Archivio del Tag ‘Repubblica di Salò’
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Non furono i partigiani a decidere la fine di Mussolini
Giustiziato dai partigiani, il 28 aprile 1945? A correggere la “vulgata” sulla fine del Duce provvedono ormai in tanti. Tra questi, un giornalista come Luciano Garibaldi, autore di veri e propri “scoop” negli anni Novanta. La sua ricostruzione: Mussolini (già condannato a morte due anni prima da Roosevelt e Churchill, secondo Enrico Montermini, come conferma un’intercettazione telefonica della Gestapo) fu “venduto” ai partigiani dal generale Wolff delle SS, ormai accerchiato dagli alleati. A loro volta, i partigiani – che catturarono il dittatore a Dongo, senza che la scorta militare tedesca opponesse resistenza – fu assassinato poco dopo su ordine di 007 inglesi, accorsi sul Lago di Como per far tacere per sempre il Duce e far sparire i documenti che aveva con sé: provavano il complotto ordito con Churchill, fino all’ultimo, per convincere Hitler a deporre le armi in Europa, per poi fare fronte comune contro l’Urss. Doveva morire anche Claretta Petacci – dice Garibaldi – perché era al corrente di tutto. Bisognava impedire che Mussolini e la donna parlassero, con gli americani o anche solo coi giornalisti che stavano affluendo da mezzo mondo per tentare di intervistarlo, dopo la notizia della sua cattura.In un documentario televisivo trasmesso una decina di anni fa, il partigiano Roberto Remund ricorda: nel sollevare il cadavere di Mussolini si accorse che era assolutamente rigido. Sarebbe stato impossibile, se fosse stato davvero fucilato appena un’ora prima, alle ore 17, davanti al cancello di Villa Belmonte, a Giulino di Mezzegra. Significa che era stato fucilato almeno 10 ore prima, ovvero in mattinata. Altra contraddizione clamorosa nel racconto di Lia De Maria, la contadina a casa della quale, dal “capitano Neri” (il partigiano Luigi Canali), erano stati condotti Benito Mussolini e Claretta Petacci. La donna dichiarò che i due prigionieri, a pranzo, avevano mangiato polenta, latte, pane, salame e frutta. L’autopsia sul cadavere di Mussolini, condotta da Caio Mario Cattabeni, stabilì che Mussolini aveva lo stomaco vuoto. Questo sarebbe verosimile se Mussolini fosse stato ucciso, appunto, in mattinata (non nel pomeriggio). Ancora più clamorose le contraddizioni in cui sono caduti i tre protagonisti della presunta fucilazione: Walter Audisio (il famoso “colonnello Valerio”, che avrebbe sparato la raffica di mitra contro Mussolini), Michele Moretti (il partigiano “Pietro”) e Aldo Lampredi (”Guido”, uno dei massimi esponenti del Cln).Su “L’Unità”, Audisio scrisse che, di fronte all’ordine di fucilarlo, Mussolini cadde in preda al terrore, sbavava e lo implorava tremante: «Ma… Ma… signor colonnello…». Molti anni dopo, intervistato dallo storico Giorgio Cavalleri, Michele Moretti (”Pietro”) nel libro “Ombre sul lago” (Arterigere-Chiarotto Editore, 2007) disse che Mussolini – di fronte al “colonnello Valerio” che gli pronunciava la condanna a morte – si mise sull’attenti ed esclamò: «Viva l’Italia!». Quindi: non sbavava e non tremava. A sua volta Aldo Lampredi, braccio destro del “colonnello Valerio”, scrisse un memoriale che lasciò in eredità al Pci (a Cossutta, in particolare), pubblicato da “L’Unità” solo nel 1996, mezzo secolo dopo, anche a seguito delle polemiche scaturite dopo la pubbicazione dei miei articoli su “La Notte” e sul settimanale “Noi”. Nel memoriale, Lampredi raccontò che Mussolini – di fronte al mitra dei suoi giustizieri – si aprì la giacca e gridò: «Mirate al petto!». Tre storie completamente diverse, dunque, dai tre presunti protagonisti della presunta fucilazione. Mussolini “sbavava in preda al terrore”, gridava “viva l’Italia” o urlava “sparate al petto”? Si fossero almeno messi d’accordo: questo fa crollare la versione ufficiale, che Renzo De Felice definì “la vulgata”.Anche Claretta Petacci doveva morire: sapeva tutto, era addirittura la consulente di Mussolini. Non era solo la sua amante: era una donna intelligente, con cui confidarsi e alla quale chiedere consiglio. Chi aveva un valido motivo per sopprimere anche lei? E’ evidente: la Gran Bretagna. Il professor Aldo Alessiani, noto medico giudiziario della magistratura di Roma, dopo l’uscita dei miei articoli, il 9 giugno 1996 mi inviò una copia del suo studio, durato anni, sulla fine di Mussolini: un centinaio di pagine. Aveva studiato le traiettorie dei proiettili, con i fori di entrata e di uscita, basandosi sulle foto scattate al corpo di Mussolini sia sul lettino autoptico che a piazzale Loreto (quei fori non erano compatibili con la fucilazione, ndr). Sempre dopo i miei articoli su “La Notte”, l’ex partigiano Bruno Giovanni Lonati si dichiarò il vero uccisore di Mussolini. Consegnò un libro autobiografico: scritto bene, ma senza prove. Insieme a tre partigiani, avrebbe risposto all’appello rivoltogli da un agente inglese, il “capitano John”, il quale – a loro – avrebbe dato l’ordine di uccidere Mussolini e la Petacci.Gli inglesi dovevano innanzitutto entrare in possesso della documentazione che Mussolini portava con sé. E dovevano essere certi che non potesse essere interrogato, per esempio, dagli americani, né intervistato dalla stampa: a Dongo stavano arrivando giornalisti da tutto il mondo, e doveva essere evitato a tutti i costi un rischio del genere. Era assolutamente da evitare che diventassero di pubblico dominio le manovre poste in atto da Mussolini – in pieno accordo con Churchill – per convincere Hitler a cessare la resistenza in Occidente, per puntare tutte le sue forze contro l’avanzata russa. Cioè: Churchill complottava con Mussolini contro Stalin, tradendo quindi l’alleato sovietico. Di questo, il libro di Ricciotti Lazzero (”Il sacco d’Italia”) è la fonte principale, grazie a lettere fotografate e conversazioni telefoniche registrate dai tedeschi e consegnate al generale Karl Wolff, capo delle SS in Italia.«Credete, Führer – scrive Mussolini a Hitler – il momento è propizio. Il ponte è gettato, ma è un ponte levatoio: possono ancora abbassarlo. Io conosco le vostre reticenze, ma ritengo estremamente necessario rivedere la nostra linea di condotta. Ci costringe una necessità estrema: abbiamo delle grandi possibilità, abbiamo delle armi formidabili in mano, voi le conoscete. Churchill non solo le conosce, ma anche le teme. Datemi il vostro consenso, mettetemi in condizione di poter agire. Le mie relazioni con Churchill sono ancora oggi tali da poter escludere a priori delle difficoltà». Sono frasi di importanza storica: evidentemente, Churchill puntava su Mussolini affinché convincesse Hitler a por fine alla guerra in Occidente, per rivolgersi esclusivamente contro l’Unione Sovietica. Nel momento in cui i sovietici cadevano a milioni, contro l’esercito di Hitler, venire pugnalati in questo modo dal loro alleato inglese era assolutamente inconcepibile.Quindi questo materiale doveva essere fatto sparire. Il carteggio riporta gli incontri avvenuti, durante il periodo della Rsi, tra Mussolini e agenti di Churchill: invitati da Churchill a parlare con Mussolini, per concordare una linea comune che attenuasse la violenza della guerra e arrivasse a un accordo, insieme con Hitler, per fare fronte comune contro l’avanzata del comunismo verso l’Europa occidentale. Il carteggio originale, quello che Mussolini portava con sé, finì subito in mani inglesi, sicuramente, e non certo al movimento partigiano. Però ne erano state fatte moltissime copie, anche fotografiche, consegnate a personaggi di cui Mussolini si fidava. Ebbene: non una, di queste copie, è mai saltata fuori: evidentemente, anch’esse ritornarono a Churchill.Conobbi personalmente il generale Wolff, plenipotenziario di Himmler. Wolff trattò con Donovan (William Joseph Donovan, generale dell’intelligence Usa, ndr), che gli garantì la vita e un ritorno in libertà in tempi abbastanza rapidi. E’ verosimile che in quella trattativa rientrasse anche l’impegno di Wolff a far sì che il Duce venisse catturato? La prova scritta di questo impegno non esiste, ma dovrebbe essere sufficiente il celebre libro dello scrittore e storico tedesco Erich Kuby, dal titolo “Il tradimento tedesco” (Rizzoli, 1983), per dedurne che sicuramente partì dal generale Wolff l’ordine di non proteggere il Duce e lasciarlo nelle mani dei partigiani. E basta rileggersi la penosa risposta che Wolff diede a Erich Kuby, che gli chiedeva perché gli uomini della colonna Wallmeier non avessero fatto nulla per difendere il Duce. La risposta di Wolff fu la seguente: «Poiché Mussolini non aveva rispettato la parola d’onore datami di non lascare Gargnano (sul Lago di Garda) per recarsi a Milano, ed era partito per Milano il 18 aprile, è perfettamente giustificabile che i tedeschi non lo abbiano difeso a Dongo».Penoso: vuol dire che i tedeschi dovevano vendicarsi di Mussolini per il fatto che fosse andato a Milano senza avvertire Wolff? Non ha senso, è una stupidaggine. La risposta, in realtà, prova che l’ordine di non proteggere Mussolini, lasciandolo nelle mani dei partigiani, era stato veramente impartito da Wolff a Wallmeier, che – guardacaso – nessun giornalista storico riuscì mai a individuare, a ripescare e a intervistare. Addirittura non trovarono neanche i suoi documenti originari, la carta d’identità; tant’è che, secondo alcuni storici, il suo vero nome era Schallmeier, e non Wallmeier. Non riuscì a rintracciarlo nemmeno Erich Kuby, grande giornalista. Il che dimostra che era stata una trappola, organizzata dall’alto, proprio col preciso scopo di consegnare Mussolini a quelli che, poi, sarebbero stati i suoi esecutori. Questa è storia: una pagina che va riletta e riscoperta, assolutamente.(Luciano Garibaldi, dichiarazioni rilasciate nel video “La morte di Mussolini e i misteri inglesi”, con Enrico Montermini, su YouTube il 20 dicembre 2020. Tra i libri citati da Garibaldi: Giorgio Cavalleri, “Ombre sul lago”, Arterigere-Chiarotto Editore, 2007; Bruno Giovanni Lonati, “Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta: la verità”, Ugo Mursia Editore, 1994; Ricciotti Lazzero, “Il sacco d’Italia. Razzie e stragi tedesche nella Repubblica di Salò”, Mondadori, 1994).Giustiziato dai partigiani, il 28 aprile 1945? A correggere la “vulgata” sulla fine del Duce provvedono ormai in tanti. Tra questi, un giornalista come Luciano Garibaldi, autore di veri e propri “scoop”, negli anni Novanta. La sua ricostruzione: Mussolini (già condannato a morte due anni prima da Roosevelt e Churchill, secondo Enrico Montermini, come conferma un’intercettazione telefonica della Gestapo) fu “venduto” ai partigiani dal generale Wolff delle SS, ormai accerchiato dagli alleati. A loro volta, i partigiani – che catturarono il dittatore a Dongo, senza che la scorta militare tedesca opponesse resistenza – fu assassinato poco dopo su ordine di 007 inglesi, accorsi sul Lago di Como per far tacere per sempre il Duce e far sparire i documenti che aveva con sé: provavano il complotto ordito con Churchill, fino all’ultimo, per convincere Hitler a deporre le armi in Europa, per poi fare fronte comune contro l’Urss. Doveva morire anche Claretta Petacci – dice Garibaldi – perché era al corrente di tutto. Bisognava impedire che Mussolini e la donna parlassero, con gli americani o anche solo coi giornalisti che stavano affluendo da mezzo mondo per tentare di intervistarlo, dopo la notizia della sua cattura. La celebre fucilazione partigiana a Giulino di Mezzegra? Sarebbe stata soltanto una macabra messinscena: Mussolini era già morto, da ore.
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Da Scurati solo mezzo Mussolini, per compiacere la casta
Immaginate una monumentale biografia in tre volumi di un grande personaggio vissuto sulla terra 62 anni non compiuti. E immaginate che la biografia cancelli i primi trentasette anni della vita di costui e si dedichi solo ai restanti venticinque anni. Che razza di biografia è? Dicono per scusarsi che è un’opera romanzata e non storica, e quindi c’è licenza letteraria, ma è curioso che prima venga presentata come la lettura storica e psicologica del personaggio e poi si omettano i tre quinti della sua vita. Ma il paradosso, l’incongruenza e la debolezza dell’impianto esplodono quando si considera che in quei primi trentasette anni, il Personaggione non era vissuto in casa, in un ricovero, all’ombra di mammà. Ma in quei primi decenni della sua vita aveva fatto storia, politica, avventura, giornalismo, guerra e rivoluzione da protagonista. Però l’aveva fatta in una direzione opposta rispetto a quella che ha poi perseguito. Per chi non l’avesse ancora capito, sto parlando del Mussolini di Antonio Scurati, che ha vinto il Premio Strega con largo scarto sui concorrenti. E tutti coloro che ne hanno celebrato il testo come lezione storica e opera pedagogica, hanno omesso questo piccolo particolare. Che nella monumentale biografia, di ottocentoquaranta pagine solo il primo tomo, non c’è l’infanzia di Benito, non c’è la giovinezza, non c’è il suo lavoro di maestro elementare, i suoi amori, il suo matrimonio, i suoi figli.Ma non c’è soprattutto il suo socialismo anarchico e rivoluzionario, il suo carcere per l’attività sovversiva, la fuga in Svizzera, le settimane rosse, la scalata nel partito socialista, la direzione de l’Avanti! con forte impennata delle vendite, e la guida della corrente massimalista del Partito Socialista, dietro di lui l’ala che diventerà poi comunista, Gramsci incluso. Quei comunisti che lo stesso M. riconobbe come “figli miei”. E poi i suoi scritti, le sue opere, la sua scoperta, primo tra tutti a sinistra, di Nietzsche come pensatore politico, in un breve saggio del 1908. Marx e Nietzsche nel primo Mussolini si davano la mano (Venditti dixit). E poi la fondazione del Popolo d’Italia e il passaggio all’interventismo, con un ruolo decisivo nel giornalismo italiano, la collaborazione delle grandi firme del suo tempo, la partenza per la guerra, la trincea, la ferita al fronte, le stampelle. Si può scrivere una monumentale biografia di Mussolini trascurando tutto questo precedente, come se fosse irrilevante per capire il personaggio, la psicologia e la storia di Mussolini e della sua creatura? Scurati, anzi Trascurati. Cosa può capire di Mussolini qualcuno che legga solo quella biografia?Non riprendo gli strafalcioni di Scurati sul piano storico, che Galli della Loggia fece notare, e gli concedo l’attenuante di essere un letterato e non uno storico. Ma come si fa a voler entrare nel personaggio Mussolini, come lui dice, “riscrivere la sua storia dal di dentro”, sentirsi quasi posseduto dal suo demone, e trascurare quel Mussolini lì, il Rivoluzionario, per dirla con un tomo della biografia mussoliniana di Renzo De Felice, da cui discende l’altro Mussolini, il Duce, per citare un altro tomo dell’opera defeliciana? E ora che del suo M. si sta facendo un mattone ennesimo da lanciare contro il protagonista e il suo regime, viene facile il dubbio di un’omissione voluta, ideologica, e non proprio onesta: per non dire che il fascismo nasce dal socialismo come il comunismo, di cui è gemello. E molti dei suoi tratti totalitari, violenti, bellicosi vengono da lì, dal socialismo rivoluzionario. In origine Scurati aveva presentato la sua opera come non animata da spirito antifascista, ritenendo anzi che “la pregiudiziale antifascista è caduta”. Pensavo che fosse caduta almeno per lui, perché per il resto non mi pare proprio. E invece l’altra sera con quel pugno chiuso all’assegnazione dello Strega Antifascista, Scurati ha mostrato che non era caduta manco per lui.E poi il solito richiamo ai padri e ai nonni sempre antifascisti (e una nonna che salvò gli ebrei la rimediamo?). Allora mi chiedo perché Scurati all’uscita del libro non ha calcato la mano contro Mussolini? Magari voleva conquistare quell’importante fetta di lettori che è interessata a Mussolini senza pregiudiziali, gente che vuol capire, che vuol vedere il bene e il male del personaggio, o gente che persino nutre qualche simpatia per la figura di Mussolini. Scurati voleva vendere il suo libro anche a loro. Aveva poi annunciato che non avrebbe mai concorso a un premio, aveva detto parole brutte sulla mafia dei premi e sul fatto che i giochi vengono decisi a tavolino molto prima. E allora come si spiega il suo ritorno al Mussolini Male Assoluto, padre del Fascismo Male Eterno? Di mezzo c’è stata l’adozione de “La Repubblica” del suo M. che presentava la sua opera letta da Marco Paolini come il “Duce smascherato”. E di mezzo c’è stata l’adozione della Casta che decide i premi.È l’eterno problema dello Scrittore: resto indipendente, fuori dalle consorterie, da quelle che Montale definiva camorre letterarie, e però mi taglio fuori dalla fama, dai premi, dai riconoscimenti, dalle serie televisive, e vivo una decorosa clandestinità, una dignitosa solitudine? Oppure no, tiro anch’io il mio pugnetto da compagno contro il Mostro, mi converto anch’io alla Religione Antifascista, presento il mio libro come un’opera pedagogica per trasbordare i lettori, in gran parte estranei a quella pregiudiziale, all’altra riva, fino a convertirli alla fede antifascista? Temo che Scurati abbia fatto questa scelta. E così comincia anche lui la sua danza sul Cadavere, il suo rito cannibale: traggo da M. temi, viscere e lettori, mi nutro di lui per vituperarlo. Scurati tra la ricerca della verità e quella del successo ha scelto la seconda, per dirla con Guzzanti. Le camorre ideologico-letterarie, commosse, posero.(Marcello Veneziani, “Mussolini a metà”, da “La Verità” del 7 luglio 2019. Il libro: Antonio Scurati, “M. Il figlio del secolo”, Bompiani, 848 pagine, 24 euro. Nel volume “Il compasso, il fascio e la mitra” pubblicato nel 2017 da UnoEditori, Gianfranco Carpeoro rivela che Mussolini ai suoi esordi fu sostenuto dalla massoneria più progressista e anticlericale, per poi accettare invece l’appoggio del Vaticano, virando drasticamente a destra la sua linea politica sotto la pressione cattolica. Il saggio mette a fuoco i retroscena legati al faccendiere massone Filippo Naldi, all’epoca in cui Mussolini – già a libro paga dei servizi segreti inglesi – si vide finanziare il varo del “Secolo d’Italia”. Lo stesso Naldi, secondo Carpeoro, sarebbe stato il vero uomo del destino, per il futuro Duce. Naldi avrebbe infatti organizzato l’omicidio di Giacomo Matteotti, che aveva scoperto che il Re – non il Duce – era implicato nella super-tangente ottenuta dalla Standard Oil per le forniture di petrolio all’Italia. Infine, lo stesso Naldi avrebbe “bruciato” il piano del 25 luglio 1943, cioè la deposizione del Duce segretamente concordata dal dittatore stesso, coi gerarchi fascisti, per far uscire l’Italia dalla guerra. Naldi ne avrebbe tempestivamente informato il Vaticano, che a sua volta trasmise l’informazione ai nazisti, provocando così la tragedia finale della Repubblica di Salò messa in piedi per volere di Hitler).Immaginate una monumentale biografia in tre volumi di un grande personaggio vissuto sulla terra 62 anni non compiuti. E immaginate che la biografia cancelli i primi trentasette anni della vita di costui e si dedichi solo ai restanti venticinque anni. Che razza di biografia è? Dicono per scusarsi che è un’opera romanzata e non storica, e quindi c’è licenza letteraria, ma è curioso che prima venga presentata come la lettura storica e psicologica del personaggio e poi si omettano i tre quinti della sua vita. Ma il paradosso, l’incongruenza e la debolezza dell’impianto esplodono quando si considera che in quei primi trentasette anni, il Personaggione non era vissuto in casa, in un ricovero, all’ombra di mammà. Ma in quei primi decenni della sua vita aveva fatto storia, politica, avventura, giornalismo, guerra e rivoluzione da protagonista. Però l’aveva fatta in una direzione opposta rispetto a quella che ha poi perseguito. Per chi non l’avesse ancora capito, sto parlando del Mussolini di Antonio Scurati, che ha vinto il Premio Strega con largo scarto sui concorrenti. E tutti coloro che ne hanno celebrato il testo come lezione storica e opera pedagogica, hanno omesso questo piccolo particolare. Che nella monumentale biografia, di ottocentoquaranta pagine solo il primo tomo, non c’è l’infanzia di Benito, non c’è la giovinezza, non c’è il suo lavoro di maestro elementare, i suoi amori, il suo matrimonio, i suoi figli.
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Bombacci: morì fascista il primo leader comunista italiano
Cent’anni fa apparve in Italia il primo leader comunista, amico personale di Lenin; morì poi da fascista, fucilato a Dongo e appeso per i piedi dai suoi compagni in Piazzale Loreto, accanto a Mussolini. Si chiamava Nicolino Bombacci e fu eletto nel 1919 alla guida del partito socialista. Era il capo dei massimalisti, somigliava non solo fisicamente a Che Guevara e ricordava Garibaldi. Era un puro e un confusionario; rappresentava, per dirla con De Felice, il comunismo-movimento, rispetto a chi poi si arroccò nel comunismo-regime. Fu lui a volere la falce e martello nella bandiera rossa, sull’esempio sovietico. Questa storia rimossa dai comunisti merita di essere raccontata. Il 1°maggio di cent’anni fa era nato a Torino “Ordine Nuovo”, fondato da Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga e Palmiro Togliatti. A quel tempo, disse poi Tasca (che, esule dal Pci, finì a Vichy con Pétain): «Eravamo tutti gentiliani». Sull’onda della rivoluzione bolscevica nel giugno di cent’anni fa “Ordine Nuovo” propose i soviet in Italia. Quel progetto li ricongiunse a Bombacci e insieme poi fondarono a Livorno il Partito Comunista. «Deve la sua fortuna di sovversivo a un paio d’occhi di ceramica olandese e a una barba bionda come quella di Cristo»: così Mussolini dipinse il suo antico compagno, poi nemico e infine camerata Bombacci.Romagnolo e maestro elementare come Mussolini, cacciato anch’egli dalla stessa scuola perché sovversivo, compagno di lotte e di prigione del futuro duce, e nemico dei riformisti, Bombacci si separò da Mussolini dopo la svolta interventista. Per tornare al suo fianco a Salò ed essere ucciso, dopo aver gridato “Viva il socialismo, viva l’Italia”. A differenza di Mussolini, Bombacci veniva dal seminario (come Stalin e Curcio) e da una famiglia papalina di Civitella di Romagna. Bombacci diventò il principale bersaglio dei fascisti che gli urlavano “Con la barba di Bombacci / faremo spazzolini. Per lucidare le scarpe di Mussolini” (la stessa canzone fu riadattata al Negus quando l’Italia fascista conquistò l’Etiopia). I fascisti lo trascinarono alla gogna, tagliandogli la barba. Zazzera biondastra e incolta, volto magro, zigomi sporgenti, malinconici occhi turchini e una voce appassionata, impetuoso trascinatore di piazza. Così lo ricordava Pietro Nenni: «Una selva di capelli spettinati, uno scoppio di parole spesso senza capo né coda. Nessun tentativo di convincere, ma lo sforzo di piacere. Un’innegabile potenza di seduzione. E in tutto questo, un soffio di passione…».Sposato in chiesa, tre figli e varie storie d’amore alle spalle, Bombacci si schierò con Gramsci dalla parte di D’Annunzio a Fiume con la Carta del Carnaro. Quando nacque il Pcd’I, Mussolini dirà in un discorso alla Camera: «Li conosco i comunisti, sono figli miei». Bombacci fece uscire il folto gruppo parlamentare socialista dalla Camera prima che parlasse il Re nel giorno dell’insediamento, al grido di “Viva il socialismo”. Bombacci fu l’unico dei comunisti italiani in diretti rapporti con Lenin. Bombacci ricevette da lui denaro, oro e platino per la propaganda. A Mosca, Bombacci tornò coi vertici del partito nel quinto anniversario della rivoluzione bolscevica, il 9 novembre del 1922 che nel calendario russo coincideva, col nostro 28 ottobre: quell’anno ci fu la Marcia su Roma. Bombacci sostenne l’intesa tra l’Italia fascista e l’Urss comunista, anche in Parlamento. Poi suggerì ai comunisti d’infiltrarsi nei sindacati fascisti (strategia che Togliatti poi teorizzò come “entrismo”). Fu lui il primo comunista a entrare (indenne) nella Camera con Mussolini al potere.Continuò a far la spola con Mosca, soprattutto dopo che l’Italia fascista era stata il primo paese occidentale a riconoscere l’Urss e ad avviare rapporti economici. Bombacci tornò a Mosca il 1924 ai funerali di Lenin ed era ritenuto il n.1 in Italia. Fu espulso dal partito quattro anni dopo, per deviazionismo e indegnità, dopo aver dato vita a un’agenzia di export-import tra l’Italia e l’Urss; Bombacci fu il precursore delle coop rosse. Per tutta la vita navigò tra i debiti; Mussolini aiutò i suoi famigliari e gli trovò un’occupazione all’Istituto di cinematografia educativa, in una palazzina di Villa Torlonia, proprio dove risiedeva il Duce. E gli finanziò un giornale fasciocomunista degli anni trenta, “La Verità”, che evocava la “Pravda” a cui Bombacci aveva collaborato. Odiato da Starace e dai fascisti, la “Verità” continuò a uscire fino al ’43. Dalle sue pagine teorizzò l’autarchia. Bombacci sognava d’unificare le rivoluzioni di Roma, Mosca e Berlino; ma con la rottura del patto Molotov-Ribbentrop, il comunismo si alleò con le plutocrazie occidentali, e lui, anti-capitalista, si schierò col fascismo.Ai tempi di Salò, Bombacci aveva i capelli corti e la barba non era più incolta; una palpebra gli si era abbassata davanti all’occhio, vestiva con abiti gessati. Ma coltivava ancora il suo velleitario socialismo. A Salò il sindacalista Francesco Grossi lo ricorda «caloroso nell’esporre, gli brillavano gli occhi chiari ed acuti che rivelavano una totale pulizia interiore». Perorò la socializzazione nella prima bozza della Carta di Verona e sognò la nascita dell’Urse, l’unione delle repubbliche socialiste europee. Con Carlo Silvestri voleva riaprire il caso Matteotti per dimostrare che quel delitto fu messo di traverso tra Mussolini e il socialismo per evitare il riavvicinamento. Con Silvestri Bombacci promosse l’estremo tentativo di consegnare le sorti della Rsi al partito socialista di unità proletaria con un messaggio consegnato a Pertini e a Lombardi, che i due leader partigiani cestinarono. Bombacci continuò a predicare tra gli operai la rivoluzione sociale: nel suo ultimo discorso a Genova il 15 marzo del ’45 ritrovò la foga della sua gioventù; lo raccontò in una lettera entusiasta a Mussolini. Fucilato con Mussolini a Dongo, fu esposto col cartello “Supertraditore”. Cadde cogli occhi azzurri spalancati verso il cielo, come si addice a un sognatore ad occhi aperti.(Marcello Veneziani, “Cent’anni fa il primo comunista italiano – che morì fascista”, da “La Verità” dell’11 giugno 2019).Cent’anni fa apparve in Italia il primo leader comunista, amico personale di Lenin; morì poi da fascista, fucilato a Dongo e appeso per i piedi dai suoi compagni in Piazzale Loreto, accanto a Mussolini. Si chiamava Nicolino Bombacci e fu eletto nel 1919 alla guida del partito socialista. Era il capo dei massimalisti, somigliava non solo fisicamente a Che Guevara e ricordava Garibaldi. Era un puro e un confusionario; rappresentava, per dirla con De Felice, il comunismo-movimento, rispetto a chi poi si arroccò nel comunismo-regime. Fu lui a volere la falce e martello nella bandiera rossa, sull’esempio sovietico. Questa storia rimossa dai comunisti merita di essere raccontata. Il 1°maggio di cent’anni fa era nato a Torino “Ordine Nuovo”, fondato da Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga e Palmiro Togliatti. A quel tempo, disse poi Tasca (che, esule dal Pci, finì a Vichy con Pétain): «Eravamo tutti gentiliani». Sull’onda della rivoluzione bolscevica nel giugno di cent’anni fa “Ordine Nuovo” propose i soviet in Italia. Quel progetto li ricongiunse a Bombacci e insieme poi fondarono a Livorno il Partito Comunista. «Deve la sua fortuna di sovversivo a un paio d’occhi di ceramica olandese e a una barba bionda come quella di Cristo»: così Mussolini dipinse il suo antico compagno, poi nemico e infine camerata Bombacci.
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I generali: Mussolini deve sparire e morire come Matteotti
«Posdomani Mussolini andrà dal Re, al Quirinale, per la solita udienza. Quando starà per uscire, tu devi farlo scomparire. Hai capito? Devi farlo scomparire com’è scomparso Matteotti: Mussolini va “spedito” senza lasciar traccia, in modo che il Re non dovrà mai sapere nulla dell’accaduto». Così parlò il generale Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore, nelle primissime ore del mattino del fatidico 25 luglio del 1943, giornata che poi si concluderà con la sconfitta del Duce alla riunione d’emergenza del Gran Consiglio del Fascismo. In realtà, riferisce Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, il voltafaccia dei gerarchi fascisti era stato pianificato dallo stesso Mussolini, con l’appoggio di settori massonici. Obiettivo: uscire (fuori tempo massimo) dalla Seconda Guerra Mondiale e dall’abbraccio mortale di Hitler. Galeazzo Ciano avrebbe guidato la futura Repubblica Sociale Italiana, che avrebbe soppiantato la monarchia e voltato le spalle all’altro grande sponsor del fascismo, il Vaticano, con il quale il Duce aveva stipulato i Patti Lateranensi, in cambio del consenso cattolico al regime. Mussolini, scrive Carpeoro, fu tradito dal massone Filippo Naldi, che informò Vittorio Emanuele III e la diplomazia pontificia, la quale a sua volta si affrettò a riferire ai nazisti. E in quelle ore concitate, scrive Lara Pavanetto, erano già in corso prove di golpe da parte dei vertici militari.L’esortazione a far sparire Mussolini, ricevuta dal generale Ambrosio, era rivolta al generale Angelo Cerica, comandante dell’arma dei carabinieri. Anziché riservare al Duce “la stessa fine di Matteotti”, però, il generale Cerica vuotò il sacco – sempre il 25 luglio – con il colonnello Tito Torella di Romagnano, “aiutante di campo” di Vittorio Emanuele III. Il sovrano «apprense così il piano dei suoi generali di rapire e assassinare Mussolini, e si infuriò», racconta Lara Pavanetto sul suo blog. Chi erano i capi militari che avevano ordito il piano? Tra i cospiratori figura il generale Giuseppe Castellano, primo aiutante di Ambrosio: era il più giovane generale dell’esercito, quello che avrebbe poi firmato l’armistizio di Cassibile, il 3 settembre del ‘43, sancendo la resa dell’Italia agli Alleati. Ma il cervello della congiura, sostiene Pavanetto, era il generale Giacomo Carboni, che dopo l’8 settembre sarà accusato della mancata difesa di Roma dai tedeschi. Nato a Reggio Emilia, da padre mazziniano e madre di origine anglo-americana, tra il 1936 e il 1937 svolse una serie di operazioni speciali in Etiopia che lo avvicinarono al Sim, Servizio informazioni militare. «Lo si ricorda soprattutto per aver diretto il Sim nel periodo della cosiddetta “non belligeranza”, fino alla drammatica estate del 1943». Il generale Carboni «fu il regista che aprì e chiuse l’esperienza bellica italiana al fianco dei tedeschi».Su posizioni antitedesche, nei mesi precedenti la dichiarazione di guerra, Giacomo Carboni «mantenne, per conto di Galeazzo Ciano e Pietro Badoglio, relazioni con gli addetti militari di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, e redasse rapporti pessimistici sulle capacità militari italiana e germanica». Come scrive Solange Manfredi nel suo saggio “Psyops”, «Carboni era assai vicino a Giuseppe Cambareri, spia-mago-esoterista al servizio degli Alleati». Proprio a Carboni, «Cambareri offrì la sua casa e la sua organizzazione come sede del quartier generale impegnato nella difesa di Roma dopo l’armistizio del 1943». Aggiunge Pavanetto: «Carboni era un conoscitore attento della realtà americana e, in dichiarazioni e scritti, si vanterà più volte di essere stato il primo, tra gli esponenti della fronda militare, a proporre al generale Ambrosio l’adozione di misure energiche contro il Duce». E infatti «ebbe un ruolo essenziale negli avvenimenti che seguirono la caduta di Mussolini». Il 18 agosto 1943 «fu nominato da Badoglio commissario del Sim, carica che mantenne sino alla capitolazione delle forze armate italiane».Sempre Carboni entrò a far parte del Consiglio della Corona, presieduto dal sovrano, cui erano deputate le decisioni politiche più importanti. Vi fece parte assieme a Badoglio, il generale Ambrosio e il capo di stato maggiore dell’esercito, Mario Roatta. Ambrosio affidò a Carboni il comando del corpo d’armata “motocorazzato” per la difesa di Roma dai nazisti. Il 7 settembre 1943, Carboni ricevette due ufficiali americani, Maxwell Taylor e William Gardiner, che gli comunicarono ufficialmente che l’indomani, alle 18.30, doveva essere resa nota l’avvenuta sottoscrizione dell’armistizio. Nel frattempo, si dovevano concordare i particolari dell’Operazione Giant 2 per la difesa della capitale. «Carboni sostenne che lo schieramento italiano non avrebbe potuto resistere più di sei ore alle truppe tedesche». Per decidere su come agire al meglio, lo stesso Carboni e i due ufficiali americani incontrarono Badoglio, e sempre Carboni riuscì a convincere il maresciallo della sua posizione. Badoglio richiese dunque l’annullamento dell’operazione-Roma al generale Eisenhower, che però, irritato dal tira e molla italiano, dalle onde di “Radio Algeri” rese nota la stipula dell’armistizio. Al Consiglio della Corona non restò che ordinare a Badoglio di ufficializzare la capitolazione, ai microfoni dell’“Eiar”.Il 9 settembre, a battaglia in corso e all’insaputa del suo superiore Ambrosio, il generale Roatta ordinò a Carboni di spostare su Tivoli parte del corpo d’armata “motocorazzato” posto a difesa di Roma, le divisioni Ariete e Piave, e di disporre una linea del fronte che escludesse la difesa della capitale. Roatta informò inoltre Carboni che a Tivoli avrebbe ricevuto ulteriori ordini dallo stato maggiore, che si sarebbe provvisoriamente insediato a Carsoli. «Più tardi pervenne a Carboni il formale ordine scritto con il quale lo si nominava anche comandante di tutte le truppe dislocate in Roma». Ma nel frattempo Vittorio Emanuele III e la sua famiglia, il maresciallo Badoglio, i capi di stato maggiore Ambrosio e Roatta e i ministri militari erano già in fuga, alla volta di Brindisi. Carboni raggiunse Tivoli per organizzare le truppe. Non riuscendo a rintracciare Roatta proseguì sino ad Arsoli, dove apprese che la colonna dei sovrani (con Badoglio) era ormai lontana. «Rimase alcune ore ospite del produttore Carlo Ponti, sino a quando il suo aiutante di campo non gli comunicò che l’ordine di Roatta delle ore 5.15 era stato confermato e, pertanto, provvide a riportarsi a Tivoli, dove insediò il suo comando. Nel frattempo, a Roma, in virtù del grado gerarchicamente più elevato, il maresciallo Enrico Caviglia stava procedendo a contattare i tedeschi per la cessazione del fuoco».Nel primo pomeriggio del 9 settembre, Carboni dette ordine alla divisione Granatieri di Sardegna, che stava fronteggiando la 2ª divisione paracadutisti tedesca al Ponte della Magliana, di resistere a oltranza. E chiese alle divisioni Ariete e Piave di predisporsi a sud (per prendere alle spalle la “paracadutisti”) e anche verso nord, tagliando la strada alla 3ª divisione Panzergrenadier che stava sopraggiungendo dalla via Cassia. Mentre ciò avveniva, però, il colonnello Giuseppe di Montezemolo e il generale Giorgio Carlo Calvi di Bergolo, a Frascati, incontravano il comandante tedesco Albert Kesselring, preparando la resa delle truppe di Carboni. Prima di sera, sempre il 9 settembre, fu ordinato ai Granatieri di Sardegna di lasciare il conteso ponte della Magliana, lasciando affluire verso nord le truppe naziste. La mattina del 10, rientrano nella capitale ormai assediata, Carboni scoprì – dai manifesti fatti affiggere dal maresciallo Caviglia – che ormai Roma era in mani tedesche.«Dopo la resa – annota Lara Pavanetto – Carboni fece distruggere buona parte degli archivi del Sim, custoditi nelle due sedi di Forte Braschi e Palazzo Pulcinelli, occultandone una parte superstite nelle catacombe di San Callisto». Nonostante la capitolazione, lo storico Ruggero Zangrandi ritiene il generale Carboni il vero vincitore della “battaglia di Roma”, avendo tenuto impegnate le efficienti divisioni paracadutisti e Panzergrenadier, impenendo loro di ricongiungersi al resto dell’armata germanica nei pressi di Salerno, in modo da permettere agli anglo-americani di effettuare lo sbarco sulla Piana del Sele il 9 settembre. Il generale Carboni, la mente del tentato golpe contro Mussolini, agì sicuramente nell’interesse degli aglo-americani. «Nel giugno 1944 fu spiccato nei suoi confronti un mandato di cattura per la mancata difesa di Roma, ma eluse il provvedimento e si rese latitante grazie alle protezioni dei servizi di intelligence degli Alleati, in particolare l’Oss americano». Più tardi fu processato in contumacia, e il 19 febbraio 1949 fu assolto da ogni accusa per aver adottato «determinazioni indirizzate all’intendimento di arrestare fuori dalle porte della capitale l’invasione ad opera delle forze germaniche».Nel secondo dopoguerra, ricorda Pavanetto, lo stesso Carboni si avvicinò ai partiti della sinistra e fornì loro numerosi elementi di lettura sulla intelligence italiana, dal Sim al Sifar. Nel 1951, un precedente ordine di congedo assoluto emesso nei suoi confronti venne annullato e fu deciso il suo trasferimento nella riserva. Il 25 luglio del ‘43 non era riuscito ad attuare il golpe per eliminare Mussolini, data l’opposizione dei carabinieri? Il destino del Duce, però, era comunque segnato. Uscito sconfitto in piena notte dalla riunione del Gran Consiglio, il capo del fascismo chiese al segretario del partito, Carlo Scorza, di accompagnarlo in auto alla sua residenza romana di Villa Torlonia. Poche ore prima, tramite il generale Cerica dei caraninieri, il Re aveva appreso del tentato golpe militare. Al comandante dell’Arma, il sovrano rispose che avrebbe preso in mano la situazione, ricevendo Mussolini l’indomani, nel pomeriggio del 26 luglio, per chiedergli di dimettersi, cedendo il posto a Badoglio. Tre giorni prima, il 22 luglio, il Re aveva saputo – tramite il genero, Filippo d’Assia – del fallimento dell’incontro di Feltre e della decisione di Hitler: era pronta per l’Italia l’operazione Alarico, pensata nel caso che l’Italia rompesse, unilateralmente, l’alleanza con il Reich.L’operazione prevedeva l’istituzione del controllo militare diretto tedesco sulla penisola, dopo la fuga di notizie sulle ultimissime intenzioni di Mussolini: «Aggregare attorno all’Italia le potenze dell’Asse per imporre con forza alla Germania la pace separata con la Russia». Scrive Pavanetto: «Una parte dei vertici militari tedeschi erano favorevoli, non Hitler». Mussolini aveva messo al corrente il sovrano sulla linea che intendeva seguire, e Vittorio Emanuele III gli aveva inizialmente espresso il suo appoggio. Ma poi, dopo l’ambasciata di Filippo d’Assia, tutto cambiava: non ci sarebbe stato più spazio per nessuna mediazione, la penisola sarebbe stata invasa dai nazisti. Appena dopo i febbrili contatti con l’ambasciata del Giappone, anche Mussolini – dopo il Re – seppe della decisione di Hitler. Lo stesso Vittorio Emanuele III gli riferì del complotto dei generali: anche per questo, forse, l’ex Duce accettò di buon grado la protezione dei carabinieri, senza sapere però che il Re sarebbe poi scappato a Brindisi, con Badoglio, a gambe levate. «Quello che accadde poi lo sappiamo – o meglio, ancora oggi sappiamo solo alcune cose, di sicuro mezze verità», conclude Lara Pavanetto. «Certo la caduta di Mussolini non fu provocata dall’ordine del giorno Grandi, come scritto nei libri di storia e come raccontato nelle fiction televisive».«Posdomani Mussolini andrà dal Re, al Quirinale, per la solita udienza. Quando starà per uscire, tu devi farlo scomparire. Hai capito? Devi farlo scomparire com’è scomparso Matteotti: Mussolini va “spedito” senza lasciar traccia, in modo che il Re non dovrà mai sapere nulla dell’accaduto». Così parlò il generale Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore, nelle primissime ore del mattino del fatidico 25 luglio del 1943, giornata che poi si concluderà con la sconfitta del Duce alla riunione d’emergenza del Gran Consiglio del Fascismo. In realtà, riferisce Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, il voltafaccia dei gerarchi fascisti era stato pianificato dallo stesso Mussolini, con l’appoggio di settori massonici. Obiettivo: uscire (fuori tempo massimo) dalla Seconda Guerra Mondiale e dall’abbraccio mortale di Hitler. Galeazzo Ciano avrebbe guidato la futura Repubblica Sociale Italiana, che avrebbe soppiantato la monarchia e voltato le spalle all’altro grande sponsor del fascismo, il Vaticano, con il quale il Duce aveva stipulato i Patti Lateranensi, in cambio del consenso cattolico al regime. Mussolini, scrive Carpeoro, fu tradito dal massone Filippo Naldi, che informò Vittorio Emanuele III e la diplomazia pontificia, la quale a sua volta si affrettò a riferire ai nazisti. E in quelle ore concitate, scrive Lara Pavanetto, erano già in corso prove di golpe da parte dei vertici militari.
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La Chiesa e Naldi, grandi sponsor (impuniti) del fascismo
Il fascismo capovolto e appeso a testa in giù a piazzale Loreto, la monarchia ripudiata e sostituita dalla repubblica, la massoneria a lungo esiliata e costretta a defilarsi, dopo aver – di fatto – costruito dalle fondamenta il paese, l’Italia unita. L’unico dei grandi sponsor del Duce, uscito indenne dal Ventennio? Il Vaticano: è il vero vincitore della partita, protagonista di una lunghissima opera sotterranea di riconquista del potere temporale, perduto con l’Unità d’Italia e poi la Breccia di Porta Pia. Un lavoro paziente, sotterraneo, dal Patto Gentiloni – con i cattolici nuovamente autorizzati a candidarsi (coi liberali giolittiani) – fino ai Patti Lateranensi firmati con Mussolini, e la messa al bando delle logge massoniche. Decisiva, la Chiesa, anche nella caduta del dittatore suo alleato: fu il Vaticano a informare i nazisti che Mussolini aveva segretamente concertato col Gran Consiglio la sua teatrale destituzione, per instaurare a Salò la Rsi, un’entità non più così generosa con il clero. Caduto il Duce, la “reconquista” cattolica del potere fu completa: nel ‘45 era già pronto il format politico della Dc, con lo stesso leader – De Gasperi – che dopo Sturzo aveva guidato i cattolici sotto la dittatura. «Un piano sapiente, cinico e spregiudicato. Realizzato con il contributo decisivo di un autentico genio del male, Filippo Naldi, l’uomo dei poteri forti».Ai microfoni di “Forme d’Onda”, Gianfranco Carpeoro mette a fuoco il ritratto dell’ex direttore del “Resto del Carlino”, che emerge dalle pagine del suo saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, ancora fresco di stampa. Fin dall’inizio, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, il grande potere mette gli occhi sul focoso socialista di Predappio, a cui sta stretta la direzione dell’“Avanti”. Mussolini passa dal neutralismo all’interventismo, dal socialismo al fascismo, dal più violento anticlericalismo alla capitolazione dei Patti Lateranensi. E, mentre dichiara guerra alla massoneria – prima come dirigente del Psi, poi come Duce del fascismo – chiede segretamente di essere affiliato alla libera muratoria. «Mussolini non era avido di denaro, ma di potere», sostiene Carpeoro, «ed era privo di qualsiasi coerenza: poteva cambiare radicalmente idea, su tutto». Dietro la maschera era in fondo malleabile, maneggevole: l’uomo ideale, dunque, per il grande potere. Che, attraverso Naldi, si fa avanti: con i soldi dell’Eridania e dell’Ansaldo gli offre di aprire un suo quotidiano, il “Popolo d’Italia”, da cui lanciare il nuovo soggetto politico, progettato per arrestare l’onda rossa del socialismo.Naldi, massone della Gran Loggia, è anche l’uomo di fiducia del Re. Come emissario degli inglesi, procura a Mussolini uno stipendio da agente britannico. Poi gli trova altri soldi, quelli per il giornale. Quindi lo aiuta a organizzare la Marcia su Roma, garantendo il non-intervento dell’esercito regio. E’ sempre Naldi a organizzare il delitto Matteotti, quando il leader socialista sta per far scoppiare uno scandalo senza precedenti: a Londra, Matteotti (massone) ha scoperto che il sovrano Vittorio Emanuele III è socio della compagnia petrolifera statunitense Sinclair Oil, a cui Roma ha concesso condizioni di esclusivo privilegio, esentasse, nella gestione del greggio italiano. «Con una perfidia incredibile – dice Carpero – Naldi fa in modo che a uccidere Matteotti siano suoi “confratelli” massoni, agli ordini di Amerigo Dumini». Naldi subisce un “processo massonico”, ma riesce a passarla liscia con una manovra spericolata: minaccia una rumorosa scissione nella Gran Loggia, che all’epoca i dignitari dell’obbedienza – riparati a Parigi, dopo l’ostracismo mussoliniano – non possono permettersi di subire, pena il rischio di essere espulsi dalla Francia.«La scelta dei sicari massoni per Matteotti è perfidamente acutissima», rileva Carpeoro: «Serve a creare una rottura definitiva tra Mussolini le obbedienze massoniche italiane, Grande Oriente e Gran Loggia, che lo avevano aiutato a dar vita al fascismo nella sua prima versione, il masso-fascismo, ancora anticlericale». Ma non è tutto. Dall’estero, dove è riparato dopo il delitto (lavora a Parigi, consulente della Banca Rothschild) Naldi riesce persino a incidere sui Patti Lateranensi: a insaputa di Mussolini, fa in modo che i due personaggi incarcati della trattativa, l’emissario governativo e l’esponente della curia romana, siano addirittura cugini. Infine, Naldi torna in campo per liquidare il Duce: è lui a informare il Re che Mussolini vorrebbe soppiantare la monarchia per instaurare una repubblica, e a spiegare al Vaticano che la Rsi avrebbe connotati socialisti e non più clericali, come invece il catto-fascismo degli anni Trenta. «La cosa impressionante di quest’uomo, la sua geniale grandezza – dice Carpeoro – emerge nell’intervista che realizzò Sergio Zavoli per la Rai a un Naldi ormai ottantenne, ricco e sereno, totalmente impunito: parla di Mussolini minimizzando, in modo curiale, il suo ruolo decisivo nei passaggi cruciali del Ventennio».Il libro di Carpeoro nasce da archivi massonici del Rito Scozzese italiano, di cui l’autore è stato “sovrano gran maestro”. Carte da cui emerge, per la prima volta, il ruolo diretto del Re nell’affare Sinclair Oil: era noto che una tangente, «probabilmente all’insaputa del Duce», era stata percepita da Arnaldo Mussolini, fratello del dittatore. Ma nessuno aveva ancora rivelato che al sovrano era andata una fetta ben maggiore della torta: una partecipazione azionaria nella società, controllata da John Davison Rockefeller. Se ne deduce che Naldi non liquidò Matteotti per la sua denuncia sui brogli elettorali fascisti, ma per proteggere il Re dallo scandalo petrolifero. «Fu sempre lui, vent’anni dopo, a organizzare la fuga del Savoia a Napoli». Un uomo invisibile ma onnipresente: come il vero potere, che fabbricò il fascismo e utilizzò Mussolini prima di sbarazzarsene, lasciando che al suo posto tornasse l’altro grande potere, quello che nel 1945 – attraverso la Dc – tornò a impadronirsi dell’Italia, il paese che aveva perduto cent’anni prima sotto la spinta della massoneria risorgimentale.(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Il compasso, il fascio e la mitra”, Uno Editori, 141 pagine, euro 12,90).Il fascismo capovolto e appeso a testa in giù a piazzale Loreto, la monarchia ripudiata e sostituita dalla repubblica, la massoneria a lungo esiliata e costretta a defilarsi, dopo aver – di fatto – costruito dalle fondamenta il paese, l’Italia unita. L’unico dei grandi sponsor del Duce, uscito indenne dal Ventennio? Il Vaticano: è il vero vincitore della partita, protagonista di una lunghissima opera sotterranea di riconquista del potere temporale, perduto con l’Unità d’Italia e poi la Breccia di Porta Pia. Un lavoro paziente, sotterraneo, dal Patto Gentiloni – con i cattolici nuovamente autorizzati a candidarsi (coi liberali giolittiani) – fino ai Patti Lateranensi firmati con Mussolini, e la messa al bando delle logge massoniche. Decisiva, la Chiesa, anche nella caduta del dittatore suo alleato: fu il Vaticano a informare i nazisti che Mussolini aveva segretamente concertato col Gran Consiglio la sua teatrale destituzione, per instaurare a Salò la Rsi, un’entità non più così generosa con il clero. Caduto il Duce, la “reconquista” cattolica del potere fu completa: nel ‘45 era già pronto il format politico della Dc, con lo stesso leader – De Gasperi – che dopo Sturzo aveva guidato i cattolici sotto la dittatura. «Un piano sapiente, cinico e spregiudicato. Realizzato con il contributo decisivo di un autentico genio del male, Filippo Naldi, l’uomo dei poteri forti».
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Il compasso, la mitra e la corona: i veri burattinai del Duce
Il compasso, il fascio e la mitra. Ma anche la corona: probabilmente è stato proprio l’elusivo Vittorio Emanuele III il vero arbitro segreto delle sorti di Benito Mussolini, passato dal socialismo al fascismo, dal neutralismo all’interventismo più acceso, e poi dall’appoggio occulto della massoneria a quello, meno occulto ma forse più insidioso, del Vaticano, impegnato – a partire dal Patto Gentiloni – a rientrare (dapprima in sordina) nel grande gioco della politica italiana, dal quale era stato estromesso nel 1861 ad opera del nuovo Stato unitario, liberale e anticlericale, messo in piedi dai massoni Garibaldi, Mazzini e Cavour. Scorci di una storia di cui si occupa Gianfranco Carpeoro, già “sovrano gran maestro” della Serenissima Gran Loggia d’Italia, espressione del Rito Scozzese. Carte alla mano, Carpeoro ricostruisce il ruolo spesso decisivo del Re nella vicenda mussoliniana: prima il non-intervento di polizia ed esercito nella Marcia su Roma, quindi l’incarico a Mussolini, poi addirittura il ruolo (finora inedito) del sovrano nel delitto Matteotti: il leader socialista aveva scoperto, a Londra, che proprio al Savoia era stata concessa una cospicua partecipazione azionaria della Sinclair Oil, compagnia petrolifera statunitense targata Rockefeller, alla quale il governo fascista aveva elargito enormi privilegi nell’estrazione del greggio in Italia e nelle ricerche di giacimenti in Libia.La pubblicistica più recente sta mettendo a fuoco il ruolo della massoneria nella storia italiana, sempre liquidata in poche righe nei libri scolastici (alla voce “carboneria”) tra le pagine del Risorgimento. L’ideale illuministico – libertà, uguaglianza e fraternità, in antitesi al sistema di privilegi dell’Ancien Régime incarnato dalla teocrazia vaticana – era tra le componenti ideologiche dei massoni libertari che, al netto delle contingenze geopolitiche (il ruolo strategico dello Stivale nel Mediterraneo, crocevia degli interessi anglo-francesi) alimentarono in modo decisivo la spinta unitaria, fino alla Breccia di Porta Pia. Ma poi, come sempre, le cose non andarono come i più idealisti avevano sperato, secondo Carpeoro anche e soprattutto per la perdita prematura di una mente come quella di Cavour. L’Italia nacque zoppa, dopo la feroce repressione del Sud affidata ai generali sabaudi Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini. Un altro generale di sua maestà, il pluridecorato Fiorenzo Bava Beccaris, prese a cannonate la folla milanese affamata dalle tasse. Due anni dopo, nel 1900, l’anarchico Gaetano Bresci fece giustizia a suo modo, assassinando il sovrano, Umberto I di Savoia. L’Italia dei notabili liberali stava per esplodere, sotto la spinta del proletariato rurale e industriale: sulle barricate innanzitutto i socialisti, guidati da un leader come Filippo Turati, massone anche lui, e poi dal giovane giornalista Benito Mussolini, tumultuoso direttore dell’“Avanti”.A scommettere sul fascismo, racconta la storiografia, furono gli agrari, i latifondisti del Sud e il grande capitale industriale del Nord. Obiettivo: arrestare l’onda rossa del socialismo, “comprando” un leader di cui il popolo socialista si fidava. E faceva male, sottolinea Carpeoro, rivelando che Mussolini era da tempo a libro paga degli inglesi, come loro agente regolarmente stipendiato. Per gradi, è emerso il ruolo della massoneria all’ombra del primo fascismo, quello ancora “sociale” e anticlericale di Piazza San Sepolcro: era imbottito di massoni il vertice fascista, anche in lizza tra loro – da una parte il Grande Oriente, ancora anticlericale, e dall’altra la Gran Loggia, più vicina al tradizionalismo cattolico. Un errore ottico, quello di molti massoni, costretti a pentirsi amaramente di aver sostenuto il Duce, fino a puntare ben presto a sostituirlo con un altro massone, Italo Balbo, poi caduto a Tobruk alla guida del suo velivolo colpito “per errore” dalla contraerea italiana. Non ha portato fortuna, a Mussolini, il divorzio dalla massoneria, giunta infine a schierarsi con la Resistenza, fino a trasformare in atroce rituale (pena del contrappasso) il macabro scempio di Piazzale Loreto, con “l’imperatore” rovesciato e simbolicamente capovolto come l’Appeso dei tarocchi.Già decenni prima, si domanda Carpeoro, cosa sarebbe successo se Mussolini non fosse riuscito ad allontanare i massoni dal partito socialista? Se quel braccio di ferro l’avesse vinto il massone progressista Matteotti, contrario all’interventismo, l’Italia sarebbe entrata lo stesso nella tragedia della Prima Guerra Mondiale, da cui poi nacquero le tensioni sociali all’origine del fascismo? E cosa sarebbe accaduto se il Duce non avesse scaricato una seconda volta la massoneria, mettendo le logge addirittura fuorilegge per ingraziarsi il Vaticano con cui avrebbe firmato i Patti Lateranensi, mettendo fine al limbo giuridico in cui l’ex Stato Pontificio era rimasto confinato, dal 1861? Per contro, lo stesso potere vaticano non esitò a emarginare il nascente impegno politico dei cattolici, il neonato partito di Sturzo, pur di non ostacolare il nuovo Duce del fascismo, brutale con gli oppositori ma improvvisamente munifico con le gerarchie dell’Oltretevere. Così il regime transitò dal masso-fascismo iniziale al catto-fascismo concordatario, ma – ancora una volta – rimasero fuori dai riflettori i fili più segreti, destinati a collegare in modo insospettabile l’élite di potere, attraverso personaggi come il massone monarchico Badoglio e figure ancora più invisibili come quella dell’inafferrabile Filippo Naldi, primo finanziatore dell’ex socialista Mussolini con i soldi dei gruppi Eridania, Edison e Ansaldo, spaventati dalle crescenti rivendicazioni operaie.Proprio a Naldi, sopravvissuto a tutte le tempeste e intervistato nel dopoguerra da Sergio Zavoli, Carpeoro dedica svariate pagine del suo saggio: «Naldi era il Licio Gelli dell’epoca, capace di passare indenne da un tavolo all’altro, nel frattempo accumulando fortune economiche». Massone, Naldi, in contatto con gli alleati, con la Corona e con il Vaticano. Uno dei registi della liquidazione di Mussolini, il leader che proprio lui aveva aiutato ad emergere, e che – il 25 luglio del ‘43 – aveva tentato (fuori tempo massimo) di uscire dalla tragedia della guerra e dall’alleanza con Hitler, facendosi mettere in minoranza dal Gran Consiglio del Fascismo. Il piano: far nascere, a Salò, un’entità “sociale”, di nome e di fatto, non più monarchica né così generosa con il clero. Un progetto sabotato da manovre diplomatiche sotterranee: a informare i nazisti furono emissari vaticani, imbeccati da Naldi. Di fronte alla rivelazione di retroscena inediti, c’è chi storce prontamente il naso: la storia, si sostiene, più che da singoli dettagli (magari occulti) è determinata da condizioni molteplici, che coinvolgono milioni di persone, idee, eventi e progetti. Già, ma una cosa non esclude l’altra: sapere ad esempio che era massone l’eroe socialista Giacomo Matteotti, primo vero martire dell’antifascismo, può regalare più profondità di sguardo, evitando di cadere nei più classici stereotipi che dividono il mondo in buoni e cattivi.Carpeoro – all’anagrafe Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso – è un intellettuale di formazione anarco-socialista: idealmente anarchico e vicino al socialismo “utopistico” pre-marxista nel quale risuonano le speranze dei primissimi manifesti rosacrociani, che già all’inizio del ‘600 sognavano un mondo senza più sfruttati, senza più proprietà privata né confini tra le nazioni. Di quell’habitat culturale – esoterico, meta-storico – Carpeoro si è occupato a lungo, come esperto simbologo, fino a sviluppare un progetto editoriale come “Summa Symbolica”, di cui è uscito il primo volume. Anche quest’ultimo lavoro sui retroscena “velati” del Ventennio, cioè la strana alleanza provvisoria tra massoneria e Vaticano all’ombra del Duce, in fondo conferma la tesi di fondo che Carpeoro sostiene: il potere, quale che sia, adotta sempre modalità magico-illusionistiche nel creare leader e uomini del destino, condannati a poi a essere puntualmente rottamati dal momento in cui diventano inutili, e magari ingombranti come Mussolini. Inglesi e americani, massoni e cardinali? Certamente, ma il vero potere resta uno schema astratto, pronto a cambiare maschera all’occorrenza, evitando anche di esporre troppo i suoi esponenti più prossimi e più decisivi: come il Re, vero dominus della parabola mussoliniana.(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Il compasso, il fascio e la mitra”, Uno Editori, 141 pagine, euro 12,90).Il compasso, il fascio e la mitra. Ma anche la corona: probabilmente è stato proprio l’elusivo Vittorio Emanuele III il vero arbitro segreto delle sorti di Benito Mussolini, passato dal socialismo al fascismo, dal neutralismo all’interventismo più acceso, e poi dall’appoggio occulto della massoneria a quello, meno occulto ma forse più insidioso, del Vaticano, impegnato – a partire dal Patto Gentiloni – a rientrare (dapprima in sordina) nel grande gioco della politica italiana, dal quale era stato estromesso nel 1861 ad opera del nuovo Stato unitario, liberale e anticlericale, messo in piedi dai massoni Garibaldi, Mazzini e Cavour. Scorci di una storia di cui si occupa Gianfranco Carpeoro, già “sovrano gran maestro” della Serenissima Gran Loggia d’Italia, espressione del Rito Scozzese. Carte alla mano, Carpeoro ricostruisce il ruolo spesso decisivo del Re nella vicenda mussoliniana: prima il non-intervento di polizia ed esercito nella Marcia su Roma, quindi l’incarico a Mussolini, poi addirittura il ruolo (finora inedito) del sovrano nel delitto Matteotti: il leader socialista aveva scoperto, a Londra, che proprio al Savoia era stata concessa una cospicua partecipazione azionaria della Sinclair Oil, compagnia petrolifera statunitense targata Rockefeller, alla quale il governo fascista aveva elargito enormi privilegi nell’estrazione del greggio in Italia e nelle ricerche di giacimenti in Libia.
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Delitto Matteotti: vero mandante il Re, socio dei petrolieri
Non fu Mussolini il vero mandante del delitto Matteotti, ma il Re: Vittorio Emanuele III decretò la morte del parlamentare socialista Giacomo Matteotti, assassinato a Roma il 10 giugno 1924 dalla squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, nel suo nuovissimo saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, che ricostruisce – sulla base di archivi inediti – il vero ruolo dei due massimi sponsor occulti del fascismo, la massoneria e il Vaticano. Due poteri che “coltivarono” un regime che forse mostrò il suo vero volto, per la prima volta, proprio con l’omicidio Matteotti. Il leader socialista, si disse per decenni, fu punito per il suo straordinario coraggio: il 30 maggio 1924 denunciò alla Camera i brogli e le intimidazioni che avevano permesso ai fascisti di vincere le elezioni, il 6 aprile. Solo in questi ultimi anni è progressivamente emerso l’altro movente, più segreto: la maxi-tangente pagata al governo italiano dalla società petrolifera Sinclair Oil, per lo sfruttamento del greggio in Emilia e in Sicilia. Lo stesso Matteotti, dopo un viaggio a Londra, aveva scoperto la verità e stava per renderla pubblica. Lo scandalo avrebbe travolto il neonato regime, dato che risultava implicato anche Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Ma quello era solo il “primo livello” della tangente: perché il maggiore beneficiario dell’affare non sarebbe stato Mussolini, bensì il Re.Era lui, Vittorio Emanuele III, il vero dominus del business petrolifero, e quindi anche del delitto Matteotti. A gettare nuova luce sul “peccato originale” del fascismo sono le carte dell’obbedienza massonica di Piazza del Gesù, il Rito Scozzese italiano, di cui lo stesso Carpeoro è stato “sovrano gran maestro”. «Attenzione: lo stesso Matteotti era un 33° grado del Rito Scozzese», premette l’autore, presentando alcune anticipazioni del libro nel corso della diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”. Massone Matteotti, e massoni i “fratelli” inglesi che lo informarono dell’affare Sinclair Oil, spiegandogli – carte alla mano – che a intascare il grosso della colossale tangente petrolifera (addirittura una ingente quota azionaria della compagnia) non sarebbe stato il Duce, ma direttamente il numero uno di casa Savoia. A indagare sul ruolo occulto della massoneria all’origine del fascismo è anche il recente saggio “Mussolini e gli Illuminati”, del giovane Enrico Montermini, suffragato da un politologo del calibro di Giorgio Galli.Montermini ricostruisce il ruolo delle società segrete nell’affermazione del fascismo “antemarcia”, a partire dalla manifestazione di piazza San Sepolcro, fino al macabro epilogo di piazzale Loreto, dove il cadavere del Duce viene simbolicamente “capovolto”, appeso a testa in giù, dopo esser stato fotografato con in mano uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e poi un ramo di acacia, inequivocabile “firma” massonica. Carpeoro conferma: prima di concorrerre ad abbattere il Duce, «la massoneria ha certamente appoggiato il primo fascismo, anche perché era Mussolini stesso a presentarsi come “vero socialista”». Poi, come sappiamo, il dittatore – mai iniziato alla libera muratoria – arrivò a mettere al bando le logge, in ossequio agli accordi di potere con il Vaticano che avrebbero portato ai Patti Lateranensi. C’era stato un piccolo precedente antimassonico del Duce, quando ancora era un dirigente socialista: impegnò il partito a escludere i massoni dai propri ranghi. «Ma era solo una ritorsione: Mussolini aveva ripetutamente chiesto di essere accolto, nella massoneria, ma non era stato accettato».Un’anomalia episodica, quell’improvvisa allergia socialista per i grembiulini: «E’ stata proprio la massoneria a partorire il socialismo», sostiene Carpeoro: «Anche all’epoca del fascismo, erano massoni i maggiori esponenti del partito socialista, a cominciare dal leader storico, Filippo Turati». Autore di accurati studi sui Rosacroce, leggendaria confraternita iniziatica, Carpeoro spiega che furono proprio i manifesti rosacrociani – come la “Fama Fraternitatis” del 1614 – a delineare l’orizzonte sociale egualitario (la fine dei privilegi di casta) che peraltro si riverbera in opere altrettanto “rosacrociane” del periodo, come “Utopia” di Thomas More, “La nuova Atlantide” di Francis Bacon e “La città del sole” di Tommaso Campanella. La stessa “Fama Fraternitatis” accenna, per la prima volta, a un mondo senza più la proprietà privata né i confini tra le nazioni: sono gli albori del futuro internazionalismo socialista, che riflette le sue luci persino nel primissimo fascismo delle origini, quello di piazza San Sepolcro, tenuto a battesimo dal Grande Oriente d’Italia (Domizio Torrigiani) e poi anche da Piazza del Gesù, il cui gran maestro era Raoul Palermi – ma il vero capo del Rito Scozzese, ipotizza lo stesso Montermini, probabilmente era il sovrano in persona, Vittorio Emanuele III.Di origine scozzese è la stessa famiglia Sinclair: gli antenati dei petrolieri coinvolti nell’affare costato la vita a Matteotti, racconta Carpeoro, in qualità di eminenti rappresentanti del network rosacrociano britannico, alla fine del ‘700 avrebbero fatto segretamente tradurre nel Regno Unito le spoglie del “confratello” Mozart, ufficialmente sepolto in una fosse comune in Austria. Ma, a parte i Sinclair – passati dalla musica al petrolio – il saggio di Carpeoro ricostruisce i passaggi cruciali (e occulti) all’origine del fascismo, mettendo a fuoco il ruolo della massoneria, e non solo. Se Montermini accende i riflettori sulle società segrete che allevarono il regime fascista, Carpeoro segnala il ruolo dell’altro grande potere, antagonista della massoneria eppure suo “socio in affari” durante il ventennio: il Vaticano. Entrambi i centri potere, quello massonico e quello cattolico, puntarono su Mussolini e cercarono di pilotarlo. E il Duce, «peraltro già a libro paga dei servizi segreti inglesi, nonché collaboratore dell’intelligence statunitense e di quella francese», tentò a sua volta di destreggiarsi, ritagliandosi una sua autonomia: «Si passò così dal masso-fascismo iniziale al catto-fascismo seguente», quello dei Patti Lateranensi.Figura cruciale e onnipresente, in quegli anni di precario equilibrio, il massone Filippo Naldi, che Carpeoro definisce «il Licio Gelli dell’epoca», capace di passare con disinvoltura da un tavolo all’altro, uscendone sempre indenne e traendone il massimo vantaggio personale. Carpeoro ricorda una celebre intervista televisiva all’anziano Naldi, a cura del grande Sergio Zavoli: «Riuscì a ottenere quell’intervista perché era massone anche Zavoli», rivela Carpeoro, che ricostruisce un altro momento decisivo della parabola del Duce, la destituzione del 25 luglio ‘43: «Era un piano progettato dallo stesso Mussolini, che voleva farsi arrestare per poi uscire dall’alleanza con Hitler, instaurando a Salò una vera repubblica di orientamento socialista». Ma fu tradito, Mussolini, proprio dall’uomo-ombra della massoneria (e della monarchia), che svelò gli intenti del Duce alla segreteria pontificia. A sua volta, la diplomazia vaticana si rivolse prontamente ai nazisti: temenva che a Salò potesse davvero nascere una repubblica anticlericale.“Il fascio, il compasso e la mitra” getta luce sui retroscena più oscuri del ventennio mussoliniano, rivelando il peso dei due superpoteri – massoneria e Vaticano – nelle decisioni del governo Mussolini. Anche la monarchia giocò le sue carte, comprese quelle (coperte) su cui aveva messo le mani Giacomo Matteotti. «Io il mio discorso l’ho fatto, ora voi preparate il discorso funebre per me», disse il deputato ai colleghi socialisti, in aula, consapevole che gli sarebbe costata carissima la sua clamorosa denuncia sui brogli elettorali. «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere», rispose Mussolini, mesi dopo, di fronte alle proteste per l’insabbiamento delle indagini sull’omicidio. Ma non si trattò solo di una denuncia politica sulla regolarità delle elezioni del ‘24: il primo a rivelarlo, alla fine degli anni ‘80, è stato un ricercatore fiorentino, Paolo Paoletti, dopo aver scovato negli archivi di Washington una lettera in cui Dumini, il capo del commando omicida, rivela che Matteotti fu ucciso soprattutto per impedirgli di mettere in piazza lo scandalo petrolifero, che coinvolgeva Arnaldo Mussolini.Poche settimane prima del delitto, proprio alla Sinclair Oil (John Davison Rockefeller), il governo italiano aveva concesso l’esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento per 50 anni di tutti i giacimenti petroliferi presenti in Emilia e in Sicilia. La compagnia aveva ottenuto condizioni di esclusivo vantaggio, tra cui l’esenzione da imposte. Per questo Matteotti doveva essere ucciso: aveva saputo della super-tangente. Tesi confermata dallo storico Mauro Canali nel ‘97 e poi da un ex dirigente Eni, Benito Li Vigni, nel saggio “Le guerre del petrolio” uscito nel 2004. All’inizio degli anni Venti, in Italia, l’80% del fabbisogno di idrocarburi era garantito dalla Standard Oil, tramite la “Società Italo-Americana pel Petrolio”, mentre la restante quota era fornita dalla filiale italiana della Royal Dutch Shell. Secondo Canali, la Standard Oil avrebbe stipulato un accordo sottobanco con la Sinclair Oil, delegando ad essa un’operazione strategica: bloccare la temuta espansione del Regno Unito sul mercato italiano. Guardando al Medio Oriente, a Londra faceva gola la posizione geografica dell’Italia, nel cuore del Mediterraneo: perfetta, per il trasporto del greggio. Per questo gli inglesi avevano sviluppato progetti con l’Italia, anche l’impianto di una raffineria, al punto da preoccupare gli Usa – che a quel punto risposero mettendo in campo la Sinclair Oil, a suon di dollari pagati sottobanco.Lo stesso Canali documenta come a intascare una maxi-rata dell’affare Sinclair fu Filippo Filippelli, un personaggio molto influente, legato ad Arnaldo Mussolini e fondatore del “Corriere Italiano”, giornale a cui – fra l’altro – era stato intestato il noleggio dell’auto con cui venne prelevato Matteotti. Gli accordi con la Sinclair Oil furono stipulati il 29 aprile del ‘24: sempre in cambio di cospicue mazzette, la compagnia ottenne dall’Italia la garanzia che nessun ente petrolifero statale avrebbe intrapreso trivellazioni nel deserto libico. All’accordo, Londra reagì a modo suo: tramite politici laburisti, rivelò a Matteotti i veri termini dell’accordo. Lo stesso Canali conferma che il leader socialista acquisì le carte che provavano la corruzione del governo italiano. Dopo l’omicidio, il “Daily Herald” accusò apertamente Arnaldo Mussolini di essere tra i politici destinatari di una tangente di 30 milioni di lire pagata dalla Sinclair Oil per ottenere la concessione. Sulla rivista “English Life” venne pubblicato (postumo) un articolo dello stesso Matteotti, in cui il deputato affermava di avere la certezza che vi era stata corruzione tra la Sinclair Oil e alcuni esponenti del governo.Tutto giusto? Sì, ma è una verità incompleta, spiega Carpeoro: perché finora le ricostruzioni sul delitto Matteotti non hanno inquadrato il principale colpevole, il Re d’Italia. «Mettendo a disposizione i killer, Mussolini ha fatto un favore innanzitutto alla monarchia», afferma Carpeoro, nel colloquio in streaming su YouTube con Fabio Frabetti. «Matteotti aveva fiutato che sull’Italia, tramite il fascismo, stavano mettendo le mani determinati poteri, in particolare petroliferi – uno su tutti, quello della Siclair Oil». Il leader socialista, continua Carpeoro, «andò a Londra con regolari referenze massoniche e venne accolto con tutti gli onori da una loggia inglese». Loggia che gli mise a disposizione una documentazione decisiva, che gli permise di scoprire «che la Sinclair Oil aveva dato delle quote azionarie a Vittorio Emanuele III». Tornò in patria di corsa, per far scoppiare lo scandalo. «E guardacaso, venne assassinato proprio al ritorno da quel viaggio quasi clandestino». Il regista dell’assassinio? «E’ colui che affittò le auto a noleggio e si fece dare da Mussolini i manovali del delitto: il massone Filippo Naldi, rappresentante degli interessi della Sinclair Oil in Italia ma, soprattutto, fedelissimo del Re».Lui, l’uomo-ombra: «E’ vero che Naldi aiutò Mussolini a uscire dal Psi e gli finanziò il “Popolo d’Italia”, ma sempre e soltanto per conto di poteri forti che volevano che in Italia rimanesse la monarchia e ci fosse sempre un certo tipo di regime». Tant’è vero che i soldi per finanziare il “Popolo d’Italia”, oltre a quelli della Sinclair Oil, sono quelli di Eridania (colosso mondiale dello zucchero) e di Ansaldo, leader dell’acciaio. «Sono i soldi che creano il fascismo, ma lo creano per mantenere un preciso assetto politico rispetto a forze che rischiavano di metterlo in discussione, come i socialisti e i repubblicani». Baricentro del potere, la monarchia. Clamorosa, la rivelazione di Carpeoro: sua maestà in persona era addirittura diventato socio della Sinclair, mentre il governo Mussolini si apprestava a favorire la compagnia. E da dove ricava, Carpeoro, le sue esplosive informazioni? Ovvio: dagli stessi archivi (massonici) ai quali, nel 1924, ebbe accesso l’eroe socialista Giacomo Matteotti, massone del 33° grado del Rito Scozzese.Non fu Mussolini il vero mandante del delitto Matteotti, ma il Re: Vittorio Emanuele III decretò la morte del parlamentare socialista Giacomo Matteotti, assassinato a Roma il 10 giugno 1924 dalla squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, nel suo nuovissimo saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, che ricostruisce – sulla base di archivi inediti – il vero ruolo dei due massimi sponsor occulti del fascismo, la massoneria e il Vaticano. Due poteri che “coltivarono” un regime che forse mostrò il suo vero volto, per la prima volta, proprio con l’omicidio Matteotti. Il leader socialista, si disse per decenni, fu punito per il suo straordinario coraggio: il 30 maggio 1924 denunciò alla Camera i brogli e le intimidazioni che avevano permesso ai fascisti di vincere le elezioni, il 6 aprile. Solo in questi ultimi anni è progressivamente emerso l’altro movente, più segreto: la maxi-tangente pagata al governo italiano dalla società petrolifera Sinclair Oil, per lo sfruttamento del greggio in Emilia e in Sicilia. Lo stesso Matteotti, dopo un viaggio a Londra, aveva scoperto la verità e stava per renderla pubblica. Lo scandalo avrebbe travolto il neonato regime, dato che risultava implicato anche Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Ma quello era solo il “primo livello” della tangente: perché il maggiore beneficiario dell’affare non sarebbe stato Mussolini, bensì il Re.
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Carpeoro: un massone tradì Mussolini, che voleva arrendersi
Mussolini organizzò personalmente l’auto-golpe del 25 luglio, per evitare all’Italia di essere invasa dai nazisti? Archivi massonici finora rimasti top secret potrebbero gettare luce su un clamoroso retroscena della storia italiana. Figura chiave, un esponente di vertice della “libera muratoria” dell’epoca, vicino al Duce, che all’ultimo minuto avrebbe svelato al Vaticano le vere intenzioni del dittatore: simulare la sua deposizione e assegnare a Galeazzo Ciano la guida della futura Rsi, Repubblica Sociale Italiana, con l’incarico di sfilarsi dalla guerra ormai perduta e cercare di far dimenticare il fascismo, abbracciando elementi di socialismo. Una prospettiva allarmante per la Santa Sede, che avrebbe fatto fallire il piano, provocando il precipitare degli eventi – fino alla fucilazione di Ciano – dopo aver tempestivamente riferito ai tedeschi le reali intenzioni dell’entourage mussoliniano. E’ l’ipotesi alla quale sta lavorando Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzioni), già a capo della massoneria italiana di rito scozzese, quella di Piazza del Gesù, custode di archivi riservati come quello del duca-conte Carlo Alberto Di Tullio, dirigente fascista lombardo.Capo dell’Ovra di Pavia sotto la Rsi, Di Tullio fu poi “graziato” dal tribunale partigiano presiediuto da Oscar Luigi Scalfaro: con l’aiuto della Croce Rossa – utilizzando la sua carica – il futuro “gran maestro” Di Tullio aveva messo in salvo decine di ebrei, dopo l’8 settembre 1943. Lo studio di Carpeoro, probabilmente destinato a essere condensato in un volume di prossima pubblicazione, potrebbe comprovare – documenti alla mano (nomi, date, eventi circostanziati) – quella che suona come la possibile “vera storia” del 25 luglio, con il Gran Consiglio del Fascismo al quale, a quel punto, non restò che deporre – davvero – Mussolini, il quale poi sarà confinato sul Gran Sasso e, di lì e poco, “liberato” (suo malgrado?) dai paracadutisti del Führer guidati da Otto Skorzeny. Ammesso che l’ipotetico piano di Mussolini per tentare di passare al post-fascismo fosse autentico e realistico, quanto sarebbe cambiata la storia italiana se fosse andato in porto? Il futuro governo Ciano sarebbe stato protetto dalla longa manus degli inglesi, dai quali il giovane Mussolini era stato a lungo stipendiato come loro agente?Domande che restano nel mondo delle ipotesi, di fronte alla drammatica realtà dell’8 settembre 1943, con l’Italia in balia degli eventi dopo il proclama Badoglio, che lasciava l’esercito allo sbando, senza ordini precisi, e quindi nelle mani degli ex alleati tedeschi, prontamente trasformatisi in invasori. Sullo choc dell’8 Settembre l’Italia ha prodotto un vastissimo patrimonio di testimonianze. Tra le meno note quella di Nuto Revelli, lo scrittore del “Mondo dei vinti”. Militare di carriera (tenente degli alpini) era un fascista convinto, fino alla tragedia della ritirata di Russia, che concluderà a modo suo: spedendo a casa, a Cuneo, tre fucili mitragliatori, in vista della resa dei conti con fascisti e nazisti. Nel memorabile “La guerra dei poveri” (Einaudi), il giovane Nuto – a cui la guerra fascista ha aperto gli occhi, mostrandogli la brutalità e la corruzione del regime – descrive con sgomento, in pagine memorabili, il disfascimento della Quarta Armata, tornata precipiosamente in Italia, attraverso le Alpi, dopo aver abbandonato il Sud della Francia.Anche la “Guerra dei poveri” rivela come, in fondo, la realtà storica è fatta anche di chiaroscuri: lo stato maggiore della Quarta Armata, pur fascista, aveva al seguito centinaia di ebrei, sottratti alla Gestapo. La loro storia, sempre Nuto Revelli la racconterà in una delle sue ultime opere, “Il prete giusto”, che dà la parola a un umile e coraggioso sacerdote, don Raimondo Viale (poi “sospeso a divinis” dalle autorità vaticane), che riuscì a mettere in salvo le famiglie ebree giunte in Italia insieme ai soldati in fuga dalla Provenza. Regione francese che poi lo stesso Revelli contribuì a liberare – altra pagina di storia poco nota – esportando oltralpe la guerra partigiana dopo aver contrastato duramente le colonne corazzate tedesche in valle Stura, sulle montagne cuneesi. La liberazione mise fine a 20 mesi di spaventosa violenza, inaugurati dall’eroico sacrificio della Divisione Aqui che, sull’isola greca di Cefalonia, rifiutò di arrendersi ai tedeschi. Un bilancio di sangue, quello della Resistenza, che secondo gli storici ammonta a decine di migliaia di vittime. Davvero le si sarebbe potute risparmiare, se non fosse stato sabotato (come ipotizza Carpoero) il piano mussoliniano per uscire in sordina dal conflitto mondiale, abbandonando la Germania ed evitando gli orrori della guerra civile?Mussolini organizzò personalmente l’auto-golpe del 25 luglio, per evitare all’Italia di essere invasa dai nazisti? Archivi massonici finora rimasti top secret potrebbero gettare luce su un clamoroso retroscena della storia italiana. Figura chiave, un esponente di vertice della “libera muratoria” dell’epoca, vicino al Duce, che all’ultimo minuto avrebbe svelato al Vaticano le vere intenzioni del dittatore: simulare la sua deposizione e assegnare a Galeazzo Ciano la guida della futura Rsi, Repubblica Sociale Italiana, con l’incarico di sfilarsi dalla guerra ormai perduta e cercare di far dimenticare il fascismo, abbracciando elementi di socialismo. Una prospettiva allarmante per la Santa Sede, che avrebbe fatto fallire il piano, provocando il precipitare degli eventi – fino alla fucilazione di Ciano – dopo aver tempestivamente riferito ai tedeschi le reali intenzioni dell’entourage mussoliniano. E’ l’ipotesi alla quale sta lavorando Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzioni), già a capo della massoneria italiana di rito scozzese, quella di Piazza del Gesù, custode di archivi riservati come quello del duca-conte Carlo Alberto Di Tullio, dirigente fascista lombardo.
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Carpeoro e il segreto dei Romita: nel ‘46 vinse la monarchia
Come volevasi dimostrare: Londra torna a essere bersaglio di “fuoco amico”, cioè terrorismo “false flag” targato Isis, a riprova della guerra di potere in corso tra le oligarchie internazionali, che ora usano Theresa May in funzione anti-Merkel. Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, teme che questo “sciame” di attentati-kamikaze possa anche preparare una strage ancora più devastante: «E’ una possibilità, fa parte di un certo schema». L’aveva già detto: la Gran Bretagna è sotto tiro, da quando ha imboccato il divorzio da Bruxelles. Dalla Brexit in poi, nel Regno Unito starebbero emergendo spinte progressiste, anche a livello supermassonico: questo mette in tensione la “sovragestione” a guida Cia, custode occulta dello status quo e preoccupata del possibile nuovo corso di Londra, se dovesse smarcarsi dal “partito della guerra” che ha fabbricato l’Isis. Niente è come sembra, e non da oggi: la stessa Italia repubblicana è stata “fabbricata” con un artificio, una colossale manipolazione come quella del referendum costituzionale del 2 giugno 1946. «E’ vera la “leggenda” che avesse vinto la monarchia», dichiara Carpeoro, che fa un nome: quello del più volte ministro Pierluigi Romita, «sempre eletto in virtù del ruolo di suo padre, Giuseppe Romita, che era guardasigilli all’epoca di quel referedum».In diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro racconta: «Il socialdemocratico Pierluigi Romita, mio grande amico, fece il ministro molte volte e gli sempre venne garantita l’elezione da tutti i partiti». Era il pegno per custodire il “segreto” della storica manipolazione a cui il padre avrebbe presiduto. Pierluigi Romita «è stato un politico inaffondabile: e non aggiungo altro». Ulteriori rivelazioni sulla storia italiana del ‘900 sono in arrivo con il libro che Carpeoro sta per pubblicare sui clamorosi retroscena della caduta di Mussolini: la deposizione del 25 luglio 1943 sarebbe stata in realtà concordata con lo stesso “duce” per propiziare un’uscita meno traumatica dell’Italia dal secondo conflitto mondiale. Ma intervennero elementi (non ancora di pubblico dominio, nella storiografia) che fecero precipitare la situazione: l’invasione dell’Italia da parte delle truppe naziste sarebbe stata provocata da un complotto tra esponenti massonici e diplomazia vaticana, che sabotarono il piano iniziale di auto-siluramento “morbido” del regime fascista, aprendo la strada alla fucilazione di Ciano e alla tragedia dell’occupazione e della guerra civile.Perché il potere del primissimo dopoguerra preferì far vincere la repubblica piuttosto che la monarchia? Intanto perché il sovrano era troppo popolare, afferma Carpeoro: «Umberto II era ritenuto pericoloso, come raccoglitore di consensi, da parte di certi ambienti sia comunisti che democristiani». E poi, soprattutto: «Diventare repubblica è stato uno dei modi per poter trattare diversamente le condizioni di guerra, per De Gasperi, sul tavolo in cui si sono puniti quelli che avevano perso: assumere un assetto democratico ha consentito all’Italia una trattativa diversa, sul tavolo dei perdenti – la Germania ha dovuto pagare con lo smembramento: ci sono stati dei prezzi da pagare». Poi era inevitabile che elementi fascisti venissero traghettati nella nuova repubblica italiana: «Mussolini aveva praticamente creato lo Stato, inteso come struttura burocratica e amministrativa nazionale. Aveva creato l’Inps, l’Inail, l’Iri, la sanità pubblica. Le alte dirigenze non potevano certo essere sostituite traumaticamente: la prima legge repubblicana infatti fu quella della continuità amministrativa, per garantire il funzionamento della macchina statale». Molti, poi cambiarono bandiera: «Montanelli, Malaparte, Giorgio Bocca, Dario Fo erano repubblichini e diventarono di colpo, misteriosamente, partigiani o personalità della sinistra». Era fatale che parte del vecchio milieu confluisse nel nuovo regime. «Non mi meraviglia né mi scandalizza», chiosa Carpeoro, «ma non credo che abbiamo sempre scelto il meglio: potevamo calibrare di più le scelte tra cosa conservare e cosa archiviare».Come volevasi dimostrare: Londra torna a essere bersaglio di “fuoco amico”, cioè terrorismo “false flag” targato Isis, a riprova della guerra di potere in corso tra le oligarchie internazionali, che ora usano Theresa May in funzione anti-Merkel. Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, teme che questo “sciame” di attentati-kamikaze possa anche preparare una strage ancora più devastante: «E’ una possibilità, fa parte di un certo schema». L’aveva già detto: la Gran Bretagna è sotto tiro, da quando ha imboccato il divorzio da Bruxelles. Dalla Brexit in poi, nel Regno Unito starebbero emergendo spinte progressiste, anche a livello supermassonico: questo mette in tensione la “sovragestione” a guida Cia, custode occulta dello status quo e preoccupata del possibile nuovo corso di Londra, se dovesse smarcarsi dal “partito della guerra” che ha fabbricato l’Isis. Niente è come sembra, e non da oggi: la stessa Italia repubblicana è stata “fabbricata” con un artificio, una colossale manipolazione come quella del referendum costituzionale del 2 giugno 1946. «E’ vera la “leggenda” che avesse vinto la monarchia», dichiara Carpeoro, che fa un nome: quello del più volte ministro Pier Luigi Romita, «sempre eletto in virtù del ruolo di suo padre, Giuseppe Romita, che era guardasigilli all’epoca di quel referedum».
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Friaul, il nazi-Stato dei Cosacchi a insaputa dei friulani
Il Friuli si sarebbe chiamato Pfufferstaats Friaul, uno Stato-cuscinetto inserito nella “Grande Austria” per contribuire a isolare l’Unione Sovietica. A insaputa dei friulani, durante la Seconda Guerra Mondiale i nazisti spedirono 40.000 cosacchi tra i monti della Carnia: sarebbero stati il nerbo della nuova ipotetica nazione de-italianizzata, come ricorda Gaetano Dato rievocando l’epopea friulana dei cavalieri russi anti-sovietici. «Erano soldati e profughi arrivati in Friuli dal Don, dal Kuban, dall’Astrakahn, dalla Siberia, dal Caucaso e da tutte le altre terre cosacche. In rotta, insieme all’armata hitleriana, nel maggio del ‘45. «Oltre Timau, quando la salita verso il Plöckenpass comincia a stringersi e a fare tornanti sempre più stretti, i cadaveri dei cavalli, e pure di qualche cammello, punteggiavano la scarpata». Sul lago di Wörth, in Austria, speravano di ricevere un ordine che avrebbe potuto dar loro un nuovo incarico a guerra finita. «Ma innanzitutto dovevano sopravvivere agli agguati dei partigiani e comunque dovevano incontrarsi prima dell’arrivo degli inglesi, sempre che questi ultimi avessero preceduto gli jugoslavi in Carinzia».Il 7 maggio del ‘45, al castello di Hornstein, luogo dell’appuntamento, il “leiter” Franz Hradetzky parlò per l’ultima volta del Pfufferstaats Friaul, lo Stato che, se l’Asse avesse vinto la guerra, avrebbe dovuto proteggere i confini sud-occidentali dell’ex impero asburgico. La disposizione, ricorda Dato sul blog di Aldo Giannuli, era arrivata da Himmler. Dopo l’8 settembre del ‘43 e la costituzione del protettorato dell’Ozak (litorale adriatico), il capo delle SS aveva affidato a Hradetzky e ai suoi propagandisti del “Kommando Adria” un’operazione speciale: ridestare i «sentimenti nazionali nel popolo friulano», come premessa per l’istituzione del Friaul. Stretti i contatti tra le curie del Litorale e i funzionari agli ordini del comando nazista, decisivi per i rapporti coi sarcedoti sloveni e l’arruolamento forzoso della popolazione per costruire opere pubbliche per la difesa terrestre e antiaerea. Inoltre, «alcuni settori della Chiesa vedevano di buon occhio il progetto della Grande Austria», dopo che l’Armata Rossa «aveva ripreso controllo del mondo ortodosso e i soldati di Stalin e di Tito dilagavano negli Stati cattolici dell’Europa orientale e balcanica».Il principe arcivescovo di Salisburgo, Andreas Rohracher, insieme ad altri esponenti del Vaticano come Alois Hudal, tentò una disperata mediazione nell’aprile del ‘45, fra nazisti austriaci e servizi segreti inglesi e americani: «La Grande Austria – spiega Gaetano Dato – doveva comprendere anche la Slovenia, la Croazia, l’Ungheria e la Romania. Si trattava di un progetto con qualche saldatura col più vasto tentativo vaticano dell’Intermarium, una lega di Stati cattolici fra i mari Adriatico e Baltico capace di contenere il mondo sovietico». Vi guardavano con particolare attenzione il generale polacco Wladyslaw Anders e i suoi 100.000 soldati sparsi per l’Italia, in attesa di rientrare in patria e vendicare il massacro sovietico di Katyn. Naturalmente, né la Grande Austria né l’Intermarium poterono mai realizzarsi: «Il 1945 non era un tempo di restaurazioni. Il dominio dell’Europa era finito e il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Usa e Urss avevano già spartito il pianeta in sfere di influenza, e al massimo potevano lasciare agli inglesi la patata bollente della guerriglia greca», guidata dal comunista Markos Vafiadis.Gli americani, continua Dato, si erano inoltre presi la briga, coi britannici, di sostenere ustaša e cetnici, per tenere sulle spine Tito in Jugoslavia, ma forse solo perché erano a loro volta rimasti impantanati a Trieste per via del Territorio Libero. «Ma questo era tutto. Non c’era spazio per il terzaforzismo cattolico, che riuscì soltanto a mettere in salvo alcuni capi e gerarchi nazifascisti». L’offerta che Hradetzky aveva pensato di fare ai sopravvissuti del “Kommando Adria”, al momento dell’incontro in quel 7 maggio, non si era dunque ancora concretizzata nei modi opportuni. «La speranza era che in tempi brevissimi la mobilitazione per la nuova Grande Austria potesse salvare ciascuno dalla prigionia. Nulla di più sbagliato. Poco tempo dopo, lo stesso “leiter” dei corrispondenti di guerra fu arrestato dagli jugoslavi, e processato a Lubiana», insieme a molti altri responsabili dell’Ozak. Tuttavia scampò alla pena capitale e, dopo 16 anni di lavori forzati, riuscì a tornare in Austria: «Così, le sue testimonianze a Pier Arrigo Carrier negli anni Settanta hanno riportato alla luce la breve storia dei tentati preparativi per la costituzione del Friaul», in quella “Grande Austria” che nei sogni del “partito degli austriaci” avrebbe dovuto prendere il sopravvento sui tedeschi del nord, assorbendo anche la Boemia e persino la Baviera.Sarebbero state concesse ampie autonomie a croati e sloveni, attraverso la costituzione di Stati autonomi, ma federati al Reich. Agli sloveni in particolare sarebbe stata tolta la regione della Stiria slovena, da germanizzarsi completamente, e sarebbe stato ricostituito il ducato di Carniola, che era tramontato con la fine degli Asburgo. Il Pfufferstaats Friaul sarebbe stato un altro degli Stati autonomi federati, uno Stato cuscinetto con lo scopo di isolare ogni possibile “infezione” dal lato italiano, specialmente in direzione delle terre giuliane, dalmate e del Quarnero, in cui il sentimento irredentista aveva una certa presa. A tale scopo il Pfufferstaats Friaul avrebbe tagliato ogni continuità territoriale tra queste aree e la penisola italiana. Il “ribaltone” italiano dell’8 settembre 1943 aveva spinto Himmler a includere il Friuli nei piani di ingegneria etnica che avrebbero dovuto rettificare l’Europa del Nuovo Ordine. In Friuli, per l’Ozak, gli italiani erano «una minoranza», cioè appena 100.000 su una popolazione di 700.000 persone, di cui 200.000 «sloveni» e il resto, la maggioranza, erano friulani, «appartenenti al gruppo retoromanzo», lo stesso che abita «i Grigioni in Svizzera» e che in Tirolo «costituisce il gruppo dei Ladini».Era dunque opportuno agire per tempo e far sorgere la voglia di indipendenza ai friulani ben prima della fine della guerra. Il capo delle SS contattò quindi Hradetzky nell’autunno del 1943. «Fu redatto un piano che prevedeva la forzata nazionalizzazione delle masse friulane, previa la distillazione delle loro tradizioni popolari, per essere loro riproposte attraverso mass media ed eventi pubblici». Un modello di nazionalizzazione congeniale ai nazisti, basato sul meccanismo della “invenzione della tradizione” secondo lo schema classico analizzato da Eric Hobsbawm. Così, Hradetzky mise in piedi un gruppo di studio sulle tradizioni popolari, in cerca di un “eroe nazionale” friulano. Ercole Carletti, segretario della Filologica Friulana, società culturale perseguitata dal fascismo, rifiutò di collaborare: la Filologica si ispirava a Graziadio Isaia Ascoli, linguista ebreo e patriota del Risorgimento che nella seconda metà dell’800 studiò estensivamente il friulano. I nazisti ripiegarono su Ermes Cavassori, giornalista de “Il Popolo del Friuli”, il quotidiano fascista di Udine, e su altri soggetti coinvolti dallo stesso Cavassori, a cominciare dallo zio, il maestro Luigi Garzoni.Fabbricare una narrazione nazionale: sul fronte degli studiosi austriaci fu reclutato Karl Felix Wolff, già membro della commissione culturale dell’Alpenvorland, il protettorato che occupava il Trentino Alto Adige. Insieme ai suoi collaboratori, scrive Dato, Wolff aveva lavorato soprattutto a una raccolta di fiabe friulane, che però non giunse mai alla stampa, a causa del precipitare degli eventi. Alcuni dei “racconti friulani” fecero in tempo a uscire su “La Voce di Furlania”, periodico fondato da Cavassori e Garzoni. Temi prevalenti del giornale: tradizioni popolari, lotta all’internazionalità e inviti alla popolazione a collaborare con i tedeschi. Il titolo della testata dava anche il nome a una rivista teatrale messa in scena settimanalmente a Udine. Furono inoltre fondati oltre 40 gruppi corali, mentre altre associazioni provvedevano alla riscoperta delle tradizioni folcloristiche, a cominciare dagli abiti tradizionali. «Pare che, secondo Hradetzky, la popolazione avesse entusiasticamente aderito a queste iniziative, mostrando così un certo consenso nei confronti dell’amministrazione nazista. Naturalmente queste notizie venivano accolte con apprensione dal governo della Repubblica di Salò, ma ormai Mussolini e i fascisti non potevano fare molto per opporsi ai progetti di Berlino per il Nuovo Ordine». Ma l’operazione restava debole: «Fu impossibile riuscire a individuare, nella storia friulana, dei precedenti storici la cui strumentalizzazione potesse veicolare la trasformazione di un movimento per il risveglio culturale, in un movimento indipendentista».Dopo la fine del patriarcato di Aquileia, nel 1492, e la conseguente fine dell’indipendenza dell’area della ladinità, non esisteva alcun episodio in cui la popolazione locale avesse cercato di riacquistare una qualche precedente e mitizzata autonomia. I friulani, scrive Dato, erano sempre stati sottomessi, prima a Venezia prima e poi agli austriaci. Accolti solo nel 1866 nella giovane nazione italiana, «mai i friulani si erano interessati a una propria questione nazionale». Spiazzati, i nazisti, anche dall’assenza di un eroe “nazionale” friulano, l’equivalente di uno Skanderbeg per l’Albania. «Il massimo che riuscirono a recuperare fu la vicenda di Padre d’Aviano, diplomatico presso gli Absburgo e molto conosciuto per la sua lotta contro l’invasione turca». Ma il tutto «non andò oltre alla cerimonia di deposizione di una lapide ad Aviano». E il progetto di Himmler e Hradetzky, come molti altri, fu interrotto dalla guerra. «Rimane il dubbio su cosa pensassero al riguardo i cosacchi, che insieme ai caucasici, in 40.000 avevano occupato la Carnia nell’estate del 1944. “La Voce di Furlania” aveva parlato dei cosacchi solo una volta, per pubblicizzarne, manco a dirlo, uno spettacolo folcloristico, che pare stesse riscuotendo un grande successo in tutto il Kűnstenland».Il progetto della Grande Austria, nei piani del Nuovo Ordine, andava integrato con quello di un cordone di sicurezza che avrebbe dovuto circondare e isolare la Russia. Hitler voleva promuovere una schiera di Stati sottomessi alla sovranità tedesca, grazie anche a un’attenta alchimia fra le varie minoranze, che un calcolato piano di deportazioni avrebbe messo in atto. I paesi coinvolti sarebbero stati Estonia, Lituania, Lettonia, Ucraina, la Nazione Tartara del bacino del Volga, una federazione di nazioni caucasiche, il Turkestan e infine uno Stato cosacco. Coinvolti da subito nell’invasione dell’Urss e pieni di speranze nel riuscire a vendicare le sconfitte della controrivoluzione del 1917-21, gli atamani cosacchi firmarono nel novembre del ‘43 un accordo col Reich che prevedeva una serie di garanzie. In primo luogo, l’affidamento di un vasto territorio da amministrare, oltre a un ruolo di primo piano nel governo della Russia. Tuttavia nell’accordo era prevista l’eventualità che, se l’andamento della guerra avesse impedito anche temporaneamente la consegna dei territori al governo cosacco (provvisoriamente insediato a Berlino), al “popolo della steppa” sarebbe stata riservata una regione in Europa occidentale.Nella primavera del 1944, poiché i partigiani friulani stavano rischiando di tagliare le comunicazioni fra i Balcani e il Reich, fu stabilito che quel territorio sarebbe stato proprio il Friuli. «Pertanto, nell’estate del 1944 un vasto contingente di soldati cosacchi, con le loro famiglie e i pope dalla lunga barba, si insediò a Tolmezzo e nel resto della Carnia». I tedeschi, ricorda Dato, presero a chiamare la zona “Kozakenland”, mentre per i nuovi arrivati la Carnia friulana era ormai “Cossackia”. Cominciarono persino a cambiare i nomi dei paesi e delle strade: Alesso, pressoché evacuato della sua popolazione autoctona, divenne Novočerkassk, come la città al cuore della controrivoluzione del Don, cosparsa di sangue dai massacri del 1920. «Ai friulani, intanto, non fu mai detto nulla di quell’accordo, che rimase a lungo segreto, anche se i cosacchi dicevano apertamente nei villaggi che quella terra era ormai diventata loro, almeno finché avessero potuto andarsene per tornare a invadere la Russia dei senzadio». Cosa sarebbe stato del Friuli, se avesse vinto l’Asse? «Forse – conclude Dato – sarebbe sorto un nuovo processo di etnogenesi, che avrebbe trasformato friulani e cosacchi in un nuovo popolo, in modo simile a quanto avvenuto in Europa con l’arrivo dei guerrieri della steppa nella tarda antichità. E del resto così li vedevano i friulani: come Unni giunti da lontano sul dorso dei cavalli, con i colbacchi pelosi e il pugnale sempre in vista».Il Friuli si sarebbe chiamato Pfufferstaats Friaul, uno Stato-cuscinetto inserito nella “Grande Austria” per contribuire a isolare l’Unione Sovietica. A insaputa dei friulani, durante la Seconda Guerra Mondiale i nazisti spedirono 40.000 cosacchi tra i monti della Carnia: sarebbero stati il nerbo della nuova ipotetica nazione de-italianizzata, come ricorda Gaetano Dato rievocando l’epopea friulana dei cavalieri russi anti-sovietici. «Erano soldati e profughi arrivati in Friuli dal Don, dal Kuban, dall’Astrakahn, dalla Siberia, dal Caucaso e da tutte le altre terre cosacche. In rotta, insieme all’armata hitleriana, nel maggio del ‘45. «Oltre Timau, quando la salita verso il Plöckenpass comincia a stringersi e a fare tornanti sempre più stretti, i cadaveri dei cavalli, e pure di qualche cammello, punteggiavano la scarpata». Sul lago di Wörth, in Austria, speravano di ricevere un ordine che avrebbe potuto dar loro un nuovo incarico a guerra finita. «Ma innanzitutto dovevano sopravvivere agli agguati dei partigiani e comunque dovevano incontrarsi prima dell’arrivo degli inglesi, sempre che questi ultimi avessero preceduto gli jugoslavi in Carinzia».
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Caro Michele Serra, non sono i No-Tav i ladri del 25 Aprile
Eternamente sdraiato sulla sua amaca, Micheleserra dedica (anche) al movimento No Tav un passo della sua personale invettiva contro la consueta celebrazione “partigiana” (di parte) della festa della Liberazione. Sul giornale di famiglia (Debenedetti) di oggi 26 aprile – sabato italiano – cita con fastidio «i vivaci movimenti che valutano di essere “i veri partigiani”, a volte rubando la scena ai reduci sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi di quella guerra giusta e vittoriosa». La sua prosa prosegue con la più evergreen delle citazioni giornalistiche: la collocazione “in cortile” di tutti i temi “estranei” che sono stati portati nelle manifestazioni di Torino (No Tav), Palermo (No Muos) e Milano (No Canal). Un evidente, implicito indulgere nella celebrazione retorica cara al suo partito di riferimento, che cambia continuamente nome ma conserva pervicacemente il vizio di ritenersi unico autentico depositario della Verità su Democrazia, Costituzione e Resistenza.Una verità consolidata quanto comoda, secondo cui l’ultima fu una unificante e corale lotta di un intero popolo contro un manipolo di feroci ma minoritari fascisti rimasti fedeli agli “invasori” nazisti, quindi in quanto tali alieni… Serra non è notoriamente un frequentatore del nostro “cortile”. Se lo invitassimo ad una delle nostre serate non verrebbe di sicuro, per timore di restar contagiato dal virus incurabile che ha aggredito Erri De Luca. Ma è un peccato (per lui, s’intende): intanto perché, restando appollaiato nella sua Milanodabere (& prossimamente da mangiare, grazie all’Expo) non può ritenersi al riparo dalla propagazione di una epidemia che ha dimostrato di poter colpire a distanza come è successo – ad esempio – al suo “ex collega” Stefano Benni. Ma soprattutto perché, se avesse frequentato anche solo i “nostri” tre giorni a cavallo del sessantanovesimo anniversario della Liberazione, avrebbe faticato a trovare un rassicurante confine all’invasività (benefica) del nostro cortile: cimentarsi in un elenco è quanto di più temerario perché si rischia di riempire pagine senza garantirsi di non incorrere in gravi dimenticanze.Provo allora con alcuni esempi di iniziative particolarmente significative, anche per il forte valore simbolico che hanno avuto, suggerendo al famoso corsivista erede di Fortebraccio alcuni spunti che avrebbe potuto trarne, perché la sua vena non abbia prima o poi ad esaurirsi (con irreparibili conseguenze, visto l’impegnativo modo che ha scelto per guadagnarsi il pane): fosse stato a Bussoleno – alla Libreria del Sole – il pomeriggio del 24 avrebbe potuto ascoltare una antagonista NoTav come Ermelinda Varrese leggere alcune pagine del diario partigiano di Ada Gobetti.Una lettura attenta e sensibile nel sottolinearne l’umanità e la tolleranza che fecero di lei (che fu forse l’unica o una delle poche donne congedata con il grado di maggiore dell’esercito) un raro esempio di chi ha praticato come metodo la disponibilità a capire le ragioni degli altri, anche nei terribili frangenti di una guerra civile! E Gigi Richetto spiegare la contraddizione solo apparente della ostinazione del marito – Piero Gobetti – nel collocare nella rivoluzione liberale di Benedetto Croce e Luigi Einaudi il ruolo della classe operaia di Antonio Gramsci! E il racconto lucido, “didattico” di Ugo Berga, classe 1922, partigiano combattente e commissario politico della 106^ Brigata Garibaldi, che – senza ombra di retorica, né di “appartenenza” – ha spiegato il percorso coerente che portò Ada ad aderire alle formazioni di “Giustizia e Libertà” e la sua capacità di fare causa comune coi “comunisti” sulle nostre montagne.Le nostre montagne luogo di confine come le acque che circondano Lampedusa cantate da Giacomo Sferlazzo a Venaus in una continuità ideale con la “filiazione” sul tema migranti che il Valsusa Film Fest – alla sua diciottesima edizione – ha voluto con l’isola più distante dal nostro profondo nordovest, promuovendovi qualche anno fa una rassegna che ormai cammina sulle sue gambe. Un “favore” che i lampedusani hanno voluto quest’anno “restituire” offrendoci il loro apprezzato concerto; e non in una serata qualsiasi, ma al termine della ormai tradizionale fiaccolata in memoria della Resistenza dei sindaci e dei cittadini di valle che Piera Favro, sindaco di Mompantero, Nilo Durbiano, primo cittadino di Venaus e Sandro Plano, presidente di una Comunità Montana sciolta dall’uomo dalle mutande verdi, ma più unita che mai, hanno chiuso con un saluto a quattro ragazzi che – in attesa che le gravissime accuse a loro carico vengano provate – stanno scontando mesi di carcere duro e preventivo.Le nostre montagne avvolte da nuvole cariche di pioggia anche nel pomeriggio della ricorrenza, quando le mura che delimitano il cortile in cui Serra ci vorrebbe reclusi sono del tutto svanite per accogliere due alberelli spediti sin qui – il primo a Susa e il secondo a Venaus – rispettivamente da Hiroshima e Nagasaki. Due “esseri viventi” sopravvissuti all’olocausto nucleare “alleato” che Elso, uno dei partigiani che il brillante editorialista (del giornale fondato dell’ex guf Scalfari) descrive – forse perché non li frequenta – come sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi, ricorda non essere ancora stato “giustificato” neppure su un piano strettamente militare. E lo fa di fronte agli scolari di Venaus che si sono fatti carico di accudire la pianticella di kaki: il “dono”, come spiega con etimologia virtuosa il loro maestro Paolo Bertini, venuto da tanto lontano e non solo per regalarci i suoi frutti dorati – quando sarà divenuto un albero robusto a dispetto della morte totale da cui fu circondato il suo “progenitore”.Un albero che Tiziana Volta, pacifista bresciana, ha ormai diffuso in tanti luoghi-simbolo del nostro paese e il cui percorso verso la Valle di Susa, come ha ricordato, è iniziato timidamente e in punta di piedi oltre due anni fa. Una pianta cui farà compagnia una scultura di Daniela Baldo. Un “fiore dell’acqua” realizzato non per caso in legno – un antico trave proveniente dal tetto di una vecchia casa – che è stato scolpito e decorato con la collaborazione degli stessi scolari. Un venticinque aprile che si è chiuso idealmente il giorno dopo a Villar Focchiardo con la consegna, alle madri-coraggio della Terra dei Fuochi, del premio intitolato al partigiano Bruno Carli, primo orgoglioso presidente del Valsusa Film Fest, voluto proprio per collegare memoria storica e difesa della terra. Con buona pace del Serra “distante” che – dolcemente cullato dal dondolio della sua amaca – pare non essersi accorto di chi della Resistenza ha fatto e fa continuamente un uso ben più spregiudicato di quello che lui addebita ai “movimenti: quello di chi, per esempio, dopo averci costruito una carriera politica “ricca” e longeva è arrivato, quest’anno, quasi a paragonarne gli eroi rimasti uccisi e a cui dobbiamo la libertà, a due uccisori che – arruolati in difesa di una nave mercantile – hanno scambiato pescatori per pirati al largo delle coste di un oceano ben lontano dal “mare nostrum”.Forse per collocarsi nel solco inaugurato da un suo – sin qui – mancato delfino (il più fedele dei suoi “saggi”) che fu capace di inventarsi, disinteressatamente in pieno ventennio berlusconiano, una pari dignità tra i morti partigiani e quelli repubblichini. Né pare essersi indignato, il graffiante opinionista, per “l’uscita” del prefetto di Pordenone che ha ritenuto, prima di una retromarcia quasi più indecorosa del suo stesso editto, cagionevole per l’ordine pubblico e la sicurezza che si intonasse “Bella ciao” durante la manifestazione in ricordo della Resistenza! Perché la resistenza, caro Serra, è stata e resta sanamente divisiva. L’unità è una necessità, ma non è detto che sia una virtù. Perlomeno fin tanto che chi stette dalla parte sbagliata non ha l’onestà e la dignità di ammetterlo. Ma forse i grandi giornali non sono il luogo migliore per farsene una ragione. Perché sono luoghi molto più angusti del più piccolo dei cortili.(Claudio Giorno, “(25) aprile, dolce dormire”, dal blog di Giorno del 26 aprile 2014).Eternamente sdraiato sulla sua amaca, Micheleserra dedica (anche) al movimento No Tav un passo della sua personale invettiva contro la consueta celebrazione “partigiana” (di parte) della festa della Liberazione. Sul giornale di famiglia (Debenedetti) di oggi 26 aprile – sabato italiano – cita con fastidio «i vivaci movimenti che valutano di essere “i veri partigiani”, a volte rubando la scena ai reduci sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi di quella guerra giusta e vittoriosa». La sua prosa prosegue con la più evergreen delle citazioni giornalistiche: la collocazione “in cortile” di tutti i temi “estranei” che sono stati portati nelle manifestazioni di Torino (No Tav), Palermo (No Muos) e Milano (No Canal). Un evidente, implicito indulgere nella celebrazione retorica cara al suo partito di riferimento, che cambia continuamente nome ma conserva pervicacemente il vizio di ritenersi unico autentico depositario della Verità su Democrazia, Costituzione e Resistenza.