Archivio del Tag ‘profezie’
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Benvenuti nel nuovo medioevo della religione scientista
La scienza è fondata sul dubbio. Senza il dubbio, saremmo ancora tutti convinti che il sole giri intorno alla terra. I primi a introdurre il metodo scientifico furono considerati dei matti e perseguitati come eretici, perché mettevano in discussione le “verità consolidate” al tempo vigenti. Furono ridicolizzati, emarginati, perseguitati, condannati e non di rado anche uccisi, nel roboante applauso delle folle. Mille anni più tardi, abbiamo gli “scientisti”: persone di ogni età, estrazione sociale e livello di cultura formale che riducono la scienza ad una religione, una patologica caricatura di se stessa. Condividono e promuovono una fede cieca in qualcosa che definiscono “verità scientifica”, considerano matti e perseguitano come eretici tutti coloro che su di essa avanzano dei dubbi e li mettono in discussione. In questa nuova e triste religione, i medici e gli scienziati che difendono l’ortodossia diventano altrettanti profeti e vescovi, con masse di penitenti che demandano a questi loro nuovi sacerdoti la salvezza dei loro corpi e delle loro anime. Dai pulpiti televisivi i nuovi predicatori annunciano le pestilenze infernali: «L’aviaria vi colpirà, la peste suina cadrà su di voi, il morbillo ucciderà i vostri figli partendo da Disneyland e arrivando fino a Gardaland!».E in coro rispondono le masse: «Difendici dall’epidemia, oh gloriosa Scienza Ufficiale! Dacci oggi le nostre pillole colorate, allontana da noi queste terribili malattie, vaccina i nostri figli appena nati prima che il batterio luciferino entri in loro». Ora come allora, i medici e gli scienziati che pongono dubbi all’ortodossia vengono considerati traditori ed eretici; radiati, emarginati, derisi nel roboante applauso delle folle esattamente come mille anni or sono. Non è un mistero perché la scienza sia stata corrotta fino a trasformarsi in questa triste religione: pochissime persone hanno il coraggio di affrontare la responsabilità di esistere. L’idea che ci sia qualcuno, qualcosa, che dia un ordine all’esistenza è una consolazione enorme, archetipica. I bambini la cercano fisiologicamente nei genitori e, benché crescendo anagraficamente, la maggior parte degli individui non riesce a superare tale condizione. Per questo le religioni accompagnano da sempre la nostra specie, forniscono il surrogato necessario: un genitore celeste, estraneo ad errori e fraintendimenti, che ci rassicuri in massa dal terrore del vuoto.Quando però le religioni sfumano, le credenze si sgretolano, come è avvenuto negli ultimi mille anni, ecco che lo “scientismo” offre nuove sponde cui aggrapparsi. Un nuovo, freddo e rigoroso – ma perlomeno apparentemente solido – ordine esistenziale che plachi il terrore dello smarrimento. Il medioevo ci ha raggiunti di nuovo, sostituendo il saio con un camice da laboratorio, la gogna fisica con quella mediatica, la bibbia con i “dati ufficiali”, le chiese con i media. I nuovi sacerdoti e inquisitori, medici e scienziati “di sistema”, difendono l’ortodossia scientista con la stessa arroganza, la medesima ottusa spietatezza dei loro predecessori, ma con regole e liturgie rinnovate. Le masse di spaventati, furiosi, manovrati, sfruttati e del tutto inconsapevoli fedeli, invece, sono sempre le stesse.(Stefano Re, “Benvenuti nel nostro glorioso neo-medioevo scientista”, dalla pagina Facebook di Re del 29 giugno 2017).La scienza è fondata sul dubbio. Senza il dubbio, saremmo ancora tutti convinti che il sole giri intorno alla terra. I primi a introdurre il metodo scientifico furono considerati dei matti e perseguitati come eretici, perché mettevano in discussione le “verità consolidate” al tempo vigenti. Furono ridicolizzati, emarginati, perseguitati, condannati e non di rado anche uccisi, nel roboante applauso delle folle. Mille anni più tardi, abbiamo gli “scientisti”: persone di ogni età, estrazione sociale e livello di cultura formale che riducono la scienza ad una religione, una patologica caricatura di se stessa. Condividono e promuovono una fede cieca in qualcosa che definiscono “verità scientifica”, considerano matti e perseguitano come eretici tutti coloro che su di essa avanzano dei dubbi e li mettono in discussione. In questa nuova e triste religione, i medici e gli scienziati che difendono l’ortodossia diventano altrettanti profeti e vescovi, con masse di penitenti che demandano a questi loro nuovi sacerdoti la salvezza dei loro corpi e delle loro anime. Dai pulpiti televisivi i nuovi predicatori annunciano le pestilenze infernali: «L’aviaria vi colpirà, la peste suina cadrà su di voi, il morbillo ucciderà i vostri figli partendo da Disneyland e arrivando fino a Gardaland!».
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Krishna, Horus, Mithra: era già Natale, ben prima di Cristo
L’etimologia del termine “Natale”, come sostantivo maschile, deriva dal latino “Natalis (nascita); “dies Natalis” significa “il giorno della nascita”. Il termine “nascere” proviene dal latino “noscere”, che significa “cominciare a conoscere” e ha le sue radici in altre lingue; è un termine collegato ai termini: notizia, nobile, celebre, konig, king. Il significato etimologico di Natale è quindi legato sia alla nascita, sia alla conoscenza. Per i Popoli del Nord, le notti dal 25 dicembre al 6 gennaio erano particolarmente sacre. Nei paesi scandinavi venivano celebrati i natali di Frey, figlio di Wodan (Wuotan: Odino), dio della natura, e di Berchta (Frigga: Holda) sua sposa, con la festa scandinava di Yule. Riservati al culto solare erano in epoca megalitica il monumento di Stonehenge (Inghilterra) e i Menhir di Carnac (Bretagna), orientati verso Est (il Sole levante). Fra i popoli celti si accendevano e si accendono tutt’ora il 25 dicembre dei sacri fuochi al dio Lug (luminoso) detto Griamainech (Viso del Sole), corrispondente al greco Hermes e al latino Mercurius. Questi fuochi sono ancor oggi conosciuti fra gli irlandesi e i montanari della Scozia, e vengono accesi in onore di Cristo.La festa del solstizio d’inverno è sempre stata associata alla celebrazione della Rinascita della Luce e dell’attesa di un “parto” miracoloso della “Vergine celeste”, “Regina del Mondo”, con la nascita del suo divino “Infante”. Il Rito della Natività del Sole, celebrato in Siria e in Egitto, era molto solenne. Al solstizio d’inverno i celebranti si riunivano in particolari santuari sotterranei (hipógei), da cui uscivano a mezzanotte esultando: «La Vergine ha partorito! La Luce cresce!». Gli antichi egiziani rappresentavano il Sole appena nato, Horus, con una “Imagine” di un Infante in cera o argilla, che mostravano ai fedeli di Iside e Osiride. La figura di Iside col bimbo Horo somiglia talmente alla Madonna col Bambin Gesù che a volte ricevette l’adorazione inconsapevole dei primi cristiani (dal “Libro dei Morti” egiziano). Iside d’Egitto, come Maria di Nazareth era la Nostra Signora Immacolata, la Stella del Mare (Stella Maris), la Regina del Cielo e Madre di Dio, ed era rappresentata in piedi sulla falce della Luna e coronata di stelle. La figura della “Vergine” dello zodiaco (Virgo) nelle antiche immagini appare come una donna che allatta un bambino, archètipo di tutte le future madonne col divino fanciullo.In India, l’antichissima religione dei primi Brahmani vedici, nei più antichi inni del “Rig-Veda”, chiama Sûrya (il Sole) e Aghni (il Fuoco) il Regolatore dell’Universo, Signore degli Uomini e il Re Saggio,e la Madre Devakî è similmente raffigurata col divino Krishna tra le braccia. Per i babilonesi, la Madre Mylitta o Istar di Babilonia era raffigurata con la consueta corona di stelle e con il divino figlio Tammuz, la cui nascita veniva commemorata nelle rituali Sacee babilonesi, feste della nascita analoghe al nostro Natale. Il periodo del solstizio al 25 dicembre ricorre anche per la nascita verginale del principe Siddharta, che fu adombrato da Buddha (l’Illuminato) allo stesso modo in cui Gesù fu adombrato da Cristo. Per la storia dell’antica Cina, Buddha nasce dalla vergine Mâyâdevi. Per i persiani, al solstizio d’inverno nacque Mithra, divinità solare di origine indo-iranica, anch’egli “nato” in una grotta, da una vergine. Fra i suoi sacerdoti si ricordano i Magi citati nel Vangelo di Matteo, sapienti astrologi e discepoli di Zarathustra-Zoroastro, che attendevano da tempo il ritorno di Mithra-Maitreia, secondo antiche profezie.Per i nabatei, popolazione araba che nel I secolo a.C. dominò la Giordania Orientale, la divinità Dusares era unita al Sole, portava l’attributo di “invincibile”, congiunto a Mithra, e il suo giorno natalizio cadeva sempre il 25 dicembre. Nel 274 d.C. Aureliano fece erigere a Roma un sontuoso tempio in onore di Mithra, e numerosi “mithrei” sorsero e si conservano tutt’ora in altre zone d’Italia, noti sotto il nome di “Hipógei”. Nell’antica Grecia veniva celebrata la festa della “Ghenesìa” (il giorno del Natalizio). Il mito di Hermes (Mercurio) presenta particolari analogie con la figura di Gesù. Nato in una grotta, figlio di Zeus (Iuppiter: Giove-Padre) e da Maia (la maggiore delle Pleiadi), Hermes è spesso rappresentato con un agnello sulle spalle, da cui deriva il suo nome di Crioforo (portatore dell’agnello). E’ anche ricordato come Guida delle Anime nella dimora dei morti (Ade-inferno). Da tale funzione deriva il nome di Ermes-Psicopompo, “accompagnatore delle anime”, e in tali vesti servì di immagine ai primi cristiani per figurare il Buon Pastore, al punto che queste identificazioni si fusero con la figura del Christo.La data del solstizio d’inverno fu ripresa dal cristianesimo per il Natale di Gesù, in coincidenza con altre feste confluite a Roma, come il “dies Natalis Solis Invicti” il Natale del Sole Invitto (il sole invincibile), il Natale di Mithra, la Nascita di Horus in Egitto e quella di Tammuz a Babilonia. Storicamente la più antica fonte conosciuta, che fissa al 25 dicembre la nascita di Gesù, è di Ippolito di Roma (170 circa- 235) che già nel 204 riferiva della celebrazione del Natale, nell’Urbe, proprio in quella data; e soprattutto Sesto Giulio Africano (211 d.C.) nella sua “Cronografia” del mondo. Inoltre ci sono anche le prove, indirette ma evidenti, contenute nei Rotoli di Qumran (“Cronaca dei Giubilei”) che confermano la tradizione apostolica secondo la quale vi erano la festività dell’Annuncio a Zaccaria il 23 settembre, la festa dell’Annuncio a Maria sei mesi dopo (25 marzo) e la nascita di Gesù nove mesi dopo (25 dicembre).Ufficialmente la festa del Natale cristiano fu fissata nel 335 d.C. dall’imperatore Costantino, che sostituì la festa natalizia di Mithra-Sole del 25 dicembre con il Natale di Cristo, chiamato dal profeta Malachia “Sole di Giustizia” e da Giovanni Evangelista “Luce del Mondo”. Da Roma la nuova festa del Natale cristiano si diffuse rapidamente in Oriente (seppure con qualche resistenza), come attestato da San Giovanni Crisostomo nell’omelia pronunciata nel 386, in cui asseriva che la festa era stata introdotta ad Antiochia una decina d’anni prima (circa nel 375) mentre non era in uso né a Gerusalemme, né ad Alessandria, né in Armenia, dove invece nelle chiese locali osservavano già la festa della “Manifestazione” al 6 gennaio, cioè la triplice epifania del Salvatore: la nascita di Gesù, l’adorazione dei Magi, il battesimo nel Giordano (Christòs). Risulta quindi che verso la fine del IV secolo s’era esteso a tutta la Chiesa l’uso di celebrare l’anniversario della nascita di Gesù-Cristo, in Oriente al 6 gennaio e in Occidente al 25 dicembre.La Novena di Natale è strettamente legata al culto ufficiale, ma va precisato che il Natale fa parte di un ciclo di dodici giorni, conosciuto col nome di “Calende”, di origine molto antica. Infatti il Natale segnava l’inizio del nuovo anno. Nelle case dei nostri antichi avi si accendeva a Natale un ceppo di quercia, dai poteri propiziatori, che doveva bruciare per 12 giorni consecutivi, e dal modo in cui bruciava si intuivano i presagi sul nuovo anno in arrivo. Il ceppo doveva essere preferibilmente di quercia, perché il suo legno simboleggia forza e solidità. Simbolicamente si bruciava il passato e si coglievano i segni del prossimo futuro; infatti le scintille che salivano nella cappa simboleggiavano il ritorno dei giorni lunghi, la cenere veniva raccolta e sparsa nei campi per sperare in abbondanti raccolti. Si tratta di un’usanza le cui radici risalgono alle popolazioni del Nord Europa. Abbiamo la testimonianza di Lucano, nel “Bellum civile” (III, 400) in cui ha descritto come gli alberi assumessero un ruolo fondamentale nel culto delle popolazioni celtiche che i romani si trovarono a fronteggiare: un culto in cui simbolismo e ritualità si fondevano in modo straordinariamente armonico.In particolare i Teutoni, nei giorni più bui dell’anno, piantavano davanti alle case un abete ornato di ghirlande e bruciavano un enorme ceppo nel camino. Questi simboli sono sopravvissuti nell’albero di Natale, che rimane verde tutto l’anno e non perde le foglie durante l’inverno come fanno gli altri alberi. L’albero rappresenta anche il simbolo del corpo umano e più precisamente il suo sistema nervoso compreso il cervello, nel quale deve brillare la luce, ovvero la conoscenza che viene dal “cielo” del pensiero e dalla coscienza universale, simboleggiata dalla stella di Natale, che indica l’illuminazione, la conoscenza e la consapevolezza dell’amore che mantiene vivente il creato. Quest’usanza si è oggi trasformata nelle luci che addobbano gli alberi, le case e le strade nel periodo natalizio. A tale tradizione si collega la celebrazione del Natale per indicare l’avvento della Luce del Mondo, che giunge a squarciare le pericolosità del Buio. È il Bambino, che venendo al mondo, inaugura una nuova vita, e porta la Luce a tutti gli uomini. Infatti le case e le abitazioni sono il simbolo della personalità che deve illuminarsi; per questo motivo in questo periodo le case e le città si riempiono di luci, perchè devono portare la conoscenza di sé stessi, l’amore e la giustizia tra gli uomini.E’ documentato che in Romagna, l’antica Romandìola, l’usanza di iniziare l’anno partendo dal 25 dicembre di ogni anno, durò fino ai tempi di Dante, come si riscontra dal “Codice di Lottieri della Tosa” – n. 217 – pubblicato a Faenza nel 1979 a cura di don Giovanni Lucchesi. Ogni anno al solstizio d’inverno accade qualcosa di magico e straordinario: nel giorno più corto dell’anno, il sole tocca a mezzogiorno il punto più basso dell’orizzonte, ovvero simbolicamente “muore”, per rinascere successivamente, dodici giorni dopo, al perigeo, quando il sole riprende il suo moto, perpetuando e rinnovando il ciclo infinito della vita. Per questo il solstizio d’inverno è considerato il giorno più sacro dell’anno e del bene che regna sul mondo. A partire dal solstizio d’inverno il nostro pianeta è permeato dalle potenti radiazioni della “Luce Cristica”, che continua a manifestarsi con forza fino all’Epifania.(Andrea Fontana, “Il Natale nella storia”, estratto da “Il presepio rivelato”, intervento pubblicato su “Scienze Astratte” il 25 dicembre 2011).L’etimologia del termine “Natale”, come sostantivo maschile, deriva dal latino “Natalis (nascita); “dies Natalis” significa “il giorno della nascita”. Il termine “nascere” proviene dal latino “noscere”, che significa “cominciare a conoscere” e ha le sue radici in altre lingue; è un termine collegato ai termini: notizia, nobile, celebre, konig, king. Il significato etimologico di Natale è quindi legato sia alla nascita, sia alla conoscenza. Per i Popoli del Nord, le notti dal 25 dicembre al 6 gennaio erano particolarmente sacre. Nei paesi scandinavi venivano celebrati i natali di Frey, figlio di Wodan (Wuotan: Odino), dio della natura, e di Berchta (Frigga: Holda) sua sposa, con la festa scandinava di Yule. Riservati al culto solare erano in epoca megalitica il monumento di Stonehenge (Inghilterra) e i Menhir di Carnac (Bretagna), orientati verso Est (il Sole levante). Fra i popoli celti si accendevano e si accendono tutt’ora il 25 dicembre dei sacri fuochi al dio Lug (luminoso) detto Griamainech (Viso del Sole), corrispondente al greco Hermes e al latino Mercurius. Questi fuochi sono ancor oggi conosciuti fra gli irlandesi e i montanari della Scozia, e vengono accesi in onore di Cristo.
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Jack Folla: italiani mediocri e cialtroni come questi politici
«Rispetto a 20 anni fa oggi non ci sono più argini alla bestialità interiore, ciascuno tende a essere il peggio di quel che è. La generazione che giocava con i mostri da piccola lo è diventata». Giornalista, scrittore e autore tv, Diego Cugia sul finire degli anni Novanta ottenne un grande successo con il programma radiofonico “Alcatraz” e grazie al suo protagonista, Jack Folla, il dj evaso dal braccio della morte. Dietro un’esigenza morale assoluta di onestà, scrive Pasquale Rinaldis sul “Fatto Quotidiano”, attraverso il suo alter ego Jack, Cugia è stato per più d’una generazione «un fratello maggiore, anzi il Morpheus della “pillola rossa o pillola blu”, prima ancora del film Matrix. E invitava, contro le definitive salvezze, al rischio delle scelte, alla responsabilità della vita, alla serietà contro la retorica, alla saggezza contro la violenza». Dopo vent’anni di silenzio, Cugia è tornato con “Il Libro Nero”, con il quale prova a riannodare i fili di un discorso che era rimasto in sospeso. A Rinaldis, lo scrittore confida: la situazione è molto peggiorata. «Vent’anni fa, se avevi un fondo razzista, o se eri una bestia da terza elementare, un po’ te ne vergognavi. Oggi ne sei orgoglioso. Hai tre lauree? Sei un professore, scrivi libri, hai competenza nel tuo settore? Ti accuseranno di essere compromesso col ‘vecchio potere’, colluso con i corrotti, un privilegiato di merda. E questo anche se sei un intellettuale senza soldi e senza lavoro».Silenzio assoluto, oggi, all’uscita del nuovo libro di Cugia. L’autore se l’aspettava, anche perché, dice, non ha fatto il minimo passo perché ne parlassero: «Nessun critico, nessun direttore ha ricevuto da me la classica copia omaggio o una perorazione, una telefonata, un caffè». In questi anni, Cugia aveva ricevuto migliaia di email da parte degli ascoltatori di Jack: “Perché non torni? Dove sei finito?”. Dice Cugia: «Non hanno capito che l’Italia di 20 anni fa era più libera di quella di oggi. Che l’assenza di Jack non è stata una scelta, ma una condanna a vivere senza un microfono. Per raccontare loro come stanno le cose mi sono pubblicato da solo e ho aperto un canale su YouTube». Nell’Italia di oggi «i mediocri hanno vinto, hanno occupato tutto, come profetizzava Jack Folla». Continua Cugia: «Siamo comandati da un esercito di fronti basse, convinte di avere sempre diritto anche se non hanno fatto nulla per meritarsi la poltrona. È una delle più sconvolgenti illusioni ottiche della storia recente. Chi sa è ridotto a tacere, chi non sa sbraita e viene votato. Se questa è democrazia, io sono un ingegnere aerospaziale».C’è un capitolo del “Libro Nero” che s’intitola “La scintilla sacra”. «Inizio raccontando che mio papà mi insegnava da bambino i nomi delle stelle: Vega, Aldebaran, Deneb. Mi sono dimenticato la loro esatta collocazione nel cielo, sono una bestia da terza elementare anch’io, ma non dimenticherò mai la voce di mio padre che tremava dall’emozione e di rispetto per le stelle. Ce l’aveva anche per i vagabondi, gli oppressi e gli uomini fantastici. Quella vibrazione del cuore è l’imprinting, la scintilla sacra». Si domanda Cugia: «Chi contagia di bellezza i nostri giovani? Perché mai dovrebbero rialzare le loro giovani schiene già curve su smartphone tutti uguali? Nel mio piccolo ho fatto tornare Jack Folla per questo. Per donare ciò che ho ricevuto, ‘segnarli’ come io sono stato segnato. Tutti i libri che ho letto li devo a mio padre e alla sua voce che tremava di commozione per le stelle». Riguardo suo lungo esilio mediatico, lo scrittore parla di sé in terza persona: «Chi se ne frega di questo Cugia. Era benestante, ed è diventato un mendicante. Era famosetto e oggi non se lo ricorda quasi nessuno. Ha avuto una fortuna sfacciata, quel tipo: precipitare nel silenzio, nella solitudine, nel nulla. È qui che gli uomini si giocano le grandi partite. Bisogna ringraziare il proprio destino avverso. Non c’è propulsore più potente per slanciarsi verso il cielo». Aggiunge: «La partita la vinci se non ti arrendi mai, se ti rialzi dopo ogni caduta, ogni legnata. È meraviglioso».A Diego Cugia non piace l’habitat psicologico che spiega parte del consenso ai gialloverdi. «Gli italiani – dice – tendono a riconoscersi in massa in ometti autorevoli, in ‘capitani’ di piccolo corso, in ducetti. Credono di irrobustirsi identificandosi in loro. I ducetti li istigano a schierarsi contro qualcuno o qualcosa, li aizzano in tal senso e sdoganano il loro fascismo interiore, una piaga mai risolta. È l’esatto contrario di quello che dovremmo fare per migliorarci. Assumerci la totale responsabilità del mondo in cui viviamo, soprattutto se non abbiamo colpa, e unirci per contribuire a renderlo migliore, pensando ai figli dei nostri figli, e non a noi stessi». Secondo Cugia, «ci vuole una politica spirituale che guardi a fra 50 anni, non a fra mezz’ora cosa diranno i social. Ci vogliono le aquile in politica, io vedo solo tordi». Un appello: «Sveglia, fratelli, o ci faremo comandare dai maiali come nella Fattoria degli Animali di George Orwell». I “vaffa” di grillina memoria? «La storia ci insegna che quei “vaffa” lì tornano indietro: dal balcone di piazza Venezia al finire a testa in giù a piazzale Loreto». Dei 5 Stelle scrive: «Quelli che la scatoletta di tonno ora ce l’hanno in testa come un cappello».Beppe Grillo? «Un grande comico, conosce le masse e sa come esaltarle. Il suo movimento è stato anche salutare, ha dato una spallata al sistema, ha portato tanti giovani in Parlamento, è stato fantastico», dice Cugia. «Ma il potere è una brutta bestia», aggiunge. «Quando ho visto Luigi Di Maio scendere da un taxi col portabiti di Cenci a Campo Marzio, il sarto di Cesare Previti e del generone romano che bazzica in Parlamento, il sogno è finito». E’ furioso, Cugia: «Allearsi con Salvini, accettare la chiusura dei porti, rimangiarsi le promesse fatte in campagna elettorale? Maledetti. Mi avete fatto rimpiangere perfino la Dc e Kossiga che, da ragazzo, scrivevo sui muri con la kappa. Ma soprattutto mi manca l’intelligenza e lo stile di Enrico Berlinguer. Anche se l’ho votato una volta sola a 18 anni, mai stato comunista. Ma quelli erano statisti. Erano pochi già allora, oggi sembra non essercene rimasta traccia. Ma se ne stiamo parlando, vuol dire che, in qualche culla di un paesino sperduto, sta rinascendo un nuovo Antonio Gramsci. Io ci credo». Poi, certo, ci sono Salvini e Trump: «Salvini è un dittatore da operetta, Trump da game show». Un messaggio? «Volare da soli e controvento. Seguite la vostra intuizione, non il branco. E non alzate mai un muro. I muri vanno abbattuti, tutti».«Rispetto a 20 anni fa oggi non ci sono più argini alla bestialità interiore, ciascuno tende a essere il peggio di quel che è. La generazione che giocava con i mostri da piccola lo è diventata». Giornalista, scrittore e autore tv, Diego Cugia sul finire degli anni Novanta ottenne un grande successo con il programma radiofonico “Alcatraz” e grazie al suo protagonista, Jack Folla, il dj evaso dal braccio della morte. Dietro un’esigenza morale assoluta di onestà, scrive Pasquale Rinaldis sul “Fatto Quotidiano”, attraverso il suo alter ego Jack, Cugia è stato per più d’una generazione «un fratello maggiore, anzi il Morpheus della “pillola rossa o pillola blu”, prima ancora del film Matrix. E invitava, contro le definitive salvezze, al rischio delle scelte, alla responsabilità della vita, alla serietà contro la retorica, alla saggezza contro la violenza». Dopo vent’anni di silenzio, Cugia è tornato con “Il Libro Nero”, con il quale prova a riannodare i fili di un discorso che era rimasto in sospeso. A Rinaldis, lo scrittore confida: la situazione è molto peggiorata. «Vent’anni fa, se avevi un fondo razzista, o se eri una bestia da terza elementare, un po’ te ne vergognavi. Oggi ne sei orgoglioso. Hai tre lauree? Sei un professore, scrivi libri, hai competenza nel tuo settore? Ti accuseranno di essere compromesso col ‘vecchio potere’, colluso con i corrotti, un privilegiato di merda. E questo anche se sei un intellettuale senza soldi e senza lavoro».
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Morte chimica dal cielo, Carpeoro: il Rosacroce Lucio Dalla
«Che cos’è che passa lì nel cielo? Un aereo o una meteora? C’è qualcosa che vien giù: è una neve metafisica, la morte chimica». Allarme: anche Lucio Dalla arruolato tra i cosiddetti complottisti, pronti a definire “scie chimiche” le misteriose strisce bianche rilasciate dagli aerei fino a velare il cielo? Il fenomeno è diventato sempre più vistoso negli ultimi anni, ma lo si è cominciato a notare solo dopo il Duemila. Secondo il giornalista investigativo Gianni Lannes, autore del blog “Su la testa”, si tratta di un’operazione di irrorazione dei cieli pianificata da Bush nel 2001 durante l’incontro con Berlusconi al tragico G8 di Genova. Il piano sarebbe stato ratificato l’anno seguente, per divenire operativo dal 2003. Quando scrisse quella canzone, “Starter”, uscita come prezioso inedito nel 2018 (con il contributo di Tullio Ferro e Marco Alemanno), secondo “Repubblica” il cantautore bolognese stava lavorando con Francesco De Gregori, insieme a cui era impegnato nel tour “Work in progress”, del 2010. Il brano è ora disponibile nel ricco cofanetto “Duvudubà”: 70 tracce, con booklet fotografico. Ma attenzione: come decifrare quella “morte chimica” che “vien giù dal cielo”, sotto forma di “neve metafisica”, dopo il passaggio di “un aereo o una meteora”?La soluzione si troverebbe nell’Adriatico, di fronte al Gargano: per la precisione alle isole Tremiti, dove Lucio Dalla si trovava quando scrisse quegli enigmatici versi. Indovinello: «Cosa si vede dal cielo delle Tremiti?». L’autore del quiz è l’esoterista Gianfranco Carpeoro, autore del saggio in più volumi “Summa Symbolica”. Massone, già a capo della più antica obbedienza italiana del Rito Scozzese, l’avvocato milanese di origine cosentina (Pecoraro, all’anagrafe) anima la diretta settimanale web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”. Un filo diretto con gli affezionati ascoltatori, ai quali lanciare anche sfide avvicenti, come quella che investe il Lucio Dalla meno conosciuto e decisamente insospettabile: «Era un iniziato», rivela Carpeoro, che conosceva personalmente l’autore di “Piazza grande” e “4 marzo 1943”. Di più: «Lucio Dalla era un Rosacroce: uno degli ultimi». Della misteriosa, leggendaria fratellanza iniziatica ribattezzata nel ‘600 con il nome Rosa+Croce, avrebbero fatto parte personaggi come Giorgione, Caravaggio e Leonardo nonché Giordano Bruno, quando il gruppo era denominato “Giordaniti”, e prima ancora il sommo Dante (Fidelis in Amore), per risalire fino a Gioacchino da Fiore, autore dell’Aquila Gigliata. A questa “leggenda realmente accaduta”, Carpeoro ha dedicato una trilogia di romanzi: “Il volo del pellicano” “Labirinti” e “Il Re Cristiano”.Proprio al sovrano dei Goti, Alarico, vissuto a cavallo tra il IV e il V secolo, l’autore attribuisce un’affiliazione iniziatica: la stessa che forse, secoli prima, legava Scipione l’Africano al mitico Annibale, il cui nome fenicio significa “mandato da Dio”, come tutti gli altri nomi derivati dalla medesima radice, declinata nell’italiano Giovanni e nel russo Ivan. Labirinti, appunto – nei quali però Carpeoro invita a non perdersi, tenendo d’occhio il filo d’Arianna (l’amore per la conoscenza) che volendo, assicura, può portare fino a Lucio Dalla, seguendo le tracce elusive di quella che il mondo esoterico chiama Tradizione Unica Primordiale: schegge di un sapere antico, archetipico, tramandato per via iniziatica e affidato all’eloquenza silenziosa dei simboli, vero e proprio alfabeto parallelo e senza tempo, con cui scrivere le tappe fondamentali della meta-storia dell’umanità, quella del pensiero. Lucio Dalla esoterico? Assolutamente sì, conferma Carpeoro, ma alla maniera dei Rosacroce: specialità, metterti la verità sotto il naso, senza però che nessuno se ne accorga, a prima vista. Le scie chimiche nei cieli delle Tremiti? Forse. Ma anche la strage di Ustica, del 1980: «A quel tragico evento Lucio Dalla dedicò una canzone: sfido chiunque a scoprire quale sia».Nello stesso anno saltò per aria la stazione di Bologna, città vicinissima alla località (San Benedetto Val di Sambro) dove nel ‘74 era esploso un ordigno a bordo del treno Italicus, partito da Roma e diretto a Monaco di Baviera. «Pensava proprio alla tragedia dell’Italicus, Lucio Dalla, quando compose la canzone “Balla balla ballerino”», uscita nel 1980 in un’Italia scossa dalla carneficina di Bologna. Avverte Carpeoro: quella canzone, che sembra solo un inno all’umanità irriducibile che sa resistere alla violenza, è intrisa di contenuti esoterici e contiene indizi, cifrati e minuziosi, sulla cupa attualità di quegli anni. «Per esempio: il citato ballerino non è un danzatore qualsiasi, ma un individuo ben preciso». La mente corre al più noto ballerino degli anni di piombo, l’anarchico Pietro Valpreda, ingiustamente incarcerato per la strage milanese di piazza Fontana. Messaggi sottotraccia, tra i versi più o meno innocui di una canzone? «E’ la modalità comunicativa dei veri inziati», sostiene Carpeoro: «Prevede che l’ascoltatore non abbia “la pappa fatta”, ma si faccia domande e impari a usare il cervello». Beninteso: non perde valore la percezione più immediata e accessibile della lirica, quella a cui il pubblico infatti si affeziona subito.E’ il medesimo meccanismo dell’allegoria dantesca, nella quale coesistono le due verità, quella evidente e quella nascosta. Idem per la “doppia denotazione” adottata da un altro immenso poeta, Eugenio Montale: ti racconto una storia che ne illumina un’altra, senza che la seconda oscuri la bellezza della prima. Nel caso di Dalla, l’intento sarebbe classicamente “rosacrociano”: inserisco inidizi strani e anomali (il treno Palermo-Francoforte) in modo che qualcosa si faccia strada in chi ascolta, avvinto dalla gradevolezza pop della canzone, scritta e cantata per farsi ricordare nel modo più facile e orecchiabile. Ma in attesa che Carpeoro e la sua “scolaresca” chiariscano i retroscena più intimi del famoso “ballerino”, invitato a danzare “anche per i violenti”, che sono “morti da sempre, anche se possono respirare”, l’ex sovrano gran maestro del Rito Scozzese italiano aggiunge, per inciso, che lo stesso Lucio Dalla caricò di significati intensamente iniziatici uno dei suoi capolavori, “Com’è profondo il mare”, brano straordinariamente poetico (e profetico) almeno quanto “L’ultima luna”, che – sempre secondo Carpeoro – è ispirato direttamente al filosofo ed esoterista francese Édouard Schuré: come il suo saggio “I grandi iniziati”, che Dalla amava moltissimo, “L’ultima luna” ripropone la storia dell’umanità suddivisa per epoche evolutive, sulla scorta dell’intuizione di Giambattista Vico.L’ultima luna, canta Lucio Dalla, la vide solo un bimbo appena nato: aveva occhi tondi e neri e fondi, e non piangeva. Con grandi ali, aggiunge, prese la luna tra le mani. “E volò via: era l’uomo di domani”. Visione: il neonato è alato come l’uomo-Dio raffigurato in mille modi da Leonardo, a cominciare dall’immortale icona dedicata a Vitruvio, codificatore latino dell’architettura sacra. Ma quello su cui Carpeoro invita a indagare è lo stesso Lucio Dalla che ha fatto innamorare milioni di italiani sulle note di “Caruso”, de “L’anno che verrà”. E’ il Dalla coltissimo, spiazzante e geniale, in soldalizio col poeta Roberto Roversi, da cui i giacimenti lirici di “Anidride solforosa” e poi di “Automobili”, con la magistrale evocazione post-futurista e straordinariamente epica dell’eroe italiano Tazio Nuvolari, che “ha cinquanta chili d’ossa, le mani come artigli, un talismano contro i mali”. Pensava in grande, Lucio Dalla, anche quando “scendeva” tra le semplificazioni della cosiddetta musica leggera. Stesso stile di quelli che Carpeoro descrive come gli ultimi, grandi esponenti della fratellanza rosacrociana: il musicista venezuelano Aldemaro Romero e il regista moldavo Emil Loteanu, l’autore de “I lautari”, nomadi dell’Est come i tanti gitani che affollano i testi di Dalla, coi loro “denti di ferro e gli occhi neri, puntati nel cielo per capirne i misteri”.E’ il caso dello struggente Sonni Boi, piccolo cavaliere con la “mappa delle stelle” disegnata sul braccio: lo zingaro avvistato nel “Parco della Luna” con la sua donna Fortuna, “a metà strada tra Ferrara e la luna”. Rosacroce, Lucio Dalla? Ebbene sì, ammette Carpeoro: solo che, spiega, era una specie di superstite. A Yalta, di fronte alla desolante spartizione del mondo decisa dalle superpotenze, la confraternita preferì ritirarsi dalla scena intuendo che l’umanità non sarebbe “guarita” dall’odio che aveva scatenato la Seconda Guerra Mondiale. Motivo ulteriore di sconforto: la rinuncia a impegnarsi per uno Stato palestinese, accanto a quello progettato per gli ebrei reduci dalla Shoah. «I Rosacroce erano a Yalta – dice Carpeoro – nell’entourage dei massoni Rooseevelt e Churchill». Speravano di incidere, nel senso dell’evoluzione dell’umanità: rottamare il vecchio schema del potere, concepito come forma di dominio. Utopia? Naturalmente: proprio di utopia parla il capolavoro di Tommaso Moro, consonante con “La città del sole” di Campanella e “Christianopolis” di Johannes Valentin Andreae: «Letteratura politica, alla quale i Rosacroce – veri padri del socialismo – fecero ricorso tra ‘500 e ‘600, dopo la diffusione di un formidabile strumento come la stampa moderna creata da Gutenberg».Missione: comunicare e parlare anche al grande pubblico, pur restando in incognito come soggetto collettivo di matrice iniziatica. Strategia: produrre capolavori artistici, entro i quali concentrare messaggi cifrati, a cominciare dalla musica. Esempi storici clamorosi: dal Bach del “Canone inverso”, che svela la potenza armonica della complementarità, al rivoluzionario Mozart del “Flauto magico”. Fino al secondo ‘900, con artisti pop del calibro di James Brown e Freddy Mercury dei Queen. Anche il nostro Lucio Dalla, assicura Carpeoro, faceva parte di quel cenacolo clandestino di “cospiratori bianchi”, impegnati ad aiutare l’umanità a tirar fuori il meglio di sé. Purtroppo, aggiunge, dopo Yalta i Rosa+Croce entrarono in una fase di acquiescenza. Stabilirono che alla morte del loro ultimo Ormùs, il geniale pittore Salvador Dalì, la catena iniziatica si sarebbe interrotta: nessun maestro avrebbe più potuto “iniziare” altri adepti. Lo sapeva quindi anche Lucio Dalla, morto improvvisamente a Montreux, in Svizzera, il 1° marzo 2012, sicuro di aver abbondantemente infiammato, per tutta la vita, i sentimenti degli italiani. E altrettanto certo, probabilmente – per dirla con Carpeoro – di aver fatto anche il suo “dovere” di Rosacroce: parlare al cuore, per svegliare il cervello e tentare di rendere l’umanità più consapevole, dunque più libera.«Che cos’è che passa lì nel cielo? Un aereo o una meteora? C’è qualcosa che vien giù: è una neve metafisica, la morte chimica». Allarme: anche Lucio Dalla arruolato tra i cosiddetti complottisti, pronti a definire “scie chimiche” le misteriose strisce bianche rilasciate dagli aerei fino a velare il cielo? Il fenomeno è diventato sempre più vistoso negli ultimi anni, ma lo si è cominciato a notare solo dopo il Duemila. Secondo il giornalista investigativo Gianni Lannes, autore del blog “Su la testa”, si tratta di un’operazione di irrorazione dei cieli pianificata da Bush nel 2001 durante l’incontro con Berlusconi al tragico G8 di Genova. Il piano sarebbe stato ratificato l’anno seguente, per divenire operativo dal 2003. Quando scrisse quella canzone, “Starter”, uscita come prezioso inedito nel 2018 (con il contributo di Tullio Ferro e Marco Alemanno), secondo “Repubblica” il cantautore bolognese stava lavorando con Francesco De Gregori, insieme a cui era impegnato nel tour “Work in progress”, del 2010. Il brano è ora disponibile nel ricco cofanetto “Duvudubà”: 70 tracce, con booklet fotografico. Ma attenzione: come decifrare quella “morte chimica” che “vien giù dal cielo”, sotto forma di “neve metafisica”, dopo il passaggio di “un aereo o una meteora”?
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Giulietto Chiesa in Rai con Messora, Dijsselbloem al Corsera
«Molto improbabile che nasca un governo politico, a meno che Berlusconi non faccia un passo di lato e lo sostenga dall’esterno». Così Alessandro Trocino, ai microfoni di “Radio Radicale” il 7 maggio scorso, a meno di un mese dall’insediamento di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Due previsioni, entrambe sbagliate: alla fine s’è fatto, eccome, il governo più clamorosamente politico da 25 anni a questa parte, e il Cavaliere si è ben guardato dal sostenerlo. Sei mesi dopo, lo stesso giornalista – in forza al “Corriere della Sera” – spara ad alzo zero contro Giulietto Chiesa, in realtà per colpire i 5 Stelle, “rei” di aver preso per buona l’analisi di Chiesa sull’ultima sparata del signor Jeroen Dijsselbloem, tipico esemplare del potere eurocratico: anonimo e incolore il suo profilo politico, ma micidiale quello tecnocratico, speso al servizio dell’oligarchia finanziaria che ha massacrato la Grecia e imposto il prelievo forzoso a Cipro, scatenando il panico e l’assalto ai bancomat. Cos’ha detto, l’insigne Dijsselbloem? Che l’economia italiana imploderà, per colpa del governo gialloverde. E Giulietto Chiesa? Ha interpretato le parole di Dijsselbloem nell’unico modo possibile: una minaccia. Ovvio, a questo punto, il rilancio dei 5 Stelle sul loro blog.Ovvio per tutti, salvo che per il “Corriere”, secondo cui Giulietto Chiesa ha travisato le parole dell’apollineo, impeccabile, meraviglioso Dijsselbloem. Niente di strano, peraltro: secondo Trocino, Chiesa non sarebbe altro che una specie di mentecatto. Allo storico corrispondente da Mosca (prima per “l’Unità”, poi per la “Stampa” e per il Tg5), il “Corriere” dedica un affondo che merita di essere letto come capolavoro comico, sia pure del genere neo-orwelliano inaugurato dalla popstar Colin Powell, irresistibile nel famoso numero con la fialetta all’antrace. Il grande Powell poté esbirsi all’Onu solo grazie all’altra vicenda spettacolare del secolo, altrettanto cristallina: il crollo delle Torri Gemelle, notoriamente collassate su se stesse in pochi secondi per colpa di aerei dirottati da oscuri energumeni arabi, armati di taglierini e capaci di schiantare a velocità folle, con manovre da top-gun, velivoli che non sapevano pilotare e che la stessa azienda costruttrice, la Boeing, dichiara che – semplicemente – non potrebbero volare a 900 chilometri orari, a quote così basse, senza sbriciolarsi in aria prima ancora dell’impatto.Certo si tratta di trascurabili amenità, sulle quali è impensabile si soffermi il “Corriere della Sera”, impegnato com’è a formulare vaticinii e profezie sui governi italiani, specie l’inguardabile esecutivo gialloverde, i cui azionisti politici osano mancare di rispetto ai sacerdoti della santa eurocrazia, i bramini dai nomi impossibili – Dijsselbloem, Oettinger, Dombrovskis – che gli italiani hanno tuttavia imparato ad amare, in questi anni di benessere, prosperità e serenità per tutto il continente. Come sarebbe bello, cinguetta Massimo Mazzucco – altro incorreggibile mascalzone, del calibro di Giulietto Chiesa – se finalmente, grazie alla presidenza della Rai affidata a Marcello Foa, lo stesso Chiesa potesse lasciare per un attimo la redazione di “Pandora Tv” e partecipare ogni tanto, magari in terza serata, a programmi come quelli che un tempo persino la televisione di Stato produceva, all’epoca in cui faceva anche vera informazione, con signori come Biagi, Minà, Zavoli.Pensate, dice Mazzucco, se – magari all’una di notte – ci fosse la possibilità di assistere a un confronto tra Chiesa e, per dire, il fondatore di “ByoBlu”, Claudio Messora, capace di realizzare servizi su YouTube visionati ogni volta anche da 200.000 utenti. Numeri enormi, sottolinea Mazzucco, se paragonati agli standard televisivi (per esempio, i 600.000 spettatori che faceva registrare “Matrix”, ai bei tempi). Non c’è paragone, conferma Fabio Frabetti di “Border Nights”, in web-streaming con Mazzucco, anche perché la potentissima e ricchissima Tv basta accenderla, mentre un video-blog devi andartelo a cercare: quei click valgono mille volte tanto. E lo sanno, i signori dei “giornaloni”, al punto – oggi – da attaccare Giulietto Chiesa, anche a costo di fare involontariamente pubblicità alla sua web-tv. Lo sanno così bene, che il vento è cambiato, da applaudire a scena aperta l’eroico bavaglio imposto al web da Bruxelles, su iniziativa dei soliti noti – su tutti Oettinger, l’uomo che sussurra ai mercati, proprio come il suo socio Dijsselbloem.Poi, si sa, è noto che le minacce mafiose le fanno appunto i capimafia, non certo i cardinali e ciambellani del superclan euro-finanziario che ha coordinato, sul campo, il più vasto trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, che la storia moderna ricordi. Un’operazione ammantata di misticismo e ispirata dal Bene, cioè il rigore di bilancio che vieta i deficit e quindi obbliga ad aumentare le tasse, producendo le meraviglie che fanno dell’Unione Europea e in particolare dell’Eurozona il paradiso terrestre a cui il mondo intero guarda con invidia, non potendo fare a meno di ammirare il commovente spirito di cooperazione e solidarietà che oggi affratella i popoli europei, pronti a correre in soccorso del più debole e a risolvere insieme, da buoni amici, ogni controversia, a cominciare dal problema dei migranti. Un’Europa così sublime non può che primeggiare anche nell’arte del bel canto, visti i soavi gorgheggi giornalistici che si levano da giornali e talkshow. Troppo bello, lo spettacolo del Bene che celebra se stesso, per rischiare di offuscarlo con sgraziate stonature, profeti di sventura e blogger, così impudenti da insolentire il divo Dijsselbloem, l’affabile Juncker, il garbato Moscovici.A chi si fosse curiosamente convinto che lo show quotidiano sia soltanto una tragica farsa piuttosto scadente, affidata a interpreti la cui mediocrità è pari solo all’immenso potere di cui dispongono, protetto dall’anonimato finanziario che ha sequestrato la democrazia nel vecchio continente, Mazzucco va ripetendo un consiglio pratico: insistere, nel raccontare quello che si è scoperto, perché soltanto l’impegno di migliaia di neo-sudditi potrebbe un giorno restituire agli europei lo status di cittadini, a buon diritto membri di una comunità civile vera e propria, con le sue sue regole fondamentali – una su tutte: governa chi è stato designato dai cittadini, mediante regolari elezioni. Il giorno che la maggioranza si accorgesse dell’insostenibile anomalia europea, costituita da mezzo miliardo di persone governate da un consiglio di amministrazione, probabilmente i solisti come Oettinger e Dijsselbloem si troverebbero senza uno spartito e senza più nemmeno il coro, cartaceo e radiotelevisivo, al quale sono abituati: una clacque preziosa e imprescindibile, per evitare fischi e pomodori. E’ come se una lunga marcia fosse cominciata, dice Mazzucco, fino a giungere di fronte alle mura del palazzo, seminando allarme: non si spiega altrimenti tanta permura nel prendere a sberle, in pubblico, gli storici tribuni della trasparenza. Ma in caso di rivoluzione, niente paura: il grande Dijsselbloem potrebbe sempre cantare ancora, nel coro degli autorevolissimi editorialisti del “Corriere”.«Molto improbabile che nasca un governo politico, a meno che Berlusconi non faccia un passo di lato e lo sostenga dall’esterno». Così Alessandro Trocino, ai microfoni di “Radio Radicale” il 7 maggio scorso, a meno di un mese dall’insediamento di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Due previsioni, entrambe sbagliate: alla fine s’è fatto, eccome, il governo più clamorosamente politico da 25 anni a questa parte, e il Cavaliere si è ben guardato dal sostenerlo. Sei mesi dopo, lo stesso giornalista – in forza al “Corriere della Sera” – spara ad alzo zero contro Giulietto Chiesa, in realtà per colpire i 5 Stelle, “rei” di aver preso per buona l’analisi di Chiesa sull’ultima sparata del signor Jeroen Dijsselbloem, tipico esemplare del potere eurocratico: anonimo e incolore il suo profilo politico, ma micidiale quello tecnocratico, speso al servizio dell’oligarchia finanziaria che ha massacrato la Grecia e imposto il prelievo forzoso a Cipro, scatenando il panico e l’assalto ai bancomat. Cos’ha detto, l’insigne Dijsselbloem? Che l’economia italiana imploderà, per colpa del governo gialloverde. E Giulietto Chiesa? Ha interpretato le parole di Dijsselbloem nell’unico modo possibile: una minaccia. Ovvio, a questo punto, il rilancio dei 5 Stelle sul loro blog.
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Nessun Dio, nella Bibbia: come smontare l’immane raggiro
Vedete questa parete alle mie spalle? E’ bianca, per tutti? Se nella Bibbia c’è scritto che questa parete è rossa, io dico: “Nella Bibbia c’è scritto che questa parete è rossa”. Il che non vuol dire che io sostengo che quella parete sia rossa; dico solo: nella Bibbia c’è scritto che è rossa. Poi, tutti assieme, possiamo determinare che l’autore biblico ha preso un colossale abbaglio? Benissimo, diciamo pure che l’autore biblico ha preso un colossale abbaglio. Quindi, ciò che io vi dico non è “la verità”: è solo ciò che c’è scritto. Se io traduco “Pinocchio” per conto degli eschimesi, magari, quando avrò finito, ci sarà qualche saggio eschimese che si alza e dice: ma tu vuoi convincerci del fatto che i bambini si fanno partendo dal legno? No: io vi dico soltanto che, in quel libro, c’è scritto che quel bambino è stato fatto partendo da un pezzo di legno. Poi, tutti assieme, stabiliamo che quella è una favola? Benissimo. Quindi, io provo a raccontarvi che cosa c’è scritto nella Bibbia; se poi tutti assieme vogliamo pensare che la Bibbia racconti favole, benissimo: la Bibbia racconta favole. E’ chiaro il concetto? Quindi io non vi parlo di Dio, perché l’Antico Testamento non parla di Dio. Non parla del Dio spirituale: non c’è proprio (quella è una elaborazione teologica successiva). Non parlo di mondi spirituali, perché nell’Antico Testamento non ci sono.
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Ci servono veri statisti, per abbattere il Muro di Bruxelles
Ma davvero tra sei mesi quest’Europa non ci sarà più, come hanno detto sia Di Maio che Salvini? Se è vera la previsione o la profezia dei due vice-premier, uniti contro il Nemico comune europeo, il 2019 accadrà qualcosa di simile al 1989: trent’anni fa cadde il Muro di Berlino, e poi crollò il comunismo. Trent’anni dopo cadrà il Muro di Bruxelles che separa i popoli dall’Europa, il potere dai cittadini, e cadrà l’eurarchia con tutti gli eurocrati. La spallata decisiva, pensano entrambi, sarà il voto di primavera sul Parlamento Europeo che ridisegnerà radicalmente i rapporti di forza e di rappresentanza. L’onda sovranista e populista è in effetti crescente in tutta Europa e sicuramente scombussolerà il Parlamento Europeo e i suoi gruppi prevalenti, socialisti, popolari e liberali. Ma avrà un impatto tale da scardinare la Commissione Europea, da conquistare la maggioranza assoluta dei seggi – o trovare alleati per farlo – e incidere poi sugli organismi sovranazionali non direttamente emanati dal Parlamento Europeo? Poi la Banca centrale europea, la Troika, e a cascata Il Fondo Monetario, le agenzie di rating, Davos…Il dubbio ci sembra più che legittimo, al di là dei desideri o delle speranze di ciascuno. La forza populista, grosso modo, potrà conquistare in Europa fino a un terzo degli elettori votanti, oltre il buco nero dell’astensionimo. Basterà una forza del genere per liquidare definitivamente l’attuale establishment europeo? E si tratterà poi di forze realmente componibili, omogenee, in grado di allearsi? L’ipotesi più probabile, invece, è che per evitare la paralisi, globalisti e sovranisti dovranno arrivare a un compromesso, a una pace armata, cioè a un armistizio, o dividersi ambiti e territori. Dal punto di vista dei grillini sarei particolarmente cauto con le profezie di vittoria e di sventura, anche perché se Salvini ha sponde reali in Francia, nel nord Europa e nell’est europeo, dovute a consonanze tematiche, a partire dall’Europa delle nazioni e dal tema dei migranti – oltre che in Russia e negli Stati Uniti – non altrettanto può dirsi del Movimento 5 stelle che resta un fenomeno italiano. E’ più facile pensare a un’alleanza delle forze sovraniste, nazionalpopuliste, piuttosto che a un’alleanza populista-radicale di tipo grillino.Dal punto di vista politico, gli avversari dei populisti sono tutti azzoppati e governano nei loro paesi in alleanze precarie, eterogenee di centro-destra-sinistra, guidando forze di minoranza: dalla Germania alla Spagna, dalla Francia a molti altri paesi. La leader politica dell’Eurozona, Angela Merkel, è in vistosa caduta ormai da tempo. E molti movimenti in ascesa, nonostante si definiscano liberali, aderiscano ai popolari o siano perfino alleati di governo con forze dell’establishment, rientrano piuttosto nel filone nazional-conservatore o sovranista-populista. Il centravanti dell’eurarchia oggi è Macron, che gode di un consenso ultra-minoritario nel suo paese, largamente impopolare in patria e assai inviso in molti paesi europei, a cominciare dall’Italia, per le sue evidenti e sleali contraddizioni: fa l’europeista global ma cura poi gli interessi francesi, predica sull’immigrazione e poi chiude l’accoglienza. L’anno scorso l’Europa intera, e l’intero quadro politico francese – giscardiani, gollisti, socialisti – scese al suo fianco per impedire che vincesse Marine Le Pen. Ha goduto di un sostegno politico, eurocratico e mediatico assoluto. Ciò nonostante la sua credibilità e i suoi consensi sono costantemente in calo, clamorosamente minoritari in Francia. Il contrario di Trump, che è sotto attacco permanente ma registra grandi risultati concreti, soprattutto sul piano economico e occupazionale e mantiene vasto consenso popolare, nonostante il suo stile colorito e discutibile.Il nemico da battere in Europa avrà la faccia di Macron più che di Juncker o di Moscovici. È il prototipo dell’eurocrate. Liberista e progressista, global ma senza rinunciare all’arroganza francese, fabbricato in provetta, figlio di maternità surrogata, adottato dalla famiglia allargata di progressisti, tecnocrati e moderati, testimonial di una Francia politically correct, gay e nera, global e antifascista, Macron è il testimonial di questa Unione pseudoeuropea. Intanto aspettiamoci, in questi mesi ogni colpo basso dall’Europa e dai suoi sicari, interni e internazionali, per far cadere o inguaiare i populisti. Spread e non solo, è una guerra e lorsignori capiscono che qui in Italia si giocano una partita che vale per l’Europa. Ma lo scenario che si apre è inquietante, tra sovranità tramontate e sovranità alternative non ancora sorte o minate. Al declino inglorioso dei vecchi partiti, si unisce il rischio aggiuntivo di un cortocircuito del populismo. Restiamo coi piedi per terra, ancorati alla realtà, e guardiamo dall’altra parte: si può davvero pensare che leader come Di Maio e compagnia possano essere gli statisti alternativi a cui affidare le sorti dell’Europa? Si può seriamente caricare su spalle così piccole e inadeguate una responsabilità così grande, come fondare, ridisegnare e guidare la nuova Europa? Uagliù, nun pazziamo, avrebbe detto Padre Pio.(Marcello Veneziani, “Il Muro di Bruxelles”, da “Il Tempo” del 9 ottobre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani).Ma davvero tra sei mesi quest’Europa non ci sarà più, come hanno detto sia Di Maio che Salvini? Se è vera la previsione o la profezia dei due vice-premier, uniti contro il Nemico comune europeo, il 2019 accadrà qualcosa di simile al 1989: trent’anni fa cadde il Muro di Berlino, e poi crollò il comunismo. Trent’anni dopo cadrà il Muro di Bruxelles che separa i popoli dall’Europa, il potere dai cittadini, e cadrà l’eurarchia con tutti gli eurocrati. La spallata decisiva, pensano entrambi, sarà il voto di primavera sul Parlamento Europeo che ridisegnerà radicalmente i rapporti di forza e di rappresentanza. L’onda sovranista e populista è in effetti crescente in tutta Europa e sicuramente scombussolerà il Parlamento Europeo e i suoi gruppi prevalenti, socialisti, popolari e liberali. Ma avrà un impatto tale da scardinare la Commissione Europea, da conquistare la maggioranza assoluta dei seggi – o trovare alleati per farlo – e incidere poi sugli organismi sovranazionali non direttamente emanati dal Parlamento Europeo? Poi la Banca centrale europea, la Troika, e a cascata Il Fondo Monetario, le agenzie di rating, Davos…
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Io rossobruno come il Che, contro la sinistra delle banche
La premessa scontata è che il rossobrunismo è una bufala inventata dalla sinistra globalista e genuflessa al capitale finanziario, quella millantata sinistra che ha svenduto le ragioni dei lavoratori e dei ceti produttivi agli interessi dell’estremismo capitalista e della finanza speculativa, quella sinistra che ha colpevolmente confuso e incentivato a confondere l’inter-nazionalismo dei lavoratori con il cosmopolitismo del capitale, quella stessa sinistra incidentata e sinistrata che ha barattato i diritti reali delle persone con i diritti civili degli individui, la sinistra che oggi, con un pizzico di spudoratezza, manifesta contro un un governo certamente discutibile e contraddittorio anche se oggettivamente in discontinuità con i governi che lo hanno preceduto del corso della cosiddetta Seconda Repubblica. Ma codesta “sinistra” è dimentica di aver bollato come plebee e cialtrone le istanze legittime di ceti popolari che invocavano semplicemente lavoro e giustizia sociale, mentre i carrieristi a tinte rosse, pasdaran del pareggio di bilancio, accumulavano patrimoni e posizioni di privilegio, e, in ossequio agli ordini del capitale, condannavano alla miseria e alla nullità esistenziale intere generazioni.Ma andiamo al dunque, e al mio polemico riconoscermi nella definizione di revisionista rossobruno. Sono rossobruno perché lo fu Che Guevara, quando nel discorso all’Assemblea Generale dell’Onu dell’11 dicembre 1964 pronunciò il famoso motto “Patria o muerte!”. Pochi sinistroidi sono a conoscenza del fatto che la Rivoluzione Cubana (oggetto della mia tesi di laurea) fu innanzitutto una rivoluzione nazionale, patriottica e anti-imperialista, pur riconoscendo il contributo de Partito Comunista Cubano, e che Fidel Castro diventò comunista successivamente alla presa del potere. Sono rossobruno perché l’autodeterminazione dei popoli, ovvero il diritto di un popolo a decidere del proprio destino nella propria terra, è la premessa della sovranità popolare, a sua volta premessa per lo sviluppo di una prospettiva di una società socialista, di libertà ed uguaglianza sociale. Sono rossobruno perché sono un populista, e affermo il populismo come una opzione, alternativa ad altre populiste, unica per la costruzione del politico verso il socialismo. Populista fu Che Guevara quando scrisse: «La caduta di Peron mi tocca molto. Con lui l’Argentina svolgeva, per noi che localizziamo il nemico a nord, il ruolo di paladino del nostro pensiero». Populisti sono stati Chàvez, Evo Morales, Lula da Silva, e io mi dichiaro populista insieme a loro.Sono talmente rossobruno da considerare la Costituzione italiana del 1948 come il documento politico più evolutivo e ideologicamente pregnante di tutto il Novecento italiano, faro luminoso a indicare la rotta verso la democrazia e il socialismo, mentre i sinistri italiani agli ordini della finanza di Jp Morgan hanno provato a rottamarla. Sono rossobruno come lo fu Pier Paolo Pasolini, quando la sua geniale e profetica diffidenza gli fecero prendere le distanze dai sessantottini figli di papà schierandosi con i poliziotti proletari; anni dopo i ribelli dell’illimitatezza del desiderio diventarono classe dirigente nella sinistra e nel paese, contro il paese e gli interessi nazionali e popolari e a difesa del capitale globalizzato. Sono e resterò rossobruno fin quando gli imbecilli in pantofole, al riparo dei loro privilegi, non comprenderanno le ragioni di una richiesta di giustizia sociale e di riscossa nazionale che passa attraverso la definitiva sepoltura, nel nome del socialismo e della democrazia, della sinistra che ha tradito e della oligarchia finanziaria a cui essa è asservita.(Franz Altomare, “Sono un rossobruno”, dalla pagina Facebook di Altomare del 30 settembre 2018).La premessa scontata è che il rossobrunismo è una bufala inventata dalla sinistra globalista e genuflessa al capitale finanziario, quella millantata sinistra che ha svenduto le ragioni dei lavoratori e dei ceti produttivi agli interessi dell’estremismo capitalista e della finanza speculativa, quella sinistra che ha colpevolmente confuso e incentivato a confondere l’inter-nazionalismo dei lavoratori con il cosmopolitismo del capitale, quella stessa sinistra incidentata e sinistrata che ha barattato i diritti reali delle persone con i diritti civili degli individui, la sinistra che oggi, con un pizzico di spudoratezza, manifesta contro un governo certamente discutibile e contraddittorio anche se oggettivamente in discontinuità con i governi che lo hanno preceduto del corso della cosiddetta Seconda Repubblica. Ma codesta “sinistra” è dimentica di aver bollato come plebee e cialtrone le istanze legittime di ceti popolari che invocavano semplicemente lavoro e giustizia sociale, mentre i carrieristi a tinte rosse, pasdaran del pareggio di bilancio, accumulavano patrimoni e posizioni di privilegio, e, in ossequio agli ordini del capitale, condannavano alla miseria e alla nullità esistenziale intere generazioni.
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Giulietto Chiesa: m’ero sbagliato, in Russia la gente soffre
Non è da tutti, ammettere i propri errori, specie se si ha alle spalle una lunga storia fatta anche di coraggio. E’ il caso di Giulietto Chiesa, amico personale di Mikhail Gorbaciov. Nell’agosto del ‘91, mentre il golpista Ghennadi Janaev tentava di mascherare il colpo di Stato in corso, accampando ipotetici “problemi di salute” da parte del padre della Perestrojka, Giulietto Chiesa lo sfidò, in mondovisione, con una semplice domanda: «E lei come si sente, signor Janaev?». Per anni corrispondente da Mosca per “L’Unità”, poi per “La Stampa” e per il “Tg5”, Chiesa fu tra i primi, in Italia, con il saggio “La guerra infinita” uscito nel 2003 per Feltrinelli, a denunciare le trame (altrettanto golpiste) dei “neocon” Usa, sospettati di aver incubato la strage dell’11 Settembre, comodamente attribuita all’islamico Bin Laden. Giulietto Chiesa – riconobbe anni fa il caustico Paolo Barbard – è stato l’unico, degli esponenti della “casta” giornalistica italiana, a mettere a repentaglio la sua reputazione (e i suoi privilegi di ospite fisso, in televisione) pur di denunciare una verità che il manistream non voleva accettare. Oggi, a parte le sfortunate avventure politiche con Antonio Ingroia, Chiesa dirige sul web la voce libera di “Pandora Tv”, da cui spessissimo difende la politica di Putin e la Russia in generale, esponendosi alla facile accusa di coltivare nostalgie sovietiche. Ora fa pubblica ammenda: sulla Russia mi sono sbagliato, dice; Putin non è riuscito a rimediare agli orrori di Eltsin, e così il popolo soffre.Beninteso: non è mai stato facilissimo il rapporto tra Giulietto Chiesa e la Russia, neppure ai tempi dell’Unione Sovietica. «Giulietto Chiesa mente», scrisse l’agenzia del Cremlino, la “Tass”, per ottenere la rimozione del corrispondente italiano, ritenuto scomodo (e difeso invece con ostinazione da Berlinguer, il segretario del Pci che l’aveva scelto come giornalista da inviare a Mosca). Caduta l’Urss, dopo tanti saggi sull’ex impero sovietico, oggi Giulietto Chiesa ammette: purtroppo ho visto in ritardo i problemi che affliggono i russi, alle prese con una politica interna non all’altezza della politica estera brillantemente svolta da Putin. A richiamarlo sul tema, scrive lo stesso Chiesa su “Megachip”, è un’affezionata lettrice, russa, che gli scrive dalla Russia “profonda”, dove non è mai arrivato il recente benessere di Mosca e San Pietroburgo. «Non metto la sua firma, per la sua sicurezza, né il luogo dove abita». Una premessa poco rassicurante: dimostra che il dissenso politico, in Russia, è tuttora pericoloso. «Credo che le cose che lei mi dice siano purtroppo vere», premette Chiesa, «come lo sono i processi degenerativi anche da noi». E’ delusa, la lettrice russa, dall’ultimo intervento del giornalista a “Radio Padania”, che l’ha resa «molto triste». Motivo: «Mi sono resa conto – gli scrive – di come il tuo giudizio sulla Russia intera sia influenzato da ciò che vedi a Mosca. E anche di quanto questa Mosca benestante sia completamente disinteressata a ciò che succede nel resto del paese».I nuovi intellettuali democratici citati da Chiesa a “Radio Padania”? «Io non so nulla di questa nuova generazione di intellettuali – aggiunge la donna – perché il nostro eroe principale, da queste parti, è il delinquente marginale, che ruba e non fa niente di niente. E le leggi lo difendono». Non solo: grazie a questa “esemplare” impunità, aggiunge la lettrice, si forma la nuova generazione che appare allo sbando. «Vorrei che tu vedessi e sentissi come ragazzi e ragazze, giovanissimi, parlano tra loro, con un linguaggio dove altro non c’è che la più bassa volgarità. Perché non conoscono altro linguaggio che quello». Tutto ciò, aggiunge la donna, «mentre le persone normali sono ormai minoranza, e per loro non esiste alcun ordine pubblico, nemmeno l’elementare sicurezza, poiché chiunque voglia può infierire su di loro». Soprattutto, continua la lettera, «non c’è all’orizzonte alcuna prospettiva, non c’è luogo o occasione dove ognuno possa impiegare le sue forze e energie intellettuali. Non c’è posto per realizzare semplicemente il proprio desiderio di fare qualche cosa che abbia un senso, un’utilità, per la quale sacrificare se stessi». E questo, assicura, non accade soltanto nella sua piccola città: «Anche nel capoluogo più vicino alla piccola città in cui vivo è difficilissimo incontrare qualcuno che riesce a trovare un posto di lavoro che corrisponda alle sue capacità e alla sua professione. Io, per lo meno, di queste persone non ne conosco nemmeno una. Avverto perfino fisicamente come nella società crescono la stanchezza e l’insofferenza. Nessuno è però in grado di esprimere l’una e l’altra cosa in forme civilizzate».Un esempio italiano? La lettrice russa cita il ministro Toninelli, che ha parlato della “nostra infelice Italia”. «Ti risulta che qualcuno del nostro governo abbia mai pronunciato qualcosa di simile alla “nostra infelice Russia”? Da noi si sentono soltanto lodi sperticate di grandi successi», scrive la donna. «La gente, in Occidente, può manifestare e protestare, mentre da noi non può. Forse perché non abbiamo idea di cosa sia la società civile, o forse semplicemente per la sensazione che “tutto è inutile, e che in ogni caso loro faranno come gli pare”». Negli ultimi tempi, poi, «l’insofferenza si va dirigendo non solo contro i burocrati in generale ma anche contro Putin (al quale in un certo senso molto veniva perdonato, anche perché da noi è ancora forte l’esigenza di uno “zar buono”)». Il dissenso è tale che «può accadere qualche cosa di imprevisto e terribile». Una profezia, confidata a Chiesa: «Probabilmente tu non mi crederai se ti dico che Putin non resterà al suo posto fino alla fine del mandato». La donna manifesta «una grande paura». Teme cioè che la Russia «non sopravviva a un’altra rivoluzione». E conclude con un appello, ben poco ottimistico, alla divina provvidenza: «Che Dio non ci costringa a essere testimoni della rivolta russa, insensata e senza pietà».A tanta franchezza, Giulietto Chiesa replica senza giri di parole: «Cara amica, penso che la tua descrizione dei fatti sia purtroppo molto vicina alla realtà». Ma, aggiunge, «non so se lo siano anche le tue previsioni circa il futuro». E spiega: «Per quel poco che so del popolo russo, penso che il “bunt”, la rivolta, sia molto lontana. La vostra pazienza secolare ha impedito che essa si affacciasse molte volte». Di “bunt”, Giulietto Chiesa assicura di averne visto uno solo: quell’immensa protesta di popolo, a Mosca, nell’ottobre 1993, che precedette il bombardamento del Parlamento (la Casa Bianca) deciso da Boris Eltsin, «con il successivo massacro di cui nessuno parlò». E anche allora, «per quanto immensa fosse quella folla, la rivolta non andò a finire bene». Ma non c’è nessun dubbio, ammette Chiesa, che la politica interna della Russia stia andando assai male, «come non c’è dubbio che la distanza tra l’élite moscovita e pietroburghese e le masse popolari sia in crescita geometrica». Non c’è dubbio, aggiunge Chiesa, «che la corruzione sia dilagante, che la solidarietà sia in calo verticale», e che la cultura «stia degradando, così come l’istruzione». Non c’è alcun dubbio, insomma, «che la fiducia dei cittadini nelle istituzioni dello Stato sia ormai logorata». Il motivo? «La democrazia non ha fatto passi avanti rispetto al momento in cui iniziò la Perestrojka, sollevando grandi speranze in milioni di persone», come lo stesso Chiesa potè vedere con i suoi occhi.«Ma questo distacco dalle masse, che il potere non fa nulla per riempire – aggiunge il giornalista – è, anche per me, fonte di grande preoccupazione». Giulietto Chiesa pensa che la Russia, se vuole risolvere i suoi problemi, «debba in qualche modo essere di esempio al resto del mondo». Ovvero: «Debba, in primo luogo, ridurre la disuguaglianza sociale, impedire che la degenerazione consumistica e intellettuale, e morale, entri nel suo corpo con gli effetti devastanti», peraltro identici – in questo senso – a quelli che stanno investendo tutto l’Occidente. Nello stesso tempo, aggiunge, «io so qual è il peso mondiale della Russia». Sa bene, Chiesa, «qual è stato in questi anni il ruolo di pace che, con Putin, essa ha svolto». Per questo, ribadisce, continua ad appoggiare «la ragionevolezza delle sue prese di posizione, politiche a pratiche». Una precisa visione geopolitica: «Penso che, senza la Russia e il suo ruolo deterrente, il mondo sarebbe già assai più vicino a una guerra gigantesca e definitiva». E tuttavia, ammette Chiesa, il suo consenso rispetto al Cremlino «finisce sui confini della politica estera della Russia», dal momento che «il sistema sociale che è emerso dalla contro-rivoluzione etsiniana è stato un gravissimo passo indietro, al quale fino ad ora non è stato posto rimedio».Sempre secondo Chiesa, «la democratizzazione, nelle forme “russe” che essa non potrebbe non avere (non certo scimmiottando la democrazia “elitaria” che oggi domina l’Occidente) sarebbe indispensabile per ricostruire un rapporto decente tra dirigenti e diretti, e per aiutare il formarsi di una società civile moderna, da cui emergerebbero forze intellettuali e morali», oggi assenti nella Russia “profonda” descritta dalla lettrice. Non ha paura, Giulietto Chiesa, di sottoscrivere la più sincera delle ammissioni: «Credo, per quanto mi riguarda, di essere involontariamente caduto – raccontando la Russia in questi ultimi anni – nell’errore che invece non commisi durante i miei venti anni come corrispondente dall’Urss e poi dalla Russia: quello di pensare che la “vetrina” corrispondesse al paese». Non è così, scrive Chiesa: la “vetrina” non è lo specchio fedele della Russia. «Penso di aver commesso questo errore – aggiunge – confondendo e mettendo sullo stesso piano due cose assai distinte», come appunto «la politica estera e quella sociale interna». E cioè: «Volendo sostenere la prima posso avere dato l’impressione di appoggiare anche la seconda. Con questa mia risposta pubblica – conclude – intendo ristabilire la differenza».Non è da tutti, ammettere i propri errori, specie se si ha alle spalle una lunga storia fatta anche di coraggio. E’ il caso di Giulietto Chiesa, amico personale di Mikhail Gorbaciov. Nell’agosto del ‘91, mentre il golpista Ghennadi Janaev tentava di mascherare il colpo di Stato in corso, accampando ipotetici “problemi di salute” da parte del padre della Perestrojka, Giulietto Chiesa lo sfidò, in mondovisione, con una semplice domanda: «E lei come si sente, signor Janaev?». Per anni corrispondente da Mosca per “L’Unità”, poi per “La Stampa” e per il “Tg5”, Chiesa fu tra i primi, in Italia, con il saggio “La guerra infinita” uscito nel 2003 per Feltrinelli, a denunciare le trame (altrettanto golpiste) dei “neocon” Usa, sospettati di aver incubato la strage dell’11 Settembre, comodamente attribuita all’islamico Bin Laden. Giulietto Chiesa – riconobbe anni fa il caustico Paolo Barbard – è stato l’unico, degli esponenti della “casta” giornalistica italiana, a mettere a repentaglio la sua reputazione (e i suoi privilegi di ospite fisso, in televisione) pur di denunciare una verità che il manistream non voleva accettare. Oggi, a parte le sfortunate avventure politiche con Antonio Ingroia, Chiesa dirige sul web la voce libera di “Pandora Tv”, da cui spessissimo difende la politica di Putin e la Russia in generale, esponendosi alla facile accusa di coltivare nostalgie sovietiche. Ora fa pubblica ammenda: sulla Russia mi sono sbagliato, dice; Putin non è riuscito a rimediare agli orrori di Eltsin, e così il popolo soffre.
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Magaldi: democrazia, non “sovranismo”. O rivince l’élite
Sovranista a chi? Se accettate di lasciarvi chiamare in quel modo, fate un favore proprio a quei poteri oligarchici che vorreste combattere. Parola di Gioele Magaldi, che avverte: c’è un equivoco, “sovranismo” non è affatto sinonimo di “sovranità”. Che senso avrebbe, ad esempio, tornare alla lira, se la moneta nazionale fosse gestita nel modo sciagurato che fu introdotto nel 1981 dai massoni Ciampi e Andreatta ben prima dell’avvento dell’euro? Un avviso a Giorgia Meloni: va bene restituire dignità all’Italia, ma senza «nostalgie “conservatrici” per chissà quale buon tempo andato». L’ex guru di Trump, Steve Bannon? «Un personaggio folkloristico e anche simpatico», il promotore di “The Movement”, network che si propone di coordinare la carica “sovranista” alle prossime europee. Ma siamo sicuri che, dietro certe manovre, non ci sia lo zampino dei soliti noti? In fondo è comodo, il recinto del sovranismo. Molto più scomodo – e più utile per tutti – sarebbe invece costringere un oligarca come Mario Draghi a usare finalmente l’euro a beneficio del popolo, non delle banche. Se c’è una cosa di cui quell’establishment marcio ha davvero paura, sottolinea Magaldi, non è l’ambiguo sovranismo, ma la cara, vecchia sovranità democratica: che pure avevamo, e che ci è stata confiscata dall’élite neoliberista, dominata dai massoni neo-aristocratici che negli ultimi trent’anni hanno cancellato l’idea stessa di Europa unita.Autore del bestseller “Massoni”, che rivela il grande potere di 36 superlogge sovranazionali nella cabina di regia della globalizzazione imposta “a mano armata”, senza diritti, Magaldi – massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt – fornisce la sua personale lettura dell’attualità ai microfoni di “Colors Radio”: lo stesso Isis, sostiene, è un progetto criminale coltivato dalla parte peggiore di quei cenacoli occulti, pronti a ricorrere persino all’orrore del terrorismo stragista per alimentare la guerra globale cui stiamo assistendo, gestita da interessi economici che si riparano dietro il paravento delle nazioni. Supermassoni reazionari, che sono riusciti a far rimangiare, all’Occidente, le conquiste inaugurate proprio da Roosevelt – l’economia espansiva fondata sul deficit positivo, secondo la ricetta del massone progressista Keynes – e la “Great Society” dello stesso Lyndon Johnson, alimentata dalle idee e dal coraggio di Bob Kennedy e Martin Luther King. L’Unione Europea? Capolavoro dell’élite neo-aristocratica, il più subdolo dei poteri: finto-progressista e finto-democratico. Pronto, oggi, anche a liquidare la nascente opposizione con la più comoda delle etichette, il “sovranismo”, che di fatto «è una falsa moneta», liberamente circolante – anche nell’Italia gialloverde – grazie a quegli stessi democratici che accettano di farsi chiamare “sovranisti”.«E a proposito di false monete», Magaldi ricorda di esser stato il primo, in tempi non sospetti, ad anticipare la “profezia” oggi rilanciata da Steve Bannon: l’Italia come unico punto di partenza possibile, in Europa, per una grande riscossa popolare. «Ma la riscossa che ha in mente Bannon – precisa Magaldi – non è quella di cui parlo io e di cui parlano i massoni limpidamente democratici: quella che abbiamo in mente noi è una rivoluzione democratica che vada a risvegliare la democrazia sostanziale, non soltanto in un paese ma in istituzioni sovranazionali che devono essere funzionanti per contrastare poteri privati altrettanto sovranazionali». Attenti alle “monete fasulle”, insiste Magaldi: in fondo, fanno comodo «a quelle élite apolidi e post-democratiche, anzi antidemocratiche, che poi sono le élite di natura massonica contro-iniziatica che si dicono europeiste ma invece hanno distrutto il sogno degli Stati Uniti d’Europa». Equivoci a reti unificate, sui media mainstream: «Adesso sembra che la contrapposizione sia, da una parte, tra tutti coloro che amano i valori democratici e progressisti, liberali, “politically correct”, e dall’altra i “sovranisti”, che sarebbero dei nazionalisti un po’ beceri e un po’ xenofobi, ripiegati su se stessi e incapaci di cogliere l’importanza delle costruzioni sovranazionali».«Quando in tanti accettano di farsi definire “sovranisti” sembra che le cose stiano così, ma non è vero», sostiene Magaldi: «Ciò che conta è la sovranità del popolo, che significa democrazia. E si può declinare tanto a livello nazionale quanto a livello internazionale o sovranazionale. Anzi: per contrastare questo tipo di globalizzazione, di segno post-democratico e neo-aristocratico, servono strutture pubbliche, politiche, legittimate dal popolo». Strutture di caratura anche sovranazionale, ribadisce Magaldi, «perché a chi possiede le armi atomiche non si fa la guerra con archi e frecce, da un avamposto locale o nazionale», per di più «in un contesto nel quale si muovono forze che penetrano le nazioni e riescono addirittura, dentro le nazioni, a creare dei cavalli di Troia o delle quinte colonne che poi ti levano la sedia da sotto il sedere». La parola da usare, oggi, è un’altra – sovranità popolare – declinata in Italia e nel resto del mondo, senza frontiere. «E a tutti coloro che tacciano i loro nemici di “sovranismo”, chiederei: ma perché, voi non siete per la sovranità popolare? Siete per la sovranità di gruppi oligarchici apolidi e sovranazionali?».Meglio essere chiari, dice sempre Magaldi: «Chi si schiera tra i conservatori e contro la sovranità popolare evidentemente ha in mente una idea di governance (locale, globale, nazionale) di tipo neo-aristocratico: ed è proprio nel passato conservatore, tradizionalista, che le pulsioni democratiche si sono dovute affermare con fatica». D’ora in avanti, annuncia l’autore di “Massoni”, il Movimento Roosevelt «farà una campagna politico-pedagogica proprio su questi temi, e anche sul termine “sovranista”». E insiste: «È un equivoco, il sovranismo: il rispetto per la sovranità popolare dovrebbe essere patrimonio condiviso di tutti». La prima a calpestarla, la nostra sovranità, è proprio l’antidemocratica Unione Europea, «gestita da personaggi impresentabili come frontman delle istituzioni: personaggi screditati e davvero indegni di rappresentare il grande sogno europeo». Punto primo: bocciare un’Europa «dove la Bce è l’organo più potente di comando», e dove il Parlamento Europeo non conta quasi niente eppure «si esprime in modo vergognoso, come ha appena fatto nel caso della legge sul copyright, la censura sul web». Il punto di svolta? «Una Costituzione politica europea, che imponga di usare l’euro per favorire il benessere collettivo». Sarebbe la fine della speculazione contro gli Stati, la fine del ricatto dello spread. Ora più che mai, servirebbe «una coesione europea in grado di avere anche una politica estera comune», e invece «oggi non c’è nessuna Europa».Il recupero della democrazia, riconosce Magadi, passa certamente per il ritorno alla sovranità monetaria: «La moneta – europea o nazionale, non importa – deve essere amministrata dai rappresentanti del popolo». Le banche centrali? Già prima dell’Eurozona erano «degenerate in un potere autonomo, un potere che poi è diventato sovraordinato addirittura a quello delle istituzioni politiche democratiche». Così le banche centrali hanno tradito il loro mandato: «Dovevano invece, in ultima istanza, rispondere alle esigenze dei popoli sovrani». Rivendicare un ritorno alla lira? Inutile, se poi la moneta nazionale non viene gestita in termini democratici. Magaldi ricorda «il famigerato divorzio tra Bankitalia e ministero del Tesoro del 1981, favorito dai massoni Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, che agivano per conto di circuiti massonici non progressisti bensì neo-aristocratici». Quello strappo determinò già negli anni ‘80 «un aggravio enorme per le casse dello Stato, in termini di interessi sul debito pubblico», visto che la banca centrale «smetteva, in fondo, di garantire l’acquisto dei titoli di Stato italiani». Già quello, osserva Magaldi, era un modo per mettere la lira in difficoltà.Quindi, più che tornare alla valuta nazionale, «bisognerebbe preoccuparsi di rendere l’euro una moneta che dipenda da un potere politico democraticamente legittimato». E cioè: bisogna smettere di avere un euro «che viene gestito a discrezione della Bce, senza che nessun potere politico democraticamente legittimato possa intervenire». La Banca Cebntrale Europea? Lo sappiamo: «Pur essendo un istituto di diritto pubblico è proprietà anche di privati e risponde a logiche del tutto apolidi, sovranazionali, sganciate da qualunque livello politico democratico: questo è il problema. Finora, l’euro è stato governato da «quel funesto personaggio di Mario Draghi, che ha utilizzato la moneta europea per favorire sostanzialmente banche e interessi finanziari». Ha grandi colpe, il “venerabile” Draghi, spesso spacciato come paladino dell’Italia. Niente di più falso. Non c’era affatto il benessere del Balpaese, nella “mission” del super-tecnocrate di Francoforte, “regista” delle privatizzazioni italiane dall’epoca del Britannia, poi passato dal Tesoro a Bankitalia, alla Goldman Sachs, alla Bce. «Draghi non ha mai pensato di fare in modo che da questa moneta potesse venire un rilancio economico sociale del continente stesso. E allora, poi, si capisce perché la gente abbia vagheggiato il ritorno alla lira».La moneta, però, resta un mezzo. Il problema vero? E’ il timone politico: «Una Costituzione europea democratica, e un Parlamento Europeo che emani democraticamente un Consiglio dei ministri, mettendo fine a queste farlocche Commissioni Europee, che sono degli ibridi che non dicono nulla». Il vero obiettivo, chiarisce Magaldi, è un governo europeo finalmente legittimato dal voto popolare. Un euro-governo democratico, «che abbia il potere di indirizzare le strategie della Bce e di utilizzare la moneta euro a favore dei popoli, e non contro i popoli». Come arrivarci? Magaldi, nonostante tutto, si mostra fiducioso nelle piccole crepe che il governo gialloverde sta aprendo, nel Muro di Bruxelles. E saluta con favore il possibile avvento di Marcello Foa alla presidenza della Rai: «Non condivido alcune sue idee, ma mi risulta che sia un uomo libero: come presidente Rai sarebbe di gran lunga migliore dei suoi predecessori». Da giornalista indipendente, Foa è stato tra i primi a dare il benvenuto alla speranza gialloverde, intesa come possibile recupero di sovranità democratica. Tutto giusto, secondo Magaldi, a patto che si abbia ben chiaro il fatto che l’establishment italiano ha adottato gli stessi metodi dell’aborrita oligarchia europea: «Il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, si permette il lusso di dire che non bisogna sforare i parametri di spesa, del tutto irrazionali e vessatori, stabiliti dagli euro-burocrati. La Banca d’Italia che detta le regole al governo? Deve accadere esattamente il contrario».Sovranista a chi? Se accettate di lasciarvi chiamare in quel modo, fate un favore proprio a quei poteri oligarchici che vorreste combattere. Parola di Gioele Magaldi, che avverte: c’è un equivoco, “sovranismo” non è affatto sinonimo di “sovranità”. Che senso avrebbe, ad esempio, tornare alla lira, se la moneta nazionale fosse gestita nel modo sciagurato che fu introdotto nel 1981 dai massoni Ciampi e Andreatta ben prima dell’avvento dell’euro? Un avviso a Giorgia Meloni: va bene restituire dignità all’Italia, ma senza «nostalgie “conservatrici” per chissà quale buon tempo andato». L’ex guru di Trump, Steve Bannon? «Un personaggio folkloristico e anche simpatico», il promotore di “The Movement”, network che si propone di coordinare la carica “sovranista” alle prossime europee. Ma siamo sicuri che, dietro certe manovre, non ci sia lo zampino dei soliti noti? In fondo è comodo, il recinto del sovranismo. Molto più scomodo – e più utile per tutti – sarebbe invece costringere un oligarca come Mario Draghi a usare finalmente l’euro a beneficio del popolo, non delle banche. Se c’è una cosa di cui quell’establishment marcio ha davvero paura, sottolinea Magaldi, non è l’ambiguo sovranismo, ma la cara, vecchia sovranità democratica: che pure avevamo, e che ci è stata confiscata dall’élite neoliberista, dominata dai massoni neo-aristocratici che negli ultimi trent’anni hanno cancellato l’idea stessa di Europa unita.
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Pansa: ho paura per l’Italia, golpe in arrivo o guerra civile
Sarà un golpe a far cadere l’esecutivo Conte, incapace di gestire un’Italia ormai nel caos. Giampaolo Pansa, ovvero: l’apocalisse: il gioverno gialloverde «è pericoloso perché fa solo danni al paese, fa solo annunci e non combina niente: prima o poi verrà abbattuto». Fine della democrazia: «Non si andrà a votare: nessuno andrà a votare, perché le forze armate (che sono le sole ad avere le armi) interverranno. E’ la legge della vita». E’ un fiume in piena, Pansa, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, su “La7”. Vede un’Italia sull’orlo della guerra civile: «Qui siamo di fronte a quelli che ti rubano la casa e ti ammazzano la moglie. Siamo in situazione di pre-guerriglia…. e sono peggio del fascismo». Salvini? Imprudente, nel rivolgersi alla “pancia” degli italiani. Di Maio e i 5 Stelle? Drammaticamente inadeguati. «Volete Grillo? Volete una nazione governata da Di Maio? Volete che Grillo decida cosa fare della disoccupazione giovanile in Italia? Che decida come far pagare le tasse a chi non le paga, o come rimettere ordine negli asili, dove i bambini non riescono a trovare posto? Cavoli vostri, provateci. Io cerco di starne lontano. Poi – aggiunge – mi rendo conto che, se qualcuno comincia a usare delle armi diverse da quelle della protesta, e quindi comincia a sparare – cosa che avverrà (lo dico qui, la sera del 18 settembre) – non fingiamo di non sapere che questo è un paese pronto per una nuova guerra civile».Ad accogliere le clamorose esternazioni di Pansa, oltre all’attonita Gruber, Antonio Padellaro del “Fatto” e Marco Damilano de “L’Espresso”, il quale ammette che «l’attuale classe dirigente sollecita le frange estremistiche». Padellaro getta acqua sul fuoco, citando Ennio Flaiano: le barricate, gli italiani le fanno “coi mobili degli altri”. «Siamo in Italia: tutte le tensioni che verifichiamo ogni giorno poi si stemperano sempre in qualcosa che assomiglia al melodramma. Non scordiamoci che abbiamo attraversato persino le Brigate Rosse. E a proposito di complotti, abbiamo avuto la P2. Ricordando il passato, forse il presente ci appare meno drammatico». Pansa non concorda: per lui, Padellaro e il Fatto non hanno «gli occhiali giusti per vedere quello che succede davvero». Le Br? Le avremo anche “attraversate”, ma intanto «hanno ammazzato il politico più importante d’Italia, Aldo Moro, dopo averlo tenuto prigioniero per settimane in un “carcere del popolo” che gli apparati dello Stato facevano finta di non trovare». Flaiano? «Bella battuta, la sua, ma da caffè di via Veneto». La verità non è quella, sostiene Pansa: «C’è un odio profondo, che in Italia cova in tutti i ceti, anche in quelli che non consideriamo mai e chiamiamo ceti popolari: pensionati, casalinghe disperate, giovani che non trovano lavoro».Catastrofe imminente? «Io non vedo attorno a me un clima da guerra civile», protesta la Gruber. «Non lo vedi – replica Pansa – perché sei ancora agganciata all’oggi. Anch’io, se sto agganciato all’oggi, non vedo un clima da guerra civile, perché gli italiani pensano alle vacanze, alle donne, al modo di non pagare le tasse. Vorrebbero lavorare poco e guadagnare molto. Questo è un paese che non ha più spina dorsale». L’anziano giornalista, oggi 83enne, vede un odio dilagante e pericolosissimo, alimentato – più che da questo o quel partito – «dallo stato di fatto delle cose». Ammette: «Da un po’ di anni non vado più a votare, perché so che il mio voto verrebbe comunque sprecato: tutti i partiti sono screditati, la casta politica fa schifo». Insiste, Pansa: «Il governo di Di Maio finisce male perché è composto di prepotenti come Salvini o incompetenti che distruggeranno tutto: o finiscono male da soli o li faranno finire male altri». Il futuro è nero, sostiene il giornalista: «Non sono troppo pessimista, ho sempre visto verificarsi delle storie che non immaginavo si sviluppassero in quel modo». E aggiunge: «Quando succederà, la signora Lilli Gruber dirà: quella sera, quel vecchiaccio pessimista del “Giampa” aveva ragione».Fa impressione, ascoltare Giampaolo Pansa nelle vesti di profeta di sventure. Come giornalista fece storia, fin dagli esordi di “Repubblica”: in un’intervista, Enrico Berlinguer consumò il celebre strappo da Mosca (meglio la Nato che il Patto di Varsavia). Nel suo impareggiabile “Bestiario”, rubrica settimanale di Pansa su “L’Espresso”, trovavano posto l’Elefante Rosso e la Balena Bianca, impietosi ritratti del Pci e della Dc, colonne portanti del potere della Prima Repubblica. Ironico e tagliente, irriverente e sempre indipendente, Pansa, fino a dare scandalo con il saggio “Il sangue dei vinti”, bestseller da un milione di copie, vero e proprio tsunami capace di demolire i tabù della Resistenza raccontando le efferate vendette partigiane dell’immediato dopoguerra. Oggi, il vecchio Pansa appare smarrito di fronte ai confusi albori dell’ipotetica Terza Repubblica. Si rivolge a Lilli Gruber in modo affabile: «Tu sei una donna intelligente, una giornalista esperta, hai fatto politica, sei stata pure parlamentare europea». Già, ma la Gruber è anche ospite fissa del Gruppo Bilderberg, dettaglio che Pansa non cita. Gli altri due giornalisti nello studio di “Otto e mezzo” il 18 settembre? Damilano, punta di lancia del gruppo “Espresso-Repubblica”, è impegnato nel cannoneggiamento quotidiano del governo gialloverde, bombardando Salvini con accuse di xenofobia, razzismo e fascismo. Padellaro e il “Fatto”? Più indulgenti con i 5 Stelle, ma rigorosamente allineati all’impostazione neoliberista della narrazione economica: i tagli alla spesa sono sacrosanti, dogmi di fede.Da anziano veggente, come in una tragedia greca, Pansa-Tiresia vede che l’Italia si sta frantumando, ma è come se non sapesse leggere le cause della catastrofe in atto: una rivolta politica generalizzata, classificata comodamente sotto il nome di “populismo”, ma in realtà innescata dall’inaudito sfascio sociale prodotto dall’economia privatizzata “a tradimento” negli anni ruggenti di Pansa e colleghi. Quanti di loro videro davvero quel che si stava preparando? Quanti, tra gli allora fan di Di Pietro e Mani Pulite, si accorsero del summit a bordo del Britannia per la svendita del paese al capitale finanziario globalizzato? In quanti si accorsero del disastroso effetto del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, che trasformò il debito pubblico in tragedia nazionale? Da eterno battitore libero, oggi Pansa scorge – con angoscia – i sintomi di un malessere che potrebbe anche degenerare in brutalità palese. Ma è come se non avesse ancora metabolizzato la gravità degli eventi maturati nella storia recente, con il “golpe delle élite” che ci ha precipitato nella post-democrazia (ben prima dell’avvento del governo Conte). Se non altro Pansa parla per sé e racconta quello che gli sembra di vedere. Non è impegnato nella fabbricazione quotidiana del consenso, come i propagandisti di “Repubblica” e come la stessa Gruber, che oltre che “donna intelligente” e “giornalista esperta” è anche, di fatto, contigua agli architetti occulti della post-democrazia, gli “sciacalli” che hanno progettato l’attuale sfacelo – che, come dice Pansa, potrebbe anche far saltare in aria il paese.Sarà un golpe a far cadere l’esecutivo Conte, incapace di gestire un’Italia ormai nel caos. Giampaolo Pansa, ovvero l’apocalisse: il governo gialloverde «è pericoloso perché fa solo danni al paese, fa solo annunci e non combina niente: prima o poi verrà abbattuto». Fine della democrazia: «Non si andrà a votare: nessuno andrà a votare, perché le forze armate (che sono le sole ad avere le armi) interverranno. E’ la legge della vita». E’ un fiume in piena, Pansa, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, su “La7”. Vede un’Italia sull’orlo della guerra civile: «Qui siamo di fronte a quelli che ti rubano la casa e ti ammazzano la moglie. Siamo in situazione di pre-guerriglia…. e sono peggio del fascismo». Salvini? Imprudente, nel rivolgersi alla “pancia” degli italiani. Di Maio e i 5 Stelle? Drammaticamente inadeguati. «Volete Grillo? Volete una nazione governata da Di Maio? Volete che Grillo decida cosa fare della disoccupazione giovanile in Italia? Che decida come far pagare le tasse a chi non le paga, o come rimettere ordine negli asili, dove i bambini non riescono a trovare posto? Cavoli vostri, provateci. Io cerco di starne lontano. Poi – aggiunge – mi rendo conto che, se qualcuno comincia a usare delle armi diverse da quelle della protesta, e quindi comincia a sparare – cosa che avverrà (lo dico qui, la sera del 18 settembre) – non fingiamo di non sapere che questo è un paese pronto per una nuova guerra civile».
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Ceronetti, quel genio italiano troppo scomodo per gli italiani
I cosiddetti “grandi italiani”, ebbe a dire l’autore televisivo Diego Cugia, sono personaggi che normalmente gli italiani neppure conoscono: la maggior parte della popolazione non sa neppure chi siano, che faccia abbiano, per quale ragione debbano essere ricordati. Per molti, i “grandi italiani” diventano tali, all’improvviso, solo quando muoiono: come nel caso dell’immenso letterato Guido Ceronetti, spentosi il 13 settembre all’età di 91 anni. Sul “Corriere della Sera”, Paolo Di Stefano lo rievoca con le parole di Ernesto Ferrero, tratte da “I migliori anni della nostra vita”, dove si vede l’allora quarantenne Ceronetti aggirarsi nei corridoi dell’Einaudi: «Avvolto in impermeabili sdruciti, in baschi da cui spuntavano capelli spiritati che ricordavano quelli di Artaud. Magro, anzi secco, con un naso alla Voltaire che spioveva su una bocca piegata all’ingiù, da cui uscivano riflessioni sapienziali, aforismi, profezie apocalittiche». Per ottenere il ritratto di Ceronetti, scrive Di Stefano, basta aggiungere «la erre arrotata, l’autoironia, lo strascicato accento piemontese, la voce sottile, quasi femminea. E le ossessioni vegetariane: invitato al ristorante, anche nel migliore, immancabilmente tirava fuori dalla cartella il suo olio e le sue tisane, mangiava semi di chissà che, grani di miglio».