Archivio del Tag ‘radicalismo’
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Hopkins: filiera corta, la nostra rivoluzione fa miracoli
Se la crescita globale e globalizzata andava bene per il ventesimo secolo, quando c’erano combustibili fossili a basso prezzo, ora non è più fattibile. Bisogna utilizzare la resilienza e far sì che siano le persone normali a fare accadere il cambiamento. Io viaggio per tutto il mondo e vedo che queste cose stanno accadendo. I governi possono fare delle cose, le aziende e le imprese possono farne altre, ma per superare la crisi ci vuole la gente normale, che rappresenta la grande riserva di risorse, di energia, non sfruttata. Io sono uno dei fondatori del movimento “Transition Town, Transition Network”. Uno dei progetti che abbiamo in atto è proprio la Transition Town, la Totnes. “Transition” è un processo bottom up, parte dal basso verso l’alto per rendere la comunità locale resiliente. Non è un movimento politico, non è una cosa di destra odi sinistra, non è verde, non è contro la crescita né a favore della crescita, ma mira semplicemente a coinvolgere tutte le persone, la popolazione locale, nel creare questa forma di resilienza come forma di sviluppo economico.Come forma di sviluppo abbiamo la creazione di società energetiche, di piccole società agricole, l’agricoltura urbana, il tentativo di rivitalizzare a livello locale le comunità, dare supporto a agli imprenditori locali. Nella città di Bristol, una delle Transition Town, c’è la valuta locale, hanno fatto la Sterlina di Bristol con il supporto dell’amministrazione comunale. Uno dei progetti realizzato recentemente da Transition Network è “The New Economy in Twenty Enterprises”, la nuova economia in venti imprese. Abbiamo mappato tutto il territorio del Regno Unito e scelto venti imprese rappresentative dell’economia di transizione, che potevano essere replicate ovunque, non dipendenti perciò da una particolare situazione geografica o altro. Abbiamo scelto una banca della comunità, la comunità che aveva la propria valuta, piuttosto che il proprio sistema di trasporti, gestito dalla comunità, l’agricoltura, le aziende agricole della comunità, fonti energetiche.Alcune di queste iniziative nascono e si sviluppano in modo del tutto spontaneo; la differenza che fa “Transition” è creare un collegamento tra tutte queste cose. Infatti dalla natura, dall’ecologia, abbiamo imparato che la cosa potente è il collegamento tra i vari elementi, che vanno così a formare un sistema. “Transition” fa questo: tesse il tessuto che collega l’economia locale, consentendo a queste iniziative di parlare le une con le altre facendo sì che la resilienza della comunità diventi una forma di sviluppo economico.“Transition” è nata nel Regno Unito nel 2005 e da allora si è diffusa in tutto il mondo: siamo presenti in 44 paesi e ci sono migliaia di iniziative “Transition” in tutto il mondo. E’ è un movimento che si auto-organizza, nel senso che noi non siamo come un franchising della Coca Cola, che è sempre uguale ovunque esso si trovi, il nostro modello è diverso a seconda di dove nasce.C’è un movimento “Transition”, un’organizzazione, un Network Transition anche in Italia, che è stato uno dei primi posti a replicarlo, con grande successo, nel paese di Monte Veglio, in provincia di Bologna. C’è questa storia molto positiva, dove l’amministrazione locale ha promulgato una risoluzione per rendere il paese più resiliente, quindi esiste “Transition Italy”, Ci sono a disposizione possibilità di training, di collaborare a dei progetti. C’è una rete molto attiva, molto vitale, in Italia, cui ci si può collegare se si è interessati a “Transition”. Spesso pensiamo che il cambiamento possa accadere soltanto attraverso le proteste, i picchetti con i cartelli, le dimostrazioni, e sottovalutiamo quello che è il potere di ritirare il nostro supporto a ciò che non ci piace. C’è un movimento negli Stati Uniti che si chiama Divest, cioè “disinvestite”, che invita e incoraggia a disinvestire dal combustibile fossile per investire invece nelle rinnovabili.Si può disinvestire in un modo molto semplice, cioè con la spesa che facciamo ogni giorno: invece di fare delle scelte di acquisto che vanno a privilegiare l’economia “corporate”, quella delle grandi aziende, si scelgono prodotti che stimolano la resilienza locale, una economia locale, più inclusiva. Ogni giorno possiamo scegliere dove depositare i nostri risparmi, se dare supporto alle aziende locali o meno. Ho letto, per esempio, che negli Stati Uniti, prima che scoppiasse la guerra con l’Iraq, l’amministrazione Bush aveva previsto le dimostrazioni, ma era anche altrettanto sicuro che quella protesta non si sarebbe tradotta in cambiamento di modello del consumo – infatti le persone non hanno smesso di comprare benzina. Quindi il sistema è concepito proprio per lasciar sfogo a questo rumore, a queste dimostrazioni, perché tanto questo non corrisponde a un cambiamento delle azioni delle persone. Oggi, dare supporto all’economia locale rappresenta una delle scelte più radicali che si possano fare.(Rob Hopkins, “La transizione verso le economie locali”, sintesi del video-intervento di Hopkins sul blog di Beppe Grillo del 24 marzo 2014).http://www.beppegrillo.it/2014/03/passaparola_-la_transizione_verso_le_economie_locali_-_rob_hopkins.htmlSe la crescita globale e globalizzata andava bene per il ventesimo secolo, quando c’erano combustibili fossili a basso prezzo, ora non è più fattibile. Bisogna utilizzare la resilienza e far sì che siano le persone normali a fare accadere il cambiamento. Io viaggio per tutto il mondo e vedo che queste cose stanno accadendo. I governi possono fare delle cose, le aziende e le imprese possono farne altre, ma per superare la crisi ci vuole la gente normale, che rappresenta la grande riserva di risorse, di energia, non sfruttata. Io sono uno dei fondatori del movimento “Transition Town, Transition Network”. Uno dei progetti che abbiamo in atto è proprio la Transition Town, la Totnes. “Transition” è un processo bottom up, parte dal basso verso l’alto per rendere la comunità locale resiliente. Non è un movimento politico, non è una cosa di destra odi sinistra, non è verde, non è contro la crescita né a favore della crescita, ma mira semplicemente a coinvolgere tutte le persone, la popolazione locale, nel creare questa forma di resilienza come forma di sviluppo economico.
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Gli 007: l’Italia soffre e protesta, ma non farà rivoluzioni
L’Italia in preda alla grande crisi sta soffrendo molto, ma la protesta è rimasta finora all’interno di limiti accettabili, grazie anche agli ammortizzatori sociali e all’azione moderatrice dei sindacati. Lo sostengono i servizi segreti, nella relazione annuale indirizzata al Parlamento. Secondo l’Aisi, per cui l’estremismo di destra non supera il folklore dei “forconi” o la violenza sporadica degli ultras del calcio, il problema sono le «strumentalizzazioni estremiste», che – potenziate dalla capacità di comunicazione del web – conterrebbero una potenziale «minaccia eversiva». Nel mirino degli 007, le “frange estreme” ai margini dei principali movimenti sociali: No-Tav e No-Muos, movimento per la casa, Terra dei Fuochi, comitati milanesi contro l’Expo 2015. E’ l’Italia che alza la voce nella sua protesta anti-crisi, quella che contesta il Fiscal Compact e i trattati neoliberisti della Troika europea, «con l’obiettivo di aggregare la militanza attorno all’appello “anticapitalista”», una lotta dal basso «per costruire un’alternativa all’attuale sistema economico, sociale e politico».In pratica, segnala Federico Rucco su “Contropiano”, a suscitare l’attenzione dei servizi segreti sono «i movimenti di sinistra e antagonisti», quelli che «intervengono nel “sociale” in tutte le sue declinazioni (sindacali, problema abitativo, ambientale, antimilitarista». Non mancano gli anarchici, che «continuano ad essere identificati come la minaccia principale». Una “lettura politica” estremamente interessante, annota Rucco. Premessa: «Gli ammortizzatori sociali e il ruolo di mediazione dei sindacati confederali – scrive l’Aisi – hanno continuato ad agire da depotenziatori del conflitto, limitando i margini d’intervento delle frange estreme della sinistra antagonista». Per “Contropiano”, «non si potrebbe definire in modo più chiaro quello che siamo andati denunciando in questi anni rispetto al ruolo di Cgil, Cisl e Uil». Le lotte nei call center e nella logistica vengono indicate come «sporadiche, emergenti forme di autorganizzazione operaia».Per i servizi di sicurezza, «il ruolo del web si è confermato determinante quale amplificatore delle iniziative di lotta funzionale allo sviluppo di campagne condivise». Interessante l’analisi sulla dinamica dei conflitti sociali. All’Aisi non sfugge l’importanza della due giorni di mobilitazione nazionale del 18 e 19 ottobre «con lo sciopero generale dei sindacati di base e la manifestazione per il diritto alla casa e contro la crisi». Agli analisti dell’intelligence non sfugge l’importanza di forme di lotta come «la pratica dell’occupazione della piazza», che – pensando a Turchia, Grecia e Spagna – potrebbe «diventare una pratica di aggregazione del consenso facilmente replicabile anche altri ambiti, sia territoriali che tematici». Allarme rosso, ovviamente, per la mobilitazione in Sicilia contro l’insediamento militare Usa del Muos a Niscemi. Secondo i servizi, «il movimento No-Muos continua a vedere impegnati da un lato i “comitati popolari” intenzionati a muoversi in un contesto legale, e dall’altro componenti radicali determinate a compiere, con il supporto di esponenti antagonisti e anarchici siciliani, azioni di lotta più incisive, incentrate prioritariamente sulla tematica antimilitarista».Oltre alla crescita «dell’attivismo degli ambienti antimperialisti a sostegno della causa palestinese», l’Aisi rileva le «proteste di crescente spessore dell’antagonismo lombardo contro l’Expo di Milano 2015» e di quello pugliese contro il gasdotto Tap. Riferendosi poi alla Campania e alla Terra dei Fuochi, i servizi segreti sottolineano che è sotto «attenzione informativa» il tentativo, da parte di «settori dell’antagonismo locale», di «strumentalizzare la tematica, inserendosi nella protesta animata dalla popolazione locale». Ovviamente, aggiunge Rucco, un ampio dossier è dedicato al movimento No-Tav. In valle di Susa, secondo i servizi, c’è una netta differenziazione tra le «frange oltranziste» e la «componente popolare» del movimento, decisa a continuare una “resistenza “pacifica” alla grande opera, «anche se nel suo ambito – sempre secondo i servizi – si sono talora registrate posizioni di acquiescenza ad episodi di sabotaggio». E attenzione: alla lunga, la popolazione potrebbe dare segni di esasperazione. I servizi temono «l’innalzamento del livello di contrapposizione quale inevitabile conseguenza della “reazione” della popolazione a politiche decise dall’alto e al dispositivo repressivo».Quanto alle frange a vocazione violenta – anarchiche o marx-leniniste – la conclusione a cui giungono i servizi segreti è che «si tratta di gruppi esigui, in condizione di minoranza rispetto all’area antagonista». Al più, è possibile temere «azioni violente di limitato spessore operativo da parte di aggregazioni estemporanee o di individualità, intese non tanto a colpire il cuore del sistema, quanto piuttosto a dimostrare la capacità di ribellione, al fine di alimentare una progressiva radicalizzazione delle istanze contestative». Forte la sottolineatura sul ruolo di “pompieri sociali” svolto dalle organizzazioni sindacali, efficaci nel contenere il conflitto sociale in modo che resti «più ribelle che rivoluzionario». Conclude Rucco: «Chissà se l’iconoclastia di Renzi verso i sindacati e gli ammortizzatori sociali terrà conto di questo suggerimento dei servizi di sicurezza».L’Italia in preda alla grande crisi sta soffrendo molto, ma la protesta è rimasta finora all’interno di limiti accettabili, grazie anche agli ammortizzatori sociali e all’azione moderatrice dei sindacati. Lo sostengono i servizi segreti, nella relazione annuale indirizzata al Parlamento. Secondo l’Aisi, per cui l’estremismo di destra non supera il folklore dei “forconi” o la violenza sporadica degli ultras del calcio, il problema sono le «strumentalizzazioni estremiste», che – potenziate dalla capacità di comunicazione del web – conterrebbero una potenziale «minaccia eversiva». Nel mirino degli 007, le “frange estreme” ai margini dei principali movimenti sociali: No-Tav e No-Muos, movimento per la casa, Terra dei Fuochi, comitati milanesi contro l’Expo 2015. E’ l’Italia che alza la voce nella sua protesta anti-crisi, quella che contesta il Fiscal Compact e i trattati neoliberisti della Troika europea, «con l’obiettivo di aggregare la militanza attorno all’appello “anticapitalista”», una lotta dal basso «per costruire un’alternativa all’attuale sistema economico, sociale e politico».
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Giannuli: punita la sinistra, complice dell’euro-dittatura
Il crollo dei socialisti e la parallela affermazione del Fn di Marine Le Pen non hanno sorpreso nessuno, ma l’entità degli spostamento è andata al di là delle previsioni. Il Ps paga l’impopolarità di Hollande, dovuta alle sue scelte di governo, ma, più in generale paga la sua posizione scomodissima di gestore della crisi. La sinistra “riformista” non ha e non può avere spazio nell’ordinamento liberista, perché la sua ragion d’essere sta nella mediazione fra capitale e lavoro, mentre il neoliberismo non cerca alcuna mediazione, perché postula semplicemente il dominio capitalistico e la totale subalternità del lavoro. C’è un errore di fondo: pensare che il liberismo sia la faccia economica del pensiero liberale. Sbagliato: il liberismo è indifferente alla qualità del regime politico e, nella sua variante neoliberista, ha un’anima essenzialmente totalitaria che sopporta la democrazia liberale (debitamente svuotata di senso e con istituzioni rappresentative prive di reale potere decisionale) solo perché teme che un regime autoritario potrebbe ridestare il fantasma del primato della politica.Dunque, non ha bisogno di sindacati e Parlamento, che devono sopravvivere solo come feticci, mentre lo stato sociale deve semplicemente sparire e la stessa Costituzione diventa un inutile intralcio. Ma la sinistra riformista senza Parlamento, sindacati e stato sociale, semplicemente non esiste. E tanto più nel tempo della crisi, quando il capitalismo tende a fuoriuscire dalla democrazia in favore dello stato d’eccezione. La sinistra moderata, che si candida a gestire una forma temperata di dittatura neoliberista, può reggere con difficoltà questa posizione sin quando non precipiti la crisi; dopo, se conquista il governo è costretta solo a fare il lavoro sporco. Quello che rende debole la posizione della sinistra “riformista” è la sua incapacità di immaginare un “altro” rispetto all’ordinamento esistente. Costitutivamente, la sinistra moderata accetta la dittatura dell’esistente e ritiene che il suo compito sia quello di temperare le ingiustizie del capitalismo, con una serie di conquiste parziali e creando “nicchie” di giustizia sociale.Quando poi, con la crisi, il capitalismo travolge irresistibilmente conquiste parziali e nicchie di equità, la sinistra moderata in un primo momento cerca di resistere, poi si appiattisce, in attesa di tempi migliori. Ma, così facendo, perde il contatto con la sua base e inizia fatalmente a declinare, mentre la protesta sociale contro la repressione capitalistica prende altre strade. A volte assai sbagliate o pericolose. Ora, come in altre circostanze storiche simili, la sinistra moderata diventa la sinistra dell’impotenza, perché non comprende che, lungi dal ridurre il tiro e abbassare i toni, queste situazioni esigono un confronto radicale sul modello di società: se il capitalismo tende a fuoriuscire dalla democrazia, alla sinistra spetta fuoriuscire dall’ordinamento esistente in direzione opposta. Nelle circostanze storicamente presenti – qui ed ora – la questione che si pone è quella dell’ordinamento neoliberista dell’Europa, costruito intorno alla Ue ed all’euro: c’è da decidere se cercare di mantenere in piedi tutta la baracca o buttarla giù a spallate.Su questo sta montando una fortissima protesta popolare, di cui il risultato francese è uno dei sintomi, ma non l’unico e non il più pesante. Quello che si capisce, senza troppa difficoltà, è che vasti settori di ceti popolari (che ormai sfiorano il 25%-30% del corpo elettorale, senza tener conto degli astenuti) attribuiscono all’euro e alle politiche di mantenimento di esso (come il Fiscal Compact) la responsabilità dell’inasprirsi della crisi e, conseguentemente, chiedono il superamento della moneta unica. E si badi che la protesta viene sia da chi guarda dal punto di vista dei paesi debitori (come Italia e Grecia), ma anche dio paesi creditori (come la Germania, l’Olanda o la Finlandia), che chiedono di tornare alla moneta nazionale o del Nord Europa, perché si ritengono danneggiati dalla condivisione della moneta con i “peccatori del debito”. Le elezioni francesi, in questo senso, sono solo il vento che annuncia la tempesta di fine maggio.Di fronte a questo, chi si schiera più risolutamente in difesa dell’attuale ordinamento europeo è proprio la sinistra moderala del Pd, Ps francese e spagnolo, Spd. E persino la “Sinistra Europea”- Gue (accusata di essere euroscettica perché osa mettere in discussione il Fiscal Compact) pur vagheggiano una vaga ed improbabile “altra Europa”, non osa mettere in discussione l’attuale assetto istituzionale europeo. A testimoniare dell’incredibile ottusità dei socialisti francesi, viene l’appello alla “solidaritè repubblicaine” verso la destra gaullista. Geniale: c’è una protesta che monta sulla base del fatto che la gente ritiene uguali sinistra e destra moderate ed i socialisti che fanno? Propongono il blocco elettorale comune fra loro e i gaullisti! Con maggiore intelligenza, la destra ha lasciato subito cadere la proposta e si predispone ad avere le mani libere nel rintuzzare l’assalto lepenista. Adesso, magari capite perché è una fortuna che in Italia ci sia il M5s, senza del quale rischieremmo che il malessere si incanali verso la Lega o magari Forza Nuova.Il crollo dei socialisti e la parallela affermazione del Fn di Marine Le Pen non hanno sorpreso nessuno, ma l’entità degli spostamento è andata al di là delle previsioni. Il Ps paga l’impopolarità di Hollande, dovuta alle sue scelte di governo, ma, più in generale paga la sua posizione scomodissima di gestore della crisi. La sinistra “riformista” non ha e non può avere spazio nell’ordinamento liberista, perché la sua ragion d’essere sta nella mediazione fra capitale e lavoro, mentre il neoliberismo non cerca alcuna mediazione, perché postula semplicemente il dominio capitalistico e la totale subalternità del lavoro. C’è un errore di fondo: pensare che il liberismo sia la faccia economica del pensiero liberale. Sbagliato: il liberismo è indifferente alla qualità del regime politico e, nella sua variante neoliberista, ha un’anima essenzialmente totalitaria che sopporta la democrazia liberale (debitamente svuotata di senso e con istituzioni rappresentative prive di reale potere decisionale) solo perché teme che un regime autoritario potrebbe ridestare il fantasma del primato della politica.
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Già tutta con Renzi la stampa che ieri osannava Letta
Uno sente parlare i dirigenti del Pd, soprattutto i lettiani e gli antirenziani. Poi legge i giornali che nove mesi fa salutavano in Enrico Letta l’alba di un nuovo giorno radioso, l’ultima speranza dell’Italia, il capolavoro di Napolitano. E gli viene spontaneo domandare: scusate, cari, ma quando l’avete scoperto che il Nipote era una pippa? No perché, ad ascoltarvi e a leggervi in questi nove mesi, non è che si notasse granché. Benvenuti nel club, per carità: meglio tardi che mai. Ma, prima di saltare sulla Smart del nuovo vincitore, forse era il caso di chiedere scusa: pardon, ci siamo sbagliati un’altra volta. Il fatto è che ci sono abituati, non avendone mai azzeccata una: avevano puntato tutto su D’Alema, poi su Veltroni, persino su Rutelli. Ci avevano spiegato che B. non era poi così male, guai a demonizzarlo, anzi occorreva pacificarvisi. Poi si erano bagnati le mutandine all’avvento di Monti: che tecnico, che cervello, che sobrietà, che loden.Poi tutti con Enrico, a giocare a Subbuteo per non perdersi “la rivoluzione dei quarantenni”. E ora eccoli lì, col solito turibolo e senza fare un plissè, ai piedi del Fonzie reincarnato. Pare ieri che Aldo Cazzullo, sul Corriere, s’illuminava d’immenso: «Napolitano non ha citato Kennedy – “la fiaccola è stata consegnata a una nuova generazione…” – ma ha detto più o meno le stesse cose mentre affidava l’incarico di formare il “suo” governo a un uomo di cui potrebbe essere il nonno [... ]. L’Italia, paese considerato gerontocratico, fa un salto in avanti inatteso e si colloca all’avanguardia in Europa», perché «a Palazzo Chigi arriva il ragazzo che amava il Drive In e gli U2». Ora, oplà, si porta avanti col lavoro ed entra nel magico “mondo di Renzi” passando “dal parrucchiere Tony Salvi e dal suo salone di bellezza”: «Il sindaco viene tre volte la settimana» e «questo è l’unico posto dove stacca il cellulare». Per far che? Ordinare un’impepata di cozze? Ballare il tango?Nossignori. Udite udite: trovandosi dal barbiere, il Renzi «si fa spuntare i capelli (è stato Tony a fargli tagliare il ciuffo)». E nel “bar di Marcello”? Trattandosi di un bar, «fa colazione». Indovinate ora cosa riesce a combinare «nella pizzeria Far West di Pontassieve»? Ordina la pizza. Ma senza mai perdere la sua personalità, ché Lui «non è mai stato e soprattutto non si è mai sentito un ‘uomo di’. Tantomeno di Lapo Pistelli». E «sarebbe sbagliato sopravvalutare l’influenza di amici cui pure è vicinissimo, come Farinetti e Baricco». Perché «nessuno l’ha mai visto in soggezione», neanche davanti a Obama e Mandela. Non porta loden, non gioca a Subbuteo, né si conosce la sua posizione in merito al Drive In e agli U2. Però «il maglione color senape è il regalo di compleanno di Giovanna Folonari», mica cazzi.Il suo discorso dell’altroieri in Direzione, «come tutto il dibattito a seguire, è segnato da una vena lirica». E con la stampa, come andiamo con la stampa? «Tra i giornalisti Renzi ha rapporti di stima con Severgnini e Gramellini, ma non ha amici, se non la coppia Daria Bignardi-Luca Sofri (con Fabio Fazio, dopo una distanza iniziale, si sentono ogni tanto)». E Cazzullo? Su, Aldo, non fare il modesto: eddai, mettiamoci pure Cazzullo e non ne parliamo più. Per non trascurare i dettagli fondamentali, “Repubblica” dedica un’intera pagina alla Smart (“A tutto gas sulla Smart: così il Renzi-style archivia auto blu e berline”). Essa «è leggera, veloce e un po’ prepotente: è giovane, poi, costosa e non italiana. Insomma, è molto Renzi». Il quale – salmodia umido Claudio Cerasa sul “Foglio” – «sfanala con gli abbaglianti della Smart nello specchietto retrovisore della Panda di Letta, decide di premere la frizione, di cambiare marcia, di mettersi in scia, di azionare la freccia, di tentare finalmente il sorpasso». Per fare che? «Diventare l’Angela Merkel del Pd». E, assicura Giuliano Ferrara, «arrivare a Palazzo Chigi con piglio teutonico».Il ragazzo, come dice Sallusti, «ha le palle» più ancora di Palle d’Acciaio. E, aggiunge Salvatore Tramontano sul “Giornale”, «ha rottamato la sinistra che voleva rottamare Forza Italia. Ha messo fine al ventennio. Antiberlusconiano. Ha dimostrato che si può non avere paura del futuro. Come Berlusconi». Del resto, osserva “Repubblica”, «smart sta per “intelligente”, con una sfumatura di brillantezza». La sfumatura che gli fa Tony quando gli spunta il ciuffo. E il discorso in Direzione? Dire sobrio sarebbe troppo montiano: «Asciutto, senza fuochi d’artificio, senza retorica». Decisiva «la camicia bianca», «cambiata un attimo prima in bagno» dal Fregoli fiorentino (prima era “celeste”): «È il suo tratto distintivo, è il richiamo al mito Tony Blair». In effetti, a parte lui e Blair, chi ha mai portato una camicia bianca?“La Stampa” la butta sul mistico: mamma Laura «l’ha affidato alla Madonna… della quale, sopra la porta d’ingresso, c’è una bella icona». Del resto a Pontassieve «la Madonna dev’essere di casa perché il posto dov’è cresciuto Renzi sembra un paradiso». Senza dimenticare che lui «la sua station wagon» la guida personalmente «con la moglie Agnese a fianco e il rosario sullo specchietto». Santo subito. E anche colto, molto colto. La lingua corrierista di Luca Mastrantonio scomoda Dante Alighieri («per il suo libro “Stil novo”»), lambisce «Cosimo de ’ Medici» e «Benedetto Cellini» (che si chiamava Benvenuto, ma fa niente) e s’inerpica su su fino a Steve Jobs (per «il celebre imperativo categorico rivolto ai giovani americani: Stay hungry, stay foolish») e al «Grande Gatsby, l’affascinante outsider dell’età del jazz americana… Gatsby e Renzi sono entrambi personaggi fuori misura, dotati di carisma e ambizione, ma i moventi sono diversi».Tra “L’Unità” ed “Europa” è il solito derby del cuore, anzi della saliva. Un filino più perplessa la prima, anche se Pietro Spataro conviene che «l’Italia ha bisogno come l’aria (sic, ndr) di una svolta radicale», «restare nella palude sarebbe stato il male peggiore», «meglio essere trascinati da un’“ambizione smisurata” che prigionieri di una modesta navigazione”: peccato che né lui né “L’Unità” avessero mai avvertito i lettori che Letta era una palude e una modesta navigazione (che s’ha da fa’ per campa’). Eccitatissimo, su “Europa”, il sempre coerente Stefano Menichini. Solo in aprile cannoneggiava il «ceto intellettuale che del radicalismo tendente al giustizialismo fa la propria ragion d’essere»: «I Travaglio, i Padellaro, i Flores che annullano la persona di Enrico Letta perché “nipote”». Putribondi figuri che osavano dubitare delle magnifiche sorti e progressive del governo Letta: «Personaggi che fanno orrore. Il loro linguaggio suscita repulsione. Il loro livore di sconfitti mette i brividi. Ma in condizioni normali il loro posto dovrebbe essere ai margini… lasciando ai neofascisti la necrofilia e l’intimidazione».Ora invece, con agile balzo, impartisce l’estrema unzione al fu Nipote («Enrico Letta lascia dopo aver tenuto il punto ma essendosi fermato un attimo prima di coinvolgere il paese, il sistema politico e il Pd in uno psicodramma pericoloso») e bussare alla «porta che si sta spalancando a una stagione davvero nuova e inedita dell’intera politica italiana»: quella di Renzi, che «si avvia verso l’obiettivo della vita, il governo, col suo solito passo accelerato, e la notizia fa già il giro del mondo suscitando verso l’Italia una curiosità finalmente positiva». Perché «a ogni suo salto di status, si allarga il numero di chi viene coinvolto dalle sue scelte e dalle sue fortune. Fino a oggi era solo il popolo democratico. Da domani sarà l’intero popolo italiano». Torna finalmente a rifulgere il sole sui colli fatali di Roma.(Marco Travaglio, “Governo Renzi, sulla Smart del vincitore”, da “Il Fatto Quotidiano” del 15 febbraio 2014).Uno sente parlare i dirigenti del Pd, soprattutto i lettiani e gli antirenziani. Poi legge i giornali che nove mesi fa salutavano in Enrico Letta l’alba di un nuovo giorno radioso, l’ultima speranza dell’Italia, il capolavoro di Napolitano. E gli viene spontaneo domandare: scusate, cari, ma quando l’avete scoperto che il Nipote era una pippa? No perché, ad ascoltarvi e a leggervi in questi nove mesi, non è che si notasse granché. Benvenuti nel club, per carità: meglio tardi che mai. Ma, prima di saltare sulla Smart del nuovo vincitore, forse era il caso di chiedere scusa: pardon, ci siamo sbagliati un’altra volta. Il fatto è che ci sono abituati, non avendone mai azzeccata una: avevano puntato tutto su D’Alema, poi su Veltroni, persino su Rutelli. Ci avevano spiegato che B. non era poi così male, guai a demonizzarlo, anzi occorreva pacificarvisi. Poi si erano bagnati le mutandine all’avvento di Monti: che tecnico, che cervello, che sobrietà, che loden.
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Polveriera Europa, replay: la Grande Guerra del 2014
I giornalisti internazionali hanno predetto un’archetipica “situazione Sarajevo” per quest’anno. Una scintilla che potrebbe causare una detonazione come quella che circa un secolo fa vedeva protagonista l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Difficilmente accadrà anche quest’anno che un nazionalista radicale spari al successore al trono dell’impero; nonostante ciò, esistono oggi una serie di sconvolgimenti potenziali in Europa e altrove. Esaminiamo la situazione. La Germania, “fortezza economica” dell’Europa, sembra essere entrata in un periodo di incertezze, proprio come prima dello scoppio della “grande guerra”. All’inizio del nuovo anno, la caduta improvvisa della cancelliera tedesca (forse un presagio della rottura dell’Eurozona?) è stato un evento infausto. La signora Merkel, che appariva come una figura politica indebolita (anche a causa delle stampelle), è riuscita ad assemblare una “grande coalizione”, la cui durata è incerta.La diseguaglianza sociale ed economica nel paese è peggiorata, con la Merkel. Ma anche prima del piccolo incidente sportivo, la cancelliera non sembrava disposta a fare grandi passi (come spesso accade nella miglior tradizione autoritaria ereditata da Guglielmo di Prussia e Germania) e aveva già indicato un “erede al trono”, per assicurare stabilità e continuità anche nel periodo post-Merkel. In altre parole, le politiche economiche neoliberali probabilmente continueranno ad essere applicate in Germania e in Europa per ancora un po’ di tempo. Il 2014 ripropone la situazione del 1914: una possibile Germania imperialista del XXI secolo; il declino della monarchia spagnola e una repubblica italiana fatiscente. Con la sua “volontà d’acciaio”, nel suo terzo mandato la cancelliera sembra determinata a proseguire le politiche draconiane di austerity (distruggendo ulteriormente la crescita economica e favorendo la disoccupazione). Questa scelta implica più fatica e meno guadagni per i milioni di persone che riceveranno questo trattamento, come ad esempio gli spagnoli.A differenza di Berlino e della sua calma apparente, la capitale spagnola si trova ad assistere a continue proteste. Nel frattempo, un vecchio re (a sua volta zoppo per una brutta caduta e costretto ad usare le stampelle per camminare) sta affrontando una “crisi della fiducia in se stesso”. Il re di Spagna Juan Carlos, la cui popolarità un tempo era il simbolo del ritorno alla democrazia dopo il regime franchista, sta assistendo ad una crescente ondata di proteste popolari. Il crescente dissenso della popolazione è fomentato da interminabili scandali dovuti ad episodi di corruzione. La figlia è attualmente coinvolta in uno scandalo per truffa e riciclaggio di denaro. Nel calderone, anche una costante crisi economica. La Spagna riuscì a rimanere neutrale allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.Nel 2014, il paese è ancora in prima linea nella lotta contro l’austerity in Europa. Il futuro della monarchia resta incerto. In tutto il Mediterraneo, il 2013 si è concluso con le strade invase da proteste, come ad esempio in Italia (una repubblica decrepita, se mai è stata una repubblica) con la “protesta dei forconi”. Come la Spagna, l’Italia è contaminata da una profonda corruzione, instabilità sociale, sistematica instabilità istituzionale (a causa delle associazioni criminali), che ostacolano il processo democratico. Ne consegue una diffusione di movimenti demagogici o clownesco-populistici e la crescente xenofobia. Il movimento anti-politico, da quelle parti, sta sfruttando l’ondata di rabbia contro Roma e Bruxelles (il quartier generale dell’Unione Europea).I Balcani, storica polveriera d’Europa, sono nuovamente pronti ad esplodere. Non ci saranno omicidi in programma forse per il prossimo anno nei Balcani, ma sicuramente troverete sul menù un radicale cambiamento politico. Gli scioperi di massa e i movimenti di protesta che sono scoppiati in Grecia nel 2008 si sono estesi agli stati del Sud dei Balcani. Le proteste di massa contro l’aumento del costo della vita, che ha raggiunto livelli usurari (sull’onda della privatizzazione di massa), e contro il costo dell’energia imposto ai consumatori locali, stavano per rovesciare il governo in Bulgaria. Nella vicina Romania, la corruzione dilagante e la lotta epica tra il movimento civile sociale e un’azienda mineraria canadese, sono quasi riusciti a scuotere le fondamenta del governo rumeno. Nonostante quest’elenco di situazioni esplosive, Bruxelles rifiuta ostinatamente di allentare le restrizioni connesse alla libertà di movimento imposta ai cittadini di questi due stati. Il loro ingresso nella “zona Schengen” è stato nuovamente rimandato a data da definirsi. Sicuramente una politica di contenimento di questo tipo sarà pericolosa nel 2014.Oltre ai confini meridionali d’Europa, troviamo ancora forti instabilità nel 2014, che ricordano misteriosamente le tensioni del 1914, quando stava per iniziare la guerra. La promessa di una benigna “primavera araba” si è trasformata in un incubo terribile. In Egitto, Tunisia, Libia, Yemen e, più recentemente, in Libano, si stanno sviluppando conflitti somiglianti a guerre civili. Nel caso della Siria, non è una somiglianza ma una tragica realtà. Questa instabilità regionale rischia di contagiare la Turchia (gli Stati Uniti chiudono le alleanze nella regione). A quei tempi la Turchia era senza dubbio il fulcro dell’Impero Ottomano che governava sulla maggior parte del Medio Oriente. Circa un secolo fa entrò sfortunatamente, già distrutta, nella “grande guerra”. Questo accelerò la sua rovina e condusse al genocidio armeno del 1915. Per quanto tempo ancora Ankara potrà stare a guardare, prima di essere risucchiata nel più ampio conflitto dei suoi vicini? Il 2014 probabilmente sarà determinante.Internamente la Turchia è afflitta da forti dissensi e scossa da continue proteste dal giugno scorso. Il dissenso popolare nei confronti dell’autoritarismo del primo ministro Ergodan non si è placato. La continua lotta tra il movimento laico (kemalista) e quello neo-islamico (e all’interno del partito Akp stesso, “Adalet ve Kalkinma Partisi”, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) rischia di distruggere lo stato turco nel 2014, con le modalità già sperimentate un secolo fa dall’Impero Ottomano. Il potere del governo ha inoltre subito un ulteriore indebolimento negli ultimi tempi a causa degli scandali per corruzione che hanno interessato i suoi vertici. La conseguente epurazione dei corpi di polizia e di pubblica sicurezza ha inasprito la situazione. La tregua con i ribelli curdi nelle zone orientali del paese rimane instabile. In ultimo, il tentativo della Turchia, ormai vecchio di decenni, di diventare un membro dell’Unione Europea, è essenzialmente congelato a causa della repressione contro attivisti e giornalisti locali. Quindi, come nel 2014, il paese è un calderone che galleggia nel mare di instabilità che caratterizza la regione.Passando all’Asia, troviamo crescenti movimenti di protesta in Thailandia, Cambogia e Bangladesh, o rivolte in corso contro le trincerate e corrotte oligarchie locali. Fino ad ora questi sollevamenti sono stati brutalmente repressi con l’ausilio delle forze militari. Chissà se gli eventi attuali saranno la scintilla di un’esplosione simile a quella del 1914. Probabilmente no. Tuttavia questi paesi emergenti sembrano essere nel mezzo di quella che io chiamo “situazione pre-rivoluzionaria”. Quello che vedremo accadere da queste parti nel 2014 somiglia moltissimo allo scenario della rivoluzione messicana (1910-1920), un decennio di dure lotte per liberarsi di quel regime corrotto conosciuto come “Porfiriato”. Se aggiungiamo a quanto detto il rischio di uno scontro militare tra i “grandi poteri” locali, siano essi in crescita o in crisi, così come accadeva nel 1914 (lo dimostra l’attuale ostentazione militare sulle contese Diaoyu e Tiaoyutai nel lontano oriente), si ha realmente l’impressione che la storia si ripeta ancora una volta.(Michael Werbowski, “La polveriera storica, il 2014 come il 1914 in Europa e nel mondo?”, da “Global Research” del 10 gennaio 2014, tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte”).I giornalisti internazionali hanno predetto un’archetipica “situazione Sarajevo” per quest’anno. Una scintilla che potrebbe causare una detonazione come quella che circa un secolo fa vedeva protagonista l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Difficilmente accadrà anche quest’anno che un nazionalista radicale spari al successore al trono dell’impero; nonostante ciò, esistono oggi una serie di sconvolgimenti potenziali in Europa e altrove. Esaminiamo la situazione. La Germania, “fortezza economica” dell’Europa, sembra essere entrata in un periodo di incertezze, proprio come prima dello scoppio della “grande guerra”. All’inizio del nuovo anno, la caduta improvvisa della cancelliera tedesca (forse un presagio della rottura dell’Eurozona?) è stato un evento infausto. La signora Merkel, che appariva come una figura politica indebolita (anche a causa delle stampelle), è riuscita ad assemblare una “grande coalizione”, la cui durata è incerta.
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Sawant: ora gli americani vogliono un partito di sinistra
I tempi stanno davvero per cambiare, a quanto pare: e gli americani ora chiedono un terzo partito, che sia veramente di sinistra. La conquista di un seggio alle elezioni comunali di una grande città americana come Seattle è un evento storico per la candidata del piccolo partito “Alternativa Socialista”: Kshama Sawant è un’immigrata indiana di 41 anni, insegnante universitaria part time ed ex attivista locale di Occupy Wall Street, impostasi alle recenti elezioni amministrative della capitale dello Stato di Washington. Ha conquistato gli elettori di Seattle con un programma radicale di sinistra: aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora, controllo del prezzo degli affitti, tassa milionaria sui maxi-redditi per finanziare il trasporto pubblico e l’istruzione. Nel mirino della leader socialista americana anche le grandi opere, come il progetto iper-inquinante che prevede il transito lungo Seattle di un elevato numero di treni che trasportano il carbone verso il porto di Bellingham, che diverrebbe il più grande terminale di esportazione del carbone nel Nord America.Il successo alle amministrative di Seattle è una conquista storica, dice l’attivista a Marco Orlando in un’intervista per “Micromega”. «Siamo stati gli unici senza finanziamenti delle grandi aziende ma abbiamo ricevuto più di 120.000 dollari, in gran parte piccole donazioni effettuate dalla gente comune». Campagna elettorale porta a porta, grazie a 300 volontari. L’estremo nord-ovest degli States come banco di prova: «La società americana esprime il desiderio di una politica alternativa ai due partiti che, secondo noi, sono entrambi rappresentativi degli interessi delle grandi imprese». Le crisi politiche come il recente “shutdown”, le pressioni di Obama per scatenare la guerra in Siria e le rivelazioni sul Datagate dell’Nsa «hanno minato il supporto sia per i democratici che per i repubblicani». Inoltre, «la grande recessione in corso ha rivelato che il capitalismo non funziona più per la maggior parte delle persone: molti, soprattutto tra i giovani, hanno maturato conclusioni radicali e sono alla ricerca di un’alternativa».Alcuni recenti sondaggi hanno rilevato che solo il 28% degli americani crede che democratici e repubblicani stiano governando in maniera soddisfacente, mentre il 60% riconosce la necessità di un terzo partito politico. «La nostra campagna, quindi, ha dato voce alla rabbia contro le politiche influenzate dalle grandi corporation», continua Kshama Sawant. «Siamo partiti dai bisogni di lavoratori, studenti e poveri di Seattle: un salario di sussistenza, il trasporto pubblico, alloggi a prezzi accessibili e finanziamenti per l’istruzione». Chiaro l’orizzonte intellettuale: «Abbiamo indicato il sistema capitalistico come la radice del problema e presentato il socialismo democratico come alternativa», del resto già presente all’interno di Occupy Wall Street. «Abbiamo conquistato la fiducia e il supporto necessari per dirigere i movimenti locali in direzioni efficaci».Seattle e Minneapolis – altra città dove i socialisti si sono affermati – faranno da apripista per seggi a Washington nelle elezioni di medio termine? «Uno dei principali obiettivi raggiunti era dimostrare l’esistenza di uno spazio a sinistra del Partito Democratico», spiega Sawant. «Abbiamo provato che i candidati indipendenti, non finanziati dalle grandi multinazionali, possono avere un grandissimo impatto sulla politica locale». Il gruppo è già al lavoro per «stringere coalizioni in tutto il paese, in modo da far correre insieme 100 candidati della sinistra indipendente alle elezioni politiche di medio termine: è il primo passo per costruire un partito politico che rappresenti milioni di cittadini americani e non i soliti ricchi».I tempi stanno davvero per cambiare, a quanto pare: e gli americani ora chiedono un terzo partito, che sia veramente di sinistra. La conquista di un seggio alle elezioni comunali di una grande città americana come Seattle è un evento storico per la candidata del piccolo partito “Alternativa Socialista”: Kshama Sawant è un’immigrata indiana di 41 anni, insegnante universitaria part time ed ex attivista locale di Occupy Wall Street, impostasi alle recenti elezioni amministrative della capitale dello Stato di Washington. Ha conquistato gli elettori di Seattle con un programma radicale di sinistra: aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora, controllo del prezzo degli affitti, tassa milionaria sui maxi-redditi per finanziare il trasporto pubblico e l’istruzione. Nel mirino della leader socialista americana anche le grandi opere, come il progetto iper-inquinante che prevede il transito lungo Seattle di un elevato numero di treni che trasportano il carbone verso il porto di Bellingham, che diverrebbe il più grande terminale di esportazione del carbone nel Nord America.
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Chomsky: liberarsi dagli Usa, lo Stato-canaglia impunito
Durante l’ultima puntata della farsa di Washington che ha stupito e divertito il mondo, un commentatore cinese ha scritto che se gli Usa non possono essere un membro responsabile del sistema mondiale, forse il mondo dovrebbe “de-americanizzarsi” – separarsi dallo Stato-canaglia che regna tramite il suo potere militare, ma sta perdendo credibilità in altri settori. La fonte diretta dello sfacelo di Washington è stato il forte spostamento a destra della classe politica. In passato, gli Usa sono stati talvolta descritti ironicamente – ma non erroneamente – come uno Stato avente un unico partito: il partito degli affari, con due fazioni chiamate democratici e repubblicani. Questo non è più vero. Gli Usa sono ancora uno Stato a partito unico, il partito-azienda. Ma hanno una sola fazione: i repubblicani moderati, ora denominati New Democrats (come la coalizione al Congresso Usa designa se stessa).Esiste ancora una organizzazione repubblicana, ma essa da lungo tempo ha abbandonato qualsiasi pretesa di essere un partito parlamentare normale. Il commentatore conservatore Norman Ornstein, dello Enterprise Institute, descrive i repubblicani di oggi come «una rivolta radicale – ideologicamente estrema, sdegnosa dei fatti e dei compromessi, che disprezza la legittimità della sua opposizione politica»: un grave pericolo per la società. Il partito è al servizio dei più ricchi e delle imprese. Siccome i voti non possono essere ottenuti a quel livello, il partito è stato costretto a mobilitare settori della società che per gli standard mondiali sono estremisti. Pazza è la nuova norma tra i membri del Tea Party e una miriade di altri gruppi, al di là della corrente tradizionale. La classe dirigente repubblicana e i suoi sponsor d’affari avevano previsto di usarli come ariete nell’assalto neoliberista contro la popolazione – privatizzare, deregolamentare e limitare il governo, pur mantenendo quelle parti che sono al servizio della ricchezza e del potere, come i militari.La classe dirigente repubblicana ha avuto un certo successo, ma ora si accorge che non riesce più a controllare la sua base, con sua grande costernazione. L’impatto sulla società americana diventa così ancora più grave. Un esempio: la reazione virulenta contro l’Affordable Care Act (Atto sulla Salute Conveniente, è il piano nazionale per la sanità, più noto in Italia come ObamaCare, ndt) e il quasi shutdown del governo federale. L’osservazione del commentatore cinese non è del tutto nuova. Nel 1999, l’analista politico Samuel Huntington avvertiva che, per gran parte del mondo, gli Usa stavano diventando «la superpotenza canaglia», visti come «la più grande minaccia esterna per le loro società». A pochi mesi dall’inizio del mandato di Bush, Robert Jervis, presidente della American Political Science Association, avvertiva che «agli occhi di gran parte del mondo, il primo Stato-canaglia oggi sono gli Stati Uniti». Sia Huntington che Jervis hanno avvertito che un tale corso è imprudente. Le conseguenze per gli Stati Uniti potrebbero essere deleterie.Nell’ultimo documento emanato da “Foreign Affairs”, uno dei principali giornali, David Kaye esamina un aspetto dell’allontanamento di Washington dal mondo: il rifiuto dei trattati multilaterali, «come se si trattasse di sport». Kaye spiega che alcuni trattati vengono respinti in modo definitivo, come quando il Senato degli Stati Uniti «ha votato contro la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità nel 2012 e il Comprehensive Nuclear – Test Ban Treaty (il trattato sulla messa al bando del nucleare – Ctbt), nel 1999». Per altri trattati si preferisce non agire, se riguardano «temi come il lavoro, i diritti economici e culturali, le specie in pericolo di estinzione, l’inquinamento, i conflitti armati, il mantenimento della pace, le armi nucleari, la legge del mare, la discriminazione contro le donne». Il rifiuto degli obblighi internazionali è cresciuto in modo così radicato, scrive Kaye, che «i governi stranieri non si aspettano più la ratifica di Washington o la sua piena partecipazione nelle istituzioni create dai trattati. Il mondo va avanti; le leggi vengono fatte altrove, con limitato (quando c’è) coinvolgimento americano».Anche se non è nuova, la pratica si è effettivamente consolidata in questi ultimi anni, insieme con la tranquilla accettazione, all’interno della nazione, della dottrina secondo cui gli Usa hanno tutto il diritto di agire come uno Stato-canaglia. Per fare un esempio, un paio di settimane fa le forze speciali Usa hanno preso un sospetto, Abu Anas al-Libi, dalle strade della capitale libica Tripoli, portandolo su una nave da guerra per l’interrogatorio, senza avvocato o diritti. Il segretario di Stato americano John Kerry ha informato la stampa che quelle azioni sono “legali” perché sono conformi con il diritto americano, senza suscitare alcun particolare commento. I principi sono validi solo se sono universali. Le reazioni sarebbero un po’ diverse, manco a dirlo, se le forze speciali cubane avessero rapito il prominente terrorista Luis Posada Carriles a Miami, portandolo a Cuba per l’interrogatorio e il processo in conformità alla legge cubana.Tali azioni sono limitate agli Stati-canaglia. Più precisamente, a quegli Stati-canaglia abbastanza potenti da agire impuniti, in questi ultimi anni, fino a svolgere aggressioni a volontà e terrorizzare le grandi regioni del mondo, con gli attacchi dei droni e molto altro. E a sfidare il mondo in altri modi, ad esempio persistendo nel suo embargo contro Cuba, nonostante l’opposizione di lunga durata di tutto il mondo, oltre a Israele, che ha votato con il suo protettore quando le Nazioni Unite hanno condannato ancora una volta l’embargo nel mese di ottobre. Qualunque cosa il mondo possa pensare, le azioni degli Usa sono legittime perché diciamo così. Il principio fu enunciato dall’eminente statista Dean Acheson nel 1962, quando diede istruzioni alla Società americana di diritto internazionale, in base alle quali nessun problema giuridico si pone quando gli Stati Uniti rispondono a una sfida per il loro «potere, posizione e prestigio». Cuba ha commesso quel delitto quando ha sconfitto un’invasione proveniente dagli Stati Uniti e poi ha avuto l’ardire di sopravvivere a un assalto progettato per portare «i terroristi della terra» a Cuba, nelle parole dello storico Arthur Schlesinger, consigliere di Kennedy.Quando gli Stati Uniti hanno ottenuto l’indipendenza, hanno cercato di unirsi alla comunità internazionale del tempo. E’ per questo che la Dichiarazione d’Indipendenza si apre esprimendo la preoccupazione per il “rispetto delle opinioni dell’umanità”. Un elemento cruciale fu l’evoluzione da una confederazione disordinata verso un’unica «nazione degna di stipulare trattati», secondo l’espressione storica del diplomatico Eliga H. Gould, che osservava le convenzioni dell’ordine europeo. Con il raggiungimento di questo status, la nuova nazione otteneva anche il diritto di agire a suo piacimento a livello nazionale. Poteva quindi procedere a liberarsi della popolazione indigena e ad espandere la schiavitù, una istituzione così “odiosa” che non poteva essere tollerata in Inghilterra, come l’illustre giurista William Murray, conte di Mansfield, stabilì nel 1772. L’evoluzione del diritto inglese era un fattore che spingeva la società schiavista a sfuggire alla sua portata. Il diventare una “nazione degna di stipulare trattati” conferì molteplici vantaggi: il riconoscimento da parte degli altri Stati e la libertà di agire senza interferenze a casa propria. Il potere egemonico fornisce l’opportunità di diventare uno Stato-canaglia, sfidando liberamente il diritto internazionale e le sue norme, mentre affronta una crescente resistenza all’estero e contribuisce al proprio declino attraverso ferite auto-inflitte.(Noam Chomsky, “De-americanizzare il mondo”, intervento pubblicato su “Truth Out” il 5 novembre 2013 e ripreso da “Come Don Chisciotte”).Durante l’ultima puntata della farsa di Washington che ha stupito e divertito il mondo, un commentatore cinese ha scritto che se gli Usa non possono essere un membro responsabile del sistema mondiale, forse il mondo dovrebbe “de-americanizzarsi” – separarsi dallo Stato-canaglia che regna tramite il suo potere militare, ma sta perdendo credibilità in altri settori. La fonte diretta dello sfacelo di Washington è stato il forte spostamento a destra della classe politica. In passato, gli Usa sono stati talvolta descritti ironicamente – ma non erroneamente – come uno Stato avente un unico partito: il partito degli affari, con due fazioni chiamate democratici e repubblicani. Questo non è più vero. Gli Usa sono ancora uno Stato a partito unico, il partito-azienda. Ma hanno una sola fazione: i repubblicani moderati, ora denominati New Democrats (come la coalizione al Congresso Usa designa se stessa).
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Revelli: sinistra fallita, s’è accodata al capitalismo in crisi
Quello nato dopo la morte del Novecento è un mondo infinitamente più diseguale. Ed è un mondo che non offre alternative a se stesso. Sono queste le grandi sconfitte storiche della sinistra, ossia di una forza politica e culturale che possiede nel Dna il valore dell’eguaglianza e la capacità di immaginare un’alternativa allo stato di cose presente. La catastrofe del socialismo reale è parte della scomparsa della sinistra, che ne è stata paralizzata. Ma una sinistra che rinuncia a proporre un altrove cessa di essere sinistra. È nata proprio per quello. Accadde nel 1789 a Versailles, quando alla sinistra della presidenza dell’assemblea si schierarono coloro i quali erano contro il potere di veto del Re. Così cadde l’ultimo pilastro dell’Ancien Régime. Non c’è bisogno di alzare la ghigliottina. Basta un voto per sancire la fine di un ordine. E l’inizio di un altro.
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Sinistra? No, grazie: ha fallito, e non vede la catastrofe
La tradizione comunista e socialista, dopo la disfatta dell’esperimento sovietico, non è stata capace di produrre nulla di alternativo in grado di contrastare il pensiero unico, che infatti ha vinto. Gli epigoni di quell’esperienza sono ormai – come scriveva acutamente Alexadr Herzen, pur riferendosi alla generazione del 1848 – «stranieri del tempo loro» e non capiscono di essersi lasciati «sfuggire il presente e il futuro», mentre continuano a «lottare contro il loro stesso passato». Non è questione di “tradimenti”; questi ci sono stati, ma sono stati piuttosto l’effetto che la causa. Il fatto è c’era un buco nella teoria, anzi una voragine. Marx non poteva averla vista, perché quella voragine si aprì dopo di lui, sebbene qualche importante intuizione lui e Friedrich Engels la ebbero. I loro epigoni, invece, ci cascarono dentro.
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Cremaschi: si è arresa anche la Fiom, fine del sindacato?
«Se in un contratto nazionale o aziendale si aumenta l’orario di lavoro, si abbassano le qualifiche, si toglie ai lavoratori il diritto ad ammalarsi, e se la maggioranza dei rappresentanti sindacali e dei lavoratori accetta, la minoranza non può più opporsi. Non può fare sciopero, non può andare in tribunale, non può neanche tutelare quei lavoratori che non ci stanno. Altrimenti è fuori». In puro “sindacalese” questo si chiama “esigibilità”: ed è esattamente la clausola-capestro che ora ha accettato anche la Cgil, con la sola opposizione della componente “Rete 28 aprile”, alla stipula del nuovo patto sulla rappresentanza. Risultato: insieme a Cisl e Uil, anche la Camusso firma con Confindustria. D’ora in avanti, lo stesso Landini può scordarsi una “resistenza” come quella ingaggiata a Pomigliano, quando la Fiom trascinò la Fiat di Marchionne in tribunale. Fine dell’ultimo brandello di radicalismo sindacale: per Giorgio Cremaschi, è una capitolazione storica. Addio sindacato.
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Basta euro: dalla Germania un’alternativa per l’Europa
Mentre Romano Prodi scommette ancora sull’euro, sostenendo che la Germania non vi rinuncerà mai – nel 2013 il fondatore dell’Ulivo sembra la reincarnazione della sbiadita comparsa messa in croce da Paolo Barnard su “Report” all’epoca delle inchieste sulla globalizzazione “ad personam” imposta dalle lobby planetarie alla Commissione Europea – proprio a Berlino debutta il nuovo partito “Alternativa per la Germania”, formato da economisti, accademici e intellettuali di centrodestra, decisi a sbarazzarsi dell’insostenibile e pericolosa moneta comune europea. Stando ai sondaggi, già ora un tedesco su quattro si prepara a votare per loro alle elezioni del 22 settembre 2013, probabilmente decisive per la salvezza o la rovina definitiva dell’Europa. Missione: invertire la rotta, stracciare il Trattato di Maastricht e “liberare” l’Europa del Sud, altrimenti condannata alla catastrofe.
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Cremaschi: questi sindacati non servono più a nessuno
Scomparsi, proprio mentre c’è più bisogno di loro: «Bisognerebbe forse rivolgersi a “Chi l’ha visto?” per avere notizie dei gruppi dirigenti di Cgil, Cisl e Uil», i grandi sindacati ormai spariti anche dallo spettacolo mediatico, dopo aver puntato sulle elezioni: «La Cisl è stata promotrice della lista Monti, mentre la Cgil ha investito tutto sulla vittoria di Bersani». Sindacati da rottamare? Dopo la boutade di Grillo, spara senza pietà sulle grandi confederazioni lo stesso Giorgio Cremaschi, già leader della Fiom, da tempo critico contro gli ex colleghi: si sono buttati in politica in un tentativo disperato di affrontare la crisi del sindacalismo, «che ora sta precipitando dopo anni e anni di scivolamento verso il basso». Tentativo fallito, peraltro, «perché un gran numero degli iscritti alle loro organizzazioni non li ha seguiti e ha votato “5 stelle”», non “fidandosi” più di quelle che ormai appaiono soltanto nomenklature, timide nella denuncia di una crisi devastante, che sta provocando l’estinzione del lavoro e una inaudita catastrofe sociale.