Archivio del Tag ‘riscossione’
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E le nostre sono anche le autostrade più care d’Europa
La tragedia del ponte Morandi di Genova sta portando alla luce uno dei più grandi scandali del nostro paese, quello legato ai contratti sulle concessioni autostradali a beneficio esclusivo di pochi gruppi industriali privati. Ma come funziona nel resto dell’Europa? Quello italiano è un caso unico: le nostre autostrade sono le più care d’Europa. In Germania, Olanda e Belgio le autostrade sono pubbliche e parzialmente gratuite. Dal primo luglio scorso la Germania ha deciso di inserire un pedaggio solo per i camion, che consentirà di investire entro il 2022 circa 7 miliardi di euro nelle infrastrutture stradali. Per inciso, il governo tedesco ha da poco risolto un contenzioso con alcune aziende a cui aveva dato l’appalto per l’inserimento dei pedaggi per i mezzi pesanti. Il ritardo di 16 mesi nella realizzazione dell’opera, rispetto a quanto previsto dal contratto, è costato alle società una multa di 3,2 miliardi di euro, denaro che è finito nelle casse dello Stato. Esattamente l’opposto di ciò che è accaduto in questi anni in Italia, dove Atlantia si è permessa per anni di non realizzare gli interventi previsti e assolutamente necessari, facendo cassa a scapito dei cittadini senza che lo Stato muovesse un dito. E ora, davanti alla devastazione e ai morti, ha ancora il coraggio di parlare di perdite per gli azionisti, contratti e penali, sostenuta in questa campagna scandalosa dal Partito Democratico e da Forza Italia.Ci sono poi altri paesi come Austria, Svizzera e Slovenia che hanno autostrade a pagamento, ma con prezzi decisamente più convenienti rispetto a quelli italiani. In Austria l’abbonamento alle autostrade costa 87,30 euro l’anno, in Svizzera 40 franchi (circa 38,12 euro), in Slovenia 110 euro. Con questi soldi in Italia si percorrono appena 1.200 chilometri.Regno Unito, Spagna e Francia hanno affidato la gestione delle reti a società private tramite contratti di concessione. A differenza dell’Italia, però, nessun segreto di Stato e soprattutto più gestori, dunque più concorrenza. Nel nostro paese il 70% delle concessioni per la rete autostradale se lo spartiscono da anni due gruppi: il gruppo Atlantia (Benetton) che con Autostrade per l’Italia gestisce oltre 3.000 chilometri, e il gruppo Gavio, che gestisce oltre 1.200 chilometri. Nei pochi paesi dove la concessione è in mano ai privati, inoltre, sono stati stipulati contratti fortemente vincolanti. Nello specifico, in Spagna il pagamento del pedaggio è previsto soltanto sul 20% della rete e viene definito dal ministero dei lavori pubblici. Nel Regno Unito il guadagno degli operatori viene vincolato alla qualità del servizio, al livello di sicurezza e alla capacità di gestire al meglio la circolazione.In Francia sono ben diciannove le società concessionarie, le quali – a fronte della riscossione dei pedaggi – devono assicurare “la costruzione, l’estensione, la manutenzione e il funzionamento della rete”. Ogni cinque anni o in caso di necessità vengono stipulati accordi di piano tra lo Stato e queste società per finanziare ulteriori investimenti inizialmente non previsti. Perché la gestione di un bene pubblico, come la rete autostradale, non deve e non può essere una rendita finanziaria. Chiunque lavori al servizio dello Stato – e dunque dei cittadini italiani – deve garantire una gestione etica di quel bene, ponendo in cima valori quali efficienza, trasparenza, legalità e sicurezza. Se i Benetton hanno potuto lucrare su un bene pubblico indisturbati, però, è perché un’intera classe politica ha offerto loro per anni una sponda politica. I precedenti governi – da Prodi a D’Alema, passando per Berlusconi e Renzi – hanno prima regalato ai Benetton e poi prorogato per periodi sempre più lunghi gran parte della rete autostradale nazionale, senza pretendere investimenti in manutenzione e una compartecipazione degli utili.Tra il 2008 e il 2016, secondo dati del ministero dei trasporti, mancano all’appello 1,5 miliardi di investimenti preventivati sulla rete autostradale, a fronte di un incremento dei pedaggi del 25% (lievitati addirittura del 65,9% dal 1999 al 2013). Insomma, meno investi più guadagni, a scapito della sicurezza. Ma non solo. Oltre a favorire guadagni miliardari, il contratto prevede che, in caso di decadimento della concessione per gravi inadempienze da parte del concessionario, quest’ultimo venga indennizzato di tutti i profitti che avrebbe conseguito per gli anni residui di concessione. In sostanza, un risarcimento per i danni provocati dallo stesso imprenditore negligente. La classica privatizzazione della vecchia politica collusa con le lobbies: del resto, se si può fare un favore a un amico, quest’ultimo poi ricambierà. E in questi casi abbiamo imparato che per certi personaggi le regole non contano, conta solo fare profitti con i soldi dei cittadini italiani (e anche sulla loro pelle). È questa la logica che ha spolpato questo paese negli ultimi trent’anni.(“Italia, le autostrade più care d’Europa. Eccome come funziona degli altri paesi Ue”, dal “Blog delle Stelle” del 24 agosto 2018).La tragedia del ponte Morandi di Genova sta portando alla luce uno dei più grandi scandali del nostro paese, quello legato ai contratti sulle concessioni autostradali a beneficio esclusivo di pochi gruppi industriali privati. Ma come funziona nel resto dell’Europa? Quello italiano è un caso unico: le nostre autostrade sono le più care d’Europa. In Germania, Olanda e Belgio le autostrade sono pubbliche e parzialmente gratuite. Dal primo luglio scorso la Germania ha deciso di inserire un pedaggio solo per i camion, che consentirà di investire entro il 2022 circa 7 miliardi di euro nelle infrastrutture stradali. Per inciso, il governo tedesco ha da poco risolto un contenzioso con alcune aziende a cui aveva dato l’appalto per l’inserimento dei pedaggi per i mezzi pesanti. Il ritardo di 16 mesi nella realizzazione dell’opera, rispetto a quanto previsto dal contratto, è costato alle società una multa di 3,2 miliardi di euro, denaro che è finito nelle casse dello Stato. Esattamente l’opposto di ciò che è accaduto in questi anni in Italia, dove Atlantia si è permessa per anni di non realizzare gli interventi previsti e assolutamente necessari, facendo cassa a scapito dei cittadini senza che lo Stato muovesse un dito. E ora, davanti alla devastazione e ai morti, ha ancora il coraggio di parlare di perdite per gli azionisti, contratti e penali, sostenuta in questa campagna scandalosa dal Partito Democratico e da Forza Italia.
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Attenti alle tasse occulte, sono il 96% e strozzano gli italiani
Il contribuente non è consapevole di dare allo Stato gran parte del suo guadagno, salvo poi accorgersi dell’alto costo del lavoro (se è un datore) o dell’esiguità dello stipendio (se è un dipendente). Il calcolo di quanto sia nascosto il fisco italiano lo ha fatto la Cgia di Mestre. Nel 96% dei casi le tasse sono occulte, cioè vengono prelevate alla fonte, ovvero dalla busta paga, o sono incluse nei beni o nei servizi che vengono acquistati. Un lavoratore dipendente compie il gesto consapevole di versare allo Stato solo per il 4%, andando in banca o alla posta. Nel 2016 una famiglia tipo di due lavoratori dipendenti con un figlio, ha calcolato il centro studi della Cgia, pagherà in media 17mila euro di tasse. Per la quasi totalità prelevate alla fonte. Il prelievo “alla fonte” rappresenta il 65% del totale del carico fiscale annuo. Rientrano in questa categoria i versamenti dei contributi previdenziali Inps, Irpef e le addizionali regionali e comunali Irpef. Ma nelle tasse “nascoste” rientra anche l’Iva, l’imposta su beni e servizi incorporata nel prezzo. Ultimo arrivato, il canone Rai che non pagheremo più allo sportello, ma dentro una bolletta.Le altre tasse, quelle consapevoli, sono ormai sono ridotte al lumicino: da quest’anno solo il bollo auto e la Tari costringono la famiglia di dipendenti a mettere mano al portafogli per un importo di 696 euro (pari al 4% del totale), ha calcolato la Cgia. Il tema dei contribuenti inconsapevoli torna agli onori delle cronache ogni volta che qualcuno propone di parificare il regime fiscale per gli autonomi e per i dipendenti, lasciando a questi ultimi il lordo in busta paga e l’onere di versare le imposte con la dichiarazione. Operai e impiegati, trattati come avvocati e commercianti. Proposta sempre bocciata perché – questa la motivazione dei contrari – farebbe aumentare l’evasione fiscale. Ma non c’è solo questo. «Nel momento in cui ci rechiamo in banca o alle poste per pagare – segnala il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo – psicologicamente percepiamo maggiormente il peso economico di questi versamenti rispetto a quando subiamo il prelievo dell’Irpef o dei contributi previdenziali direttamente dalla busta paga».«Nel momento in cui mettiamo mano al portafoglio prendiamo atto dell’entità del pagamento e di riflesso scatta una forma di avversione nei confronti del fisco. All’opposto, quando i tributi vengono riscossi alla fonte, l’operazione è astrattamente indolore, perché avviene in maniera automatica». Meglio quindi nascondere le imposte, lasciando al contribuente-dipendente l’impressione che il suo lavoro valga poco. Se pagasse allo sportello, si accorgerebbe di pagare il 4% più del collega tedesco, il 6% di un olandese, del 9% con uno spagnolo e il 13% di un irlandese. Se versasse in prima persona le imposte, diventerebbe consapevole della sproporzione tra la somma che finisce allo Stato e il servizio offerto. Si trasformerebbe, insomma, in un lavoratore autonomo. E questo non piace al fisco.(Antonio Signorini, “Le tasse nascoste che strozzano gli italiani”, da “Il Giornale” del 13 marzo 2016).Il contribuente non è consapevole di dare allo Stato gran parte del suo guadagno, salvo poi accorgersi dell’alto costo del lavoro (se è un datore) o dell’esiguità dello stipendio (se è un dipendente). Il calcolo di quanto sia nascosto il fisco italiano lo ha fatto la Cgia di Mestre. Nel 96% dei casi le tasse sono occulte, cioè vengono prelevate alla fonte, ovvero dalla busta paga, o sono incluse nei beni o nei servizi che vengono acquistati. Un lavoratore dipendente compie il gesto consapevole di versare allo Stato solo per il 4%, andando in banca o alla posta. Nel 2016 una famiglia tipo di due lavoratori dipendenti con un figlio, ha calcolato il centro studi della Cgia, pagherà in media 17mila euro di tasse. Per la quasi totalità prelevate alla fonte. Il prelievo “alla fonte” rappresenta il 65% del totale del carico fiscale annuo. Rientrano in questa categoria i versamenti dei contributi previdenziali Inps, Irpef e le addizionali regionali e comunali Irpef. Ma nelle tasse “nascoste” rientra anche l’Iva, l’imposta su beni e servizi incorporata nel prezzo. Ultimo arrivato, il canone Rai che non pagheremo più allo sportello, ma dentro una bolletta.
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E adesso Equitalia vuole entrare nel nostro conto in banca
I risparmi degli italiani sono in pericolo: conti correnti, depositi, azioni, obbligazioni potrebbero diventare facile preda dei gabellieri di Stato. L’amministratore delegato della società di esazione, Enrico Maria Ruffini, l’ha detto senza troppi giri di parole davanti alla Commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria: per combattere l’evasione servono maggiori poteri. Uno in particolare: la possibilità di accedere alle informazioni finanziarie dei debitori attingendo all’Anagrafe dei rapporti finanziari, la banca dati già attiva ma sin qui a disposizione esclusivamente dell’Agenzia delle Entrate. Il tutto, ha aggiunto mistico Ruffini, «nel superiore interesse della riscossione». Il ragionamento, articolato secondo gli schemi della burocrazia tassatoria, non fa una grinza. «Allo scopo di consentire che siano intraprese azioni di recupero puntuali ed efficaci», ha spiegato l’Ad di Equitalia davanti ai parlamentari, «sarebbe importante accordare alle società del gruppo la fruibilità, in forma massiva e a cadenze ravvicinate, di informazioni attuali in ordine alla consistenza effettiva dei rapporti che i debitori intrattengono con gli operatori finanziari».Diventasse legge, dopo essere stato ridotto in mutande il contribuente si ritroverebbe nudo di fronte agli esattori stile Grande Fratello. Che con un clic avrebbero di fatto la possibilità di passare subito all’incasso, scansando i fastidi dell’eventuale verifica in contraddittorio – anche giudiziario – con il cittadino pagatore. Un aspetto di non poco conto se si considera, stando alle parole dello stesso Ruffini, che tra il 2000 ed il 2015 su 250 milioni di cartelle emesse, alla fine ben 30 (2 milioni l’anno) sono state annullate per vizi il più delle volte censurati soltanto dopo il ricorso ai giudici. Morale della favola: nel campo dei balzelli il cittadino rischia d’essere sacrificato sull’altare della Suprema Riscossione. Perché evadere sarà pure immorale e a volte penalmente rilevante e comunque sempre odioso, ma lo Stato non si comporta certo da buon padre di famiglia. E più pretende e sempre meno dà. I Comuni, ad esempio: secondo la Corte dei Conti, per ripianare 8 miliardi di tagli di trasferimenti statali, tra il 2010 e il 2014 hanno alzato del 22% la pressione tributaria media. Così, se nel 2011 ogni italiano scuciva 505 euro, tre anni più tardi la cifra era lievitata a 618 euro.E un semplice pannicello caldo rischia di rivelarsi il blocco degli aumenti dei tributi locali, introdotto per il 2016 con la legge di Stabilità e presentato dal governo come una rivoluzione epocale: per il centro studi di Unimpresa, che a grandi linee ricalca quanto scritto nella nota di accompagnamento al Documento di finanza pubblica (di matrice governativa), «le misure contenute nella legge di Stabilità non produrranno effetti significativi per la riduzione della pressione fiscale, che dopo aver toccato il 43,4% nel 2014, resterà stabilmente sopra la soglia del 43% fino al 2018». Pagheranno i soliti noti. Quelli spremuti da tempi antichi. Vittime impotenti di un sistema malato, prossimo al collasso. Nell’ultimo quindicennio (Ruffini dixit) su 1.058 miliardi di crediti da riscuotere Equitalia ne ha incamerati appena 51, il 5%. Circa 7,7 miliardi l’anno. Ma invece di cambiar strada si tira dritto. Asfaltando il contribuente, con piena consapevolezza politica.Lo scorso agosto a lasciar balenare l’ipotesi di consegnare a Equitalia le chiavi di accesso ai risparmi degli italiani era stato il Pd, che in Commissione Finanze del Senato, attraverso la relatrice Lucrezia Ricchiuti, aveva presentato un parere poi approvato a maggioranza per sollecitare il governo «a restituire al concessionario pubblico efficienza di recupero», oltre a garantirgli «libero accesso a tutte le informazioni finanziarie che riguardano i contribuenti, come i conti bancari italiani e quelli all’estero, la compravendita di auto o di imbarcazioni, i conti titoli». Otto mesi dopo, Equitalia null’altro chiede che il rispetto degli impegni assunti.(Gianpaolo Iacobini, “Equitalia vuole entrare nei nostri conti in banca – La folle idea Equitalia-Pd: le mani nei conti correnti”, da “Il Giornale” del 27 gennaio 2016).I risparmi degli italiani sono in pericolo: conti correnti, depositi, azioni, obbligazioni potrebbero diventare facile preda dei gabellieri di Stato. L’amministratore delegato della società di esazione, Ernesto Maria Ruffini, l’ha detto senza troppi giri di parole davanti alla Commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria: per combattere l’evasione servono maggiori poteri. Uno in particolare: la possibilità di accedere alle informazioni finanziarie dei debitori attingendo all’Anagrafe dei rapporti finanziari, la banca dati già attiva ma sin qui a disposizione esclusivamente dell’Agenzia delle Entrate. Il tutto, ha aggiunto mistico Ruffini, «nel superiore interesse della riscossione». Il ragionamento, articolato secondo gli schemi della burocrazia tassatoria, non fa una grinza. «Allo scopo di consentire che siano intraprese azioni di recupero puntuali ed efficaci», ha spiegato l’Ad di Equitalia davanti ai parlamentari, «sarebbe importante accordare alle società del gruppo la fruibilità, in forma massiva e a cadenze ravvicinate, di informazioni attuali in ordine alla consistenza effettiva dei rapporti che i debitori intrattengono con gli operatori finanziari».
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Il Fiscal Compact? Provano a nasconderlo ipotecando l’oro
Cancelliamo il Fiscal Compact? Forse, ma in compenso ipotechiamo gli Stati, dalle aziende leader alla riserva aurea, facendo persino riscuotere le tasse a un soggetto esterno, non più nazionale, in cambio dell’emissione di eurobond garantiti dall’Ue. «L’idea base di questo progetto è italiana, in quanto i primi a lanciarla, nell’agosto 2011, sono stati Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio». L’ipotesi è poi piaciuta anche agli economisti tedeschi che affiancano il governo di Berlino, i quali hanno anche suggerito alcune clausole sugli aspetti patrimoniali, pur manifestando il consueto scetticismo sugli eurobond. Tutto questo, a quanto pare, sarebbe stato architettato per tenere in piedi l’euro. A questo accordo, spiega Tino Oldani su “Italia Oggi”, starebbero lavorando in segreto economisti e politici di diversi paesi. «La novità centrale sarebbe l’istituzione di un nuovo fondo, l’European Redemption Fund (Fondo per il rimborso del debito), le cui caratteristiche sono illustrate in un “paper” dell’economista Luca Boscolo, discusso il 22 novembre scorso alla London School of Economics».Il punto di partenza sarebbe l’archiviazione del Fiscal Compact, maxi-tagliola approvata con perfetto autolesionismo dai paesi dell’Eurozona per volere dal “partito dell’austerità”? In breve, ricorda il blog “Senza Soste”, si tratta dello sciagurato accordo che impegna gli Stati a tagliare la spesa pubblica per comprimere il debito fino al 60% del Pil. In Italia si tratterebbe di 50 miliardi all’anno, per vent’anni. «Approvato quasi in segreto dal Parlamento, con il voto entusiasta del centrosinistra, il Fiscal Compact è velocemente sparito dalla scena», data la paura provocata da un’amputazione così abnorme del bilancio statale. Così, cominciano a circolare strane ipotesi: il debito considerato “in eccesso”, gravato dagli interessi passivi e divenuto “tossico” in quanto denominato in moneta non sovrana, finiebbe in una sorta di “bad bank” che lo governerebbe, usando come garanzia l’emissione di eurobond e le riserve auree dei vari paesi. Ma attenzione alle clausole-capestro: se un paese non paga, la “bad bank del debito” dovrebbe riscuotere direttamente le tasse, al posto dello Stato.Impossibile, ovviamente, tornare alla moneta nazionale. Per contro, ogni paese dell’Eurozona dovrebbe ipotecare il proprio oro e le principali aziende statali, oltre a dare l’ok a un soggetto esterno per la riscossione coercitiva delle tasse. A monte, l’obiettivo sarebbe completamente fuorviante: contenere il debito pubblico, che in realtà è proprio il motore dello sviluppo. Un lettore del “Corriere della Sera”, Mario Bocci, in una lettera al quotidiano milanese osserva: «Il debito è aumentato in ottobre di 23,5 miliardi e ha raggiunto quota 2.157,5 miliardi. Come faremo a pagare il Fiscal Compact?». Nonostante le manovre e le tasse, il debito cresce ogni anno. Attualmente rappresenta il 135,6% del Pil italiano. «In Europa – scrive “Italia Oggi” – ci supera soltanto la Grecia (174,1%), mentre la media dell’Eurozona è del 93,9%, con la Germania al 77,3%». Rispondere a Bocci non è facile, ammette Oldani, e il “Corriere” non ci ha neppure provato. Renzi ha proposto ai partner europei più flessibilità? Angela Merkel ha avuto gioco facile a bocciarlo, ribadendo le solite false verità neoliberiste, secondo cui non si può fare crescita aumentando la spesa e il debito pubblico.A smentire la Merkel è la storia: l’intero boom economico del dopoguerra, negli Usa e in Europa (e in particolare in Germania) è stato innescato esattamente dagli enormi investimenti statali, spesa pubblica a deficit, quindi debito pubblico. Ma visto che la verità è stata bandita dall’Eurozona, tiene banco il bullismo politico della cancelliera, longa manus delle banche tedesche. Solo che oggi il giocattolo degli speculatori si sta incrinando: «Tra gli economisti, c’è chi considera ormai fallita la moneta unica europea, e ne prevede sempre più vicina la “ropture”», annota Oldani. «Altri prevedono invece che l’euro sarà tenuto in vita grazie a un nuovo accordo europeo, destinato a superare il Fiscal Compact. E qui sta la vera novità, di cui non c’è ancora traccia nel dibattito politico». Così com’è, sostiene Luca Boscolo, l’euro ha troppi difetti per poter durare. E gli interventi della Troika per far rispettare il Fiscal Compact hanno peggiorato dovunque la situazione, invece di migliorarla. Inoltre, l’euro ha provocato pesanti squilibri nell’Eurozona, che lo stesso Fmi ha riconosciuto in un rapporto del luglio 2014: è una moneta sottovalutata in Germania (del 15%), mentre è sopravvalutata (10-14%) nei paesi periferici. Questo ha creato le condizioni per il surplus commerciale dell’export tedesco, superiore al 6% da tre anni, dunque passibile di sanzioni Ue, come lo è lo sforamento del 3% nel rapporto deficit-Pil.«Una situazione esplosiva, che mette in conflitto i paesi più forti con quelli più deboli, dalla quale si può uscire soltanto superando il Fiscal Compact». Come? Tra le soluzioni all’esame della Commissione Europea, rivela Boscolo, vi è appunto l’European Redemption Fund (Erf), in cui mettere tutte le eccedenze del debito dei paesi che sforano il limite del 60%. Dalle prime bozze, il Fondo Erf, da istituire con un nuovo trattato europeo, avrebbe le precise caratteristiche. La prima: il Fondo potrà emettere eurobond sui mercati, dando in garanzia i beni dello Stato interessato, oltre alle riserve valutarie e a quelle auree. Poi: in caso di mancato pagamento dei bond da parte degli Stati interessati, il Fondo potrà incassarne direttamente le tasse. Terza mossa: gli Stati aderenti non avranno più giurisdizione sul loro debito pubblico e non potranno più tornare alla moneta nazionale. Nel caso dell’Italia, spiega Boscolo, la parte del debito che eccede il 60% è pari a 1.182 miliardi: questa sarà la quota che dovrebbe andare nell’Erf. A garanzia dei bond, il nostro paese dovrebbe impegnare i propri asset di valore, cioé beni dello Stato come Eni, Enel e Finmeccanica, oltre alle riserve valutarie e auree.Vantaggi dell’operazione? Riduzione dell’eccesso di debito, medesimi tassi d’interesse nel mercato europeo dei bond, stabilizzazione sui mercati del debito pubblico, con tassi d’interesse più bassi. In definitiva, sparirebbe il rischio di bail-out (salvataggio): niente più prestiti di denaro agli Stati indebitati. Risultato: lunga vita per l’euro. Nemmeno per sogno, dice Boscolo, che ne descrive i rischi: «Sarà l’inizio della fine degli Stati così come li abbiamo conosciuti. Finiranno nelle mani dei grandi capitalisti, i quali hanno voluto l’euro e la globalizzazione per acquistare a prezzi stracciati gli asset dei paesi con moneta debole, per poi rivederli con ottimi guadagni, distruggendo così l’economia locale e impoverendone i cittadini». Va inoltre ricordato che ogni possibile soluzione – se si resta nell’euro – è votata al fallimento dello Stato democratico, premiando esclusivamente l’élite finanziaria. Solo grazie all’euro, infatti, il debito pubblico è diventato un problema esplosivo: non essendo più denominato in moneta sovrana (l’euro non è di nessuno, nemmeno della Bce), il debito in Eurozona va “garantito”, a spese dell’economia reale. Se lo Stato tornasse libero di fare il suo “mestiere”, e cioè realizzare la piena occupazione, secondo gli economisti della Mmt non avrebbe più neppure bisogno di emettere bond, gli basterebbe disporre liberamente di moneta. E il nostro debito farebbe la fine di quello del Giappone, che è enorme (quasi il doppio di quello italiano) ma non costituisce un problema, perché è sovrano e dunque sempre ripagabile, in qualsiasi momento.Cancelliamo il Fiscal Compact? Forse, ma in compenso ipotechiamo gli Stati, dalle aziende leader alla riserva aurea, facendo persino riscuotere le tasse a un soggetto esterno, non più nazionale, in cambio dell’emissione di eurobond garantiti dall’Ue. «L’idea base di questo progetto è italiana, in quanto i primi a lanciarla, nell’agosto 2011, sono stati Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio». L’ipotesi è poi piaciuta anche agli economisti tedeschi che affiancano il governo di Berlino, i quali hanno anche suggerito alcune clausole sugli aspetti patrimoniali, pur manifestando il consueto scetticismo sugli eurobond. Tutto questo, a quanto pare, sarebbe stato architettato per tenere in piedi l’euro. A questo accordo, spiega Tino Oldani su “Italia Oggi”, starebbero lavorando in segreto economisti e politici di diversi paesi. «La novità centrale sarebbe l’istituzione di un nuovo fondo, l’European Redemption Fund (Fondo per il rimborso del debito), le cui caratteristiche sono illustrate in un “paper” dell’economista Luca Boscolo, discusso il 22 novembre scorso alla London School of Economics».