Archivio del Tag ‘Re Sole’
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Il Corriere: gli Stati Generali di Francheschiello, il Re Sòla
«Tornassi indietro, rifarei tutto uguale». Il primo segnale che qualcosa non andava avremmo forse dovuto coglierlo il giorno che Conte andò per la prima volta in Lombardia, il 27 aprile, un paio di mesi dopo il primo caso di Codogno. Insomma, dal premier di un paese che piange 35 mila morti e conta 235 mila casi di Covid-19 ci si sarebbe potuto aspettare qualche dubbio in più sulla propria performance. Ma gli indizi, da allora, si sono succeduti e moltiplicati: un tratto sovrano, non sovranista ma proprio sovrano, una leggera megalomania, una folie de grandeur sembra essersi impadronita dell’ex avvocato del popolo, trasformando la narrazione dell’umile figlio della patria strappato alla sua amata professione, in quella del padre della patria vocato a una missione salvifica. «Rifarei tutto uguale» l’aveva detto solo Trump. E anche «tutto il mondo ci copia». «Renderò edotto il Parlamento», invece, l’avrebbe potuto dire Trump perché lui è presidente, non del Consiglio ma degli Stati Uniti. Invece neanche Trump l’ha detto. Conte sì, quando ha annunciato, con grazia, che dal sistema emergenziale dei Dpcm sarebbe passato a informare le Camere a scadenze fisse. Ma le frasi non dicono tutto. E poi ci vuole un orecchio allenato per coglierne la progressiva enfasi monarchica.Le immagini contano di più. Il cortile di Palazzo Chigi addobbato con guida rossa e standing portavoce per una conferenza stampa aveva una innegabile assonanza presidenziale con la coreografia dell’Eliseo. E il concedersi a microfoni e telecamere del press pack in Piazza Colonna, beh, quello sembra preso pari pari dai meeting informali con la stampa e le tv del premier inglese davanti a Downing Street. Manca il giardino della Casa Bianca, ma forse a Villa Pamphilj si potrà riparare. Naturalmente è bastato dire «Stati Generali» per evocare un sospetto di sovranità, anche se in realtà molto sfortunata, perché l’esito della manovra politica di Luigi XVI per risolvere la grande emergenza del suo regno fu così orribile da restare proverbiale. Ma siamo certi che Conte non avesse di certo in mente quel Borbone quando ha usato la fatidica immagine. Secondo alcuni dei suoi critici si immaginava piuttosto come un predecessore del decapitato, il Re Sole. Secondo altri, più cattivi, il Borbone cui rischia di assomigliare è di un altro ramo: Franceschiello, l’ultimo re delle Due Sicilie.C’è chi dice che Conte lo fa perché si è messo in testa di dotarsi di un suo partito, che i sondaggi danno tra il 12 e il 15, un po’ meno di quanto davano al partito di Monti mentre questi era a Palazzo Chigi, giusto per memoria di quanto transit gloria mundi. C’è chi invece insinua che nella sua testa siano state piantate ambizioni più grandi, visto che nel 2022 si elegge il Capo dello Stato, e se il Parlamento tiene fino ad allora ad eleggerlo dovrebbe essere l’attuale maggioranza. Confesso che non credo a queste maldicenze. La minaccia di farsi un partito, fatta circolare in queste settimane, sembra più che altro un’assicurazione per tenersi i partiti che ha: come minaccia verso i Cinquestelle per esempio funziona, attenti che se andiamo alle urne vi rubo un po’ di voti. E la storia del Capo dello Stato, beh, se uno vuole fare il Capo dello Stato la prima attività cui si applica è quella di conquistarsi qualche amico nell’opposizione, perché la maggioranza politica del momento non è mai bastata per salire al Quirinale, e questa volta meno che mai, visto che dovrebbe contare sulla lealtà di Renzi.Forse le cose sono più semplici, e più casuali. Forse non è estraneo un elemento di improvvisazione che nella cultura politica di Conte è quasi inevitabile, viste le origini. Non si vuol qui dire che possa essere paragonato al personaggio di un dramma romantico di Victor Hugo, Ruy Blas, valletto di un altro conte che si ritrova a fare il primo ministro di Spagna per una somiglianza. Ma certo il nostro Conte è un premier per caso, asceso a Palazzo Chigi per mancanza di un leader vincente alle elezioni, e rimastoci grazie a un ribaltamento di maggioranza. Il fatto è che l’uomo ha un eloquio indubbiamente fluente, forse retaggio di oratoria da avvocato, è intelligente e ha una certa simpatia fisica, e certe volte ci si affida un po’ troppo. Si dovrà dunque essere comprensivi per qualche stonatura istituzionale. Come quando, l’altro giorno, ha risposto al centrodestra che chiedeva di essere consultato nelle sedi istituzionali, che Villa Pamphilj lo è, visto che è sede di rappresentanza, mentre quelli intendevano la sede dei rappresentanti, il Parlamento.Se di qualcosa Conte aveva bisogno per dare forza istituzionale ai suoi Stati Generali quella era proprio la partecipazione delle opposizioni; darne l’annuncio senza averli prima conquistati all’idea è stata dunque più ingenuità e fregola mediatica che arroganza. Né, se il mestiere politico fosse stato più radicato, il premier si sarebbe mai fatto scappare, per descrivere il programma dei lavori, che la prima serata avrebbe visto la partecipazione di «grandi ospiti internazionali», mutuando alla perfezione il lessico di Amadeus. Ma queste sono nuances. Più pericoloso per un aspirante sovrano, soprattutto quando incontra vis-à-vis il popolo come ha fatto l’altra sera parlando con un contestatore in piazza, è mostrare di non sapere che il reddito di cittadinanza non è di 800 euro per tutti, ma molto, molto meno per tanti. Perché ricorda troppo da vicino la storia delle brioche di un’altra personalità coinvolta nella storia degli Stati Generali: Maria Antonietta.(Antonio Polito, “Conte, frasi e scenografie solenni: l’enfasi da Re Sole dell’avvocato del popolo”, dal “Corriere della Sera” del 12 giugno 2020).«Tornassi indietro, rifarei tutto uguale». Il primo segnale che qualcosa non andava avremmo forse dovuto coglierlo il giorno che Conte andò per la prima volta in Lombardia, il 27 aprile, un paio di mesi dopo il primo caso di Codogno. Insomma, dal premier di un paese che piange 35 mila morti e conta 235 mila casi di Covid-19 ci si sarebbe potuto aspettare qualche dubbio in più sulla propria performance. Ma gli indizi, da allora, si sono succeduti e moltiplicati: un tratto sovrano, non sovranista ma proprio sovrano, una leggera megalomania, una folie de grandeur sembra essersi impadronita dell’ex avvocato del popolo, trasformando la narrazione dell’umile figlio della patria strappato alla sua amata professione, in quella del padre della patria vocato a una missione salvifica. «Rifarei tutto uguale» l’aveva detto solo Trump. E anche «tutto il mondo ci copia». «Renderò edotto il Parlamento», invece, l’avrebbe potuto dire Trump perché lui è presidente, non del Consiglio ma degli Stati Uniti. Invece neanche Trump l’ha detto. Conte sì, quando ha annunciato, con grazia, che dal sistema emergenziale dei Dpcm sarebbe passato a informare le Camere a scadenze fisse. Ma le frasi non dicono tutto. E poi ci vuole un orecchio allenato per coglierne la progressiva enfasi monarchica.
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La rockstar Andrea Scanzi e l’Italia dei compagni di merende
Cos’è più avvilente, in questa primavera italiana? L’ex giornalista Andrea Scanzi o l’ex politico Pierluigi Bersani? Il primo intasa i social network per svelare agli italiani la loro immensa fortuna: essere governati da Giuseppi, cioè l’unico premier europeo che vanta almeno due record assoluti, il maggior numero di morti da Covid e il maggior numero di persone rimaste senza assistenza economica, sull’orlo della disperazione. Il secondo, lo Smacchiatore, dopo aver promosso a pieni voti il professor Monti e il suo micidiale pareggio di bilancio in Costituzione, ora torna a dare segni di vita spiegando, in televisione, che tedeschi e olandesi fanno benissimo a massacrare gli italiani, notoriamente un popolo di lazzaroni e incalliti evasori fiscali. Se a festeggiare il fantasma di Bersani è un tripudio di pernacchie, tutt’altra accoglienza incoraggia invece l’autoproclamata “rockstar del giornalismo italiano” (testuale, dal suo profilo Facebook), il cui ego-mongolfiera ora si gonfia a dismisura, nei giorni del lockdown infinito, beandosi dello strabiliante punteggio raggiunto dai suoi gargarismi quotidiani: un milione e mezzo di “like” e oltre centomila visualizzazioni per le imperdibili dirette video. «Ma ho anche dei difetti», ci informa, umilmente magnanimo, il nuovo amicone di Giuseppi.L’espressione “compagni di merende” deriva dal contesto oscuro e luttuoso del Mostro di Firenze, atroce caso nazionale tuttora irrisolto, benché rischiarato (solo nei suoi successivi romanzi, tuttavia) dall’allora commissario Michele Giuttari, a cui tagliarono le gomme dell’auto parcheggiata in questura, dopo essere giunto a un passo dalla verità insieme al pm perugino Giuseppe Mignini, colpito – insieme a Giuttari – dall’accusa di abuso d’ufficio. Poliziotto e magistrato avevano intuito che a macellare 16 persone sulle colline di Firenze non erano stati i patetici Pacciani, Vanni e Lotti, ma ben altri compagni di merende. I tre rozzi paesani (uno dei quali, Pacciani, prima incastrato con prove false e poi ucciso con farmaci letali per un cardiopatico come lui) sapevano probabilmente qualcosa dell’organizzazione chiamata Mostro di Firenze, ma sono stati utilizzati essenzialmente come diversivo per depistare le indagini, allontanandole dalla zona off limits, quella degli intoccabili. Un copione schematico, usato anche nella tragedia nazionale di Tangentopoli: come compagni di merende furono trattati i protagonisti dell’intera classe politica della Prima Repubblica, debolissima e declinante, diffusamente corrotta, ma non pericolosa quanto quella che le sarebbe succeduta, autrice della storica svendita del paese, oggi in ginocchio.La fu-sinistra, in blocco, credette davvero alla storiella dei compagni di merende. E così sostenne compatta tutti i tagli previsti dall’austerity, a partire dal primo decreto Treu sulla flessibilità del lavoro, premessa generale per il crollo dei diritti sociali che ha aperto la precaria stagione dei laureati nei call center e della fuga dei cervelli, poi comodamente imputata al cattivone di turno, l’orrido Berlusconi. Il primo a distaccarsi da quella sinistra, da cui pure proveniva, fu il grande Giulietto Chiesa, appena scomparso. Non hanno capito quello che è successo, ripeteva: non hanno la minima idea di chi siano i poteri a cui hanno consegnato l’Italia. Era avanti anni luce, Giulietto Chiesa: aveva compreso perfettamente che la dicotomia destra-sinistra apparteneva al Novecento, e che la nuova partita fra alto e basso era un derby spietato tra oligarchia e democrazia, tra finanza e politica. Guerra o pace, abuso o diritto, pochi o molti. Le bandiere di ieri? Scolorite, tutte: da custodire, ma come gloriosi cimeli storici, in nome del senso della realtà (quello che il 25 aprile 2020 s’è fatto fatica a rintracciare, sui balconi italiani pavesati in tricolore per lo spettacolo più surreale: prigionieri della post-democrazia, sottoposti al nuovo regime di polizia sanitaria, ma felici di cantare Bella Ciao come se fossero liberi).Se qualcuno pensa di essere in Corea del Nord, ascoltando il soave Scanzi decantare il Caro Leader, si sbaglia: siamo in Italia, più che mai. Siamo nel paese che un tempo era la quinta potenza industriale del pianeta, benché frenata dalle sue piaghe endemiche come l’evasione fiscale, la corruzione dilagante, lo strapotere delle mafie. Vent’anni di disinformazione martellante hanno fatto il miracolo: nessuno dei mali storici è scomparso, ma le condizioni generali sono precipitate grazie alle minacce letali che i Travaglio e gli Scanzi non hanno mai voluto vedere, denunciare, indagare. Sono le regole truccate dell’austerity europea, quelle che oggi costringono Giuseppi a dare di sé uno spettacolo indecoroso, al punto da chiedere scusa – fuori tempo massimo – per l’assoluta inettitudine del suo governo, di fronte a una catastrofe come quella del coronavirus. Ma nemmeno l’ammenda tardiva di Conte basta a smuovere la “rockstar del giornalismo italiano”, che esorta a venerare il Re Sole, l’Avvocato del Popolo venuto da Volturara Appula (e dal Vaticano). Giuseppe Conte? E’ il nulla assoluto, sentenzia Alessandro Di Battista, a lungo coccolato dal “Fatto Quotidiano” e ora ridotto a recitare il ruolo di immacolato outsider. Ma anche il Dibba, in fondo, dice – senza ridere – che un governo di unità nazionale sarebbe ancora peggio di quello in carica, visto che farebbe strame di quel che resta del paese.Sembra l’ultima edizione della storia dei compagni di merende: Di Battista evoca i lupi mannari che, guidati magari dal un super-tecnocrate come Draghi, darebbero la stura a ogni possibile speculazione, maxi-appalti fuori controllo e grandi opere inutili. Di nuovo: non è una barzelletta, l’ha detto veramente (lui, che fa ancora parte del Movimento 5 Stelle, cioè l’illusione ottica nazionale che – dopo aver insediato Giuseppi – ha rinnegato una dopo l’altra tutte le promesse elettorali, nessuna esclusa: Tap e Tav, trivelle in Adriatico, F-35, obbligo vaccinale). Di fronte a questo, il grande Andrea Scanzi non ha trovato di meglio che esprimere la sua arte sopraffina, tra una comparsata e l’altra del salotto televisivo di Lilli Bilderberg Gruber, nel vergare l’immortale capolavoro “Il cazzaro verde”, dedicato al demagogo che straparlò in un comizio di Pieni Poteri – prima che a prenderseli, i Pieni Poteri, e senza avvisare gli italiani, fosse il favoloso Giuseppi, il premier che gli italiani ingrati non si meriterebbero. Riavvolgendo il nastro: che faceva, Salvini, un anno fa? La buttava in caciara, per non dover ammettere il cocente fallimento del governo gialloverde di fronte al suo avversario, il rigore Ue. E che faceva, la stampa? Niente di meglio: la buttava in caciara, anche lei, prendendosela comodamente con il “cazzaro verde”. Facile, no?Sta per scadere, finalmente, il tempo di Giuseppi? Marta Cartabia (Corte Costituzionale, vicinissima a Mattarella) avverte che la Carta non la si può deformare, neppure di fronte a un’emergenza sanitaria. Entro un mese potrebbe subentrare Draghi, si sbilancia in televisione Stefano Zurlo, di “Libero”, il quotidiano di Vittorio Feltri (veterano della stampa italiana, che i Bilderberg Boys del giornalismo-rockstar ormai manganellano, trattandolo come un soggetto psichiatrico). E a proposito di giornalisti: oscuri dilettanti come Giorgio Bocca e Giampaolo Pansa sostenevano che con un politico fosse lecito, al massimo, prendere un caffè. Poco prima che l’Italia si trasformasse nel più grande carcere del mondo, Marco Travaglio si appartò con il primo ministro: cenetta intima in un ristorante sull’Appennino, celebre per i piatti a base di funghi. Anche Giulietto Chiesa frequentava politici, ma nel suo caso si chiamavano Mikhail Gorbaciov. E le cene si succedettero solo quando l’uomo che mise fine alla guerra fredda era ridiventato un privato cittadino, benché illustre. A Gorby diedero anche il Nobel per la Pace. E Giuseppi, a quale Nobel potrebbe ambire? Bel problema, ma niente paura: una formidabile menzione adorante potrebbe sempre scrivergliela l’immaginifico Scanzi, la rockstar di cui l’Italia prostrata dalla galera-Covid sentiva davvero il bisogno.(Giorgio Cattaneo, “La rockstar Andrea Scanzi e l’Italia dei compagni di merende”, dal blog del Movimento Roosevelt del 2 maggio 2020).Cos’è più avvilente, in questa primavera italiana? L’ex giornalista Andrea Scanzi o l’ex politico Pierluigi Bersani? Il primo intasa i social network per svelare agli italiani la loro immensa fortuna: essere governati da Giuseppi, cioè l’unico premier europeo che vanta almeno due record assoluti, il maggior numero di morti da Covid e il maggior numero di persone rimaste senza assistenza economica, sull’orlo della disperazione. Il secondo, lo Smacchiatore, dopo aver promosso a pieni voti il professor Monti e il suo micidiale pareggio di bilancio in Costituzione, ora torna a dare segni di vita spiegando, in televisione, che tedeschi e olandesi fanno benissimo a massacrare gli italiani, notoriamente un popolo di lazzaroni e incalliti evasori fiscali. Se a festeggiare il fantasma di Bersani è un tripudio di pernacchie, tutt’altra accoglienza incoraggia invece l’autoproclamata “rockstar del giornalismo italiano” (testuale, dal suo profilo Facebook), il cui ego-mongolfiera ora si gonfia a dismisura, nei giorni del lockdown infinito, beandosi dello strabiliante punteggio raggiunto dai suoi gargarismi quotidiani: un milione e mezzo di “like” e oltre centomila visualizzazioni per le imperdibili dirette video. «Ma ho anche dei difetti», ci informa, umilmente magnanimo, il nuovo amicone di Giuseppi.
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Vaccini, Carpeoro ai pm: inquisite Burioni, il Patto è illegale
Vaccini, associazione a delinquere: «Il reato è così grave che non c’è bisogno di sporgere denuncia: qualunque Procura dalla Repubblica può procedere d’ufficio». È un appello ai pm italiani, oltre che al presidente Mattarella, quello che l’avvocato Gianfranco Pecoraro (in arte Carpeoro) rivolge, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, il 13 gennaio. Pietra dello scandalo, il “patto per la scienza” promosso dall’immunologo Roberto Burioni e sottoscritto da Beppe Grillo, Matteo Renzi, Enrico Mentana, Carlo Calenda, Vittoria Brambilla e molti altri. Secondo Carpeoro, dirigente del Movimento Roosevelt, la magistratura deve intervenire: quel testo configura gravissime ipotesi di reato, fino all’attentato alla Costituzione, dal momento che si propone di abolire la libertà d’opinione e la libertà di ricerca scientifica, entrambe tutelate dalla Carta costituzionale. Se mai diventasse legge, lo sciagurato “patto” proposto da Burioni, secondo Carpeoro segnerebbe la fine della ricerca scientifica in Italia: per questo, insiste, va fermato subito, per via giudiziaria, prima che sia troppo tardi, in nome della democrazia e dello Stato di diritto.«Se il potere si coagula attorno a questo patto – dice Carpeoro – saremmo poi costretti a cambiare le leggi, cosa molto più difficile. Ecco perché io chiamo tutti quanti alla mobilitazione per fermare il patto: configura il reato, associativo, di attentato alla Costituzione». Carpeoro punta il dito contro Burioni, professore ordinario di microbiologia e virologia presso la facoltà di medicina e chirurgia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. «Quella del San Raffaele – dice – è l’università dove insegnava il professor Cacciari, che aveva come splendida studentessa la figlia di Berlusconi. Un’università ben frequentata: come assistente odontotecnica vi lavorava anche una bella ragazza come Nicole Minetti». Ma, a parte le credenziali accademiche di Burioni, Carpeoro si concentra sul testo del suo “patto”: “Tutte le forze politiche italiane si impegnano a sostenere la scienza come valore universale di progresso dell’umanità”. Aria fritta: c’è qualcuno che potrebbe non impegnarsi a sostenere la scienza come valore universale? Valore che ovviamente “non ha alcun colore politico”, avendo lo scopo di “aumentare la conoscenza umana e migliorare la qualità di vita dei nostri simili”.Sempre aria fritta, aggiunge Carpeoro: chi mai, in Italia, ha evitato di sostenere la scienza? «Il problema – obietta – è che Burioni è convinto che “la scienza” sia lui. E allora, tutti quelli che non sostengono Burioni, non sostengono la scienza. È come il Re Sole: “l’État c’est moi!”, “dopo di me il diluvio”. E siccome Burioni è convinto che la scienza sia lui, tutti quanti devono firmare queste politiche: devono firmare un patto dove si sostiene lui». Continua il testo: “Nessuna forza politica italiana si presta a sostenere o tollerare in alcun modo forme di pseudoscienza e/o di pseudomedicina che mettono a repentaglio la salute pubblica (i.e., negazionismo dell’Aids, anti-vaccinismo, terapie non basate sull’evidenza scientifica, etc.)”. Anche questa è aria fritta, sottolinea Carpeoro, «ma con qualche effetto un po’ più grave, perché bisogna stabilire chi decide qual è la scienza e qual è la “pseudoscienza”, qual è la medicina e qual è la “pseudomedicina”. E sotto questo profilo, Burioni mi deve dire chi lo ha nominato arbitro di questa valutazione».Per il resto, aggiunge Carpeoro, se uno fa una ricerca sull’Aids partendo da presupposti alternativi, o una ricerca sull’efficacia o meno di certi vaccini, questo è perfettamente lecito, in Italia. «Qui stiamo parlando di ricerca: poi è lo Stato che decide. Burioni invece vuole proprio proibire la ricerca – e criminalizzarla, se è alternativa alla sua. Quanto alle politiche sanitarie nazionali, quelle le decide lo Stato: non le decide né Burioni né il suo “patto”». Ma fin qui, prosegue Carpeoro, siamo di fronte solo a delle emerite stupidaggini, non ancora a ipotesi di reato. La musica, secondo l’avvocato, comincia a invece a cambiare a partire dal punto 3 del “patto” di Burioni, dove si legge: “Tutte le forze politiche italiane si impegnano a governare e legiferare in modo tale da fermare l’operato di quegli pseudoscienziati che, con affermazioni non-dimostrate ed allarmiste, creano paure ingiustificate tra la popolazione nei confronti di presidi terapeutici validati dall’evidenza scientifica e medica”. Tanto per cominciare, premette Carpeoro, non può esistere nessun “patto” che impegni le forze politiche italiane a “legiferare e governare”, come dice Burioni, «perché le leggi le approva il Parlamento senza impegni preventivi, dato che i nostri deputati e senatori sono liberi da vincolo di mandato».Ma il peggio viene dopo, dove si propone di “fermare l’operato” dei liberi ricercatori (come i biologi coordinati da Vincenzo D’Anna, che hanno appena scoperto vaccini “sporchi” e inefficaci, privi degli agenti immunizzanti). «Sapete cosa significa, “fermare l’operato di quegli pseudoscienziati”? Significa fermare la ricerca», sottolinea Carpeoro. «Tutte le ricerche alternative a quelle che Burioni considera “scienza” non devono essere fatte. Non si potrà più ricercare, in Italia, perché le forze politiche italiane hanno fatto un patto con Burioni. E se domani si scopre che una determinata cosa, oggi considerata certa, non lo è più?». Secondo Carpeoro, «questo è un reato di attentato alle libertà costituzionali. Il reato è: attentato alla Costituzione. E tutti coloro che hanno firmato – Grillo, Renzi, Mentana – concorrono al reato associativo di associazione per delinquere, per commettere il reato di attentato alla Costituzione. Perché questo testo è contrario al dettato costituzionale di cui all’articolo 21 della Carta costituzionale, che è la libertà di opinione. E inoltre è contrario a un altro articolo, che tutela specificamente la libertà di ricerca scientifica».Sempre secondo Carpeoro, Burioni «lo rincalza, il reato», laddove scrive: “Tutte le forze politiche italiane si impegnano ad implementare programmi capillari di informazione sulla scienza per la popolazione”. Ovvero: «Informazione non sulla scienza: su quello che pensa Burioni». E questa informazione unilaterale andrebbe imposta “a partire dalla scuola dell’obbligo, e coinvolgendo media, divulgatori, comunicatori, ed ogni categoria di professionisti della ricerca e della sanità”. Per Carpeoro, «Burioni vuole instaurare il Minculpop», il ministero della propaganda mussoliniana, «in modo che nessuno – fin dalla scuola dell’obbligo – possa pensarla diversamente, da come la vede lui». Infine, l’avvocato segnala l’articolo che sembra il meno importante, ma è quello a cui probabilmente Burioni tiene di più: tutte le forze politiche italiane si impegnano affinché si assicurino alla scienza («cioè a Burioni»), “adeguati finanziamenti pubblici, a partire da un immediato raddoppio dei fondi ministeriali per la ricerca biomedica di base”. Burioni dice che i soldi devono finire solo a chi la pensa come lui? Quindi, di fatto, si vieterebbero «tutte le forme di ricerca che comportino il mettere in discussione anche cose che sembrano certe». Assurdo: «Nella scienza, tutto è sempre in discussione».Come si può pretendere di limitare il raggio d’azione della ricerca? A quanto pare, Burioni lo taglierebbe in modo netto. E attenzione: «Vuole farlo con un patto di potere. E il potere si è saldato». Ragiona Carpeoro: «Che Grillo, Renzi, Mentana e compagnia cantante si trovino su quello stesso versante, è il segnale che il potere – su quell’argomento – si è saldato». L’avvocato non si rivolge personalmente né a Grillo, né a Renzi, né a Mentana: «So perfettamente che sarebbe inutile, magari per tre tipi diversi di motivi». Spiega: «A Mentana “fa immagine”, il fatto di essere tra queste firme». Renzi? «È un naufrago, alla ricerca disperata di zattere». E Grillo «non l’ha neanche letto, questo “patto”, o se l’ha letto non l’ha capito, e anche ammesso che non l’abbia capito, qualcuno gli ha detto: firma lo stesso». Carpeoro si rivolge direttamente al capo dello Stato, anche in virtù della sua specifica esperienza di costituzionalista: «Gli chiedo se sia ammissibile che circoli, tra la popolazione, un “patto” che contiene due capoversi che esprimono la volontà di attentare alle libertà costituzionali, la libertà di opinione e la libertà di ricerca scientifica».Il suo appello è diretto anche al potere giudiziario: «Mi rivolgo alla magistratura: quelli che ho evidenziato sono reati procedibili d’ufficio», dichiara Carpeoro. «Non c’è bisogno che i “no-vax” sporgano delle denunce. Perché il problema di questo “patto” è che vuole andare a monte: non vuole proibire posizioni politiche di disapprovazione di obblighi vaccinali, vuole proibire che venga svolta tutta quella vasta gamma di ricerca, e di possibilità di ricerca, che possa mettere in discussione certezze scientifiche che non sappiamo se siano di effettiva valenza scientifica o di esclusivo comodo e sfruttamento commerciale». E questo, aggiunge Carpeoro, è un dubbio che tutta l’Italia ha. «E probabilmente, un “governo del cambiamento” dovrebbe porsi il problema di questo dubbio e cercare di fugarlo, nei modi legittimi, legali e trasparenti, previsti dalle nostre leggi». Quindi, aggiunge Carpeoro, «mi appello a tutti i magistrati d’Italia: chiunque di loro può aprire un fascicolo, d’ufficio, per un reato di questo tipo, iscrivendo nel registro degli indagati – da subito – il signor Burioni, il signor Mentana, il signor Renzi, il signor Grillo e tutti gli altri firmatari. Burioni come responsabile, e gli altri come associati al reato, nell’ipotesi del reato associativo (associazione per delinquere), che poi dovrà essere vagliata in sede istruttoria».Aggiunge Carpeoro: «Questo appello lo faccio ufficialmente, perché penso che una cosa così grave meriti una risposta netta, ferma e trasparente. Non sto commettendo nessun reato, nel chiedere giustizia. Chiedo giustizia nei confronti delle persone che ho nominato. Purtroppo, a meno che non realizzino un comportamento di “desistenza operante”, cioè revochino la loro firma a quest’accordo, questi signori sono associati a reato – per il solo fatto di aver firmato questo appello – perché hanno gli strumenti culturali e personali per valutare la gravità di questo appello, nei suoi termini di attentato alla democrazia». Per Carpeoro, quello promosso da Burioni è un testo «gravissimo», di cui le istituzioni – politica, Quirinale e magistrati – dovrebbero valutare seriamente le conseguenze: una precettazione di questo tipo va bloccata sul nascere, sottoponendo al vaglio della magistratura «le persone che hanno pensato di poter fare questo, in uno Stato democratico».Per chiarezza, Carporo ribadisce la sua posizione in merito all’obbligo vaccinale: «Teniamo presente che io non sono un “no-vax”. L’ho detto più volte: voglio solo poter verificare, di volta in volta, e avendo un ampio spettro di informazioni da parte di scienziati che ne capiscano, l’opportunità relativa a stabilire un obbligo per un determinato tipo di vaccino e la conoscenza degli effetti, anche di quelli collaterali, di quel vaccino. Cosa fondamentale, sulla quale, sì, le forze politiche dovrebbero firmare un patto, ben diverso da quello proposto da Burioni». Certo, i vaccini sono anche un business: «Quando la loro utilità e necessità non sono scientificamente dimostrate, e quando non sono spiegati in modo trasparente al pubblico, sono l’espressione di un modo assolutamente perverso di fare del business sulla pelle della gente». Precisa ancora Carpeoro: «Non mi assocerò mai a chi criminalizza i vaccini in quanto tali, o a chi esprime disistima nei confronti dei medici. Bisogna procedere esaminando caso per caso, senza mai giudicare per schemi generali». Aggiunge: «Sull’obbligo vaccinale, in Italia, c’è stata poca chiarezza, e la chiarezza è fondamentale: quando lo Stato stabilisce degli obblighi e tocca il corpo delle persone, ha il dovere legale e morale di essere trasparente. Deve spiegarle bene, le cose: deve spiegare che cosa ti vuole iniettare, anche utilizzando pagine intere sui giornali. Questo non è stato fatto: non sono state chiarite tutta una serie di perplessità sui contenuti di alcuni vaccini».(“Vaccini, associazione a delinquere. Carpeoro ai pm: indagate Burioni, Grillo, Renzi, Mentana e gli altri firmatari del “patto” che chiede di limitare la ricerca scientifica, violando la Costituzione”, dal blog del Movimento Roosevelt del 14 gennaio 2019).Vaccini, associazione a delinquere: «Il reato è così grave che non c’è bisogno di sporgere denuncia: qualunque Procura dalla Repubblica può procedere d’ufficio». È un appello ai pm italiani, oltre che al presidente Mattarella, quello che l’avvocato Gianfranco Pecoraro (in arte Carpeoro) rivolge, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, il 13 gennaio. Pietra dello scandalo, il “patto per la scienza” promosso dall’immunologo Roberto Burioni e sottoscritto da Beppe Grillo, Matteo Renzi, Enrico Mentana, Carlo Calenda, Vittoria Brambilla e molti altri. Secondo Carpeoro, dirigente del Movimento Roosevelt, la magistratura deve intervenire: quel testo configura gravissime ipotesi di reato, fino all’attentato alla Costituzione, dal momento che si propone di abolire la libertà d’opinione e la libertà di ricerca scientifica, entrambe tutelate dalla Carta costituzionale. Se mai diventasse legge, lo sciagurato “patto” proposto da Burioni, secondo Carpeoro segnerebbe la fine della ricerca scientifica in Italia: per questo, insiste, va fermato subito, per via giudiziaria, prima che sia troppo tardi, in nome della democrazia e dello Stato di diritto.
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I periodi di unipolarità? Sono sempre durati solo un attimo
Ai dirigenti, ai politici, agli opinion leader e agli ‘esperti’ americani piace parlare del “momento di unipolarità” e della posizione di “iper-potenza” di cui, nella loro immaginazione, godrebbero nel mondo gli Stati Uniti. Da questa fantasia vengono completamente esclusi tutti i fatti storici ad essa poco convenienti. Il momento unipolare degli Stati Uniti (ammesso e concesso che sia mai esistito) è durato meno di un decennio, dal disfacimento dell’Unione Sovietica, alla fine del 1991, al 15 giugno 2001. Il “momento” degli Stati Uniti è riuscito a malapena ad arrivare alle soglie del 21° secolo. In quel fatidico 15 giugno 2001 si erano verificati due eventi di grande importanza. Primo, il presidente americano George W. Bush aveva tenuto un discorso a Varsavia in cui dichiarava che l’obbiettivo strategico più importante degli Stati Uniti era l’integrazione nella Nato dei tre staterelli baltici, Estonia, Lettonia e Lituania. Nello stesso giorno, Russia e Cina davano vita, insieme ad altre quattro nazioni dell’Asia Centrale, allo Sco, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, la più popolosa e potente organizzazione per la sicurezza internazionale della storia. Quest’anno, lo Sco ha raddoppiato la sua popolazione grazie all’ingresso, in contemporanea, di India e Pakistan, due grandi potenze nucleari con una popolazione complessiva di 3 miliardi di persone, quasi il 40% della razza umana.Con la creazione dello Sco, destinato fin dalle origini a preservare e a proteggere un mondo multipolare dalla dominazione di un’unica potenza, il momento unipolare degli Stati Uniti si è ritrovato morto e sepolto. Questo dato di fatto era stato confermato tre mesi dopo, quando l’attacco terroristico di Al-Qaeda dell’11 settembre 2001 aveva causato la morte di circa 3000 persone. Quel giorno erano morti più americani che durante l’attacco giapponese a Pearl Harbor, nel 1941. George W. Bush avrebbe dovuto essere messo sotto impeachment per la sua grande incapacità. Invece la sua popolarità era salita alle stelle. Pensando che il momento (o l’era) unipolare fosse ancora nel suo pieno splendore, alla fine di quell’anno aveva invaso l’Afghanistan e, meno di due anni dopo, l’Iraq. Gli Stati Uniti sono ancora perennemente impantanati in quelle guerre di cui non si vede la fine. Gli schemi della storia, completamente ignorati dai media, dalla casta degli opinion leader e dal mondo politico americano, questa lezione, invece, ce la insegnano di continuo. Negli ultimi 1500 anni si sono verificati diversi momenti unipolari per quelle grandi potenze che cercavano di dominare il mondo, ma tutte sono collassate nel giro di pochi anni.Quando la Spagna degli Asburgo e i suoi alleati ebbero definitivamente sconfitto la grande flotta del potente Impero Ottomano nella Battaglia di Lepanto, nel 1571, il dominio imperiale della Spagna su tutta l’Europa sembrava assicurato. Ma la Spagna era già invischiata in una rivolta olandese che era iniziata nel 1588. Nei decenni successivi (questa ribellione) si sarebbe rivelata più massacrante degli attuali interventi americani in Afghanistan e in Iraq. Il sogno della dominazione spagnola di Re Filippo II sarebbe stato definitivamente seppellito solo 17 anni dopo Lepanto, nel 1588, con la distruzione dell’Invincibile Armada, la flotta che avrebbe dovuto conquistare l’Inghilterra. Poi era stato il turno della Francia. Il suo dominio sull’Europa sembrava essere stato sancito dalla Pace di Vestfalia, nel 1648. Ma, fra il 1660 e il 1670, Luigi XIV, il re pazzo per la gloria, soprannominato “Re Sole” aveva già ripetuto l’errore della Spagna e aveva impantanato la nazione in una serie di guerre che sarebbero durate quasi mezzo secolo in quelli che ora sono Belgio, Olanda e Germania meridionale. Il momento unipolare della Francia era durato meno di vent’anni.Dopo erano arrivati gli inglesi. Anche dopo aver vinto le guerre napoleoniche contro la Francia, si erano resi conto di non poter dominare il mondo da soli ed erano stati costreti a dividerlo con le assai più conservatrici grandi monarchie d’Europa: la Russia, l’Impero Austro-Ungarico e la Prussia. Nel 1848, i re di Francia, dell’Impero Austro-Ungarico e della Prussia avevano perso molti dei loro poteri o erano stati detronizzati da rivoluzioni popolari e liberali. A quel punto, gli inglesi avevano pensato, proprio come avevano fatto gli americani nel 1989-1991, che fosse finalmente arrivato il loro momento di unipolarità e che sarebbe durato per l’eternità. Il mondo intero avrebbe guardato a Londra per avere guida e saggezza. Non era andata così. Nel 1871, la Prussia, guidata dal suo Cancelliere di Ferro, Otto von Bismarck, aveva unificato la Germania, e sconfitto la Francia, alleata della Gran Bretagna, togliendo in modo umiliante all’Inghilterra ogni possibilità di potere e influenza sull’Europa continentale. Quando gli era stato chiesto che cosa avrebbe fatto se il minuscolo esercito inglese avesse per caso invaso la Germania del Nord, Bismarck aveva risposto che avrebbe mandato la polizia ad arrestarlo. Dopo la Sconfitta della Germania imperiale nella Prima Guerra Mondiale, alla Gran Bretagna era sembrato di poter godere di un altro momento di iper-potere.Gli Stati Uniti con il loro isolazionismo e l’Unione Sovietica [alle prese con i suoi problemi interni] si erano entrambi ritirati temporaneamente dalla scena mondiale. In ogni caso, questa fantasia britannica non era durata neanche fino all’ascesa di Hitler, nel 1933. Due anni prima, nel 1931, il Giappone imperiale aveva occupato la Manciuria, una grossa porzione dalla Cina nord-orientale: i capi militari inglesi erano stati costretti ad ammettere con il Primo Ministro, Ramsay MacDonald, che non c’era nulla che si potesse fare a riguardo. Il momento unipolare della Gran Bretagna era durato solo 12 anni, dal 1919 al 1931. Una volta capiti questi fatti storici, è facile rendersi conto del perché il momento unipolare degli Stati Uniti sia stato anche più breve di quello inglese del 20° secolo, meno di un decennio. Dal 2001 in poi, gli Stati Uniti si sono dissanguati e sfiniti, proprio come avevano fatto la Spagna degli Asburgo, la Francia borbonica e l’Inghilterra post-vittoriana in tentativi inutili, assurdi e ricoli per negare e cercare di opporsi agli inevitabili ricorsi della storia. Questo non dovrebbe sorprenderci, del resto Friedrich Hegel ci aveva avvertito: «L’unica cosa che impariamo dalla storia è che dalla storia non impariamo nulla».(Martin Sieff, “I periodi di unipolarità sono sempre durati solo un momento”, da “Strategic Culture” del 22 settembre 2018, tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).Ai dirigenti, ai politici, agli opinion leader e agli ‘esperti’ americani piace parlare del “momento di unipolarità” e della posizione di “iper-potenza” di cui, nella loro immaginazione, godrebbero nel mondo gli Stati Uniti. Da questa fantasia vengono completamente esclusi tutti i fatti storici ad essa poco convenienti. Il momento unipolare degli Stati Uniti (ammesso e concesso che sia mai esistito) è durato meno di un decennio, dal disfacimento dell’Unione Sovietica, alla fine del 1991, al 15 giugno 2001. Il “momento” degli Stati Uniti è riuscito a malapena ad arrivare alle soglie del 21° secolo. In quel fatidico 15 giugno 2001 si erano verificati due eventi di grande importanza. Primo, il presidente americano George W. Bush aveva tenuto un discorso a Varsavia in cui dichiarava che l’obbiettivo strategico più importante degli Stati Uniti era l’integrazione nella Nato dei tre staterelli baltici, Estonia, Lettonia e Lituania. Nello stesso giorno, Russia e Cina davano vita, insieme ad altre quattro nazioni dell’Asia Centrale, allo Sco, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, la più popolosa e potente organizzazione per la sicurezza internazionale della storia. Quest’anno, lo Sco ha raddoppiato la sua popolazione grazie all’ingresso, in contemporanea, di India e Pakistan, due grandi potenze nucleari con una popolazione complessiva di 3 miliardi di persone, quasi il 40% della razza umana.
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Formica: Renzi asfaltato dai No, poi deciderà il Vaticano
«Il referendum sarà una bomba, sarà come quello sulla Repubblica. Scaverà nel tempo e porrà il problema della post-democrazia dei partiti: senza democrazia o con più democrazia?». Domanda lancinante, e Rino Formica non ha dubbi: vincerà il No. Il socialista più volte ministro, uomo dalle celeberrime definizioni fulminanti («la politica è sangue e merda») è presidente onorario del comitato dei “socialisti per il No”. «La contro-riforma Renzi-Boschi rende irreversibile l’effetto disastroso dell’erosione del principio di rigidità costituzionale», dichiara a Daniela Preziosi che l’ha intervistato per il “Manifesto”. Il rischio: si torna allo Statuto Albertino, «una costituzione flessibile, che poteva essere modificata con legge ordinaria e che consentì di cambiare la forma di Stato, tant’è che con lo Statuto Albertino morì lo Stato liberale e s’impose il fascismo». La contro-riforma renziana punta a demolire le «norme valoriali» della Carta, che «vincola i governi all’equità nella distribuzione, a una politica fiscale progressiva». Formica non ha dubbi: vincerà il No, data «la somma delle difficoltà del paese». Ma non ci sarà il caos, come paventa Confindustria: dopo Renzi «ci sarà un governatore papalino».La “grandezza” della Chiesa starebbe nell’intercambiabilità dei personaggi: «Quello che viene dopo non è mai in continuità con quello di prima perché è la scelta ad hoc per il tempo», dice Formica, nell’intervista ripresa da “Dagospia”. E Renzi? «Viene da un mondo minore, di periferia. I toscani sono, senza offesa, i napoletani del centro-nord. Sono imbroglioni, mercanti e banchieri, massoni e cattolici, guelfi e ghibellini». Quanto ai laici, «devono avere l’intelligenza di usare la risorsa di recupero di fiato che offre la Chiesa». Per recuperare consenso in vista del referendum, domanda Daniela Preziosi, Renzi farà una finanziaria elettorale? «Alla storia degli elettori che si vendono per una mancia credo poco», risponde l’ex ministro. Sicché il Pd cambierà gestione, in caso di sconfitta renziana? «Bersani oggi rappresenta l’area degli ingiustamente umiliati. E come diceva Che Guevara, gli umiliati sono una forza indomabile», sostiene Formica. «Ma la vittoria del No aprirà la riorganizzazione di tutto il sistema politico. Tutta la realtà umiliata nel Pd e soprattutto quella, grande, stomacata. Che è la realtà vera dei 5 Stelle. Gli stomacati di tutto il sistema, e anche della sinistra larga».Per ora però questa sinistra larga è una galassia dispersa, divisa e rissosa, osserva il “Manifesto”. Ma per Formica non è un problema: «Il No sarà una sveglia. Non un fulmine ma un suono di campane. Gli ufficiali si vedranno sul campo». E il Renzi che ora parla di Ponte sullo Stretto non fa venire in mente Berlusconi o Craxi? «Ma no, Craxi era inorganico ai poteri costituiti. Renzi invece sceglie disinvoltamente tutti i giorni un potere da accattivarsi. Non ha il senso dello Stato, è un premier che va a dire “caro Pietro” al presidente di un’azienda che è in causa con lo Stato. Ormai crede di essere un Re Sole. Perché chi non è intelligente va a Palazzo Chigi ed è preso dalle vertigini dell’altezza. Perché tutti fanno capo lì, tutti vogliono qualcosa. E siccome lui non è in condizione di selezionare, sceglie secondo le convenienze. Oggi con i sindacati è finita, poi ha bisogno del consenso, allora riapre la Sala Verde. Poi la richiuderà». Renzi passerà come è passato Berlusconi, che oggi ha ottant’anni? «Berlusconi è stato un traghettatore dalla politica dogmatica alla politica fru-fru dello spettacolo. Ma era uno spettacolo simpatico. Quello di oggi, invece – chiosa Formica – è uno spettacolo triste perché è sfacciatamente sprezzante nei confronti degli imbrogliati. Ma certo Berlusconi è il padre di Renzi, un figlio venuto male, un monello di strada».«Il referendum sarà una bomba, sarà come quello sulla Repubblica. Scaverà nel tempo e porrà il problema della post-democrazia dei partiti: senza democrazia o con più democrazia?». Domanda lancinante, e Rino Formica non ha dubbi: vincerà il No. Il socialista più volte ministro, uomo dalle celeberrime definizioni fulminanti («la politica è sangue e merda») è presidente onorario del comitato dei “socialisti per il No”. «La contro-riforma Renzi-Boschi rende irreversibile l’effetto disastroso dell’erosione del principio di rigidità costituzionale», dichiara a Daniela Preziosi che l’ha intervistato per il “Manifesto”. Il rischio: si torna allo Statuto Albertino, «una costituzione flessibile, che poteva essere modificata con legge ordinaria e che consentì di cambiare la forma di Stato, tant’è che con lo Statuto Albertino morì lo Stato liberale e s’impose il fascismo». La contro-riforma renziana punta a demolire le «norme valoriali» della Carta, che «vincola i governi all’equità nella distribuzione, a una politica fiscale progressiva». Formica non ha dubbi: vincerà il No, data «la somma delle difficoltà del paese». Ma non ci sarà il caos, come paventa Confindustria: dopo Renzi «ci sarà un governatore papalino».
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La Bonino che non t’aspetti e la carica degli impresentabili
Salvare Berlusconi dai processi e garantire a Bersani un vero incarico per un governicchio: è questa la missione delle trattative per il Quirinale? Peccato che i candidati dei partiti «sono da fare accapponare la pelle», protesta Marco Travaglio, che passa in rassegna la nomenklatura quirinalizia come una galleria degli orrori. A cominciare dall’ex “dottor sottile” di Craxi, Giuliano Amato, il premier che fece pestare a sangue i disoccupati a Napoli un anno prima del G8 di Genova, dopo essersi fatto detestare nel fatidico ’92 con il prelievo forzoso del 6 per mille dai conti correnti degli italiani, un bottino da 93.000 miliardi di lire. Un uomo d’oro, da 31.000 euro al mese, presidente dell’Antitrust ignaro del super-trust Mediaset, consulente della Deutsche Bank, membro della Treccani e della scuola San’Anna di Pisa, nonché consigliere di Monti per i tagli ai costi della politica (mai tagliati). Berlusconi lo candidò al Quirinale, il centrosinistra l’ha riempito di cariche: «Nella speciale classifica degli impresentabili è uno dei vincitori di diritto».
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E così i populisti dello spread hanno già vinto le elezioni
Il ruolo dello spread nelle prossime elezioni come in tutto ciò che resta della nostra democrazia è potentemente riemerso. Lo aveva già annunciato Giorgio Napolitano dichiarando di attendere i mercati. Gli hanno fatto eco i mass media e gli attori, da Fiorello a Littizzetto. Così lunedì mattina le banche e i fondi, soprattutto quelli italiani, hanno unito l’utile con il dilettevole. Hanno venduto titoli di Stato che avevano acquistato a prezzo più basso realizzando un discreto utile. E hanno fatto risalire lo spread chiarendo a tutti coloro che si candidano alle elezioni chi comanda davvero. Berlusconi è stato solo un utile idiota di questa operazione di regime. Tutti in Italia sanno che non solo non ha alcuna possibilità di vincere, ma che il suo ritorno in campo è il segno di una crisi della destra e dei suoi penosi gruppi dirigenti che è destinata a durare. Quel vero politico cinico e spregiudicato quale è Mario Monti, ha usato la disperazione del populista di Arcore per mettere sull’avviso tutti e in primo luogo Bersani ed il centrosinistra.
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Beha, il funerale del Pd: no democratic, no party
Ma sì, parliamo del Pd, il partito “che non proietta l’ombra” per manifesta inconsistenza identitaria mentre siamo costretti dalla realtà illegal-precipitosa a parlare ogni giorno del soi dicent Re Sole e della sua corte. Parliamo di un partito “mai nato” parafrasando il fallaciano Rutelli da venticinque anni in sala parto della partitocrazia italiana a fianco della “Morgue” della politica, mentre il mondo ci dice della immane tragedia indonesiana, dei 40 morti di cancro a Praia a Mare per aver respirato coloranti in una fabbrica tessile secondo la Procura di Paola, della richiesta del pm di 13 anni per Pollari per il sequestro Abu Omar di cui lo stesso Rutelli parla assai meno volentieri…