del “golpe” neoliberale del 2011, dietro la maschera di Mario Monti. E ancora oggi, purtroppo, fatica a discernere tra debito pubblico e debito reale del sistema-paese, anche lui criminalizzando il deficit dello Stato, in un paese da decenni in avanzo primario: lo sa, Feltri, che lo Stato incassa con le tasse più di quanto non spenda per i cittadini?Quanto ai suoi detrattori – tantissimi, quasi tutti i suoi colleghi – va detto che, in questi anni, hanno brillato per renitenza professionale e alto tradimento dei lettori e dei telespettatori: se il famoso Ordine avesse un senso, quanti di loro avrebbero diritto di farne parte? Che c’azzeccano, con la categoria giornalistica, la Monica Maggioni reclutata dalla Trilaterale nonostante fosse dirigente Rai? E che dire di Lilli Gruber, ospite fissa del Bilderberg? Non hanno niente da dire, su questo, gli illustri Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi? Pensano davvero che siano gli eccessi polemici e le cadute di stile a compromettere la dignità professionale dei “cani da guardia della democrazia”? Dicono ancora qualcosa i nomi di Bob Woodward e Carl Bernstein (“Washington Post”) che nel remoto 1972 – ben prima dell’odierna era glaciale – fecero crollare la presidenza Nixon con lo scandalo Watergate? Vinsero il Pulitzer, ovviamente, ma non erano al guinzaglio di alcuna corporazione post-mussoliniana. Un altro Pulitzer, il connazionale Seymour Hersh, è stato franco quanto l’insopportabile Feltri: se i giornalisti non avessero abdicato al loro compito fondamentale, in questi anni avremmo avuto meno guerre e meno stragi, perché – di fronte a una stampa con la schiena diritta – il potere non avrebbe osato spingersi oltre certi limiti.Bassa macelleria fondata sulla menzogna sistematica, praticabile solo a patto di non avere noie, dalla stampa. Un caso mondiale, emblematico? Le inesistenti “armi di distruzioni di massa”, pretesto per invadere l’Iraq di Saddam ponendo le premesse per una destabilizzazione geopolitica di tipo stragistico, cominciata con l’abbattimento delle Twin Towers e culminata coi tagliagole dell’Isis a seminare il terrore sia in Medio Oriente che nel cuore dell’Europa, con attentati sinistramente massonici (non islamici) nella loro spietata simbologia. Chi lo dice? Gioele Magaldi, per esempio: un autore che per l’italico mainstream resta oscuro quanto il suo besteller, “Massoni”, letteralmente ignorato da tutti i talkshow nonostante facesse nomi e cognomi, da Napolitano in giù, come inutilmente ricordato persino in Parlamento dai 5 Stelle. Dove sono, i giornalisti italiani, quando qualcuno si espone per svelare i retroscena della crisi che sta sventrando il paese? Oggi sono tutti a fischiare comodamente il puzzone di turno, Matteo Salvini, mettendo nel mazzo – per buon peso – lo stesso Feltri, notorio estimatore del capo leghista. Tutto fa brodo, pur di non avvistare il pericolo: va benissimo anche lo scalpo di Armando Siri (solo indagato, tuttora) per colpire la Flat Tax e il governo gialloverde, che ha avuto l’improntitudine di pensare che l’Italia si potesse governare anche senza sottomettersi alle mafie politiche locali, succursali delle mafie politiche europee.Per il mainstream che odia Salvini e detesta Feltri, il supermassone occulto Mario Draghi, quasi onnipotente signore d’Europa dopo l’esordio sul Britannia da cui collaborò alla svendita del paese, resta essenzialmente Super-Mario, ipotetico futuro premier quando finalmente il vero potere si sarà scrollato di dosso gli intrusi dell’ultima ora, i pasticcioni gialloverdi. Il governo non è libero di decidere nulla – ha ammesso Pino Cabras, parlamentare pentastellato, in un convegno del Movimento Roosevelt a Londra – perché nei ministeri e nei palazzi-chiave, cominciando dal Quirinale, domina il Deep State. Qualcuno, della libera stampa italiana pronta ad azzannare Feltri per gli sberleffi a Montalbano, si è peritato di rilanciare la notizia? Gli specialisti dell’antimafia sono coraggiosamente impegnati sul fronte della micro-mafia nazionale. Ma i loro colleghi come si regolano, con la vera macro-mafia, quella eurocratica, che da trent’anni ha dichiarato guerra all’Italia sbaraccando la Prima Repubblica? Divorzio fra Tesoro e Bankitalia, Sme, Trattato di Maastricht, Fiscal Compact, pareggio di bilancio. L’ex potenza industriale mediterranea ha perso il 25% del suo potenziale in una manciata di anni. Crisi, recessione, esasperazione. Dov’erano, i giornalisti, mentre tutto questo accadeva? E dove sono oggi? Nel solito posto: comodi, in platea, a distrarre il pubblico. Che screanzato, quel Feltri. Sia messo al bando, perché sciupa la foto di gruppo del glorioso giornalismo italiano.(Giorgio Cattaneo, “Con che coraggio attacca Feltri – per le battute su Montalbano – il giornalismo italiano che da trent’anni non dice la verità sulla crisi del paese?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 21 giugno 2019).Basso impero, l’avrebbe definito Giorgio Bocca. Il giornalismo italiano? Scomparso, ridotto a recitare veline di palazzo. Eppure a quanto pare esiste ancora, se è vero che due cronisti – Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi – si appellano addirittura all’Ordine dei giornalisti, letteralmente indignati. Contro il silenzio del mainstream? Contro le bugie quotidiane del sistema radiotelevisivo? Contro l’omertosa reticenza delle redazioni di fronte a qualsiasi evento di rilievo, italiano e internazionale? Macché. Ce l’hanno con Vittorio Feltri, che si è permesso di insolentire nientemeno che il commissario Montalbano, cioè un personaggio letterario, proprio mentre il suo autore – Andrea Camilleri – lotta in ospedale tra la vita e la morte. Borrometi è un giornalista coraggioso, messo in pericolo dalla mafia. Ruotolo, popolare in Tv, è lo storico inviato di Michele Santoro. «Le parole di Vittorio Feltri su Andrea Camilleri e le sue opere – scrivono, in una lettera al presidente dei giornalisti italiani, Carlo Verna – hanno rappresentato per noi la goccia che ha fatto traboccare il vaso». E cos’avrebbe mai detto, Feltri, di così inaccettabile? «Mi dispiace, perché un uomo anche vecchio che muore suscita in te un certo dolore. Però – ecco il passaggio sotto accusa – mi consolerò pensando al fatto che Montalbano non mi romperà più i coglioni».
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Formica: il M5S non fa politica, l’onestà pubblica è religione
Quando in politica si ricorre alla questione morale vuol dire che non si hanno più soluzioni politiche. Anzi, la semplice posizione della questione morale è già aver attraversato la soglia tra ideologia e religione. Vuol dire che siamo allo Stato religioso. Cosa sono in definitiva i sistemi teocratici? Sono sistemi non politici, dove le ragioni politiche non contano, contano gli atti di fede. Quando si ricorre agli atti di fede andiamo indietro nella storia europea di molti secoli. Ma la fede non c’è più. Ci sono altre strade per smantellare la ricerca di soluzioni politiche: i luoghi comuni. Uno dei più frequenti è la mancanza di alternative. Come si fa a produrre l’alternativa? Abbandonando il totem della continuità. La crisi di sistema richiede di ragionare in termini di rottura. Il sistema politico e istituzionale del paese si sta disgregando. Si badi: è un processo di lungo periodo, che occupa gli ultimi 25 anni. Accade quando le istituzioni non svolgono più il loro ruolo, quello di essere contenitori democratici della dialettica degli interessi, generali e particolari. Una seconda Tangentopoli, con i Pm che fanno politica? Non direi così. Il M5S nasce come espressione organizzata del dissenso diffuso e contraddittorio che c’è nella società. Qui emerge però il suo peccato d’origine.Le mille proteste muovono la piazza, ma non creano di per sé una struttura istituzionalmente capace di portare un equilibrio, un ordine, una visione realizzabile. Movimento 5 Stelle e magistratura sono simili, nella limitazione del fine politico. La magistratura non può non svolgere il suo ruolo, che è quello di colpire quelle che dal punto di vista penale sono responsabilità personali. Non ha come obiettivo quello di risolvere crisi di sistema. E infatti ad ogni sospetto o accusa di agire con finalità politiche ogni magistrato risponderà, senza paura di essere smentito, di avere fatto solamente il suo lavoro. Chi esiste per mantenere o correggere il sistema sono i partiti politici. Ma il M5S è sprovvisto di fine politico, perché il fine politico è la gestione dell’interesse generale nella ricomposizione dei conflitti di parte. Un paradosso: un partito come il Movimento 5 Stelle, con 221 deputati e 122 senatori, non ha un fine politico? Non ce l’ha. E quando dichiara di non essere né di destra né di sinistra dice, senza saperlo, di non essere una forza politica. Essere di destra o di sinistra significa avere la capacità di decidere scegliendo. Anzi, di esistere solamente in virtù di tale scelta. Se dico “non sono né di destra né di sinistra” dico implicitamente “io non scelgo”, ovvero “non sono un politico”.Esiste la possibilità che il M5S, come organizzazione a-politica, non decidente sulle questioni sostanziali, faccia gli interessi di qualcun altro? Certo. Lo fa indirettamente: creando il vuoto, consente a forze esterne di inserirsi. Nel caso italiano, sono forze che disgregano la funzione dell’Italia all’interno di un sistema attualmente in fase di scomposizione e alla ricerca di una ricomposizione, il sistema-Europa. Meglio: sono interessate ad utilizzare il caos italiano per creare una condizione di caos europeo. L’America di Trump? Non solo. Le forze interessate alla disgregazione europea sono in tutto il mondo. Quando è finita la gestione bipolare del mondo Usa-Urss, a farla da padrone è stato l’unilateralismo americano. Ma la globalizzazione ha imposto nuovi centri di aggregazione degli interessi geopolitici di vaste dimensioni. Bisognerebbe che il socialismo europeo non fosse sconfitto e che il Ppe non fosse costretto ad un’alleanza con la destra. C’è un problema: la vecchia coalizione Pse-Ppe ha fallito. Questa Ue è il suo prodotto. Quel patto va riformato. Non attraverso una ricomposizione statica dell’alleanza tradizionale, ma mediante un rinnovamento delle culture democratiche europee, quella dei popolari, dei socialisti, dei liberaldemocratici e dei Verdi. Se queste forze si troveranno a non avere delle maggioranze precostituite già assegnate, vedranno un forte riformismo di cultura politica. Allora l’Europa potrà entrare in Italia. Altrimenti sarà il caos italiano a entrare in Europa.(Rino Formica, dichiarazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Tangenti e Pm, Formica: ecco chi manovra il M5S”, pubblicata da “Il Sussidiario” il 17 maggio 2019. Formica, 92 anni, a lungo ministro socialista, è una memoria vivente della Prima Repubblica. Ebbe a dire: «Se fai il puro, c’è sempre qualcuno più puro di te, che poi ti epura»).Quando in politica si ricorre alla questione morale vuol dire che non si hanno più soluzioni politiche. Anzi, la semplice posizione della questione morale è già aver attraversato la soglia tra ideologia e religione. Vuol dire che siamo allo Stato religioso. Cosa sono in definitiva i sistemi teocratici? Sono sistemi non politici, dove le ragioni politiche non contano, contano gli atti di fede. Quando si ricorre agli atti di fede andiamo indietro nella storia europea di molti secoli. Ma la fede non c’è più. Ci sono altre strade per smantellare la ricerca di soluzioni politiche: i luoghi comuni. Uno dei più frequenti è la mancanza di alternative. Come si fa a produrre l’alternativa? Abbandonando il totem della continuità. La crisi di sistema richiede di ragionare in termini di rottura. Il sistema politico e istituzionale del paese si sta disgregando. Si badi: è un processo di lungo periodo, che occupa gli ultimi 25 anni. Accade quando le istituzioni non svolgono più il loro ruolo, quello di essere contenitori democratici della dialettica degli interessi, generali e particolari. Una seconda Tangentopoli, con i Pm che fanno politica? Non direi così. Il M5S nasce come espressione organizzata del dissenso diffuso e contraddittorio che c’è nella società. Qui emerge però il suo peccato d’origine.
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Magaldi: Salvini abbaia ma non morde, proprio come l’Italia
Povera patria, cantava Battiato, ai tempi in cui il radar stava per inquadrare lo sfacelo di Tangentopoli e i rottami delle auto di Falcone e Borsellino, mentre su RaiTre i vari Ghezzi e Guglielmi scavavano tra le macerie civili nella vana speranza di rintracciare qualcosa che potesse somigliare a un umanesimo post-comunista. Nel frattempo – lontano dagli occhi, e dal cuore – l’altra sinistra, quella di potere, si accingeva a svendere segretamente l’Italia, impiccandola al “vincolo esterno” di Maastricht che l’avrebbe ridotta a colonia minore, docile preda dell’asse franco-tedesco. Quasi trent’anni dopo, sostituiti gli attori, il copione ripropone la stessa canzone. Povera patria, e povero Salvini: ridotto a farsi applaudire da un antagonista da salotto come Diego Fusaro per la ridicola crociata contro la cannabis light, dopo aver lisciato il pelo, a Verona, ai cultori dell’archeologia familistica pre-moderna, reazionaria, ottusamente tradizionalista. «Non ne azzecca più una, il leader della Lega». E dove sarebbe la notizia? Perché mai dovrebbero interessarci, le avvisaglie di declino che sfiorano il Capitano? Semplice: perché è stato l’unico, in questi anni, a mettere a fuoco il problema del paese, il vero avversario. Ma il suo attuale smarrimento fotografa alla perfezione la fragilità del sistema-Italia di fronte all’ostacolo – sempre lo stesso – che condanna la penisola alla depressione sociale ed economica.Non si smuove di un millimetro l’impero abusivo di Bruxelles, dominato da lobbisti travestiti da statisti. L’altra notizia è che la situazione sta peggiorando a vista d’occhio. E il governo gialloverde non sa che pesci pigliare, non avendo osato sfidare gli oligarchi tenendo duro almeno sulla richiesta di deficit. Povero Salvini, comunque: tacciato di xenofobia, pur essendo stato l’unico a far eleggere un senatore di origine africana. Lo hanno anche accusato di fascismo per il libro pubblicato dall’editrice vicina a CasaPound, sfrontatamente cacciata dal Salone del Libro di Torino – strano posto, dove si fa la guerra (elettorale) a un’azienda, anziché eventualmente lasciar procedere i magistrati (nel caso, per apologia di fascismo) contro la discutibile sortita verbale, individuale, di uno dei suoi responsabili. E a proposito di Torino: quante volte il Salone dell’Ipocrisia ha ospitato editori e autori dichiaratamente comunisti, quindi teoricamente altrettanto ostili, sulla carta, all’orizzonte culturale e antropologico della democrazia liberale? Ne ha per tutti, Gioele Magaldi, nell’osservare il caos che domina la vigilia delle europee: «Elezioni perfettamente inutili», sostiene il presidente del Movimento Roosevelt, che annuncia che diserterà le urne. Motivo: impossibile sperare in un voto utile. Tutto resterà come prima, nelle mani del neoliberismo di regime incarnato da Ppe e Pse.Da una parte c’è il mostruoso e grottesco Juncker, che – in spregio di qualsiasi etica e decenza democratica – già annuncia che “i populisti” saranno tenuti lontani dai ruoli-chiave, a prescindere dal risultato della consultazione. All’ombra di Juncker siede l’altrettanto imbarazzante Moscovici, il “signor no” del deficit italiano, in conferenza stampa con l’ectoplasmatico Gentiloni, alter ego dell’impalpabile Zingaretti. A loro va bene così: con l’Italia che “subisce ancora”, come Fantozzi, votata – per una assurda maledizione – a non crescere, a restare sottomessa e depressa, a non guarire mai. Ma chi fronteggia l’impostura? In campo ci sono (rumorosamente) soltanto loro, i cosiddetti sovranisti, cioè la pessima compagnia che si è scelto Matteo Salvini: «I primi a opporsi all’Italia quando chiedeva più deficit sono stati proprio Polonia e Ungheria, gli alleati teorici della Lega», fa notare Magaldi, che nel bestseller “Massoni” ha disegnato la mappa segreta del potere mondialista, interamente massonico, che ha progettato questa globalizzazione senza diritti che stiamo tutti scontando, italiani senza lavoro e giovani senza futuro, aziende sull’orlo del fallimento, professionisti costretti a mendicare pagamenti che non arrivano mai.Sovranismo contro globalismo? Falsa dicotomia, checché ne pensi l’ex ideologo grillino Paolo Becchi: non contano le dimensioni del sistema, le sue frontiere, ma le modalità di gestione – democratiche oppure oligarchiche, progressiste o conservatrici (alzi la mano chi vorrebbe vivere nella Corea del Nord, paese teoricamente ultra-sovranista). E il nostro Salvini? S’è perso per strada, prima ancora di cominciare: «Abbaia, ma non morde», dice Magaldi. In questo, ricorda sinistramente l’altro Matteo, il Renzi che – a parole – sembrava sul punto di resuscitare l’Italia, opponendosi agli abusi della subdola tecnocrazia europea. In un attimo, è passato dal 40% agli scantinati della politica, tra gli ex. Potrebbe succedere anche al condottiero leghista: l’imboscata sleale di Di Maio e Conte – decapitare Armando Siri, per offrire una stampella moralistica ai 5 Stelle in pieno panico pre-elettorale – è già costata un 6% di consensi, alla Lega, almeno stando ai sondaggi. Su Siri, Magaldi è indignato: il sottosegretario doveva restare al suo posto, essendo solo indagato. «Salvini doveva difenderlo a oltranza. E invece cosa ha fatto? Al solito: ha abbaiato, minacciando sfracelli, ma poi ha ingoiato il rospo anche stavolta, incassando una sconfitta bruciante». Un guerriero di latta, il cui consenso si sta mostrando pericolosamente effimero e friabile.«Salvini sa benissimo che è Bruxelles, che dovrebbe mordere, e non i negozi di cannabis terapeutica: queste battaglie tragicomiche le lasci a Fusaro, e spenda meglio il suo tempo. Pensi all’Italia, alla crisi che sta azzannando il paese». Già, la grande crisi che tutti fingono di non vedere. Fino a ieri, se non altro, Salvini la indicava senza ipocrisie: è riuscito a piazzare al Senato un economista keynesiano come Alberto Bagnai. Dopodiché, nebbia in Val Padana. «Oltre ad aver ceduto di fronte al diktat di Bruxelles sul deficit, che avrebbe fatto crescere il Pil riducendo l’incidenza del debito – argomenta Magaldi – il governo gialloverde non ha neppure preso in considerazione la proposta che l’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, avanza da anni: creare moneta parallela, non a debito e perfettamente ammessa dal Trattato di Lisbona, per aggirare la scarsità artificiosa di liquidità che affligge l’Eurozona e creare quei posti di lavoro di cui l’Italia ha drammaticamente bisogno».Infrastrutture strategiche, servizi, welfare, sicurezza del territorio. Servono soldi, che però l’élite neo-feudale non vuole che si spendano: la fine della crisi sarebbe anche la fine dell’attuale potere oligarchico, basato sulla precarizzazione del lavoro. Il piano avanza da anni, implacabile: tagliare i viveri allo Stato per costringerlo ad alzare le tasse, comprimere i salari e colpire i consumi. Amputare il welfare significa spremere il paese, spingendolo a erodere i risparmi. Il cielo si chiude: rassegnazione. Meno opportunità, meno diritti. Le elezioni? Non contano: lo dice Juncker, spettrale tecnocrate al quale Fabio Fazio, sulla Rai, stende il tappeto rosso. Se la ride, l’oligarca del Lussemburgo (rinomato paradiso fiscale, per decenni), già sapendo che l’alleanza di piombo tra popolari e socialisti europei ridurrà le elezioni del 26 maggio a una lugubre barzelletta. Ci vuole ben altro, per rovesciare questi cialtroni: un programma rivoluzionario, radicale, che smonti le loro menzogne travestite da scienza economica e vendute al popolo bue come dogma di fede. Salvini, almeno lui, lo sa benissimo. Ed è per questo che è imperdonabile, oggi, il suo ostinarsi ad abbaiare – contro falsi obiettivi – senza mai decidersi a mordere davvero.(Il pensiero di Magaldi è sintetizzato in due interventi su YouTube, l’11 maggio in video-chat con Marco Moiso, vicepresidente del Movimento Roosevelt, e il 13 maggio con Fabio Frabetti, conduttore di “Border Nights”. Dopo il recente convegno di Londra sul New Deal rooseveltiano di cui avrebbe bisogno l’Europa, i temi esposti da Magaldi – come risolvere la crisi italiana, affrontando finalmente l’oligarchia di Bruxelles – saranno alla base dell’assemblea che il 14 luglio, a Roma, darà vita al “Partito che serve all’Italia”, laboratorio politico che si candida a smascherare le ipocrisie e la mancanza di coraggio della politica italiana di fronte alle reali cause del malessere del paese).Povera patria, cantava Battiato, ai tempi in cui il radar stava per inquadrare lo sfacelo di Tangentopoli e i rottami delle auto di Falcone e Borsellino, mentre su RaiTre i vari Ghezzi e Guglielmi scavavano tra le macerie civili nella vana speranza di rintracciare qualcosa che potesse somigliare a un umanesimo post-comunista. Nel frattempo – lontano dagli occhi, e dal cuore – l’altra sinistra, quella di potere, si accingeva a svendere segretamente l’Italia, impiccandola al “vincolo esterno” di Maastricht che l’avrebbe ridotta a colonia minore, docile preda dell’asse franco-tedesco. Quasi trent’anni dopo, sostituiti gli attori, il copione ripropone la stessa canzone. Povera patria, e povero Salvini: ridotto a farsi applaudire da un antagonista da salotto come Diego Fusaro per la ridicola crociata contro la cannabis light, dopo aver lisciato il pelo, a Verona, ai cultori dell’archeologia familistica pre-moderna, reazionaria, ottusamente tradizionalista. «Non ne azzecca più una, il leader della Lega». E dove sarebbe la notizia? Perché mai dovrebbero interessarci, le avvisaglie di declino che sfiorano il Capitano? Semplice: perché è stato l’unico, in questi anni, a mettere a fuoco il problema del paese, il vero avversario. Ma il suo attuale smarrimento fotografa alla perfezione la fragilità del sistema-Italia di fronte all’ostacolo – sempre lo stesso – che condanna la penisola alla depressione sociale ed economica.
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Magaldi: Lunga Marcia, per la rivoluzione che serve all’Italia
«C’è ormai una sorta di teatro stucchevole: si celebrano elezioni che non decidono nulla. Le prossime europee? Doppiamente inutili: in un Europarlamento notoriamente senza potere, saranno i soliti noti a spartirsi le stesse poltrone». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, non crede alla “carica” dei sovranisti: a Strasburgo, dice, non cambierà proprio niente. Fine dell’equivoco gialloverde: il governo Conte doveva opporsi all’austerity infinita, e invece si limita a tirare a campare. Che fare? «Una rivoluzione», sostiene Magaldi. Meglio: «Una lunga marcia, come quella di Mao». Non comunista, certo: una rivoluzione democratica. «Ma ci vuole una lunga marcia, in mezzo a questo grande caos di gente vecchia. Vecchi partiti, che cantano canzoni stonate senza aver più nulla da dire. E nuovi partiti, che riescono solo a litigare tra di loro e si rassegnano a usare pannicelli caldi, anziché aggredire la grave malattia socio-politica ed economica dell’Italia». Per Magaldi, il convegno del 3 maggio a Milano su Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara è «la seconda tappa della rivoluzione rooseveltiana avviata a Londra il 30 marzo». Tema: un New Deal per l’Italia e l’Europa, contro la crisi della democrazia. Relatori: economisti come Nino Galloni, Danilo Broggi, Ilaria Bifarini, Guido Grossi. La tesi: dalla post-democrazia Ue, che impone la folle disciplina ideologica del rigore, si esce solo rispolverando Keynes e rilanciando l’economia con poderosi investimenti pubblici.Esponente del network massonico progressista internazionale, Magaldi ha dato alle stampe nel 2014 il saggio “Massoni”, in cui si svela il ruolo decisivo di 36 superlogge occulte, sovranazionali, nel back-office del potere mondiale. Nel 2015 ha creato il Movimento Roosevelt, entità meta-partitica con una missione precisa: indurre la politica a recuperare la sovranità democratica, costringendo l’oligarchia massonica che domina l’Ue a rivedere le regole dell’austerity. Ora, l’agenda del gruppo si infittisce di impegni pubblici. Dopo Londra, Milano: ci sarà anche Paolo Becchi tra i relatori dell’assise che – omaggiando la memoria civile e politica del socialismo liberale attraverso le figure di Rosselli, Palme e Sankara – sfiorerà anche un altro grande, l’economista italiano Federico Caffè, misteriosamente scomparso a Roma nel 1987. «La sua sparizione – spiega Magaldi – è direttamente connessa con gli omicidi di Palme e di Sankara». Caffè era il cervello dell’economia keynesiana europea, poi travolta dal neoliberismo: un uomo scomodo, da togliere di mezzo. Per Magaldi, il tempo dell’attesa è finito: il 14 luglio, a Roma, verrà costituito il “Partito che serve all’Italia”, cantiere di lavoro ormai in dirittura d’arrivo. Obiettivo: creare finalmente un’alternativa, che metta gli italiani in condizione di scegliere il proprio futuro, senza più soggiacere ai diktat devastanti dei poteri forti europei.«La politica è deludente anche perché i cittadini non si sono impegnati abbastanza, e hanno votato per i personaggi sbagliati, compiendo atti di fede etnico-tribali verso i gruppi dirigenti sbagliati», dice Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Se non sai fotografare bene il mondo, e analizzare in modo onesto e coraggioso le forze in campo, difficilmente potrai offrire una cura». Magaldi scommette sull’analisi proposta dal Movimento Roosevelt, e anche dal nascente “Partito che serve all’Italia”: «Credo che le persone coinvolte in questi progetti siano difficili da assimilare al deludentissimo ceto politico attuale». E insiste: «Ci prepariamo a fare – democraticamente, però – quello che ha fatto Mao Tse-Tung». Lunga marcia, per scuotere gli elettori. Il paesaggio da attraversare ovviamente non è la Cina, ma la palude italiana: da una parte i rottami dell’establishment della Seconda Repubblica, veri e propri “terminali” del vero potere europeo, e dall’altra il velleitarismo parolaio e inconcludente dei gialloverdi. «Il “governo del cambiamento” non sta cambiando granché, c’è troppa timidezza: è sterile nei risultati, al di là dei proclami».Cambiare il sistema dall’interno, come dice Salvini? E’ l’unica strada, conferma Magaldi: a gridare “no all’euro” e “no all’Ue” sono «gruppi marginalissimi, quindi ininfluenti». Contro Bruxelles e l’Eurozona, ieri, tuonavano anche la Lega e i 5 Stelle. «Una volta al governo, però, questi partiti non si sono preoccupati di radicalizzaere lo scontro, hanno invece attutito le proprie posizioni». Un programma serio? «Spiegare agli elettori che qualunque riforma o rivoluzione si fa “step by step”», attraverso passi concreti e progressivi. «I gialloverdi avrebbero dovuto cambiare il sistema dall’interno, iniziando – come sistema Italia – a proporsi come i riformatori della Disunione Europea attuale, contrastando i vincoli dell’Eurozona. Ma non l’hanno fatto». Trasformare l’Ue dall’interno, continua Magaldi, «lo si può fare se si è forti, se si è decisi ad affrontare quella che è una guerra politica». Gli avversari li conosciamo: «Si allineano ai tecnocrati e alle cancellerie più arcigne, nel difendere l’austerità infinita, e magari finanziano in modo occulto le posizioni più estremiste anti-euro, perché questo consente di non introdurre un dibattito serio».Lega e 5 Stelle dovrebbero passare dalle chiacchiere ai fatti, insiste Magaldi. «Non c’è partito oggi in Italia che non dica che Ue ed Eurozona andrebbero cambiate. Ma la domanda è: cosa state facendo, per cambiare le regole? Nulla». Osserva il presidente del Movimento Roosevelt: «Quello della Disunione Europea è un sistema post-democratico, ma l’Italia è ancora formalmente una democrazia, come gli altri partner Ue. Ed è proprio assumendo in pieno la sovranità democratica che si può mettere in crisi la post-democrazia Ue». Benissimo se la Lega vuol ripristinare l’elezione diretta degli amministratori delle Province, riavvicinando i cittadini alla partecipazione democratica. «Ma siamo sempre nell’ambito dei pannicelli caldi, che non curano la grande malattia del sistema-Italia». Scandaloso, poi, il polverone sulla vicenda Siri: il sacrificio del sottosegretario (solo indagato, per ora) servirebbe a riavvicinare Lega e 5 Stelle? Tutti si agitano: da Mattarella a Di Pietro, che insorge «salutando il risveglio dei 5 Stelle, che avrebbero ritrovato un rigurigito di moralità». Protesta Magaldi: «Di Pietro dovrebbe vergognarsi e andarsi a nascondere, perché è stato insieme ad altri lo strumento inconsapevole di un vero e proprio golpe, che ha spazzato via un’intera classe politica».«Se siamo nell’attuale situazione di disfacimento totale della politica – ribadisce Magaldi – è grazie a quella perversa operazione che ha inaugurato la Seconda Repubblica». Ora ci stanno di fronte verità ineludibili: l’Ue ha impedito all’Italia di aumentare il deficit oltre il 2%, e il governo Conte è tornato a Roma con le pive nel sacco. Palazzo Chigi sa benissimo che quei soldi non basteranno a finanziare le misure di cui il paese ha bisogno. «Ma la risposta alla post-democrazia delle istituzioni europee, per quanto riguarda sia la Disunione Europea che la tragicomica Eurozona – dice Magaldi – non è il sovranismo, non è il nazionalismo e non è la risposta dei finti europeisti, che hanno sempre detto di sognare gli Stati Uniti d’Europa, e poi in realtà si sono appecoronati alla peggiore conservazione». Ppe e Pse, popolari e socialisti europei, sono «conservatori mediocri, senza idee e senza vera vocazione democratica». Di fatto, «hanno traghettato stancamente il vecchio continente a essere quello che è, cioè un soggetto che non ha un’unità politica, dove gli Stati si fanno concorrenza tra loro. Non c’è una politica estera comune, non c’è una politica fiscale comune, non c’è nessuna salvaguardia dell’interesse comune. Non c’è un’unione, appunto».Ma la risposta a tutto questo – aggiunge Magaldi – non sta in quello che viene raccontato. La Lega? Crescerà, ma inutilmente: «Nel governo non ha inciso, se non nella speranza ancora viva dei suoi elettori: la votano perché sperano, non perché abbiano visto dei risultati». Secondo Magaldi «la Lega ha sbagliato tragicamente, sul piano europeo, a inseguire un’alleanza coi paesi cosidetti sovranisti». Anzi, «è un errore madornale parlare di sovranismo come ricetta contro la post-democrazia, che invece si combatte solo con la rigenerazione della democrazia». Sta qui il sale della “rivoluzione rooseveltiana”: «Serve, questa rivoluzione, perché tutti gli altri stanno facendo cose che non servono – se non a conservare poltrone e narcisismi, in mezzo al chiacchiericcio italiano».«C’è ormai una sorta di teatro stucchevole: si celebrano elezioni che non decidono nulla. Le prossime europee? Doppiamente inutili: in un Europarlamento notoriamente senza potere, saranno i soliti noti a spartirsi le stesse poltrone». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, non crede alla “carica” dei sovranisti: a Strasburgo, dice, non cambierà proprio niente. Fine dell’equivoco gialloverde: il governo Conte doveva opporsi all’austerity infinita, e invece si limita a tirare a campare. Che fare? «Una rivoluzione», sostiene Magaldi. Meglio: «Una lunga marcia, come quella di Mao». Non comunista, certo: una rivoluzione democratica. «Ma ci vuole una lunga marcia, in mezzo a questo grande caos di gente vecchia. Vecchi partiti, che cantano canzoni stonate senza aver più nulla da dire. E nuovi partiti, che riescono solo a litigare tra di loro e si rassegnano a usare pannicelli caldi, anziché aggredire la grave malattia socio-politica ed economica dell’Italia». Per Magaldi, il convegno del 3 maggio a Milano su Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara è «la seconda tappa della rivoluzione rooseveltiana avviata a Londra il 30 marzo». Tema: un New Deal per l’Italia e l’Europa, contro la crisi della democrazia. Relatori: economisti come Nino Galloni, Danilo Broggi, Ilaria Bifarini, Guido Grossi. La tesi: dalla post-democrazia Ue, che impone la folle disciplina ideologica del rigore, si esce solo rispolverando Keynes e rilanciando l’economia con poderosi investimenti pubblici.