Archivio del Tag ‘rispetto’
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Val Susa, Gaglianone: anche se i NoTav avessero torto
A volte bisogna aggrapparsi alle parole: chi le pronuncia e chi le ascolta. Quando sembra che non restino che quelle perché il resto non c’è più ed è finita, oppure quando si sente che solo da quelle si può ricominciare. Nei ritratti di questo documentario un gruppo di persone si racconta attraverso parole e silenzi. Con vissuti tra loro lontani e con attitudini distanti, si sono ritrovati dalla stessa parte ad abitare la stessa lotta contro la linea ad alta velocità Torino-Lione che dovrebbe passare in valle di Susa, una valle già attraversata da due statali, un’autostrada e una linea ferroviaria dove transitano i Tgv, Train à Grande Vitesse. Per alcuni, questa nuova linea pare rappresentare la linea Maginot del futuro del paese; per altri è un’opera inutile economicamente, devastante per l’ambiente e per le finanze pubbliche. Nel corso degli anni la politica – quella mediaticamente intesa come politica dei partiti – sembra essere scomparsa intorno al problema, incapace di gestire una situazione lasciandola incancrenire (oppure scientemente convinta di doverla gestire esattamente così).In val di Susa invece non è scomparsa, o è ricomparsa, in questi 25 anni di opposizione al progetto, la politica intesa come incontro fra gente che discute sul proprio presente e sul proprio futuro, fra gente che si ritrova per porre delle domande insieme e insieme a cercare delle risposte. Ma nel frattempo una questione politica, sociale ed economica è stata fatta slittare sul piano inclinato dell’ordine pubblico. La questione non è più treno sì, treno no, ma è diventata sistema – questo sistema – sì, sistema no. E allora, sempre di più, il rapporto tra cittadino e Stato si riduce alla sola relazione con un agente in tenuta antisommossa. Per alcuni tutto questo non fa che svelare con evidenza la truffa di un sistema di fisiologica prevaricazione; per altri è la crisi inaccettabile e umiliante della fiducia nella democrazia. Non sono nodi che riguardano solo la val di Susa: nel nostro paese sono sempre più numerosi i fronti in cui tutto sembra ridursi a una faccenda da sbrigare chiamando la polizia.“Qui” è una parola che viene pronunciata spesso, durante i racconti presenti nel documentario. Indica che qui e ora, in questo posto e in questo preciso momento, sta accadendo qualcosa. Indica un luogo in cui si vive e si subisce qualcosa che è vissuta come un’ingiustizia ma indica anche una possibilità di vivere qualcosa di unico e irripetibile. Siamo qui e non altrove. Siamo in val di Susa e non in un altro posto. Eppure, anche se tutto rimanda a fatti e ambienti molto concreti, i racconti svelano, dietro l’urgenza dell’accadimento e dell’attualità, una dimensione che trascende le stesse cause scatenanti del conflitto: e allora “Qui” non è altrove: è ovunque. Le cose narrate, i volti (amareggiati arrabbiati, tristi, allegri e di un’allegria inconsueta, liberatoria e liberata) che le raccontano al di là delle parole, le parole stesse, si rivelano anche come un’astrazione, una riflessione su una condizione che non è solo quella di chi si trova laggiù, in un angolo di mondo: è la intensa consapevolezza di trovarsi di fronte a una contraddizione profonda del nostro modo di vivere che riguarda tutti, anche quelli che pensano che laggiù (qui), questi NoTav son solo degli imbecilli, dei disadattati, dei recalcitranti disfattisti, dei montanari bifolchi e anche egoisti, dei sabotatori cripto-terroristi che non vogliono piegarsi allo “Stato democratico” e al “volere della maggioranza”.E allora, dopo aver fatto un documentario come questo, può suonare paradossale scrivere che le persone incontrate durante la visione potrebbero persino avere torto: la Torino-Lione è “utile e necessaria”. Io credo nelle ragioni dei protagonisti del documentario. Ma alla fine, a me come regista di questo film, non è più questo che importa, il torto o la ragione. A me importa che, alla fine di questo viaggio, chi ha guardato questi volti e ascoltato queste voci comprenda che è possibile trovarsi nella loro condizione e fare le loro scelte, e che tutto questo, “qui e ovunque”, merita molto rispetto. E anche tanta gratitudine.(Daniele Gaglianone, autopresentazione critica al documentario “Qui”, dedicato alla valle di Susa alle prese con la vertenza NoTav,A volte bisogna aggrapparsi alle parole: chi le pronuncia e chi le ascolta. Quando sembra che non restino che quelle perché il resto non c’è più ed è finita, oppure quando si sente che solo da quelle si può ricominciare. Nei ritratti di questo documentario un gruppo di persone si racconta attraverso parole e silenzi. Con vissuti tra loro lontani e con attitudini distanti, si sono ritrovati dalla stessa parte ad abitare la stessa lotta contro la linea ad alta velocità Torino-Lione che dovrebbe passare in valle di Susa, una valle già attraversata da due statali, un’autostrada e una linea ferroviaria dove transitano i Tgv, Train à Grande Vitesse. Per alcuni, questa nuova linea pare rappresentare la linea Maginot del futuro del paese; per altri è un’opera inutile economicamente, devastante per l’ambiente e per le finanze pubbliche. Nel corso degli anni la politica – quella mediaticamente intesa come politica dei partiti – sembra essere scomparsa intorno al problema, incapace di gestire una situazione lasciandola incancrenire (oppure scientemente convinta di doverla gestire esattamente così).
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Da soldati del capitale a uomini liberi, malgrado la Boldrini
L’immigrazione è uno dei temi più caldi del dibattito pubblico attuale. Del resto, in un mondo sempre più globale e insicuro, non potrebbe essere altrimenti. Come spesso capita, però, la discussione si è distanziata precocemente dalla ricerca della verità e di soluzioni concrete, fossilizzandosi in due macro-schieramenti: da un lato, c’è chi vede nell’immigrato un invasore, colpevole di rubare il posto di lavoro altrui; dall’altro, la difesa spasmodica di tale fenomeno ha portato ad affermazioni che farebbero rabbrividire qualsiasi appassionato di distopie. È questo il caso, relativamente recente, del presidente della Camera Laura Boldrini, la quale ha esplicitamente dichiarato in diretta nazionale che «il migrante è l’avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Considerata da alcuni come massimo esempio di tolleranza e libertà, quest’idea se fosse del tutto realizzata sancirebbe la vittoria assoluta del sistema liberal-capitalista, già oggi dominante.Come una veggente di stampo neoliberista, infatti, la Boldrini fa riferimento ad un futuro dove si «dovranno muovere i capitali, le merci, gli esseri umani», vale a dire un mondo senza coesione sociale, valori condivisi e stabilità, in cui a comandare, sempre di più, saranno i marchi multinazionali e gli investitori privati. Non un futuro roseo, insomma, per chi è portatore di tradizioni millenarie e combatte contro i disagi della post-modernità da tutta la propria vita. La posizione “boldriniana”, inoltre, ha la presunzione di considerare la vita dell’immigrato come positiva e fiorente, senza interrogarsi su quanto l’esistenza di una persona, costretta ad abbandonare il proprio paese, la propria famiglia e le proprie consuetudini possa essere considerata un bene e dirsi veramente felice. Quest’atteggiamento denota un forte etnocentrismo che forse sarebbe ora di considerare come il razzismo del XXI secolo. Se è vero, infatti, che gran parte della storia coloniale ha visto nella presunta superiorità di una razza sull’altra la giustificazione del dominio e delle ingiustizie, oggi è l’imposizione di modelli propri di una determinata cultura, liberale e occidentale, ad altre, a svolgere la stessa funzione soggiogatrice.È così che le diverse popolazioni perdono la propria identità e il rispetto di se stesse, nella falsa speranza di divenire altro. Del resto, come osserva Jean Baudrillard, «la cultura occidentale si mantiene soltanto sul desiderio del resto del mondo di accedervi». In quanto tristemente reale, questo concetto si collega direttamente all’altra posizione accennata in precedenza, spesso popolare, che vede nell’immigrato il nemico numero uno, l’artefice del male. Questa visione confonde il vero problema in questione, individuandolo non nel fenomeno sistemico e manipolato dai poteri forti, ma nei suoi attori individuali e disperati. Erroneamente, sposta il bersaglio della critica dall’immigrazione agli immigrati. Questi ultimi, più che ad un esercito invasore, assomigliano a quello che Karl Marx, nel primo libro del “Capitale”, definisce «l’esercito industriale di riserva», ovvero quella massa di disoccupati particolarmente comoda ai capitalisti perché, a seguito della grande concorrenza, determina bassi salari e scarse rivendicazioni sociali.Ecco allora come l’immigrazione, difesa non a caso dai liberisti più accaniti, assomiglia più che ad un’invasione, ad una tratta di schiavi. L’immigrato è, allo stesso tempo, agente inconsapevole e vittima reale di un sistema planetario capace di minare la sicurezza e la dignità di tutti. Continuare a sostenere questo tipo di immigrazione, che di scambio tra culture non ha veramente nulla, significa semplicemente legittimare le logiche neoliberiste. Le stesse logiche che hanno ridotto i paesi del “Nord” alla crisi (culturale, sociale, economica) e, più o meno indirettamente, quelli del “Sud” alla miseria. Questo significherebbe volersi chiudere su se stessi ignorando i problemi, tra l’altro da noi creati, nelle parti più povere del mondo? Niente affatto. In realtà, questa presa di coscienza rappresenterebbe il primo passo concreto per agire veramente a difesa delle popolazioni ridotte oggi alla fame, perché intaccherebbe la struttura stessa del sistema liberal-capitalista, prendendo le distanze sia da slogan distanti dalla realtà di cose, sia da un moralismo molto politically correct che non ha davvero ragione di esistere.Questa critica, costruttiva e non distruttiva, dovrà partire dalla rivalutazione dei paesi, delle culture e della dignità stessa degli abitanti del “Sud” del mondo. Nel suo “Breve trattato sulla decrescita serena”, Serge Latouche parla di una «sfida della decrescita per il Sud», sostenendo come la sua popolazione è ancora in tempo per non ficcarsi in quel vicolo cieco, che è la società progressista, in cui l’altra parte del mondo è condannata da tempo. Oggi la società occidentale attira migliaia di persone con l’illusione della tecnica e di un marcio benessere, costruito proprio sulle spalle altrui; per questo, come osserva Latouche, «finché l’Etiopia e la Somalia saranno costrette, mentre infuria la carestia, a esportare alimenti per i nostri animali domestici, finché noi ingrasseremo il nostro bestiame con la pasta di soia prodotta sulle cenere delle foreste amazzoniche, noi soffocheremo qualsiasi tentativo di reale autonomia nel Sud». La “reale autonomia” di tutti i popoli, alimentata dal confronto e dalla scambio tra le diverse realtà presenti nel mondo, rappresenta l’obiettivo per cui lottare oggi. Una presa di posizione netta sul tema dell’immigrazione, al di là di posizioni stereotipate, è necessaria per far finire il circolo vizioso e conseguire questo fine.(Lorenzo Pennacchi, “Da soldati del capitale a uomini liberi”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 24 ottobre 2014).L’immigrazione è uno dei temi più caldi del dibattito pubblico attuale. Del resto, in un mondo sempre più globale e insicuro, non potrebbe essere altrimenti. Come spesso capita, però, la discussione si è distanziata precocemente dalla ricerca della verità e di soluzioni concrete, fossilizzandosi in due macro-schieramenti: da un lato, c’è chi vede nell’immigrato un invasore, colpevole di rubare il posto di lavoro altrui; dall’altro, la difesa spasmodica di tale fenomeno ha portato ad affermazioni che farebbero rabbrividire qualsiasi appassionato di distopie. È questo il caso, relativamente recente, del presidente della Camera Laura Boldrini, la quale ha esplicitamente dichiarato in diretta nazionale che «il migrante è l’avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Considerata da alcuni come massimo esempio di tolleranza e libertà, quest’idea se fosse del tutto realizzata sancirebbe la vittoria assoluta del sistema liberal-capitalista, già oggi dominante.
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Sovranità dal basso, contro il potere imperiale dell’Ue
Sovranità viene dal francese “souverain” e porta con sé il senso del “sopra”, dello “stare sopra”, e in tal senso del ricoprire una funzione di coordinazione e di potere superiore. Nella letteratura filosofica contemporanea, il paradigma della sovranità è quello della bio-politica, così come sviluppato da Michel Foucault prima e Giorgio Agamben dopo, cioè del controllo spasmodico dei corpi e dei comportamenti così come storicamente sviluppato nei regimi totalitari. Un contesto semantico perciò negativo: sovranità, in questi autori, è sinonimo di potere assoluto, cieco, brutale, totalitario, fuori da ogni controllo, eppur mosso dal desiderio del controllo assoluto. Di qui la riflessione di Foucault sulle modalità di uscita da simili dinamiche malate di potere, tramite la cura di sé, la rivalutazione dell’individuo, la critica alle forme di potere occulte. Altro luogo interessante di definizione della sovranità è quello di eccezione, ovvero di stato di eccezione, così come sviluppato da Carl Schmitt: il sovrano è colui che risulta “escluso”, nel senso che la regola che egli stesso emana non gli viene mai applicata.Da qui il concetto di “immunitas”, che politicamente viene considerato come il caposaldo di ogni dottrina del potere. Il sovrano è colui che sta sopra a tutto e tutti e quindi avulso da tutti i dispositivi di potere. Insomma, in entrambi i casi, filosoficamente parlando, il concetto di sovranità ne esce male, sintomo e simbolo delle peggiori dinamiche del potere. In che senso allora noi oggi ci consideriamo sovranisti? Nei sensi sopra delineati? La sovranità di cui noi parliamo è tutt’altra cosa e non si appiattisce alla lettura di parte e già sbilanciata verso una sorta di buonismo democratico di sinistra di Foucault per esempio. La sovranità di cui noi trattiamo non è affatto un principio superiore di potere e tutto quel che ne consegue, ma al contrario rappresenta la fuga e la lotta contro quell’unico principio superiore e profondamente e malatamente democratico che è per esempio la costruzione di una Europa unica e unita.I sovranisti lottano contro ogni massificazione totalitaria di cose, principi, nazioni, territori, genti, popoli. I sovranisti prediligono la differenza, la differenziazione, all’unità e all’unificazione. I sovranisti rivendicano autonomie e indipendenze, contro ogni potere superiore. La sovranità che noi vorremmo è quindi quella di ogni paese e nazione, è quella italiana nel caso specifico, sia dal punto di vista politico e monetario, che dal punto di vista energetico, alimentare e via dicendo. Una sovranità insomma che provenga dal basso, che rappresenti una liberazione dei territori da meccanismi superiori di controllo e potere, contro quindi una sovranità dall’alto, avvolgente, totalizzante, schiacciante, impositiva.Per concludere, tale sovranità proveniente dall’alto si configurerà come un impero, un tutt’uno omogeneo, composto da territori per nulla liberi e sovrani, ma assoggettati alla medesima logica imperiale e dispotica. Dall’altra parte, una sovranità proveniente dal basso può invece configurarsi come una federazione di territori liberi e sovrani, non appiattiti o schiacciati sotto un unico potere dispotico, ma confederati secondo obiettivi comuni, nel rispetto delle reciproche identità e differenze. Come sovranisti noi propendiamo perciò per il secondo significato di sovranità. Insomma, noi crediamo che ce la si possa cavare da soli, senza quel pesante fardello politico che sarebbe una Europa unita e centralizzata.(Jacopo-Niccolò Bonato, “Breve appunto sul concetto di sovranità”, da “Appello al Popolo” del 21 settembre 2014).Sovranità viene dal francese “souverain” e porta con sé il senso del “sopra”, dello “stare sopra”, e in tal senso del ricoprire una funzione di coordinazione e di potere superiore. Nella letteratura filosofica contemporanea, il paradigma della sovranità è quello della bio-politica, così come sviluppato da Michel Foucault prima e Giorgio Agamben dopo, cioè del controllo spasmodico dei corpi e dei comportamenti così come storicamente sviluppato nei regimi totalitari. Un contesto semantico perciò negativo: sovranità, in questi autori, è sinonimo di potere assoluto, cieco, brutale, totalitario, fuori da ogni controllo, eppur mosso dal desiderio del controllo assoluto. Di qui la riflessione di Foucault sulle modalità di uscita da simili dinamiche malate di potere, tramite la cura di sé, la rivalutazione dell’individuo, la critica alle forme di potere occulte. Altro luogo interessante di definizione della sovranità è quello di eccezione, ovvero di stato di eccezione, così come sviluppato da Carl Schmitt: il sovrano è colui che risulta “escluso”, nel senso che la regola che egli stesso emana non gli viene mai applicata.
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Foa: posto fisso, perché non possiamo credere a Renzi
C’è qualcosa che non torna negli annunci di Matteo Renzi sulla liberalizzazione del mercato del lavoro. Sia chiaro: le economie di mercato funzionano quando possono operare con la dovuta flessibilità. Vale per il mercato dei cambi (vedi i danni provocati dalla rigidità dell’euro) e anche per il mercato del lavoro. A una condizione: che agli imprenditori sia permesso di fare impresa e che la cultura sociale del paese sia basata solidamente sulla convivenza civile e il rispetto della persona. Mi spiego. Come sanno i lettori di questo blog, da tre anni sono tornato in Svizzera, dove dirigo il gruppo editoriale “Corriere del Ticino-Timedia”. In Svizzera il posto fisso non è garantito a nessuno. Si può licenziare con un preavviso di 2 mesi e senza Tfr, tuttavia nessun imprenditore abusa di questo diritto. I posti non sono tecnicamente fissi, nel senso che nessuna legge li tutela vita natural durante, ma molto stabili. Si licenzia a fronte di gravi mancanze professionali o in caso di crisi/ristrutturazione.C’è un vincolo sociale, o se preferite morale, che porta i dirigenti delle imprese a usare con buon senso e nelle giuste proporzioni un diritto in sé molto potente. La cultura prevalente tende a biasimare chi scade nell’abuso o nello sfruttamento e, sebbene ci siano dei casi disdicevoli, pochi violano questa legge non scritta. Inoltre, come noto, la Svizzera primeggia nelle classifiche mondiali sull’imprenditoria. La Svizzera è business friendly: le aziende nascono, crescono, si sviluppano e restano sul territorio. Risultato: la disoccupazione è bassissima e la Confederazione elvetica continua ad assumere lavoratori dall’estero, a riprova di un mercato dinamico. Ma in Italia? Purtroppo in Italia non si può dire lo stesso. La cultura sociale non è basata sul rispetto, ma sulla sfiducia sociale, sull’elusione della legge, sui rapporti di forza con le controparti sociali.A fronte di molti imprenditori seri che hanno un rapporto corretto, spesso esemplare, con i propri dipendenti, ne esistono altri – sovente nei servizi – che scadono nello sfruttamento; quegli imprenditori (ammesso che possano essere considerati tali) che assumono in nero o vanno avanti con contratti a tempo determinato senza mai trasformarli in contratti a tempo indeterminato, insomma che sfruttano i lavoratori, che speculano sulla loro disperazione sociale. Sono questi figuri che alla fine legittimano e rafforzano il sindacato. E c’è l’Italia di oggi: un’Italia ormai quasi deindustrializzata non per demerito dei suoi imprenditori ma a causa degli effetti delle politiche irresponsabili, vessatorie e ingiuste volute dall’establishment europeo e portate a termine con solerzia da Mario Monti ed Enrico Letta, con la benedizione del pontefice di Francoforte Mario Draghi.Nell’Italia di oggi il problema non è il posto fisso, bensì che il posto non c’è più. Coloro che hanno provocato questa desertificazione economica sono gli stessi che da 15 anni promettono di anno in anno riprese che non arrivano mai, paradisi che non si materializzano mai, vaticinano di economia di mercato e di flessibilità ma promuovono la burocratizzazione dell’economia europea, avallando rigidità strutturali insostenibili. E fino a quando Matteo Renzi non avrà affrontato questo problema, trovando il coraggio di distanziarsi dal pensiero unico dominante e di mettere di nuovo le aziende nelle condizioni di crescere in libertà, nulla verrà risolto. La riforma dell’articolo 18 rischia di non produrre gli effetti virtuosi sperati ma, paradossalmente, di far aumentare la disoccupazione o di comprimere ancor di più verso il basso i salari. Da sola non basta. Ci vorrebbero un progetto, un’idea del paese, fiducia nel genio imprenditoriale degli italiani e il coraggio di liberare le imprese e l’Italia dai vincoli burocratici ed esterni che ne inibiscono la creatività. Ci vorrebbe un leader concreto, coraggioso e lungimirante. Qualcuno di ben diverso da Matteo Renzi.(Marcello Foa, “Posto fisso, perché non possiamo credere a Renzi”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 27 ottobre 2014).C’è qualcosa che non torna negli annunci di Matteo Renzi sulla liberalizzazione del mercato del lavoro. Sia chiaro: le economie di mercato funzionano quando possono operare con la dovuta flessibilità. Vale per il mercato dei cambi (vedi i danni provocati dalla rigidità dell’euro) e anche per il mercato del lavoro. A una condizione: che agli imprenditori sia permesso di fare impresa e che la cultura sociale del paese sia basata solidamente sulla convivenza civile e il rispetto della persona. Mi spiego. Come sanno i lettori di questo blog, da tre anni sono tornato in Svizzera, dove dirigo il gruppo editoriale “Corriere del Ticino-Timedia”. In Svizzera il posto fisso non è garantito a nessuno. Si può licenziare con un preavviso di 2 mesi e senza Tfr, tuttavia nessun imprenditore abusa di questo diritto. I posti non sono tecnicamente fissi, nel senso che nessuna legge li tutela vita natural durante, ma molto stabili. Si licenzia a fronte di gravi mancanze professionali o in caso di crisi/ristrutturazione.
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Cremaschi: ho visto un mondo libero dal ricatto della paura
Ho visto un altro mondo e ora mi sembra un sogno. Non siamo più negli anni ’70, mi rinfaccia con rabbia e arroganza o semplicemente con tristezza chi mi chiede di tacere. E non sa fino a che punto potrei dargli ragione. Ho visto un mondo dove il posto di lavoro era la partenza, non l’arrivo incerto di un percorso a ostacoli. I primi volantini che da studente negli anni ’60 ho distribuito timidamente davanti a una fabbrica di Bologna chiedevano l’abolizione dell’apprendistato e dei contratti a termine, perché, si scriveva, servivano solo a pagare di meno e a sfruttare di più. Furono davvero aboliti. Ricordo quando il periodo di prova per entrare al lavoro durava due settimane per un operaio, poco più di un mese per un impiegato. Durante questo periodo il nuovo assunto era esentato dagli scioperi e da ogni partecipazione alla vita sindacale e politica nel luogo di lavoro. Erano gli stessi militanti sindacali a consigliare quel comportamento, suggerendo: poi, quando sarai confermato, ti potrai sfogare.Oggi la prova non finisce mai, contratti precari su contratti precari per fare sempre lo stesso lavoro. E siccome non c’è mai fine al peggio, a tutto questo si vuol aggiungere il nuovo contratto di lavoro renziano. Che stabilisce che per tre o quattro anni si potrà essere assunti in prova con paga ridotta, senza alcun diritto e licenziabili in qualsiasi momento. E dopo la conferma sarà lo stesso. Una nuova regola finalmente, diranno gli estimatori. Sì, la regola: o ti va bene così o quella è la porta. Quella stessa porta da cui puoi uscire improvvisamente se, una volta raggiunto con tanta fatica il fatidico posto fisso, ti comunicano che la tua azienda delocalizza, o che viene sostituita da una cooperativa del subappalto, o che la “spending review” ha imposto il taglio del servizio. Da lavoratore flessibile a risorsa, da risorsa a esubero. Il ciclo vitale del lavoratore subisce le stesse mutazioni della vita degli insetti, si passa in stadi diversi e sempre più spesso quello che si presenta come il più bello è quello che dura di meno. I lavoratori come farfalle.Neanche allora c’era davvero la piena occupazione e tuttavia il sistema aspirava ad essa, la disoccupazione di massa del dopoguerra era stata riassorbita, anche attraverso dolorose migrazioni interne. Ripeto: il posto di lavoro era la partenza, da lì ci si muoveva per cominciare a pensare al salario, all’orario, ai diritti, al rispetto e alla dignità. E da tutto ciò derivavano forza e orgoglio. Ricordo una delle prime assemblee operaie a cui mi capitò di assistere, ancora da studente abbastanza intimidito. Era in un cinema di Bologna ove le operaie di una fabbrica tessile si incontravano con il consiglio di fabbrica di una grande impresa metalmeccanica. Si scambiavano esperienze e solidarietà e i metalmeccanici naturalmente si vantavano un bel po’ davanti a centinaia di giovani donne. Uno di loro mostrò un fischietto e spiegò: questa è la nostra arma; qualcosa non va, una prepotenza ci sta per colpire? Noi fischiamo e tutti si fermano. Ricordo le risate e la commozione, gli applausi e una fischiata generale di prova.Oggi la condizione psicologica normale di chi lavora è un intreccio di rancore rassegnato e di paura. La paura di fronte al ricatto. Su questa paura si è lavorato per decine di anni. Anche buona parte dei sindacati ha finito per adeguarsi ad essa, persino per servirsene. Senza il sistema della paura, anche nella mutata organizzazione del lavoro, le persone troverebbero di nuovo il coraggio di alzare la testa. Si è investito sulla paura, si educa alla paura. Nel linguaggio politicamente corretto essa si chiama senso di responsabilità, accettazione delle compatibilità, persino giusto spirito della modernità e della competitività nelle versioni più sfacciate. Ma sempre di paura si tratta. Si afferma: o così o il lavoro sparisce. Ma una ricerca in Germania ha mostrato che su cento aziende che hanno annunciato la delocalizzazione, solo una o due l’hanno poi fatta davvero. Però quella minaccia è bastata per ottenere condizioni salariali e di lavoro peggiori. Colpiscine uno per educarne cento. E d’altra parte, se non fosse così, come spiegare che anche là dove l’attività non può essere delocalizzata, ma anzi deve essere rigidamente localizzata, domina il rapporto di lavoro fondato sulla paura?Le grandi cattedrali del consumo, quei mastodontici centri commerciali che spesso prendono il posto degli antichi insediamenti industriali ora dismessi, sono luoghi ove lavorano migliaia di persone. Anche qui dominano paura e rassegnazione, ognuna e ognuno hanno ormai il proprio contratto di lavoro, che si rinnova al ribasso periodicamente. E il centro commerciale non può certo essere spostato in Romania. Ma i contratti precari, le flessibilità articolate con astuzia sopraffina, in modo da fare sì che non ci siano due persone con gli stessi immediati interessi, la continua violenta sopraffazione ideologica verso tutto ciò che minimamente potrebbe alludere al conflitto, producono alla fine ciò che più interessa a chi comanda: la passività.(Giorgio Cremaschi, “Divieni farfalla, poi muori”, da “Carmilla online” del 3 ottobre 2014).Ho visto un altro mondo e ora mi sembra un sogno. Non siamo più negli anni ’70, mi rinfaccia con rabbia e arroganza o semplicemente con tristezza chi mi chiede di tacere. E non sa fino a che punto potrei dargli ragione. Ho visto un mondo dove il posto di lavoro era la partenza, non l’arrivo incerto di un percorso a ostacoli. I primi volantini che da studente negli anni ’60 ho distribuito timidamente davanti a una fabbrica di Bologna chiedevano l’abolizione dell’apprendistato e dei contratti a termine, perché, si scriveva, servivano solo a pagare di meno e a sfruttare di più. Furono davvero aboliti. Ricordo quando il periodo di prova per entrare al lavoro durava due settimane per un operaio, poco più di un mese per un impiegato. Durante questo periodo il nuovo assunto era esentato dagli scioperi e da ogni partecipazione alla vita sindacale e politica nel luogo di lavoro. Erano gli stessi militanti sindacali a consigliare quel comportamento, suggerendo: poi, quando sarai confermato, ti potrai sfogare.
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Putin: americani fermatevi, il mondo non vuole più guerre
La rettitudine e la durezza nel formulare delle valutazioni servono oggi non per punzecchiarci reciprocamente, ma per cercare di comprendere che cosa veramente sta accadendo nel mondo, perché diventa sempre meno sicuro e meno prevedibile, perché ovunque aumentano i rischi. Nuove regole del gioco oppure gioco senza regole? Formulato così, il concetto descrive puntualmente quel bivio storico in cui ci troviamo, la scelta che dovrà essere compiuta da tutti noi. L’idea che il mondo contemporaneo cambi precipitosamente non è nuova. Infatti, rimane difficile non notare le trasformazioni nella politica globale, nell’economia, nella vita sociale, nell’ambito delle tecnologie industriali, informatiche e sociali. Ma nell’analizzare la situazione attuale non dobbiamo dimenticare le lezioni della storia. In primo luogo, il cambio dell’ordine mondiale (e i fenomeni che osserviamo oggi appartengono proprio a questa scala), veniva accompagnato, di solito, se non da una guerra globale, da intensi conflitti locali. In secondo luogo, parlare di politica mondiale significa affrontare i temi della leadership economica, della pace e della sfera umanitaria, compresi i diritti dell’uomo.Nel mondo si è accumulata una moltitudine di contrasti. E bisogna chiedersi in tutta franchezza se abbiamo una rete di protezione sicura. Purtroppo, la certezza che il sistema di sicurezza globale e regionale sia capace di proteggerci dai cataclismi non c’è. Questo sistema risulta seriamente indebolito, frantumato e deformato. Vivono tempi difficili le istituzioni, internazionali e regionali, di interazione politica, economica e culturale. Molti meccanismi atti ad assicurare l’ordine mondiale si sono formati in tempi lontani, influenzati soprattutto dall’esito della Seconda Guerra Mondiale. La solidità di questo sistema non si basava esclusivamente sul bilanciamento delle forze e sul diritto dei vincitori, ma anche sul fatto che i “padri fondatori” di questo sistema di sicurezza si trattavano con rispetto, non cercavano di “spremere fino all’ultimo” ma cercavano di mettersi d’accordo. Il sistema continuava ad evolversi e, nonostante tutti i suoi difetti, era efficace per – se non una soluzione – almeno per un contenimento dei problemi mondiali, per una regolazione dell’asprezza della concorrenza naturale tra gli Stati.Sono convinto che questo meccanismo di controbilanciamenti non potesse essere distrutto senza creare qualcosa in cambio, altrimenti non ci sarebbero davvero rimasti altri strumenti se non la rozza forza. Tuttavia gli Stati Uniti, dichiarandosi i vincitori della “guerra fredda”, hanno pensato – e credo che l’abbiano fatto con presunzione – che di tutto questo non v’è alcun bisogno. Dunque, invece di raggiungere un nuovo bilanciamento delle forze, che rappresenta una condizione indispensabile per l’ordine e la stabilità, hanno intrapreso, al contrario, i passi che hanno portato a un peggioramento repentino dello squilibrio. La “guerra fredda” è finita. Però non si è conclusa con un raggiungimento di “pace”, con degli accordi comprensibili e trasparenti sul rispetto delle regole e degli standard oppure sulle loro elaborazione. Par di capire che i cosiddetti vincitori della “guerra fredda” abbiano deciso di “sfruttare” fino in fondo la situazione per ritagliare il mondo intero a misura dei propri interessi. E se il sistema assestato delle relazioni e del diritto internazionali, il sistema del contenimento e dei controbilanciamenti impediva il raggiungimento di questo scopo, veniva da loro immediatamente dichiarato inutile, obsoleto e soggetto ad abbattimento istantaneo.Il concetto stesso della “sovranità nazionale” per la maggioranza degli Stati è diventato un valore relativo. In sostanza, è stata proposta la formula seguente: più forte è la lealtà a un unico centro di influenza nel mondo, più alta è la legittimità del regime governante. Le misure per esercitare pressione sui disubbidienti sono ben note e collaudate: azioni di forza, pressioni di natura economica, propaganda, intromissione negli affari interni, rimandi a una certa legittimità di “infra-diritto”. Recentemente siamo venuti a conoscenza di testimonianze di ricatti non velati nei confronti di una serie di leader. Non è un caso che il cosiddetto “grande fratello” spenda miliardi di dollari per lo spionaggio in tutto il mondo, compresi i suoi stretti alleati. Allora facciamoci la domanda se tutti noi troviamo la nostra vita confortevole e sicura in questo mondo, chiediamoci quanto sia giusto e razionale il mondo. Forse il modo in cui gli Usa detengono la leadership è davvero un bene per tutti? Le loro onnipresenti interferenze negli affari altrui implicano pace, benessere, progresso, prosperità, democrazia? Bisogna semplicemente rilassarsi e godersela? Mi permetto di dire che non è così. Non è assolutamente così.Il diktat unilaterale e l’imposizione dei propri stereotipi producono un risultato opposto: al posto di una soluzione dei conflitti, l’escalation; al posto degli Stati sovrani, stabili, l’espansione del caos; al posto della democrazia, il sostegno a gruppi ambigui, dai neonazisti dichiarati agli islamisti radicali. Continuo a stupirmi di fronte agli errori ripetuti, una volta dopo l’altra, dei nostri partner che si danno da soli la zappa sui piedi. A suo tempo, nella lotta contro l’Unione Sovietica, avevano sponsorizzato i movimenti estremisti islamici che si erano rinvigoriti in Afghanistan, fino a generare sia i talebani sia Al-Qaeda. L’Occidente, pur senza ammettere il suo sostegno, chiudeva un occhio. Anzi, in realtà sosteneva l’irruzione dei terroristi internazionali in Russia e nei paesi dell’Asia Centrale attraverso le informazioni, la politica e la finanza. Non l’abbiamo dimenticato. Solo dopo i terribili atti terroristici compiuti nel territorio degli stessi Usa siamo arrivati alla comprensione della minaccia comune del terrorismo. Vorrei ricordare che allora siamo stati i primi a esprimere il nostro sostegno al popolo degli Stati Uniti d’America e abbiamo agito come amici e partner dopo la spaventosa tragedia dell’11 Settembre.Nel corso dei miei incontri con i leader statunitensi ed europei ho costantemente ribadito la necessità di lottare congiuntamente contro il terrorismo, che rappresenta una minaccia su scala mondiale. Non possiamo rassegnarci di fronte a questa sfida. Una volta la nostra visione era condivisa, ma è passato poco tempo e tutto è tornato come prima. Si sono verificati in seguito gli interventi sia in Iraq sia in Libia. Quest’ultimo paese, tra l’altro, ora è diventato un poligono per i terroristi. E soltanto la volontà e la saggezza delle autorità attuali dell’Egitto hanno permesso di evitare il caos e lo scatenarsi violento degli estremisti anche in questo paese-chiave del mondo arabo. In Siria, come in passato, gli Usa e i loro alleati hanno cominciato a finanziare apertamente e a fornire le armi ai ribelli, favorendo il loro rinforzo con gli arrivi dei mercenari di vari paesi. Permettetemi di chiedere dove i ribelli trovano denaro, armi, esperti militari? Com’è potuto accadere che il famigerato Isis si sia trasformato praticamente in un esercito?Si tratta non solo dei proventi dal traffico di droga, ma la sovvenzione finanziaria proviene anche dalle vendite del petrolio, la cui estrazione è stata organizzata nei territori sotto il controllo dei terroristi. Lo vendono a prezzi stracciati, lo estraggono, lo trasportano. Qualcuno lo compra, lo rivende e ci guadagna, senza pensare al fatto che così sta finanziando i terroristi, gli stessi che prima o poi colpiranno anche nella sua terra. Da dove provengono le nuove reclute? Sempre in Iraq, dopo il rovesciamento di Saddam Hussein sono state distrutte le istituzioni dello Stato, compreso l’esercito. Già allora abbiamo detto: siate prudenti e cauti. Con quale risultato? Decine di migliaia di soldati e ufficiali, ex militanti del partito Baath, buttati sulla strada, oggi si sono uniti ai guerriglieri. A proposito, non sarà nascosta qui la capacità di azione dell’Isis? Le loro azioni sono molto efficaci dal punto di vista militare, sono oggettivamente dei professionisti. La Russia aveva avvertito più volte del pericolo che comportano le azioni di forza unilaterali, delle interferenze negli affari degli Stati sovrani, delle avance agli estremisti e ai radicali, insistendo sull’inclusione dei raggruppamenti che lottavano contro il governo centrale siriano, in primo luogo dell’Isis, nelle liste dei terroristi. Tutto inutile.L’accrescimento del dominio di un unico centro di forza non conduce alla crescita del controllo dei processi globali. Al contrario, è inefficace contro le vere minacce costituite dai conflitti regionali, terrorismo, traffico di droga, fanatismo religioso, sciovinismo e neonazismo. Allo stesso tempo ha largamente spianato la strada ai nazionalismi e alla rude soppressione dei più deboli. Il mondo unipolare è la celebrazione apologetica della dittatura sia sulle persone sia sui paesi. Ed è un mondo insostenibile e difficile da gestire anche per il cosiddetto leader autoproclamatosi. Da qui nascono i tentativi odierni di ricreare un simulacro del mondo bipolare, più “comodo” per la leadership americana. Poco importa chi occuperà, nella loro propaganda, il posto del “centro del male” che spettava una volta all’Urss: l’Iran, la Cina oppure ancora la Russia. Adesso assistiamo di nuovo a un tentativo di frantumare il mondo, fabbricare delle coalizioni non secondo il principio “a sostegno di”, ma “contro”; serve l’immagine di un nemico, come ai tempi della “guerra fredda”, per legittimare la leadership e ottenere un diritto di diktat.Durante la “guerra fredda”, agli alleati si diceva continuamente: «Abbiamo un nemico comune, è spaventoso, è lui il centro del male; noi vi difendiamo, dunque abbiamo il diritto di comandarvi, di costringervi a sacrificare i propri interessi politici e economici, a sostenere le spese per la difesa collettiva; ma a gestire questa difesa saremo, naturalmente, noi». Oggi traspare evidente l’aspirazione a trarre dividendi politici ed economici tramite la riproposizione dei consueti schemi di gestione globale. Tuttavia il mondo è cambiato. Le sanzioni hanno già cominciato a intaccare le fondamenta del commercio internazionale e le normative del Wto, i principi della proprietà privata, il modello liberale della globalizzazione, basato sul mercato, sulla libertà e sulla concorrenza. Un modello i cui beneficiari, lo voglio rilevare, sono soprattutto i paesi occidentali. A mio parere, i nostri amici americani stanno tagliando il ramo su cui sono seduti. Non si può mescolare politica ed economia, ma è proprio questo che sta accadendo.Ho sempre ritenuto e ritengo ancora che le sanzioni politicamente motivate siano state un errore che danneggia tutti quanti. Comprendiamo bene in che modo e sotto quale pressione siano state adottate. Ma ciò nonostante la Russia non intende, e lo voglio mettere ben in chiaro, impuntarsi, portare rancore contro qualcuno o chiedere qualcosa a qualcuno. La Russia è un paese autosufficiente. Lavoreremo nelle condizioni di economia esterna che si sono create, sviluppando la nostra industria tecnologica. La pressione esterna non fa altro che consolidare la nostra società, ci obbliga a concentrarci sulle tendenze principali di sviluppo. Beninteso, le sanzioni ci ostacolano: stanno cercando di danneggiarci, di arrestare il nostro sviluppo, di ridurci all’auto-isolamento e all’arretratezza. Ma il mondo è cambiato radicalmente. Non abbiamo alcuna intenzione di chiuderci nell’autarchia; siamo sempre aperti al dialogo, compreso quello sulla normalizzazione delle relazioni economiche, nonché quelle politiche. In questo contiamo sulla visione pragmatica e sullo schieramento delle comunità imprenditoriali dei paesi leader. Affermano che la Russia avrebbe voltato le spalle all’Europa, cercando partner economici in Asia. Non è così. La nostra politica in Asia e nel Pacifico risale ad anni fa e non è affatto legata alle sanzioni. L’Oriente occupa un posto sempre più importante nel mondo e nell’economia e non possiamo trascurarlo. Lo stanno facendo tutti e noi continueremo a farlo, anche perché una parte notevole del nostro territorio si trova in Asia.Se non sapremo creare un sistema di obblighi e accordi reciproci e non elaboriamo i meccanismi per gestire le situazioni di crisi, rischiamo l’anarchia mondiale. Già oggi è aumentata repentinamente la probabilità di una serie di conflitti violenti con il coinvolgimento, se non diretto, ma indiretto, delle grandi potenze. Il fattore di rischio viene amplificato dall’instabilità interna dei singoli Stati, in particolar modo quando si parla dei paesi cardine degli interessi geopolitici e si trovano ai confini dei “continenti” storici, economici e culturali. L’Ucraina è un esempio – ma non l’unico – di questo genere di conflitti che dividono le forze mondiali. Da qui scaturisce la prospettiva reale della demolizione del sistema attuale degli accordi sulle restrizioni e il controllo degli armamenti. Il via a questo pericoloso processo è stato dato proprio dagli Usa quando, nel 2002, sono usciti unilateralmente dal Trattato sulla limitazione dei sistemi di difesa antimissilistica per avviare la creazione di un proprio sistema globale di difesa.Non siamo stati noi a iniziare tutto questo. Stiamo di nuovo scivolando verso tempi in cui i paesi si trattengono dagli scontri diretti non in virtù di interessi, equilibri e garanzie, ma solo per il timore dell’annientamento reciproco. È estremamente pericoloso. Noi insistiamo sui negoziati per la riduzione degli arsenali e siamo aperti alla discussione sul disarmo nucleare, ma deve essere seria, senza “doppi standard”. Che cosa intendo dire? Oggi le armi di precisione si sono avvicinate alle armi di distruzione di massa. Nel caso di rinuncia assoluta o diminuzione del potenziale nucleare, i paesi che si sono guadagnati la leadership nella produzione dei sistemi di alta precisione otterranno un netto dominio militare. Sarà spezzata la parità strategica, comportando così il rischi di una destabilizzazione: affiora così la tentazione di ricorrere al cosiddetto “primo colpo disarmante globale”. In breve, i rischi non diminuiscono ma aumentano.Un’altra minaccia evidente è l’ulteriore proliferazione dei conflitti di origine etnica, religiosa e sociale, che creano zone di vuoto di potere, illegalità e caos, in cui trovano conforto terroristi, delinquenti comuni, pirati, scafisti e narcotrafficanti. I nostri “colleghi” hanno continuato i tentativi, nel loro esclusivo interesse, di sfruttare i conflitti regionali: hanno progettato le “rivoluzioni colorate”, ma la situazione è sfuggita a loro di mano, alla faccia del “caos controllato”. E il caos globale aumenta. Nelle condizioni attuali sarebbe ora di cominciare ad accordarsi sulle questioni di principio. È decisamente meglio che non rifugiarsi nei propri angoli, soprattutto perché ci scontriamo con i problemi comuni, siamo sulla stessa barca. La via logica è quella della cooperazione tra i paesi e la gestione congiunta dei rischi, sebbene alcuni dei nostri partner si ricordino di questo solo quando risponde al loro interesse. Certo, le risposte congiunte alle sfide non sono una panacea e nella maggioranza dei casi sono difficilmente realizzabili: non è per niente semplice superare le diversità degli interessi nazionali, la parzialità delle visioni, soprattutto se si parla dei paesi di diverse tradizioni storico-culturali. Eppure ci sono stati casi in cui, guidati dagli obiettivi comuni, abbiamo raggiunto successi reali.Vorrei ricordare la soluzione del problema delle armi chimiche siriane, il dialogo sul programma nucleare iraniano e il nostro soddisfacente lavoro svolto in Corea del Nord. Perché allora non attingere a questa esperienza anche in futuro, per la soluzioni dei problemi sia locali sia globali? Non ci sono ricette già pronte. Sarà necessario un lavoro lungo, con la partecipazione di una larga cerchia di Stati, del business mondiale e della società civile. Bisogna definire in modo nitido dove si trovano i limiti delle azioni unilaterali e dove nasce l’esigenza di meccanismi multilaterali. Bisogna trovare la soluzione, nel contesto del perfezionamento del diritto internazionale, al dilemma tra le azioni della comunità mondiale volte a garantire la sicurezza e i diritti dell’uomo e il principio della sovranità nazionale e non intromissione negli affari interni degli Stati. Non c’è bisogno di ripartire da zero, le istituzioni create subito dopo la Seconda Guerra Mondiale sono abbastanza universali e possono essere riempite di contenuti più moderni. Sullo sfondo dei cambiamenti fondamentali nell’ambito internazionale, della crescente ingovernabilità e dell’aumento delle più svariate minacce abbiamo bisogno di un nuovo consenso delle forze responsabili per dare stabilità e della sicurezza alla politica e all’economia.Vorrei ricordarvi gli eventi dell’anno passato. Allora dicevamo ai nostri partner, sia americani che europei, che le decisioni frettolose, come ad esempio quella sull’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea, erano pregne di seri rischi. Simili passi clandestini ledevano gli interessi di molti terzi paesi, tra cui la Russia, in quanto partner commerciale principale dell’Ucraina. Abbiamo ribadito la necessità di avviare una larga discussione. Una volta realizzato il progetto dell’associazione dell’Ucraina, si presentano da noi attraverso le porte di servizio i nostri partner con le loro merci e i loro servizi, ma noi non lo abbiamo concordato, nessuno ha chiesto il nostro parere a riguardo. Abbiamo dibattuto su tutte le problematiche inerenti all’Ucraina in Europa in modo assolutamente civile, ma nessuno ci ha dato ascolto. Ci hanno semplicemente detto che non era affar nostro, finito il dibattito e la faccenda è deteriorata fino al colpo di Stato e alla guerra civile. Tutti allargano le braccia: è andata così. Ma non era inevitabile.Io lo dicevo: l’ex presidente ucraino Yanukovich aveva sottoscritto tutto quanto, aveva approvato tutto. Perché allora bisognava insistere? Sarebbe questo il modo civile per risolvere le questioni? Evidentemente coloro che “producono a macchia” una rivoluzione colorata dopo l’altra si ritengono degli artisti geniali e non ce la fanno proprio a fermarsi. Voglio aggiungere che avremmo gradito l’inizio di un dialogo concreto tra L’Unione Eurasiatica e l’Unione Europea. A proposito, fino a oggi ci è stato praticamente sempre negato: e di nuovo è poco chiaro per quale motivo; cosa c’è di spaventoso? Ne ho parlato spesso in precedenza trovando l’appoggio dei molti nostri partner occidentali, almeno quelli europei: è necessario formare uno spazio comune di cooperazione economica e umanitaria, lo spazio che si stenda dall’Atlantico al Pacifico. La Russia ha fatto la sua scelta. Le nostre priorità sono costituite dall’ulteriore perfezionamento degli istituti di democrazia e di economia aperta, l’accelerazione dello sviluppo interno tenendo conto di tutte le tendenze positive nel mondo, il consolidamento della società sulla base dei valori tradizionale e del patriottismo.La nostra agenda è orientata all’integrazione, è positiva, pacifica. La Russia non vuole ricostituire un impero, compromettendo la sovranità dei vicini, e non esige un posto esclusivo nel mondo. Rispettando gli interessi altrui vogliamo che si tenga contro anche dei nostri interessi, che anche la nostra posizione sia rispettata. Abbiamo bisogno di un grado particolare di prudenza, di evitare passi sconsiderati. Dopo la “guerra fredda” i protagonisti della politica mondiale hanno perduto in certo senso queste qualità. È giunto il momento di ricordarle. In caso contrario, le speranze per uno sviluppo pacifico, sostenibile, si riveleranno una nociva illusione, mentre i cataclismi di oggi significheranno la vigilia del collasso dell’ordine mondiale. Siamo riusciti a elaborare le regole di interazione dopo la Seconda Guerra Mondiale, siamo riusciti a trovare un accordo negli anni ‘70 a Helsinki. Il nostro obbligo comune è trovare un soluzione per questo obiettivo fondamentale anche nel contesto di una nuova fase di sviluppo.(Vladimir Putin, estratti dal discorso pronunciato il 24 ottobre 2014 al Forum internazionale del “Club Valdai” a Sochi, tradotto e ripreso da “Il Giornale”).La rettitudine e la durezza nel formulare delle valutazioni servono oggi non per punzecchiarci reciprocamente, ma per cercare di comprendere che cosa veramente sta accadendo nel mondo, perché diventa sempre meno sicuro e meno prevedibile, perché ovunque aumentano i rischi. Nuove regole del gioco oppure gioco senza regole? Formulato così, il concetto descrive puntualmente quel bivio storico in cui ci troviamo, la scelta che dovrà essere compiuta da tutti noi. L’idea che il mondo contemporaneo cambi precipitosamente non è nuova. Infatti, rimane difficile non notare le trasformazioni nella politica globale, nell’economia, nella vita sociale, nell’ambito delle tecnologie industriali, informatiche e sociali. Ma nell’analizzare la situazione attuale non dobbiamo dimenticare le lezioni della storia. In primo luogo, il cambio dell’ordine mondiale (e i fenomeni che osserviamo oggi appartengono proprio a questa scala), veniva accompagnato, di solito, se non da una guerra globale, da intensi conflitti locali. In secondo luogo, parlare di politica mondiale significa affrontare i temi della leadership economica, della pace e della sfera umanitaria, compresi i diritti dell’uomo.
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Putin agli Usa: agite da nemici, sappiate che resisteremo
A Sochi, nell’ottobre 2014, Putin ha “resettato” drasticamente il rapporto tra la sua Russia e Washington. Un discorso ben meditato, che sarebbe grave errore, per tutti, sottovalutare. Molto più forte, a tratti drammatico nella sua chiarezza, di quello da lui pronunciato a Monaco, nel 2007. Nei 14 anni del suo potere il presidente russo non si era mai spinto fino a questo punto. E si capisce il perché solo seguendo il suo ragionamento. Vediamo di quale reset si tratta. Fino all’altro ieri Putin era rimasto “dentro” lo schema del post guerra fredda. C’era rimasto sia perché non aveva scelte diverse da fare, sia perché – con ogni probabilità – a quello schema credeva e lo riteneva utile e realistico. La crisi era già visibile. La Russia ci stava dentro scomoda. Ma rimaneva l’intenzione di superarla, con il tempo, costruendo una nuova architettura della sicurezza mondiale assieme agli Stati Uniti. Per anni, dopo il crollo del Muro, la Russia ha dovuto sopportare molti “sgarbi”. È un eufemismo. In molti casi la parola giusta sarebbe schiaffi.La Russia è stata emarginata da numerosi momenti decisionali di rilievo internazionale, messa in secondo piano, scartata senza troppi complimenti. Era (anche) un modo per farle capire che non contava e che non si voleva che contasse. Espulsa dalla gestione dei conflitti africani, ignorata nel dibattito finanziario, messa in fila per il Wto. E duramente offesa nell’intera vicenda jugoslava, fino al bombardamento di Belgrado e all’indipendenza del Kosovo. Ammessa in sala riunioni solo là dove era indispensabile che ci fosse, nel negoziato con l’Iran e nella crisi siriana. Peggio ancora: con gli ultimi presidenti americani, da Clinton, via George Bush Junior, fino a tutto Obama compreso, gli Stati Uniti hanno manovrato su scala planetaria ignorando platealmente ogni riconoscimento delle zone d’influenza russa, passeggiandovi dentro senza alcun riguardo diplomatico. Tutta l’Asia centrale ex sovietica è stata praticamente occupata dalle loro iniziative: dall’Azerbaigian fino alla Kirghisia. Non dovunque con gli stessi successi. Ma quello che conta, è il significato: Washington semplicemente mandava a dire a Mosca che non avrebbe tenuto in alcun conto il peso della Russia in quelle aree.Per non parlare della Nato, la cui espansione a est – dopo la fine del patto di Varsavia – ha proceduto senza soste, alla pari con l’allargamento dell’Unione Europea su tutta l’Europa orientale, fin dentro alcuni territori che erano stati parte dell’Unione Sovietica, come le tre repubbliche baltiche. Il tutto violando gli accordi, verbali e scritti, che impegnavano la Nato a non portare basi e armamenti nelle nuove repubbliche che via via aderivano all’Unione Europea. Espansione accompagnata da dichiarazioni sempre più incongruenti con i fatti, secondo cui l’estensione della Nato non sarebbe stata indirizzata all’accerchiamento progressivo della Russia. Infine le operazioni degli ultimissimi anni, con l’inserimento della Georgia di Saakashvili nei meccanismi Nato e la promessa di un futuro ingresso a vele spiegate nella Nato della quarta repubblica ex sovietica; e con le analoghe pressioni e promesse nei confronti della Moldavia. Da ricordare la “guerra georgiana”, conclusasi con la secca sconfitta di Tbilisi dopo il massacro di Tzkhinvali e l’intervento delle forze armate russe per ricacciare indietro i georgiani dal territorio dell’Ossetia del Sud.Il riconoscimento russo delle due repubbliche di Abkhazia e Ossetia del Sud (che Putin non aveva concesso fino all’agosto 2008) fu il primo segnale che il Cremlino aveva deciso – sebbene non di propria iniziativa ma pressato dall’iniziativa avversaria – di alzare il segnale di stop verso Washington. Tutto questo è stato superato, d’un colpo, dall’avventura spericolata del colpo di stato a Kiev, dal rovesciamento violento di Yanukovic e dal varo di una nuova Ucraina dichiaratamente ostile e bellicosa nei confronti di Mosca. Il tutto non solo con il consenso ma con il finanziamento, la direzione, il controllo americano delle operazioni sul territorio, e politiche e, infine, militari. Non si comprende la sintesi putiniana di Sochi se non tenendo conto della sommatoria di questi eventi. La conclusione è esplicita: la leadership americana non prevede alcun multipolarismo, né alcun rispetto delle regole di un qualsivoglia partenariato tra eguali. Non ci sono più regole condivise. Esiste uno stato di caos, senza alcuna direzione. Putin prende atto – senza dirlo esplicitamente, ma facendo capire che ha ben compreso – che il bersaglio è lui in persona. Che le sanzioni non sono cominciate colpendo la Russia, ma colpendo il suo stesso entourage. Che negli atteggiamenti e nelle dichiarazioni dei leader occidentali è riconoscibile l’idea che Putin non rappresenta la Russia e che, dunque, una volta eliminato lui, la Russia sarà ricondotta all’ovile. In altri termini: l’Occidente non intende negoziare con la Russia fino a che Putin sarà alla sua testa.La risposta di Sochi è ora nettissima, un vero e proprio punto di non ritorno. Poggiato su alcuni pilastri. Il primo è l’idea che l’unità dell’Occidente è precaria. L’Europa non è compatta dietro l’America. Resta un partner, anche se si trova sotto costrizione. Lo dicono i numeri delle relazioni economiche e commerciali, oltre che la storia del dopoguerra. Questo è il primo pilastro. Potrebbe essere una scommessa che non si verificherà. Ma è un modo per tenere aperto un campo di manovra. Putin mostra di sapere perfettamente che la Russia che si trova tra le mani è incastonata in mille modi nel sistema occidentale. Anche nei suoi quattordici anni di potere, non solo in quelli elstsiniani, la Russia si è legata mani e piedi ai destini dell’Occidente. Dunque è vulnerabile e dovrà pagare prezzi salati, forse salatissimi. Qui Putin è con le spalle al muro, e dovrà dimostrare ai suoi cittadini che riesce a svincolarsene. Lo spazio potrà forse aprirsi come effetto della crisi politica di questa Europa.Lo sfaldamento della tenuta dei partiti politici tradizionali, quasi dovunque, mostra che ci possono essere altri interlocutori, oltre ai conservatori tradizionali, ormai avvinghiati alle sinistre socialdemocratiche, tutte emigrate oltre Oceano. L’Europa popolare va a destra, si muove in senso antieuropeo, antiamericano e antiglobalista, e converge sull’altro pilastro su cui Putin si appoggia: quello del patriottismo, del conservatorismo etico, dei valori tradizionali della famiglia, dell’educazione, del rispetto della memoria. La “famiglia europea” potrebbe cambiare di segno nei prossimi anni. E c’è un altro pilastro, ormai evidente: l’Oriente, la Cina, l’Iran, il resto del mondo. Verso quella direzione – andassero male i tentativi verso l’Occidente – guarderà l’aquila bifronte. Le sanzioni – dice Putin – non fermeranno questa Russia, che nelle parole di Putin appare vicina, risvegliata, compatta come non lo era da molti decenni.È una specie di preludio a un governo di salvezza nazionale, in cui entreranno forse i comunisti di Ziuganov, i liberal-democratici di Zhirinovskij, i nazionalisti di destra e di sinistra, saltando a piè pari le distinzioni europee-occidentali che in Russia hanno sempre contato poco. L’America di Obama, l’America che Mosca vede come in preda a una crisi senza ritorno (perché dopo Obama potrebbe venire il peggio, con una Hillary Clinton che vince le elezioni con il programma dei repubblicani più forsennati), non è più un partner. L’orso russo – proprio questo ha detto Putin – non intende uscire dal suo habitat. Non ha ambizioni espansive. Ma non è disposto a farsi sloggiare. Putin a questa conclusione è giunto. Questo è il suo piano di resistenza. Si tratta ora di vedere se è in condizione di reggerlo. E con un’America che gioca alla “o la va o la spacca”, sarà una partita dura. È dura quando entrambi i contendenti hanno le spalle al muro.(Giulietto Chiesa, “Il reset di Putin”, da “Megachip” del 26 ottobre 2014).A Sochi, nell’ottobre 2014, Putin ha “resettato” drasticamente il rapporto tra la sua Russia e Washington. Un discorso ben meditato, che sarebbe grave errore, per tutti, sottovalutare. Molto più forte, a tratti drammatico nella sua chiarezza, di quello da lui pronunciato a Monaco, nel 2007. Nei 14 anni del suo potere il presidente russo non si era mai spinto fino a questo punto. E si capisce il perché solo seguendo il suo ragionamento. Vediamo di quale reset si tratta. Fino all’altro ieri Putin era rimasto “dentro” lo schema del post guerra fredda. C’era rimasto sia perché non aveva scelte diverse da fare, sia perché – con ogni probabilità – a quello schema credeva e lo riteneva utile e realistico. La crisi era già visibile. La Russia ci stava dentro scomoda. Ma rimaneva l’intenzione di superarla, con il tempo, costruendo una nuova architettura della sicurezza mondiale assieme agli Stati Uniti. Per anni, dopo il crollo del Muro, la Russia ha dovuto sopportare molti “sgarbi”. È un eufemismo. In molti casi la parola giusta sarebbe schiaffi.
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Ucraina e Isis, il vice di Obama rivela per sbaglio la verità
Questo è un esempio di come certe informazioni non circolino sui media occidentali. Un amico che pesca molto bene online mi ha inviato la segnalazione di alcuni articoli che recavano un titolo forte: “Il vicepresidente americano Joe Biden ammette di aver obbligato i paesi europei ad adottare le sanzioni contro la Russia”. Come mio dovere, verifico le fonti. E scopro che a dare questa notizia sono “Russia Today” e altre agenzie di stampa russe. Da esperto di spin mi sorge il dubbio che si tratti di una strumentalizzazione da parte di Mosca. E verifico ulteriormente. In pochi minuti. Sì, Biden ha tenuto un lungo discorso sulla politica estera all’università di Harvard, discorso a cui i media americani hanno dato ampio spazio ma per evidenziare una battuta, anzi una gaffe su quanto sia frustrante fare il vicepresidente, espressa con un linguaggio molto colorito. Negli articoli, però, nessun riferimento alla frase sull’Europa.Allora indago ulteriormente, vado sul sito della Casa Bianca dove è pubblicata la trascrizione integrale del discorso di Biden. E, come potete verificare voi stessi, la frase riportata dai media russi è corretta e l’indifferenza con cui è stata accolta dai media occidentali, ma anche europei significativa. Praticamente nessun giornalista ha saputo valutare la portata delle dichiarazioni di Biden. Il che è grave professionalmente, ma non sorprendente: a dare il tono sono state le agenzie di stampa e le tv “all news” che si sono soffermate sull’aspetto più leggero e sensazionale ovvero la gaffe di Biden; tutto il resto è passato in secondo piano. Anche sulla stampa più autorevole. Perché Biden poteva reggere un titolo, non due. E quelle dichiarazioni formulate nell’ambito di un lungo discorso in cui Biden ha toccato molti aspetti. Gli spin doctor della Casa Bianca si sono ben guardati dall’evidenziarle e sono scivolate via assieme ad altre.Nessuna manipolazione, nessuna censura: se conosci le logiche e le debolezze dei media puoi orientarli a piacimento, Negli Stati Uniti, ma anche in Europa. In realtà le dichiarazioni di Biden sono davvero sensazionali, una gaffe in termini diplomatici: «Abbiamo dato a Putin una scelta semplice: rispetta la sovranità ucraina o avrai di fronte gravi conseguenze. E questo ci ha indotto a mobilitare i maggiori paesi più sviluppati al mondo affinché imponessero un costo reale alla Russia. E’ vero che non volevano farlo. E’ stata la leadership americana e il presidente americano a insistere, tante di quelle volte da dover mettere in imbarazzo l’Europa per reagire e decidere per le sanzioni economiche, nonostante i costi». L’ammissione è fortissima: è stata l’America a costringere l’Europa a punire Putin, contro la sua volontà.Poi un’altra strabiliante ammissione, sull’Isis, che l’America combatte con toni accorati salvo poi ammettere che il pericolo per gli stessi americani non è così rilevante: «Non stiamo affrontando un pericolo esistenziale per il nostro stile di vita o la nostra sicurezza. Hai due volte più possibilità di essere colpito da un fulmine per strada che di essere vittima di un evento terroristico negli Stati Uniti». Dunque l’Isis non è una minaccia seria, così come non lo è più il terrorismo negli Stati Uniti. Quando qualcuno dice la verità – e chi più di un vicepresidente americano? – il mondo appare molto diverso rispetto alla propaganda ufficiale. In Ucraina e sul terrorismo. Ma se i media non ne parlano, la propaganda diventa, anzi resta apparente verità. E la vera verità limitata ai pochi che la sanno davvero cogliere e trasmettere.(Marcello Foa, “Ucraina e Isis: il vice di Obama rivela (per sbaglio) la verità”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 5 ottobre 2014).Questo è un esempio di come certe informazioni non circolino sui media occidentali. Un amico che pesca molto bene online mi ha inviato la segnalazione di alcuni articoli che recavano un titolo forte: “Il vicepresidente americano Joe Biden ammette di aver obbligato i paesi europei ad adottare le sanzioni contro la Russia”. Come mio dovere, verifico le fonti. E scopro che a dare questa notizia sono “Russia Today” e altre agenzie di stampa russe. Da esperto di spin mi sorge il dubbio che si tratti di una strumentalizzazione da parte di Mosca. E verifico ulteriormente. In pochi minuti. Sì, Biden ha tenuto un lungo discorso sulla politica estera all’università di Harvard, discorso a cui i media americani hanno dato ampio spazio ma per evidenziare una battuta, anzi una gaffe su quanto sia frustrante fare il vicepresidente, espressa con un linguaggio molto colorito. Negli articoli, però, nessun riferimento alla frase sull’Europa.
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Euro-nazisti, negano la strage. Hitler era meno bugiardo
Quattro milioni e 68.250: è il numero delle persone che in Italia sono state costrette a chiedere aiuto per mangiare nel 2013, con un aumento del 10% sull’anno precedente. Lo ha calcolato la Coldiretti, analizzando il piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti realizzato dall’Agea, l’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura, in riferimento ai dati Istat sulle famiglie rimaste senza reddito. Notare che si tratta di cifre ufficiali, approssimate per difetto, visto che non tengono conto di chi ha chiesto aiuto attraverso canali informali, cioè amici e parenti. Un dato destabilizzante, rileva “Come Don Chisciotte”, nonostante sia stato sostanzialmente oscurato dai media mainstream. Colpo d’occhio: «Se mettessimo in fila quelle persone, dando a ciascuna soltanto mezzo metro di spazio, si formerebbe una fila che parte da Reggio Calabria e finisce a Bruxelles», ovvero la città «in cui ha sede il meccanismo di dominazione tirannica basato sullo smantellamento delle istituzioni democratiche e sull’impoverimento generalizzato che si definisce Unione Europea».Si può calcolare che, «per ciascuno di quelli che hanno chiesto un pasto caldo o il pacco alimentare, ci sia solo un’altra persona a condividerne in qualche modo o a subirne di riflesso le sofferenze: giusto quanti ne bastano per far sì che quella fila, una volta arrivata a Bruxelles, possa tornare indietro fino a Reggio Calabria». E se agli italiani costretti a umiliarsi aggiungiamo milioni di cittadini Ue, ridotti in miseria dalla moneta unica? «A quel punto, il continente che un tempo possedeva il più avanzato e inclusivo sistema di welfare – e per questo era universalmente stimato e rispettato come quello in cui la sua civiltà millenaria si esprimeva al livello più alto – si vedrebbe attraversato in ogni direzione da file di diseredati, lunghe migliaia e migliaia di chilometri», scrive “Clack” su “Come Don Chisciotte”. «Se i progetti grandiosi della Ue, come i cosiddetti corridoi ferroviari trans-europei ad alta velocità che avrebbero dovuto attraversare il continente da un lato all’altro sono rimasti in gran parte sulla carta, in compenso l’Europa reale ha realizzato file ancora più lunghe di poveri, disoccupati e affamati, e ha fatto in modo da distribuirle sul territorio in maniera persino più capillare».Solo la Seconda Guerra Mondiale, aggiunge il blog, è stata capace di produrre qualcosa di simile: le conseguenze della moneta unica sono paragonibili a un evento bellico di quella portata. «Negli Stati che dovrebbero essere affratellati dai trattati di unione si sta effettivamente combattendo una guerra», con mezzi «forse più micidiali dei carri armati, essendo capaci di produrre danni ancora maggiori». Tutto questo per che cosa? «Per dare soddisfazione alla patologia di accumulazione compulsiva di un branco di oligarchi, e il doveroso compenso ai politici al loro servizio», politici «non eletti da nessuno» ma con un potere da usare «nella realizzazione del più micidiale strumento di devastazione sociale e istituzionale oggi conosciuto, quello che risponde al nome di euro». Sicché, «di fronte a un disastro simile, causato deliberatamente, il capo del terzo governo fantoccio che si succede in Italia in poco più di due anni non trova di meglio che rispondere con l’elemosina degli 80 euro una tantum», che peraltro «dovranno essere ripagati mediante misure più costose e permanenti, come al solito a spese dei redditi medio-bassi».Quella somma andrà a chi ha già una busta paga, per quanto misera. Viceversa, chi non ha niente – ovvero il milione e più di famiglie senza reddito – non avrà nulla. «Questo in base alla logica consolidata negli anni che prevede l’abbandonare al proprio destino la fascia dei più bisognosi, di giorno in giorno più ampia». Per “Clack”, è «il principio fondamentale della politica sociale dei partiti di falsa sinistra, da decenni intenta alla spoliazione e all’impoverimento generalizzato dei ceti subalterni». Quei partiti – Pd in testa – si sono «messi al servizio delle élite per eseguire le politiche più oltranziste della destra finanziaria», che sono lo strumento per realizzare «gli obiettivi propri del capitalismo assoluto», anche di fronte all’opinione pubblica si tenta sempre di «nascondere le responsabilità oggettive di chi ha precipitato nelle condizioni attuali un paese che, prima della moneta unica, era ai vertici delle classifiche dei paesi manifatturieri e caratterizzato da un benessere diffuso con equità ragionevole». Torniamo al potere assoluto dell’élite, al tempo i cui, in Colorado, i Rockefeller facevano strage delle famiglie dei minatori, che chiedevano condizioni di vita meno disumane.Autori ed esecutori della restaurazione iper-capitalistica e della conseguente macelleria sociale oggi in atto? Sono «nazisti, moderni Mengele», anche se questo può «apparire come la più inaccettabile delle enormità, alle anime belle e tanto volenterose del progressismo nostrano, fedele seguace della sinistra asservitasi al fondamentalismo reazionario del liberismo globalizzato». Nel mondo occidentale si viene ammaestrati fin dalla più tenera età a riconoscere il nazismo come il male assoluto per definizione, inarrivabile per ogni altra cosa. Ma se il nazismo «agiva in nome e per conto del proprio Stato», sia pure con metodi abominevoli, la classe politica di oggi «opera su mandato di poteri esterni, dei quali si è fatta collaborazionista, o meglio fantoccio». Inoltre, «il nazismo riconosceva la propria natura, non aveva problemi a palesarla», viceversa «i moderni sgherri dell’assolutismo iper-capitalista si mascherano vilmente dietro le loro teorie deliranti», ripetute fino a renderle dogma, «dietro la facciata delle istituzioni democratiche che nel frattempo hanno provveduto a sovvertire, svuotandole».Proprio l’essersi palesate in quanto tali è stato il primo punto debole di quelle dittature, aggiunge il blogger, che non a caso a suo tempo sono state finanziate molto generosamente dalle banche controllate da chi oggi persegue il disegno di dominazione globale. Le dittature storiche le guerre le dichiaravano, combattendo alla luce del sole, mentre i tiranni di oggi «muovono guerre invisibili ma ancora più micidiali, che sovente hanno per vittima il loro stesso Stato o quelli con cui si è legati da trattati di unione o amicizia». Se il nazismo non temeva l’evidenza delle sue azioni, l’istinto dei dominatori attuali è quello, innanzitutto, di nascondersi, mentire, non ammettere i loro obiettivi. E’ una «cripto-dittatura», ben più pericolosa e devastante «proprio perché praticamente invisibile». Continua “Come Don Chisciotte”: «Definire nazisti gli autori dell’odierno massacro sociale, dunque, è fuorviante ma soprattutto riduttivo». Già Orwell, in “1984”, segnalava la mancanza di vocaboli adeguati a definire un totalitarismo pervasivo e subdolo, non dichiarato. E’ questo il vero capolavoro dell’élite: l’uomo comune – la sua vittima – non sa neppure cosa stia accadendo. Come potrebbe difendersi dall’aggressione?Quattro milioni e 68.250: è il numero delle persone che in Italia sono state costrette a chiedere aiuto per mangiare nel 2013, con un aumento del 10% sull’anno precedente. Lo ha calcolato la Coldiretti, analizzando il piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti realizzato dall’Agea, l’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura, in riferimento ai dati Istat sulle famiglie rimaste senza reddito. Notare che si tratta di cifre ufficiali, approssimate per difetto, visto che non tengono conto di chi ha chiesto aiuto attraverso canali informali, cioè amici e parenti. Un dato destabilizzante, rileva “Come Don Chisciotte”, nonostante sia stato sostanzialmente oscurato dai media mainstream. Colpo d’occhio: «Se mettessimo in fila quelle persone, dando a ciascuna soltanto mezzo metro di spazio, si formerebbe una fila che parte da Reggio Calabria e finisce a Bruxelles», ovvero la città «in cui ha sede il meccanismo di dominazione tirannica basato sullo smantellamento delle istituzioni democratiche e sull’impoverimento generalizzato che si definisce Unione Europea».
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Cina, gli operai-schiavi rialzano la testa (grazie al web)
Sul piano legislativo i lavoratori cinesi godono di una serie di diritti, ancorché più limitati di quelli di cui dispongono i loro colleghi occidentali. Purtroppo tali diritti restano quasi sempre sulla carta, sia perché le imprese si guardano bene dal rispettarli, sia perché il Partito Comunista e i sindacati di stato non muovono un dito per farli rispettare. Ecco perché la Yue Yuen Industrial Holdings, azienda taiwanese che è considerata il più grande produttore mondiale di scarpe sportive (fra i suoi commettenti può vantare marchi di prestigio come Nike e Adidas) non ha versato per anni i contributi per la pensione ai suoi dipendenti. Mal gliene è incolto, perché non ha tenuto conto dell’evoluzione culturale delle nuove generazioni di operai cinesi, animate da una rabbia e uno spirito combattivo sconosciuti alle precedenti generazioni, e della loro abilità nell’usare i social network come strumenti di organizzazione e mobilitazione dal basso.Il risultato, come racconta il “New York Times”, è stato uno dei più lunghi e partecipati scioperi della storia recente del paese: 40.000 operai hanno bloccato le linee di produzione per due settimane, infliggendo all’azienda 27 milioni di danni. Alla fine il governo cinese, non riuscendo a bloccare la vertenza, si è rassegnato a intervenire e a costringere la Yue Yuen Industrial Holdings ad accettare un accordo. Pur in assenza di sindacati indipendenti (vietati dalla legge cinese) i lavoratori cinesi, secondo lo stesso articolo, hanno effettuato ben 1100 scioperi e proteste dal giugno del 2011 alla fine del 2013, mentre se ne registrano 200 solo negli ultimi due mesi.Lo strumento che ha favorito queste imponenti mobilitazioni, che hanno strappato consistenti aumenti salariali e altre concessioni, è stato un software di messaggistica chiamato Weixin (conosciuto anche con il nome inglese We Chat) che ha trecento milioni di utenti in grande maggioranza giovani: gli operai lo usano sistematicamente per scambiare informazioni, coordinare le azioni e estendere le lotte attraverso il passaparola. Ma attribuire tutto questo fermento sociale alla Rete sarebbe un errore non meno pacchiano di quello che ha indotto i media occidentali ad appioppare alla “primavera araba” l’etichetta di Twitter Revolution – una semplificazione su cui hanno giustamente ironizzato autori come Evgenij Morozov.Per capire le radici di questa ondata di lotte di classe è meglio andarsi a leggere il bel libro della sociologa cinese Pun Ngai, tradotto in Italia da Jaca Book con il titolo “La società armoniosa”. Pun Ngai analizza la cultura dei quasi trecento milioni di migranti interni che si sono riversati dalle campagne nelle grandi città dove vivono e lavorano in condizioni di sfruttamento spaventoso, paragonabili solo a quelle della classe operaia inglese dell’800 descritte da Engels. Sfruttati ma anche dotati di conoscenze, curiosità e competenze assai più avanzate di quelle dei loro genitori e quindi meno disposti a sopportare quelle condizioni disumane. Una massa operaia che, al pari di quella riversatasi dal nostro Sud a Torino e Milano negli anni ‘60 del ‘900, si sta rivelando poco propensa a chinare la testa e decisa a strappare redditi e condizioni di lavoro e di vita migliori. Quando la tecnologia incontra il capitale sono dolori per le classi subordinate, ma quando invece la tecnologia incontra la classe operaia sono dolori per i padroni.(Carlo Formenti, “Se gli operai cinesi rialzano la testa”, da “Micromega” del 5 maggio 2014).Sul piano legislativo i lavoratori cinesi godono di una serie di diritti, ancorché più limitati di quelli di cui dispongono i loro colleghi occidentali. Purtroppo tali diritti restano quasi sempre sulla carta, sia perché le imprese si guardano bene dal rispettarli, sia perché il Partito Comunista e i sindacati di stato non muovono un dito per farli rispettare. Ecco perché la Yue Yuen Industrial Holdings, azienda taiwanese che è considerata il più grande produttore mondiale di scarpe sportive (fra i suoi commettenti può vantare marchi di prestigio come Nike e Adidas) non ha versato per anni i contributi per la pensione ai suoi dipendenti. Mal gliene è incolto, perché non ha tenuto conto dell’evoluzione culturale delle nuove generazioni di operai cinesi, animate da una rabbia e uno spirito combattivo sconosciuti alle precedenti generazioni, e della loro abilità nell’usare i social network come strumenti di organizzazione e mobilitazione dal basso.
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Lo Stato Carogna: via i giudici più temuti da Totò Riina
Chi pensava che i peggiori pericoli per i magistrati antimafia venissero dalla mafia, soprattutto dopo le condanne a morte pronunciate da Riina, si sbagliava. Le minacce più insidiose arrivano sempre dal Palazzo. Il Csm – l’organo di autogoverno della magistratura che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza – ha inviato una circolare a tutte le Dda, cioè ai pool antimafia delle varie procure, per raccomandare che ai pm che si sono occupati per 10 anni di mafia, camorra e ‘ndrangheta non vengano assegnate nuove inchieste in materia. Il diktat calza a pennello sulla Dda di Palermo, dove i principali pm titolari delle nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia (rivolte al ruolo dei servizi segreti e della Falange Armata) hanno potuto finora occuparsene perché “applicati” dal procuratore Messineo. Nino Di Matteo è “scaduto” dopo i 10 anni canonici nel 2010, trasferito dalla Dda al pool “abusi edilizi” e da allora “applicato” per proseguire il lavoro sulla trattativa; Roberto Tartaglia l’ha seguito qualche tempo dopo; fra un mese scadrà anche Francesco Del Bene.La norma demenziale è contenuta nell’ordinamento giudiziario Castelli-Mastella del 2007, che appiccica ai pool specializzati delle procure (mafia, reati fiscali e finanziari, ambientali, contro la pubblica amministrazione, contro le donne e i minori, ecc.) un bollino di scadenza come agli yogurt: appena raggiungono 10 anni di esperienza, cioè diventano davvero capaci ed esperti su una materia, devono smettere e occuparsi d’altro. Una mossa geniale: come se un’azienda, dopo aver impiegato tempo e risorse per formare un dirigente, lo spedisse a fare altre cose perché è diventato troppo bravo. Vale sempre il detto di Amurri e Verde: «La criminalità è organizzata e noi no». Se la legge fosse stata già in vigore nel 1992, Cosa Nostra avrebbe potuto risparmiare sul tritolo evitando le stragi di Capaci e via D’Amelio, visto che quando furono uccisi Falcone e Borsellino indagavano sulla mafia da ben più di due lustri.Negli anni scorsi il bollino di scadenza ha falcidiato i pool antimafia di Palermo, Bari e Napoli, quello torinese creato da Raffaele Guariniello sulla sicurezza, la salute e l’ambiente (processi Thyssen, Eternit, doping…), quello milanese coordinato da Francesco Greco sui crimini economici (Parmalat, scalate bancarie, Enel, Eni, San Raffaele, grandi evasori). Per non disperdere enormi bagagli di esperienza e memoria storica, i procuratori capi tentavano di limitare i danni “applicando” i pm scaduti a singole indagini. Ora, con la circolare del Csm, cala la mannaia anche su quella possibilità. Col risultato che una materia delicata e intricata come la trattativa, che richiede conoscenze ed esperienze approfondite, sarà affidata a pm che mai se ne sono occupati, privi dunque di qualunque nozione sul tema e magari ammaestrati da tutti gli attacchi (mafiosi e istituzionali) subìti dai colleghi che hanno osato scoperchiarla.Il fatto che Di Matteo sia il nemico pubblico numero uno tanto di Riina quanto del Quirinale non lascerà insensibile chi dovrà raccoglierne l’eredità. Magari toccherà a qualcuno dei neomagistrati che Napolitano ha arringato l’altroieri col solito fervorino alla «pacatezza», al «rispetto», addirittura all’«equidistanza» (testuale), contro il «protagonismo» e gli «arroccamenti», per «chiudere i due decenni di scontro permanente» e «tensione» (fra guardie e ladri, fra onesti e mafiosi). Non contento, il presidente più incensato e leccato del mondo (dopo Mugabe) ha poi evocato fantomatiche «aggressioni faziose» ai suoi danni, che il “Corriere” – sempre ispirato – attribuisce proprio a Di Matteo&C. per «intercettazioni illegali nell’inchiesta sulla trattativa». Naturalmente le intercettazioni erano perfettamente legali, disposte da un giudice sui telefoni dell’indagato Mancino che parlava con il Quirinale. Ma anche questa ignobile calunnia sortirà prima o poi l’effetto sperato. Nessuno s’azzarderà mai più a intercettare un indagato per la trattativa: potrebbe parlare con il capo dello Stato.(Marco Travaglio, “Lo Stato Carogna”, da “Il Fatto Quotidiano” del 7 maggio 2014, ripreso da “Micromega”).Chi pensava che i peggiori pericoli per i magistrati antimafia venissero dalla mafia, soprattutto dopo le condanne a morte pronunciate da Riina, si sbagliava. Le minacce più insidiose arrivano sempre dal Palazzo. Il Csm – l’organo di autogoverno della magistratura che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza – ha inviato una circolare a tutte le Dda, cioè ai pool antimafia delle varie procure, per raccomandare che ai pm che si sono occupati per 10 anni di mafia, camorra e ‘ndrangheta non vengano assegnate nuove inchieste in materia. Il diktat calza a pennello sulla Dda di Palermo, dove i principali pm titolari delle nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia (rivolte al ruolo dei servizi segreti e della Falange Armata) hanno potuto finora occuparsene perché “applicati” dal procuratore Messineo. Nino Di Matteo è “scaduto” dopo i 10 anni canonici nel 2010, trasferito dalla Dda al pool “abusi edilizi” e da allora “applicato” per proseguire il lavoro sulla trattativa; Roberto Tartaglia l’ha seguito qualche tempo dopo; fra un mese scadrà anche Francesco Del Bene.
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Chiamateli ultras o black bloc, sono manovalanza impunita
Un ricordo lontano: Genova 2001. Un giovane di borgata, che mi raccontava un strana storia. Una storia di ultras, della Roma e della Lazio, di quelli pieni di diffide, precedenti per rissa e svastiche sulle braccia, convocati in commissariato per una interessante proposta. «Vi va di andare a menare un po’ le mani? Di divertirvi a pestare zecche? Ci sarebbe da andare a Genova». Non ho mai avuto altre conferme, ma quella storia mi è rimasta in testa. Ed è una storia che spiega molti misteri di questa ennesima notte di follia calcistica in finale di Coppa: perché un soggetto come lo sparatore, che aveva persino fatto sospendere un derby, fosse a piede libero dopo una prescrizione rapidissima e in possesso di una pistola; perché un altro soggetto vicino alla camorra, come Genny ‘a carogna, potesse mettersi a trattare con le forze dell’ordine a nome di un’intera curva ostentando una maglietta che inneggia all’assassino di un poliziotto. Immaginatevi un NoTav, con una maglietta del genere, e poi mi dite.Di quali protezioni godono allora i capi ultrá, e soprattutto perché? Si tratta solo di “questioni di sicurezza”, o costoro vengono trattati in guanti bianchi perché sono “a disposizione” per un altro genere di lavori sporchi? Chi sono quei famosi “infiltrati” con i cappucci neri che durante certe manifestazioni da mandare in malora tirano sassi e bruciano cassonetti, costosi poliziotti travestiti o ultras in servizio gratuito, che avranno in cambio dei loro servigi l’impunitá e il rispetto nello stadio? D’altronde, è normale che lo Stato si serva di bassa manovalanza per certi lavoretti, e serve un vivaio che prepari e mantenga il “personale specializzato”. Lo stadio istruisce, lo stadio protegge.Certo, il prezzo da pagare è vedere questori e prefetti che trattano in diretta Tv con Genny ‘a carogna, lo Stato che si umilia davanti alle belve che di nascosto poi userá, ma i gesti di rispetto sono indispensabili. Così come le impunitá, mafia insegna. Ci consola pensare che a tanto schifo non si piega soltanto lo Stato italiano, ma pare essere una prassi di tanti paesi. A Odessa, il 2 maggio, tra coloro che hanno bruciato il palazzo dei sindacati con la gente dentro c’erano tantissimi ultras. Pure loro, mandati a divertirsi e pestare zecche da ordini superiori.(Debora Billi, “Ultras, la bassa manovalanza dello Stato impunita e rispettata”, dal blog “L’Estremista” del 4 maggio 2014).Un ricordo lontano: Genova 2001. Un giovane di borgata, che mi raccontava un strana storia. Una storia di ultras, della Roma e della Lazio, di quelli pieni di diffide, precedenti per rissa e svastiche sulle braccia, convocati in commissariato per una interessante proposta. «Vi va di andare a menare un po’ le mani? Di divertirvi a pestare zecche? Ci sarebbe da andare a Genova». Non ho mai avuto altre conferme, ma quella storia mi è rimasta in testa. Ed è una storia che spiega molti misteri di questa ennesima notte di follia calcistica in finale di Coppa: perché un soggetto come lo sparatore, che aveva persino fatto sospendere un derby, fosse a piede libero dopo una prescrizione rapidissima e in possesso di una pistola; perché un altro soggetto vicino alla camorra, come Genny ‘a carogna, potesse mettersi a trattare con le forze dell’ordine a nome di un’intera curva ostentando una maglietta che inneggia all’assassino di un poliziotto. Immaginatevi un NoTav, con una maglietta del genere, e poi mi dite.