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Flores d’Arcais: a Bruxelles, Tsipras meglio di Grillo
«C’è una strettissima convergenza di interessi fra l’establishment delle istituzioni europee e l’establishment italiano rappresentato da Napolitano e da Letta, ma se la gigantesca opposizione che c’è nel paese trovasse modo di avere anche una sua rappresentanza politica parlamentare la situazione cambierebbe radicalmente». Paolo Flores d’Arcais accetta la scommessa di Barbara Spinelli e punta sul greco Tsipras per costruire un’alternativa europea: dire “no” a Bruxelles significa anche riuscire a mobilitare la “sinistra sommersa” e l’opinione pubblica italiana, quella che gonfia i movimenti e vince i referendum, ma poi alle elezioni non ha chances, diserta le urne o si rassegna a votare “5 Stelle”, cioè l’autocrate Grillo e l’oscuro Casaleggio. Attenzione: il M5S «entrerà in crisi, in due o tre anni». Si tratta quindi di ereditarne le virtù «ma non i suoi gravissimi vizi». Vietato sbagliare, o si spalancherà «lo spazio per una proposta eversiva di destra». La Grecia insegna: «Se non ci fosse Syriza potrebbe dilagare Alba Dorata».Intervistato – come la Spinelli – dal quotidiano ellenico “Avgì” (aurora), il direttore di “Micromega” traccia un’analisi impietosa dell’attuale offerta politica italiana: dilaga la disaffezione perché la casta nazionale si limita ad eseguire i diktat di quella di Bruxelles “suicidando” il paese, ma milioni di italiani – pure attivissimi nei movimenti – non hanno nessuna vera possibilità di rappresentazione, al di fuori del M5S. «L’unica forza di opposizione oggi presente in Parlamento è il “Movimento 5 Stelle” di Beppe Grillo, una grande forza politica di massa (rappresenta grossomodo il 25% dei votanti) ma strutturata in modo debolissimo e soprattutto con un gruppo dirigente fatto di due persone, Beppe Grillo e un personaggio molto inquietante, che si chiama Casaleggio. Il M5S ondeggia perciò a seconda degli umori di questi due capi. Insomma, la vera forza di Letta è la debolezza dell’opposizione». Il governo? «E’ debolissimo nel paese perché inviso alla schiacciante maggioranza dei cittadini». E inoltre Matteo Renzi, «personaggio di destra “alla Blair”», non ha intenzione di appoggiarlo a lungo.Il realtà quello che conta «non è il governo Letta ma il governo Napolitano», dato che l’uomo del Colle «si comporta come un vero e proprio sovrano, attribuendosi poteri che la Costituzione non gli dà». A livello politico organizzato, «la sinistra non esiste», e «da molti anni». La sinistra «esiste invece nella società civile: e la distanza tra una sinistra sempre meno esistente nella politica ufficiale e una sinistra sempre più forte nella società civile continua ad aumentare». Primo problema, il Pd: «Non è più di sinistra», dai tempi di D’Alema e Veltroni, «che hanno realizzato una vera mutazione antropologica del partito, rendendolo parte dell’establishment». Sel e gli altri piccoli partiti? «Non contano più nulla». Ammesso che Sel riesca a superare lo sbarramento del 4%, «il suo leader Vendola sempre di più si trova implicato in inchieste che ormai stanno distruggendo la sua reputazione». Oltre a Sel, il buio: «Rifondazione, i Verdi e gli altri gruppi politici non rappresentano nulla: se non si capisce questo non si capisce la situazione italiana».Per contro, questa “sinistra sommersa” negli ultimi quindici anni è diventata una sinistra di piazza, ricorda Flores d’Arcais. Nel 2002, coi “girotondi”, Nanni Moretti riuscì a portare in piazza San Giovanni a Roma un milione di persone, catalizzando «una voglia di autoorganizzazione che era gigantesca», fino al “popolo viola” e oltre, per arrivare ai referendum del 2011 sul nucleare e sull’acqua pubblica. Ma il problema è che «questa opposizione civile e sociale non ha rappresentanza politica: i suoi militanti si sentono cittadini orfani di rappresentanza». E’ quella che Giulietto Chiesa e i suo movimento, “Alternativa”, chiamano «la voragine dei non-rappresentati», ricordando che alle ultime politiche, quelle del “boom” di Grillo, un italiano su due ha comunque disertato le urne. Elettori mobilitabili da ideali forti, riassumibili nello slogan “giustizia e libertà”? «Nanni Moretti pensava che l’area dell’attuale Pd fosse ancora recuperabile e lo crede anche ora appoggiandolo. Non abbiamo avuto il coraggio di dare un seguito organizzato ai girotondi», ammette Flores d’Arcais, citando anche il caso della Fiom, a cui molti movimenti chiedevano che il sindacato “rosso” mettesse in campo «obiettivi politici molto più espliciti, dicendo che i nemici della Costituzione oggi non sono solo le destre ma anche Letta, il Pd e il presidente Napolitano». In questo caso, l’ultima manifestazione per la difesa della Costituzione «sarebbe stata gigantesca con effetto di mobilitazione straordinario, e oggi non avremmo movimenti sociali ambigui come il movimento dei Forconi».Le europee – maggio 2014 – sembrano davvero l’ultima occasione. Se fossero elezioni nazionali, Flores d’Arcais voterebbe Grillo, «perché non ci sarebbe spazio reale per una lista nuova di “Giustizia e Libertà”». Trattandosi invece di Bruxelles, forse c’è spazio per un’alternativa, dal momento che «con la nuova legge elettorale si può presentare un candidato alla presidenza europea». L’unica carta giocabile è quella del leader greco Alexis Tsipras: «C’è oggi una sola forza politica di sinistra in Europa e si chiama Syriza (negli altri paesi o non sono di sinistra o non sono “forze”). Per questo pensiamo che una lista rigorosamente della società civile con Tsipras potrebbe avere un buon risultato». In Italia, «solo una lista che raccolga esperienze e movimenti della società civile può evitare l’ennesimo fallimento minoritario», a patto che questa lista resti lontana dalle vecchie sigle perdenti: chi si allea con l’ex “sinistra arcobaleno” – Ingroia docet – è condannato a veder dimezzati i propri voti.«Una qualsiasi lista che, poniamo, potenzialmente avesse il 10% dei voti, se si allea anche con Rifondazione o i Verdi o i Comunisti Italiani prenderebbe il 5%», dice Flores d’Arcais. «Una lista autonoma che avesse potenzialmente il 5% dei voti, se si allea con Rifondazione e gli altri prenderebbe il 2%», perché «invece di produrre una somma», oggi «allearsi con uno qualsiasi di questi partitini produce una sottrazione». Poi servono innanzitutto cervelli: quante delle personalità che hanno animato lotte e movimenti sono convinte della necessità di una lista nuova, autonoma? Quanti personaggi pubblici, invece, si illudono ancora che si possa trasformare il Pd dall’interno o recuperare Sel o replicare l’esperienza della lista-Ingroia? «Bisognerà perciò verificare se almeno un centinaio di persone eminenti nei vari campi – scrittori, filosofi, sociologi, scienziati, personalità del cinema e della musica – condividano la nostra ipotesi». Se l’adesione sarà forte, servirà il terzo passo: verificare la disponibilità dei movimenti, per poi promuovere la nascita, a tappeto, di club di sostegno completamente indipendenti. «Per andare al Parlamento Europeo dovremo superare il 4%. Se questa lista prende un risultato intorno al 5% non avrà futuro, sarà una manifestazione di testimonianza». Per Flores d’Arcais, la soglia-verità è quella del 10%.«C’è una strettissima convergenza di interessi fra l’establishment delle istituzioni europee e l’establishment italiano rappresentato da Napolitano e da Letta, ma se la gigantesca opposizione che c’è nel paese trovasse modo di avere anche una sua rappresentanza politica parlamentare la situazione cambierebbe radicalmente». Paolo Flores d’Arcais accetta la scommessa di Barbara Spinelli e punta sul greco Tsipras per costruire un’alternativa europea: dire “no” a Bruxelles significa anche riuscire a mobilitare la “sinistra sommersa” e l’opinione pubblica italiana, quella che gonfia i movimenti e vince i referendum, ma poi alle elezioni non ha chances, diserta le urne o si rassegna a votare “5 Stelle”, cioè l’autocrate Grillo e l’oscuro Casaleggio. Attenzione: il M5S «entrerà in crisi, in due o tre anni». Si tratta quindi di ereditarne le virtù «ma non i suoi gravissimi vizi». Vietato sbagliare, o si spalancherà «lo spazio per una proposta eversiva di destra». La Grecia insegna: «Se non ci fosse Syriza potrebbe dilagare Alba Dorata».
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Ustica, strage impunita e cimitero di testimoni scomodi
Un caccia francese che “si nasconde” dietro un aereo di linea italiano e lo colpisce per errore con un missile, in realtà indirizzato contro un altro velivolo: il Mig libico a bordo del quale poteva esserci Gheddafi. Lo disse Francesco Cossiga nel 2007, accreditando una possibile ricostruzione definitiva della strage di Ustica, 27 giugno 1980, quando il Dc-9 dell’Itavia decollato da Bologna e diretto a Palermo esplose in volo e finì in fondo al Tirreno, 81 vittime tra equipaggio e passeggeri. Ma la strage infinita ha continuato a uccidere. Misteri e depistaggi: più di 20 testimoni scomodi, per lo più militari, tutti scomparsi. Strani malori, suicidi apparenti, omicidi, incidenti stradali e aeronautici. Fascicolo riaperto il 23 febbraio 2013 – dopo milioni di pagine giudiziarie – su esposto dell’associazione antimafia “Rita Atria”. Il sospetto: forse non fu un incidente aereo, ma un attentato, quello che nel ’92 costò la vita all’ex pilota militare Alessandro Marcucci, caduto vicino a Cecina a bordo del velivolo anticendio pilotato da un collega, Silvio Lorenzini, anch’esso rimasto ucciso.Rosario Priore, il pm che più di ogni altro ha indagato sul disastro di Ustica, parla di testimoni «venuti a conoscenza di fatti diversi dalle ricostruzioni ufficiali». Piloti e controllori radar che «rivelano la loro conoscenza in ambiti strettissimi», ma non così riservati. Al punto che la loro verità viene «percepita da ambienti che li stringono od osteggiano anche in maniera pesante, e così ne restano soffocati». Impossibile non convincersene: molti dei morti all’indomani della strage «erano a conoscenza di qualcosa che non è stato mai ufficialmente rivelato, e da questo peso sono rimasti schiacciati». Lo scenario mette paura, perché quella notte sul mare e nel cielo tra Ponza e Ustica c’erano navi militari italiane e americane, caccia libici, aerei da guerra francesi, italiani e statunitensi. Un’esercitazione aeronavale della Nato, in grande stile, sconvolta dall’abbattimento incidentale del Dc-9. Dopodiché: tracce radar cancellate, silenzi e depistaggi. E naturalmente, omicidi.Il primo a morire, già il 3 agosto 1980, è il colonnello pilota Pierangelo Tedoldi: incidente stradale. Tedoldi era a capo dell’aeroporto di Grosseto, competente su uno dei radar coinvolti, quello di Poggio Ballone. Un anno dopo, il 9 maggio 1981, lo segue un collega, il capitano Mario Gari: “infarto”. Quattro mesi più tardi, il 2 settembre, ci rimette la pelle in un’esercitazione il colonnello dell’aeronautica Antonio Gallus. Era amico dei due piloti delle Frecce Tricolori, Mario Naldini e Ivo Nutarelli, che cadranno nella strage di Ramstein nel 1988. Li seguirà un altro amico, il tenente medico Giampaolo Totaro, trovato impiccato nella base friulana di Rivolto, nel ‘94. Era convinto che gli aerei dei piloti della squadra acrobatica fossero stati sabotati. Ma già all’inizio degli anni ’80, cioè poco dopo Ustica e i primi tre decessi anomali – Tedoldi, Gari e Gallus – fa scalpore un’uccisione eccellente: quella di Aldo Semerari, criminologo e collaboratore del Sismi, legato all’ultra-destra, trovato decapitato nella sua auto a Ottaviano il 25 marzo 1982 (lo seguirà a pochi giorni di distanza la segretaria, Maria Fiorella Carrara).Secondo il giornalista Gianni Lannes, autore del blog “Su la testa”, il professor Semerari – coinvolto nella strage di Bologna e nei casi Cirillo e Pecorelli, oltre che nelle trame “depistate” dalla Banda della Magliana – “non poteva non sapere” di Ustica. E’ invece un secondo incidente stradale, il 23 gennaio 1983, a uccidere il sindaco di Grosseto, il socialista Giovanni Battista Finetti. Aveva raccolto confidenze da ufficiali dell’aviazione: la sera della strage di Ustica, due caccia italiani F-104 si erano levati in volo dalla base toscana per intercettare un Mig-23 libico. Quello in effetti ritrovato sulla Sila il 18 luglio, due settimane dopo la strage di Ustica, con accanto il cadavere del pilota? Quattro anni dopo la morte del sindaco di Grosseto, il 20 marzo 1987 cade a Roma – crivellato di proiettili – il generale di squadra Licio Giorgeri, assassinato da un commando «per le responsabilità da lui esercitate in seguito all’adesione italiana al progetto delle guerre stellari». Firma il comunicato una sigla fantomatica: “Unione combattenti comunisti”.Per Giovanni Spadolini, «Giorgieri non aveva nessun rapporto diretto con l’iniziativa di difesa strategica». Attentato anomalo. All’epoca di Ustica, ricorda Lannes, il generale triestino faceva parte dei vertici del Rai, il Registro aeronautico italiano, responsabile del quale era il generale Saverio Rana, morto “per infarto”. Proprio Rana fu il primo a parlare di missili, scartando le altre ipotesi su Ustica (bomba terrorista a bordo, collisione o cedimento strutturale del velivolo). Dettaglio: dall’amico Giorgieri, racconta Lannes, il generale Rana – convinto socialista e, ai tempi, pilota personale di Pietro Nenni – aveva ricevuto tre fotocopie di tracciati radar e, subito dopo la strage, riferì al ministro Formica la presenza di un caccia vicino al Dc-9 dell’Itavia.Dieci giorni dopo Giorgieri, cominciano a morire i marescialli dell’arma azzurra: il 30 marzo viene trovato impiccato sul greto del fiume Ombrone il sottufficiale Mario Alberto Dettori, nell’80 controllore della difesa aerea al centro radar di Poggio Ballone. Era di turno proprio la sera della strage. Tornò a casa sconvolto: «E’ successo un casino», disse alla moglie, «qui vanno tutti in galera». E l’indomani, alla cognata: «Siamo stati a un passo dalla guerra, c’era di mezzo Gheddafi». Un altro maresciallo, Ugo Zammarelli, muore investito da una moto il 12 agosto 1988, a Gizzeria Marina. Niente autopsia, mentre i bagagli spariscono dall’albergo. In forza alla base Nato di Decimomannu, in Sardegna, Zammarelli non era in Calabria in vacanza: stava conducendo un’inchiesta personale sul Mig libico, afferma Lannes. Tempo due settimane, e nel cielo di Ramstein di schiantano le Frecce Tricolori di Naldini e Nutarelli. La sera maledetta, quella di Ustica, i due si erano alzati in volo a bordo dei loro F-104 con il compito di intercettare il Mig libico. Al giudice Priore, l’imprenditore Andrea Toscani ha rivelato le confidenze di Naldini: «Quella notte c’erano tre aerei. Uno autorizzato, due no. Li avevamo intercettati, quando ci dissero di rientrare».Si entra negli anni ’90, ma la strage dei testimoni continua. Il 1° febbraio 1991 cade un altro maresciallo dell’aeronautica, Antonio Muzio, freddato con tre colpi di pistola a Pizzo Calabro. Nel 1980 era in servizio alla torre di controllo dell’aeroporto di Lamezia Terme. Un anno dopo, precipita – esploso in volo? – il ricognitore antincendio di Silvio Lorenzini con accanto Alessandro Marcucci, tenente colonnello dell’aviazione e nell’80 pilota militare a Pisa. Marcucci aveva indagato su Ustica, attingendo a fonti indirette. Aveva scoperto qualcosa? L’indagine riaperta – salme riesumate per l’autopsia – proverà a stabilire se sia stato effettivamente ucciso. L’aereo è caduto il 2 febbraio ’92. Stesso giorno della morte dell’ennesimo maresciallo dell’aeronautica, Antonio Pagliara: incidente stradale, ancora. Nell’80, Pagliara era controllore della difesa aerea a Otranto. Un anno dopo, a Bruxelles, qualcuno uccide invece a coltellate un vero e proprio teste-chiave, l’ex generale Roberto Boemio, consulente dell’Alenia presso la Nato. Il Belgio, che non ha ancora risolto il caso, vede coinvolti «servizi segreti internazionali».Su Ustica, il generale Boemio aveva cominciato a collaborare con la magistratura: il suo nome, ricorda Lannes, compare tra i riscontri di innumerevoli contestazioni processuali fatte ai generali allora responsabili dell’aeronautica. Nell’80, proprio da Boemio dipendevano la base strategica di Martinafranca in Puglia e i centri radar di Jacotenente, Marsala e Licola, coinvolti nell’allarme per la presenza di caccia non identificati nel cielo di Ustica e di una portaerei in navigazione nel Tirreno al momento dell’esplosione del Dc-9. «Boemio – aggiunge Lannes nella sua ricostruzione – s’era anche occupato di uno dei due Mig-23 fatti ritrovare da Cia e Sismi sulla Sila proprio il 18 luglio ’80». Sempre Lannes include nella lista dei possibili testimoni “suicidati” anche il colonnello del Sismi Mario Ferraro, trovato morto in circostanze inverosimili il 16 luglio 1995 nella sua casa di Roma, impiccato con la cintura dell’accappatoio a un appendi-asciugamano che non avrebbe potuto reggere al suo peso.Esperto di terrorismo e traffico d’armi, Ferraro era l’uomo che a Beirut ricevette l’ordine di attivare contatti con le Br tramite l’Olp “per la liberazione di Moro”, ben 14 giorni prima che Moro venisse sequestrato. Sempre nel ’95, a fine anno (21 dicembre) ancora un maresciallo dell’aeronautica viene trovato morto, anche lui impiccato: è Franco Parisi, rinvenuto appeso a un albero alla periferia di Lecce. Nel maledetto 1980 era controllore della difesa aerea al centro radar di Otranto, di turno il 18 luglio – giorno in cui sarebbe avvenuto il fantomatico incidente del Mig. Il giudice Priore l’aveva interrogato, riscontrando «palesi contraddizioni» nella sua deposizione, probabilmente frutto di «minacce nei suoi confronti». Non c’è stato il tempo di riascoltarlo: gli hanno trovato strane lesioni alla nuca, mentre il cadavere (nonostante la corda al collo) aveva i piedi che poggiavano sul terreno. Strano suicidio anche quello di Michele Landi, consulente informatico della Guardia di Finanza oltre che del Sisde, trovato impiccato «con le ginocchia sul divano» il 4 aprile 2002 nella sua casa vicino a Guidonia.Per Umberto Rapetto, il generale delle Fiamme Gialle che ha denunciato la maxi-evasione miliardaria delle slot machines, è un gesto inspiegabile: «Landi era gioioso, non soffriva assolutamente di depressione». Però aveva confidato agli amici di conoscere novità compromettenti su Ustica. «L’hanno suicidato i servizi segreti, come storicamente in Italia sanno fare», ha detto agli inquirenti il magistrato Lorenzo Matassa, a cui Landi avrebbe «riferito di sapere molte cose su Ustica». In passato, rileva Lannes, il tecnico aveva lavorato sui sistemi di puntamento missilistici ed era stato in contatto con la società Catrin, «la stessa con cui collaborava Davide Cervia, il tecnico di guerra elettronica, misteriosamente scomparso il 12 settembre ’90». Ad abbattere il Dc-9 dell’Itavia fu un missile: lo prova la grandine di sferule d’acciaio conficcate nell’aereo, esplose da un razzo a frammentazione. Ma, dopo 33 anni, ancora non si sa chi l’abbia sparato. Per non parlare di tutte le altre strane morti, successive alla strage. Un vero e proprio cimitero di testimoni.Un caccia francese che “si nasconde” dietro un aereo di linea italiano e lo colpisce per errore, con un missile in realtà indirizzato contro un altro velivolo: il Mig libico a bordo del quale poteva esserci Gheddafi. Ne parlò Francesco Cossiga nel 2007, accreditando una possibile ricostruzione definitiva della strage di Ustica, 27 giugno 1980, quando il Dc-9 dell’Itavia decollato da Bologna e diretto a Palermo esplose in volo e finì in fondo al Tirreno, 81 vittime tra equipaggio e passeggeri. Ma la strage infinita ha continuato a uccidere. Misteri e depistaggi: più di 20 testimoni scomodi, per lo più militari, tutti scomparsi. Strani malori, suicidi reali o apparenti, omicidi, incidenti stradali e aeronautici. Fascicolo riaperto il 23 febbraio 2013 – dopo milioni di pagine giudiziarie – su esposto dell’associazione antimafia “Rita Atria”. Il sospetto: forse non fu un incidente aereo, ma un attentato, quello che nel ’92 costò la vita all’ex pilota militare Alessandro Marcucci, caduto vicino a Cecina a bordo del velivolo anticendio pilotato da un collega, Silvio Lorenzini, anch’esso rimasto ucciso.
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Allarme Italia, la soluzione c’è ma Napolitano non la vede
Secondo Citigroup, l’Italia resterà bloccata in depressione: crescita dello 0,1% nel 2014, crescita zero nel 2015 e limitata allo 0,2% nel 2016. Se è così, prende nota Ambrose Evans-Pritchard, dopo otto anni di crisi ininterrotta e la produzione crollata del 10%, quella del nostro paese sarà «una performance di gran lunga peggiore di quella avuta durante la Grande Depressione». Se anche l’Eurozona dovesse riprendersi nei prossimi tre anni, «il meglio che l’Italia possa sperare è la stabilizzazione su livelli di disoccupazione di massa – al 20% se si considera l’altissimo livello di lavoratori italiani scoraggiati (numero tre volte superiore alla media Ue) che sono usciti fuori dalle statistiche». La domanda è: quanto tempo la società potrà tollerare tutto questo? «Nessuno di noi sa la risposta», ammette Pritchard, che registra – e critica – l’allarme rosso lanciato da Napolitano: il presidente denuncia il pericolo di rivolte violente, ma evita di indicare le cause del disastro italiano, cioè l’euro e i vincoli imposti da Bruxelles.Mentre la recessione si trascina, Napolitano evoca il rischio concreto di «tensioni sociali e disordini diffusi» nel 2014, visto il peso crescente di masse ormai emarginate, disponibili a compiere «atti di protesta indiscriminata e violenta, verso una forma di opposizione totale». Migliaia di aziende sono «sull’orlo del collasso», mentre grandi masse di persone «prendono il sussidio di disoccupazione o rischiano di perdere il posto di lavoro». L’altissimo tasso di disoccupazione giovanile (41%) sta portando verso un pericoloso stato di alienazione. «La recessione sta ancora mordendo duro, e c’è la sensazione diffusa che sarà difficile sfuggirle, e trovare il modo per tornare alla crescita». Soluzioni? Napolitano non ne indica, scrive Pritchard sul “Telegraph”, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Niente soluzioni, anche perché dal Quirinale non proviene nessuna analisi sulla cause della catastrofe socio-economica. E cioè: l’Italia «ha una moneta sopravvalutata del 20% o più», ed è «intrappolata in un sistema di cambi fissi stile anni ‘30, gestito da una banca centrale anni ‘30, che sta lì a guardare (per motivi politici)», mentre l’aggregato monetario ristagna, il credito si contrae e la deflazione incombe.«Napolitano non offre alcuna risposta», sottolinea Pritchard. «Ex stalinista, che ha applaudito all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956 (un peccato giovanile), Napolitano da tempo ha manifestato il suo fervore ideologico a favore del progetto Ue. Egli è per natura incapace di mettere in discussione le premesse dell’unione monetaria, quindi non aspettatevi nessuno spunto utile dal Quirinale su come uscire da questa impasse». Vero, l’uomo del Colle «ammette che la crisi della zona euro “ha messo a dura prova la coesione sociale”, ma lascia la questione in sospeso, e la sua argomentazione incompiuta, più sul descrittivo che sull’analitico». Così, «senza arrivare al punto di lanciare l’allarme sul rischio che corre lo Stato italiano stesso, ha detto che la crescente minaccia delle forze insurrezionali deve essere affrontata». Come? «La legge deve essere rigorosamente rispettata, il paese deve andare avanti con disciplina». Napolitano è allarmato dalla rivolta dei “Forconi”, che ha preso una piega «inquietante» per le élite italiane, tra poliziotti che si tolgono i caschi – simpatizzando coi dimostranti – e militanti di CasaPound che strappano la bandiera blu-oro dagli uffici dell’Ue a Roma.«Dove porti tutto questo nessuno lo sa», continua Pritchard. «Per ora l’Italia ha evitato un ritorno agli “anni di piombo”, il terrorismo tra gli anni ‘70 e i primi anni ‘80, quando la stazione ferroviaria di Bologna fu fatta saltare dai fascisti e l’ex premier Aldo Moro fu sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse». Per il giornalista inglese, tuttavia, «questo tipo di violenza non è poi così lontano come la gente pensa». Nel 2011 il capo dell’agenzia fiscale Equitalia è stato quasi accecato da una lettera-bomba di matrice anarchica. «Da allora ci sono stati ripetuti casi di attacchi dinamitardi». C’è il rischio di un incidente, secondo Pritchard, che inneschi reazioni esplosive. «A coloro che continuano a insistere che l’Italia deve stringere la cinghia e recuperare competitività tagliando i salari, vorrei obiettare che questo è matematicamente impossibile, in un clima di ampia deflazione o quasi deflazione in tutta l’unione monetaria europea». Secondo il giornalista economico del “Telegraph”, la politica di austerità fiscale condanna l’Italia a veder crescere in modo esponenziale il proprio debito pubblico, che negli ultimi tre anni è passato dal 119% al 133% del Pil. Sotto le attuali politiche della Troika, «questo rapporto presto sfonderà il 140%, nonostante l’avanzo primario del bilancio Italiano – un livello oltre il punto di non ritorno per un paese senza moneta sovrana o senza una propria banca centrale».Prima ancora di uscire dall’euro, sostiene Pritchard, l’Italia potrebbe cambiare completamente la sua strategia diplomatica, «spingendo per un cartello degli stati debitori del Club Med a leadership francese che prenda il controllo della Bce e della macchina politica dell’Uem. Hanno i voti, e la piena autorità legale basata sui trattati, per forzare una strategia di reflazione che potrebbe cambiato tutto, se solo osassero». Questo, continua l’analista inglese, è più o meno «il nuovo piano di Romano Prodi, ex premier italiano e “Mr. Euro”, che ora sta sollecitando l’Italia, la Spagna e la Francia a unirsi, piuttosto che illudersi di poter fare da soli, e “sbattere i pugni sul tavolo”». L’economista premio Nobel Joseph Stiglitz riprende il tema su “Project Syndicate”, dicendo: «Se la Germania e gli altri non sono disposti a fare il necessario – se non c’è abbastanza solidarietà per far funzionare la politica – allora l’euro potrebbe dover essere abbandonato per salvare il progetto europeo».Di fronte al Parlamento Europeo, Mario Draghi ha appena rinnovato le sue minacce: secondo il presidente della Bce, l’uscita dall’euro comporterebbe una svalutazione catastrofica del 40%, che metterebbe in ginocchio qualsiasi paese. «Questo – lo smentisce Pritchard – è sempre lo stesso argomento che viene portato avanti in difesa dei regimi di cambio fissi, sia del Gold Standard nel 1931, che dello Sme nel 1992, o dell’ancoraggio argentino al dollaro nel 2001. E’ stato dimostrato falso, anche nel caso dell’Italia negli anni ‘90, quando la svalutazione ha funzionato benissimo». Draghi si sofferma sul trauma immediato, «ma ignora gli effetti molto più corrosivi di una crisi permanente». I paesi, infatti, «possono recuperare molto velocemente se il tasso di cambio si sblocca: si potrebbe ugualmente sostenere che ci sarebbe una marea di investimenti, in Italia, nel momento in cui il paese prendesse risolutamente il toro dell’euro per le corna e ristabilisse l’equilibrio valutario».Inoltre, la tesi di Draghi non tiene conto che «le potenze del nord hanno un forte interesse ad assicurare un’uscita ordinata dell’Italia», e che la stessa Bce potrebbe tranquillamente «stabilizzare la lira per un paio di mesi, fino a quando la situazione si calmasse: questo eviterebbe gli eccessi, eviterebbe delle perdite rovinose per il blocco dei creditori e degli esportatori tedeschi, ed eviterebbe una crisi da deflazione in Germania, Olanda, Finlandia e Francia». Quello che Draghi sta implicitamente affermando è che la Bce si comporterebbe in maniera spericolata, “punendo” l’Italia per il gusto di farlo, anche mettendo a repentaglio l’intera stabilità europea. «Sarebbe stato bello se un deputato gli avesse chiesto perché mai la Bce dovrebbe fare una cosa del genere», ma evidentemente i parlamentari europei non sono in grado di interagire alla pari col super-banchiere. «Quello che sembra certo – conclude Pritchard – è che nessun paese democratico sopporterà uno stato perdurante di semi-recessione e disoccupazione di massa, quando esistono delle alternative plausibili».Secondo Citigroup, l’Italia resterà bloccata in depressione: crescita dello 0,1% nel 2014, crescita zero nel 2015 e limitata allo 0,2% nel 2016. Se è così, prende nota Ambrose Evans-Pritchard, dopo otto anni di crisi ininterrotta e la produzione crollata del 10%, quella del nostro paese sarà «una performance di gran lunga peggiore di quella avuta durante la Grande Depressione». Se anche l’Eurozona dovesse riprendersi nei prossimi tre anni, «il meglio che l’Italia possa sperare è la stabilizzazione su livelli di disoccupazione di massa – al 20% se si considera l’altissimo livello di lavoratori italiani scoraggiati (numero tre volte superiore alla media Ue) che sono usciti fuori dalle statistiche». La domanda è: quanto tempo la società potrà tollerare tutto questo? «Nessuno di noi sa la risposta», ammette Pritchard, che registra – e critica – l’allarme rosso lanciato da Napolitano: il presidente denuncia il pericolo di rivolte violente, ma evita di indicare le cause del disastro italiano, cioè l’euro e i vincoli imposti da Bruxelles.
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Traditi dal sistema: ma questa è rabbia, non rivoluzione
I forconi, il vuoto e la rivoluzione. La protesta sale? Buon segno: vuol dire che «molti italiani cominciano a capire che devono difendersi», dice Giulietto Chiesa, che però aggiunge: «Molti parlano di rivoluzione, senza sapere cos’è una rivoluzione: e questo non è bene, perché poi subentra la delusione». Quella dei “forconi”? «Per ora è solo protesta: senza una guida, senza obiettivi ben definiti». Verranno «inesorabilmente» momenti successivi, che richiederanno «obiettivi comuni ben meditati». Non mancano «furbi e mestatori che già stanno pensando di usare la protesta e di stravolgerla ai loro fini e nei loro interessi»? Ovvio, perché «in politica il vuoto non esiste: qualcuno cerca sempre di riempirlo. Tutto dipende da chi ci riesce». Concorda Marco Bersani, di Attac, sempre su “Megachip”: queste istanze di ribellione sono facilmente pilotabili, proprio perché «non portano con sé alcuna intuizione di futuro diverso, ma solo la drammatica rabbia per l’insopportabilità del presente».Mentre i movimenti per i beni comuni «hanno da tempo interiorizzato il conflitto di sistema, ovvero vogliono cambiare la società e lo fanno a partire da un conflitto tematico come paradigma (acqua, grandi opere etc.)», la ribellione di questi giorni «è portata avanti dai delusi dal sistema, ovvero da coloro che hanno profondamente creduto che il modello neoliberale li avrebbe tutelati e che oggi si ritrovano la rabbia dell’essere stati abbandonati, senza l’idea che sia possibile un altro modello sociale». Detto questo, per Bersani è obbligatorio cercare di parlare al “popolo” sceso in piazza, «sia perché molti di loro sono accompagnati da una condizione sociale di vera disperazione, sia perché nell’acuirsi del binomio crisi sociale/crisi della democrazia è evidente che le esplosioni di rabbia non possano presentarsi come lineari e compiute», bensì come «moti tanto drastici quanto confusi».Per Bersani, il carattere della protesta dimostra «l’assenza di un vero pensiero rivoluzionario nella società», e ancora una volta «rischiano di gongolare i poteri finanziari: nessuna banca è stata assaltata, nessun obiettivo finanziario è stato messo in campo e si paventa la “marcia su Roma”, non su Piazza Affari». Che fare, dunque? Innanzitutto, serve «una coalizione sociale ampia fra i movimenti per i beni comuni e i diritti». Alleanza oggi ancor più necessaria, «sia perché le singole lotte hanno bisogno di una forza maggiore, sia perché pezzi di società che non reggono più (è successo in questi giorni, ma aspettiamocene altre in forme e modi che non comprendiamo) devono potersi sintonizzare con un percorso di conflitto in atto, ma che abbia il respiro largo e sappia suggerire che all’insopportabilità del presente c’è una possibile risposta collettiva».I forconi, il vuoto e la rivoluzione. La protesta sale? Buon segno: vuol dire che «molti italiani cominciano a capire che devono difendersi», dice Giulietto Chiesa, che però aggiunge: «Molti parlano di rivoluzione, senza sapere cos’è una rivoluzione: e questo non è bene, perché poi subentra la delusione». Quella dei “forconi”? «Per ora è solo protesta: senza una guida, senza obiettivi ben definiti». Verranno «inesorabilmente» momenti successivi, che richiederanno «obiettivi comuni ben meditati». Non mancano «furbi e mestatori che già stanno pensando di usare la protesta e di stravolgerla ai loro fini e nei loro interessi»? Ovvio, perché «in politica il vuoto non esiste: qualcuno cerca sempre di riempirlo. Tutto dipende da chi ci riesce». Concorda Marco Bersani, di Attac, sempre su “Megachip”: queste istanze di ribellione sono facilmente pilotabili, proprio perché «non portano con sé alcuna intuizione di futuro diverso, ma solo la drammatica rabbia per l’insopportabilità del presente».
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Perché l’Ue ti frega (spiegato al signor Marco, idraulico)
Marco, non è solo una questione di gruppi di speculatori e di ideologi che hanno creato un sistema, l’Eurozona, per succhiarti il sangue da Bruxelles. Non è solo il fatto che hanno scritto Trattati che annullano quel poco di potere del Parlamento italiano e del governo di aiutarti con la spesa pubblica. Non è solo che hanno scritto sul marmo dell’Europa delle Austerità imposte all’Italia che tu devi essere tassato a morte per venirti a succhiare ancora più sangue. Non è solo che non esiste un singolo politico italiano che ci capisca qualcosa e che possa difenderti (Grillo meno di tutti, stai in occhio!). E’ anche che in quelle stanze dove tutte le decisioni che fottono la tua vita, la tua azienda, i tuoi fornitori-creditori, i tuoi debiti e i 42 anni di lavoro che hai alle spalle sono piene di… Marco, non ti prendo in giro… sono piene di marziani in giacca e cravatta senza la più pallida idea di cosa significhi essere una persona umana. Una persona che vive in una casa e che alle 6,30 del mattino di tutti i giorni si alza per salire sul furgone con la borsa degli attrezzi. O cosa significhi lavorare. E questi decidono per te.Oggi un grande giornale finanziario americano ci informa che in quelle stanze – dove tutte le decisioni che fottono la tua vita, la tua azienda, i tuoi fornitori-creditori, i tuoi debiti e i 42 anni di lavoro che hai alle spalle vengono prese – un tizio di nome Benoit Coeuré della Banca Centrale Europea ha detto: «Il nostro compito ora è difendere i nostri successi finora ottenuti». Poi un altro alieno di nome Guntram Wolff, che dirige una super lobby chiamata Bruegel, ha detto: «I governi nazionali hanno combattuto a lungo per la loro sovranità, e giustamente la difendono». I successi finora ottenuti… La sovranità dei governi nazionali… Marco, ti sembra un successo l’euro? Quando avevi 32 anni e lavoravi per l’idraulica dei nascenti Lidi Ferraresi, e con quel lavoro hai creato 34 posti di lavoro per almeno trent’anni che hanno mantenuto 34 famiglie per trent’anni e hai sistemato le tue tre figlie, tu, Marco, stavi come oggi?Marco, il governo di allora – quando per i primi 5 anni avevi un credito bancario quasi senza interessi e poi al massimo ti caricavano un 4% con tutta tranquillità, e quando il Tesoro a Roma decideva LIBERAMENTE di darti il 12% d’interessi sui Bot per arricchirti – ti sembra libero come quello di oggi? Ma Marco, sai chi sono ‘sti due alieni di Bruxelles, i signori Benoit Coeuré e Guntram Wolff? Sono gli uomini che oggi ti comandano, comandano il tuo ‘governo’, e che ti fottono 42 anni di lavoro. Marco, PRENDIMI SUL SERIO. Marco, noi della Me-Mmt siamo qui per spiegarti tutto questo, per aiutarti, e per darti i mezzi di difenderti. La guardi “La Gabbia” su La7 il mercoledì sera?(Paolo Barnard, “Perché la Ue ti fotte, spiegato al sig. Marco dell’Idraulica Ferrini e soci”, dal blog di Barnard del 7 dicembre 2013).Marco, non è solo una questione di gruppi di speculatori e di ideologi che hanno creato un sistema, l’Eurozona, per succhiarti il sangue da Bruxelles. Non è solo il fatto che hanno scritto Trattati che annullano quel poco di potere del Parlamento italiano e del governo di aiutarti con la spesa pubblica. Non è solo che hanno scritto sul marmo dell’Europa delle Austerità imposte all’Italia che tu devi essere tassato a morte per venirti a succhiare ancora più sangue. Non è solo che non esiste un singolo politico italiano che ci capisca qualcosa e che possa difenderti (Grillo meno di tutti, stai in occhio!). E’ anche che in quelle stanze dove tutte le decisioni che fottono la tua vita, la tua azienda, i tuoi fornitori-creditori, i tuoi debiti e i 42 anni di lavoro che hai alle spalle sono piene di… Marco, non ti prendo in giro… sono piene di marziani in giacca e cravatta senza la più pallida idea di cosa significhi essere una persona umana. Una persona che vive in una casa e che alle 6,30 del mattino di tutti i giorni si alza per salire sul furgone con la borsa degli attrezzi. O cosa significhi lavorare. E questi decidono per te.
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Perché mai dovremmo prendere ordini da Olli Rehn
Un fisico da attore comico, il classico volto pacioccone da commedia brillante: lo sfigato che tenta inutilmente di farsi prendere sul serio. In virtù dell’indecente ordinamento feudale dell’Unione Europea, persino uno come lui – Olli Illmari Rehn, classe 1962, proveniente dal paese di Babbo Natale – è in grado di impartire moniti e severe direttive ai 60 milioni di individui che compongono il popolo italiano. Popolo che pure è autorizzato (per ora) a continuare a votare per il suo Parlamento nazionale, quello di Roma, il quale però ha ormai competenza solo sull’1% dei problemi del paese: il 99% è infatti appannaggio diretto di Francoforte e Bruxelles, per gentile concessione di Washington. Così, a spiegare agli italiani di che morte dovranno morire può provvedere impunemente un tizio come il signor Rehn, dal 2010 “commissario europeo per gli affari economici e monetari”. Un super-potente, nonostante quella faccia un po’ così. Un gauleiter, a tutti gli effetti: con piena facoltà di emanare diktat acuminati, anche se non è mai stato eletto da nessuno di noi.Economia, relazioni internazionali e giornalismo: il curriculum del “signor no” che da qualche tempo perseguita gli italiani riassume da solo la mappa strategica dei territori-chiave riconquistati dal pensiero unico, negli ultimi decenni, per imporre la ricetta economica dell’oligarchia neoliberista: il trionfo dei pochi sui molti, la geopolitica piegata all’egemonia globalizzata delle élite finanziarie e mercantili, la disinformazione come arma pervasiva e invisibile del regime. Per capire chi è il “ministro dell’economia” della Commissione Europea basta aprire la relativa paginetta di Wikipedia: vi si legge che Rehn si è laureato nel Minnesota, si è specializzato a Oxford e ha approfondito le sue competenze sul corporativismo e la competitività industriale negli Stati europei minori, quelli che oggi sono sottoposti alle amorevoli cure della Troika. Ma anche Olli Rehn, dopotutto, è un essere umano: è sposato, ha un figlio, in gioventù ha persino giocato a calcio nella serie A finlandese.Moderato, è in politica dalla fine degli anni ’80. Nella triste Europa dell’Unione si è affacciato nel 1991, guidando la delegazione finlandese, per poi approdare all’euro-Parlamento nel ’95. Anni cruciali, quelli seguenti, segnati dall’incontro con l’uomo del destino, il connazionale Erkki Liikanen, futuro governatore della banca centrale finnica e all’epoca “ministro” della Commissione Europea guidata da Romano Prodi. Col tempo, Rehn ha preso il posto di Liikanen ed è rimasto pressoché in pianta stabile nell’esecutivo sub-imperiale europeo, prima presieduto da Prodi e poi da Barroso. Uno specialista, il dottor Rehn: è stato lui a trattare l’ingresso nell’Ue di Romania e Bulgaria, nonché a tenere in caldo l’adesione della Turchia. Così efficiente, il signor nessuno venuto da freddo, da meritarsi la poltronissima di super-ministro dell’economia, dalla quale minacciare ogni giorno – con le solite armi di distruzione di massa dell’economia – chiunque non intenda piegarsi alle micidiali “direttive” di Bruxelles.Al popolo italiano – e a tutti gli altri, sventurati ostaggi dell’Eurozona traditi dalle rispettive partitocrazie nazionali – resta da spiegare per quale ragione al mondo un paese come l’Italia dovrebbe prendere ordini (perché di questo si tratta) da un anonimo funzionario come l’ex calciatore finlandese. In Italia si combatte per un seggio in Parlamento, si corre per le primarie e si accorre ai meeting di Grillo, si favoleggia ancora sulle notti di Arcore, si discute (en passant) su come smontare la Costituzione e su come eventualmente rimontare una vera legge elettorale. E intanto si chiacchiera sull’Imu, si prende nota dei soggiorni europei del turista Letta e del fido banchiere Saccomanni, si vocifera di privatizzazioni e nuovi tagli, nuove tasse, nuovi orrori. E nessuno mai che spieghi per chi e per che cosa gli italiani dovrebbero votare, se poi alla fine a decidere del loro destino saranno ancora e sempre gli invisibili Padroni dell’Universo, per i quali lavorano gli estremisti in doppiopetto come Olli Rehn.Un fisico da attore comico, il classico volto pacioccone da commedia brillante: lo sfigato che tenta inutilmente di farsi prendere sul serio. In virtù dell’indecente ordinamento feudale dell’Unione Europea, persino uno come lui – Olli Illmari Rehn, classe 1962, proveniente dal paese di Babbo Natale – è in grado di impartire moniti e severe direttive ai 60 milioni di individui che compongono il popolo italiano. Popolo che pure è autorizzato (per ora) a continuare a votare per il suo Parlamento nazionale, quello di Roma, il quale però ha ormai competenza solo sull’1% dei problemi del paese: il 99% è infatti appannaggio diretto di Francoforte e Bruxelles, per gentile concessione di Washington. Così, a spiegare agli italiani di che morte dovranno morire può provvedere impunemente un tizio come il signor Rehn, dal 2010 “commissario europeo per gli affari economici e monetari”. Un super-potente, nonostante quella faccia un po’ così. Un gauleiter, a tutti gli effetti: con piena facoltà di emanare diktat acuminati, anche se non è mai stato eletto da nessuno di noi.
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Hedges: quest’impero di depravati sta per travolgerci
Gli ultimi giorni dell’impero danno gran lavoro e potere agli inetti, agli squilibrati ed agli imbecilli. Questi politici e propagandisti di corte, assunti per essere la faccia pubblica della nave che affonda, mascherano il vero lavoro dell’equipaggio, il quale saccheggia sistematicamente i passeggeri mentre la nave affonda. I mandarini del potere stanno nella timoniera, impartendo ordini ridicoli e osservando in quanto tempo riescono a distruggere i motori. Combattono come bambini al timone di una nave, mentre la barca va a tutta velocità contro un iceberg. Passeggiano in coperta facendo discorsi pomposi. Urlano che la nave Ss America è la migliore mai costruita. Insistono che ha la tecnologia più avanzata e che incarna le più alte virtù. E poi, con una furia improvvisa e inaspettata, andremo giù nelle acque gelide. Gli ultimi giorni dell’impero sono un carnevale di follia. Siamo nel mezzo di noi stessi, spinti dai nostri leader di corte che si intestardiscono sull’economia e l’auto-distruzione. Sumeri e Romani caddero in questo modo, come pure gli Ottomani e l’impero Austro-Ungarico.Uomini e donne dalla sbalorditiva mediocrità e depravazione guidavano le monarchie d’Europa e della Russia alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. E l’America, nel suo stesso declino, ha offerto una parte del suo essere rammollita, stolta e imbecille fino alla totale distruzione. Una nazione che era ancora radicata nella realtà non avrebbe mai glorificato ciarlatani come il senatore Ted Cruz, il portavoce della Casa Bianca John Boehner e l’ex-portavoce Newt Gingrich che hanno corrotto le onde radio. Se avessimo avuto la minima idea di cosa realmente ci sarebbe accaduto ci saremmo rivoltati con furia contro Barack Obama, la cui eredità sarà la capitolazione totale alle esigenze di Wall Street, all’industria del combustibile fossile, al complesso dell’industria militare e allo stato di sicurezza e sorveglianza. Avremmo dovuto manifestare con quei pochi, come Ralph Nader, che hanno denunciato il sistema monetario basato sul gioco d’azzardo, l’interminabile stampa di denaro e ha condannato la distruzione ostinata dell’ecosistema. Dovevamo ammutinarci. Dovevamo far tornare indietro la nave.Le popolazioni dell’impero in caduta sono passive perché spensierate. E’ in atto una narcotizzazione del sogno ad occhi aperti tra coloro che rotolano verso l’oblio. Si rifugiano nella sessualità, nelle cose scadenti e nell’insensatezza, rifugi che al momento sono piacevoli ma di sicura auto-distruzione. Credono ingenuamente che tutto funzionerà. Come specie umana, osserva Margaret Atwood nel suo romanzo distopico “Oryx and Crake”, siamo condannati alla speranza. E assurde promesse di speranza e gloria sono continuamente servite dall’industria dell’intrattenimento, dell’élite politica ed economica, dalla classe dei cortigiani che fingono di essere giornalisti, guru autodidatti come Oprah e sistemi di credo religiosi che assicurano ai seguaci che Dio li proteggerà sempre. E’ una auto-delusione collettiva, un ritirarsi nel pensiero magico.«Il cittadino americano finora è vissuto in un mondo dove la fantasia è più reale della realtà stessa, dove l’immagine ha più dignità dell’originale», scrisse Daniel J. Boorstin nel suo libro “L’immagine: guida agli pseudo-eventi in America”. «Difficilmente affrontiamo il nostro sconcerto, perché la nostra esperienza ambigua è piacevolmente iridescente, e il conforto nella fede della realtà artificiosa è completamente reale. Siamo diventati accessori desiderosi nella grande era delle bufale. Queste sono le bufale che giochiamo a noi stessi». Cultura e alfabetismo, nella fase finale del declino, sono sostituiti da rumori diversivi e stereotipi vuoti. Lo statista romano Cicerone inveiva contro il loro equivalente dell’epoca – l’arena. Cicerone, a causa della sua onestà, fu inseguito e ucciso; le mani e la testa tagliate. La testa mozzata e la mano destra, con la quale aveva scritto le Filippiche, furono inchiodate sul palco dove parlavano al Foro. Mentre l’élite romana gli sputava sulla testa, dicevano allegramente alla folla inferocita che non avrebbe più parlato o scritto di nuovo.Nell’era moderna questa tossica cacofonia insensata, la nostra versione di spettacolo e di combattimenti di gladiatori, di “panem et circenses”, viene pompata ciclicamente ventiquattrore su ventiquattro dalle onde radio. La vita politica si è fusa con il culto della celebrità. L’educazione è principalmente professionale. Gli intellettuali sono scacciati e disprezzati. Gli artisti non possono vivere del proprio lavoro. Poche persone leggono libri. Il pensiero è stato bandito soprattutto nelle università e nei college, dove pedanti, timidi e carrieristi sfornano banalità accademiche. «Anche se la tirannia, che non ha bisogno di consenso, può governare con successo sui popoli stranieri», scrisse Hannah Arendt nel suo libro “Le origini del totalitarismo”, «si può restare al potere solo se si distruggono prima di tutto le istituzioni nazionali del popolo». E le nostre sono state distrutte.Le nostre ossessioni prioritarie sono il piacere sensuale e l’eterna giovinezza. L’imperatore romano Tiberio si ritirò nell’isola di Capri e convertì il suo palazzo al mare in una casa di lussuria sfrenata e violenza. «Gruppi di ragazze e giovani uomini, che erano stati raccattati da ogni parte dell’impero come adepti a pratiche innaturali, conosciute come spintriae, avrebbero copulato prima di lui in gruppi di tre, per eccitare il suo desiderio scemante», scrisse Svetonio ne “I dodici Cesari”. Tiberio addestrava ragazzini, che lui chiamava i suoi pesciolini, a folleggiare con lui in acqua e a fare sesso orale. E dopo aver osservato una tortura prolungata, li avrebbe poi obbligati a buttarsi da una scogliera vicino al suo palazzo. A Tiberio sarebbero seguiti Caligola e Nerone. «A volte, quando viene voltata la pagina», scrisse Louis-Ferdinand Céline in “Da un castello all’altro”, «quando la storia raggruppa insieme tutti i pazzi, apre le sue epiche sale da ballo! Cappelli e capi nel turbine! Mutandine in mare!».Nel suo libro “Il collasso delle società complesse”, l’antropologo Joseph Tainter osserva il collasso delle civiltà, dai Romani ai Maya. Conclude dicendo che si disintegrarono perché alla fine non potevano sostenere le complessità burocratiche che avevano creato. Strati di burocrazia richiedono sempre maggiore sfruttamento, non solo dell’ambiente ma anche delle classi operaie. Diventano calcificati da sistemi che non sono in grado di rispondere ai cambiamenti che avvengono attorno a sé. Come succede nelle nostre università d’élite e nelle scuole aziendali, vengono prodotti in serie informatici gestionali, ai quali insegnano non a pensare, ma a far funzionare ciecamente il sistema. Questi informatici gestionali sanno solo come perpetuare se stessi e il sistema al quale sono al servizio, anche se significa sventrare la nazione e il pianeta. Le nostre élite e i burocrati logorano il pianeta per sostenere un sistema che in passato ha funzionato, senza riconoscere che ora non funziona più.Invece di prendere in considerazione delle riforme che metterebbero a rischio i loro privilegi e il loro potere, le élite si rifugiano nel crepuscolo dell’impero, nelle cinta murate, come nella città perduta o Versailles. Inventano la propria realtà. Continuano a ripetere questi comportamenti a Wall Street e nelle sale del consiglio: gli stessi che insistono che la dipendenza dai combustibili fossili e le speculazioni sosterranno l’impero. Le risorse dello Stato, come fa notare Tainter, alla fine sono sempre più sprecate in progetti insensati e stravaganti e in avventure imperiali. E poi tutto collasserà. Il nostro collasso porterà con sé tutto il pianeta. Ammetto che è più piacevole starsene ipnotizzati davanti alle nostre allucinazioni elettroniche. E’ più facile darci mentalmente un’occhiata. E’ più gratificante assorbire l’edonismo e la malattia del culto di se stessi e del denaro. E’ più confortante chiacchierare del gossip delle celebrità e ignorare o respingere la realtà.Thomas Mann ne “La montagna incantata” e Joseph Roth in “Hotel Savoy” raccontano brillantemente questo peculiare stato mentale. Nell’hotel di Roth i primi tre piani destinati alla lussuria ospitano i ricchi boriosi, i politici immorali, i banchieri e gli imprenditori. I piani superiori sono affollati da gente che lotta per pagare i propri debiti e che sta costantemente svendendo le sue proprietà; gente che in questo modo diventerà povera e verrà scacciata. Non c’è un’ ideologia politica tra la classe dominante deteriorata, nonostante dibattiti inscenati ed elaborati teatri politici. E’, e alla fine lo è sempre stato, una vasta cleptocrazia. Appena prima della Seconda Guerra Mondiale, un amico chiese a Roth, intellettuale ebreo che era fuggito a Parigi dalla Germania nazista: «Perché bevi così tanto?». Roth rispose: «Pensi che riuscirai a scappare? Anche tu sarai spazzato via».(Chris Hedges, “La follia dell’impero”, post pubblicato da “Truthdig” e ripreso da “Come Don Chisciotte” il 24 ottobre 2013. Già corrispondente del “New York Times” per quasi vent’anni, Hedges ha scritto saggi su guerra, imperialismo e nuovo fascismo. Il suo libro più recente: “L’impero dell’illusione: la fine della letteratura e il trionfo dello spettacolo”).Gli ultimi giorni dell’impero danno gran lavoro e potere agli inetti, agli squilibrati ed agli imbecilli. Questi politici e propagandisti di corte, assunti per essere la faccia pubblica della nave che affonda, mascherano il vero lavoro dell’equipaggio, il quale saccheggia sistematicamente i passeggeri mentre la nave affonda. I mandarini del potere stanno nella timoniera, impartendo ordini ridicoli e osservando in quanto tempo riescono a distruggere i motori. Combattono come bambini al timone di una nave, mentre la barca va a tutta velocità contro un iceberg. Passeggiano in coperta facendo discorsi pomposi. Urlano che la nave Ss America è la migliore mai costruita. Insistono che ha la tecnologia più avanzata e che incarna le più alte virtù. E poi, con una furia improvvisa e inaspettata, andremo giù nelle acque gelide. Gli ultimi giorni dell’impero sono un carnevale di follia. Siamo nel mezzo di noi stessi, spinti dai nostri leader di corte che si intestardiscono sull’economia e l’auto-distruzione. Sumeri e Romani caddero in questo modo, come pure gli Ottomani e l’impero Austro-Ungarico.
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Verità cercasi, prima che la montagna ci frani addosso
La montagna è una fatica di cui non si vede mai la vetta, è Giorgia Meloni che nella trasmissione di Santoro denuncia i 90 miliardi di euro che grazie al governo Letta il gioco d’azzardo legalizzato ha sottratto al fisco, sono i No-Tav che in quello stesso studio aggiungono sul conto anche i 24 miliardi iniziali (solo previsti, mai stanziati perché inesistenti) per la grande opera più ridicola, costosa e inutile d’Europa, di cui i politici in trasmissione ammettono di sapere poco o nulla, nonostante sia diventata un caso nazionale per via delle gravi accuse di eversione piovute sulla protesta. La montagna sono le due ore di trasmissione che scorrono prima di “scoprire” che il famoso cantiere di Chiomonte, epicentro dello scontro, non è certo quello del futuro tunnel ferroviario: si sta solo scavando una mini-galleria di servizio, archiviabile alla svelta se solo si volesse farla finita, una volta per tutte, con la leggenda del treno veloce – non più per i passeggeri ma per le merci, che notoriamente viaggiano a bassa velocità.Merci letteralmente scomparse dalla tratta, dove peraltro Italia e Francia sono già perfettamente collegate dalla ferrovia Torino-Modane che attraversa la valle di Susa, appena ammodernata con 400 milioni di euro per consentire ai treni di caricare anche i Tir e i grandi container navali. La montagna è la fatica che occorre, ogni volta, per spiegare che i container navali sbarcati a Genova ormai evitano il Piemonte e la Francia e corrono verso Rotterdam attraverso i valichi del nord. Mentre per i Tir – lungi dal caricarli sui treni – si sta scavando il secondo traforo autostradale del Fréjus, sempre in valle di Susa, cioè nel territorio a cui, per buon peso, si vorrebbe infliggere anche l’Armageddon di vent’anni di cantieri Tav, coi paesi devastati e la popolazione minacciata da pericoli per la salute (cancro, causa polveri con amianto e uranio) ammessi dagli stessi tecnici della grande opera, che riconoscono che i lavori potrebbero anche aprire serie incognite idrogeologiche.Un’impresa folle, sempre più improbabile e irreale per tutti – docenti universitari compresi – tranne che per i decisori politici, i parlamentari a corto di informazioni che però vanno in televisione e scrutano i No-Tav come animali strani, un po’ naif, forse affetti dalla sindrome Nimby, evidentemente non credibili, persino quando ricordano palesi verità ormai incresciosamente ufficiali come quelle provenienti dalla Francia: al netto delle rituali cortesie diplomatiche con l’Italia, Parigi ha infatti stabilito definitivamente che il capitolo Torino-Lione verrà riaperto, eventualmente, solo a partire dal remotissimo 2030. La montagna è impervia: ci sono voluti anni prima che Santoro, paladino di tante cause civili, si decidesse a spedire il fido Ruotolo nella valle in rivolta: accadde nel 2012, quando il contadino anarchico Luca Abbà precipitò (folgorato) dal traliccio su cui si era inerpicato per protesta, tallonato da un poliziotto. Rivisto un anno dopo, sempre grazie a Ruotolo, Luca Abbà non denuncia gli oscuri attentati incendiari che hanno colpito le imprese collegate al cantiere, ne prende nota e rivendica in linea di principio il diritto di ricorrere anche al sabotaggio come strumento legittimo di lotta.E’ esattamente questo atteggiamento, diffuso in larghi settori del movimento “ribelle”, che spinge il procuratore Caselli a chiarire che – dal punto di vista della legge – non sono ammissibili infrazioni alla legalità, specie se violente come l’intimidazione o il lancio di sassi e petardi contro operai e agenti. Per contro, lo stesso Ruotolo mette a fuoco le aziende colpite dagli incendi: alcune hanno alle spalle vicissitudini giudiziarie, qualcuna è stata addirittura sfiorata da indagini dei Ros sul rapporto opaco tra politica, affari e ‘ndrangheta. Anche questo fa parte della montagna grigia, in una serata in cui Beppe Grillo tuona da Trento contro il presidente Napolitano, che il giorno dopo il blitz al Senato per disinnescare l’antifurto della Costituzione, l’articolo 138, a tarda ora ha convocato al Quirinale i partiti delle larghe intese per “invitarli” a cestinare finalmente l’impresentabile legge elettorale, tanto vituperata quanto cara ai privatizzatori della democrazia.La montagna è questa deriva infinita, nella quale gli italiani – valsusini e non – hanno ormai la certezza di non contare più niente, e di non sapere neppure più bene come arrivare alla fine del mese. La soluzione, dice Giorgia Meloni, non può essere che la partecipazione democratica: rifiutare il vittimismo passivo e scendere in campo direttamente per cambiare le cose, nonostante l’insormontabile muraglia del patriziato economico, dell’oligarchia finanziaria, della lebbra partitocratica. E anche della catastrofe nazionale dell’informazione: su questo versante, almeno, Santoro e Travaglio hanno accorciato le distanze, recuperando terreno prezioso. Certo, c’è voluta la manifestazione di Roma. Tutti i civili appelli all’ascolto, rivolti dalla valle di Susa alle maggiori istituzioni, erano sempre caduti nel vuoto – lettera morta anche per giornali e televisioni. La montagna è ancora lì. Si chiama Troika, rigore, Fiscal Compact, pareggio di bilancio, tetto del deficit al 3% del Pil. Politici sintonizzati? Zero: non pervenuti. Aspettano che la montagna ci frani addosso?La montagna è una fatica di cui non si vede mai la vetta, è Giorgia Meloni che nella trasmissione di Santoro denuncia i 90 miliardi di euro che grazie al governo Letta il gioco d’azzardo legalizzato ha sottratto al fisco, sono i No-Tav che in quello stesso studio aggiungono sul conto anche i 24 miliardi iniziali (solo previsti, mai stanziati perché inesistenti) per la grande opera più ridicola, costosa e inutile d’Europa, di cui i politici in trasmissione ammettono di sapere poco o nulla, nonostante sia diventata un caso nazionale per via delle gravi accuse di eversione piovute sulla protesta. La montagna sono le due ore di trasmissione che scorrono prima di “scoprire” che il famoso cantiere di Chiomonte, epicentro dello scontro, non è certo quello del futuro tunnel ferroviario: si sta solo scavando una mini-galleria di servizio, archiviabile alla svelta se solo si volesse farla finita, una volta per tutte, con la leggenda del treno veloce – non più per i passeggeri ma per le merci, che notoriamente viaggiano a bassa velocità.
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Giunti e Teghille: ma il mostro eversivo si chiama Tav
Il Procuratore della Repubblica di Torino interviene sulla manifestazione di sabato 19 a Roma, spiegando che se una marcia pacifica si può fare a Roma allora in val Susa si possono e si devono isolare i violenti. Con il massimo rispetto per la sua figura e la sua storia, proviamo a esprimere qualche riflessione, perché da molti anni sentiamo ripetere questo ritornello. Giornalisti e politici, anche sensibili alle ragioni della protesta, spesso ci spiegano quali danni porterebbe alla causa non espellere le mele marce. Noi, stolidi montanari, continuiamo a non capire. In realtà anche a Roma qualche scontro si è verificato, certamente non come due anni fa, sempre in ottobre, quando un analogo corteo ha avuto tutt’altro esito, né come – ricordiamo tutti – a Napoli e ancor più a Genova nel 2001. In quelle situazioni, anche sabato scorso, i filmati mostrano che curiosamente la polizia fa agire i violenti per poi accanirsi con i più tranquilli. In qualche caso si vedono agenti in borghese confondersi con i manifestanti o con i giornalisti. La storia del nostro Paese ci ha fatto conoscere anche le figure dei provocatori e degli infiltrati. Non c’è ragione per credere che gli antitav siano riusciti a restarne immuni.Non è la popolazione della valle di Susa che, alimentando simpatie antagoniste, ha promosso il progetto Torino-Lione e l’apertura del cantiere di Chiomonte. Sono questi che, per la loro insostenibilità e protervia, hanno richiamato l’antagonismo, in maniera quasi turistica. D’altronde, se qualcuno ritiene – a torto – che possa scoppiare una rivoluzione, sarà inesorabilmente attratto dove sussistono forti tensioni sociali e ambientali. Non andrà certo a Montecarlo o in Costa Smeralda! La gran parte delle iniziative condotte in vent’anni contro la Torino-Lione sono azioni pacifiche e culturali. A cominciare dalle manifestazioni, che continuano a radunare migliaia di persone in marcia a volto scoperto, per arrivare alle assemblee, alle serate informative, alle feste e agli spettacoli, a decine di conferenze di ospiti interessanti e competenti. Focalizzarsi sugli episodi violenti e sui sabotaggi è facile e strumentale ma non rende onore alla verità e al lungo cammino percorso da questo movimento.L’opposizione NoTav non è un partito o un’istituzione. Non ha un segretario politico né un presidente. E’ fatta da centinaia di persone con sensibilità diverse, anche distanti, che si ritrovano concordi nel denunciare un sistema perverso di potere, di opere, lavoro ed economia deviati, che non deve più trovare albergo nel nostro paese. Quindi non esiste nessuno che possa, in nome di tutti gli altri, prendere le distanze da qualcosa o espellere qualcuno. Al suo interno sono presenti anche moltissimi amministratori pubblici, sindaci in testa. Sempre, sempre, hanno condannato e rigettato – senza balbettare – ogni violenza, a cominciare proprio dagli eccessi nelle manifestazioni. Negare il fatto non lo cancella. Hanno anche ricordato, però, che i violenti sono molti. Persino lo Stato può esserlo, se prima impone un’opera, poi la camuffa come condivisa e infine la difende con i militari. Persino le forze dell’ordine e la Magistratura possono eccedere, non solo quando usano la forza fisica oltre il necessario, ma anche quando indagano con visioni preconcette e in una sola direzione. Persino i massmedia, se sono ossequiosi con lo sloganeggiante notabile di turno o se ignorano gli appelli alle istituzioni, i dati tecnici, la pochezza dei progetti, i dubbi espressi in altri Stati, possono fare violenza.La politica nazionale pare sappia rispondere soltanto con arroganza e con sotterfugi. L’ultimo esempio si trova nella legge sul femminicidio, che assimila i cantieri a caserme e allarga il perimetro dell’art. 260 del codice penale. Tratta di spionaggio e usa termini come stato in guerra, efficienza bellica, operazioni militari. Addirittura, in caso di conflitto, contemplava la pena di morte! Oppure si può analizzare la ratifica dell’ultimo accordo internazionale proposta al Parlamento: con essa si applicherebbe anche sul lato italiano il diritto francese, spostando oltralpe gli eventuali contenziosi ma soprattutto annullando ogni normativa antimafia, che là non esiste. Non sono forme di eversione anche le dismissioni di sovranità e lo svilimento dell’ordinamento dello Stato?La “Libera Repubblica” della Maddalena non voleva un altro Stato, ma uno Stato migliore e più rispettoso della Costituzione italiana. Rivendicava – forse immodestamente – il collegamento con la Resistenza da cui quella Costituzione nacque. Qualcosa come i 40 giorni di libertà della val d’Ossola, i 23 giorni della Città di Alba o la difesa del Monte Rubello. Non una “enclave” ma un laboratorio, fantasioso, disordinato, partecipato e vitale come ogni esperimento. Sono altre le enclaves che dovrebbero preoccupare gli italiani, le regioni dominate dalla criminalità organizzata, ad esempio, o i grumi affaristico-politico-finanziari i cui scandali scoppiano ogni settimana, ma sempre dopo che i guasti sono avvenuti. I NoTav invece, con tutti i loro difetti, stanno cercando di fermarli prima che accadano.Per quanto possa apparire blasfemo, i cittadini che si oppongono alla costruzione della Torino-Lione sono consapevoli di infrangere talvolta le leggi esistenti. Ma lo fanno in nome di un senso di giustizia più alto, magari confuso per gli altri ma limpido per loro, seguendo il principio che Giuseppe Dossetti, guardando alla Francia, avrebbe voluto inserire nella Costituzione della Repubblica Italiana: La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino. Tra quei diritti inviolabili ci sono la salute e il paesaggio che proprio la Torino-Lione massacrerebbe. Le buone ragioni di chi ha ragione non vengono cancellate da metodi poco ortodossi o addirittura illeciti. La compresenza di pratiche diverse per sostenerle non è motivo valido per sconfessarle o ignorarle. Restano valide, anche se è comodo nasconderle enfatizzando le azioni più clamorose.La fiducia nella giustizia e nei loro rappresentanti viene messa a dura prova. Cittadini informati e vilipesi l’hanno perduta perché ogni loro appello, denuncia, ricorso, esposto, è stato sempre lasciato cadere da chiunque l’abbia ricevuto, magistrato o Presidente della Repubblica che fosse. Si badi bene: non è stato accolto, giudicato e poi, eventualmente, ritenuto infondato nel merito. Non è proprio stato recepito. Non solo. Chi si è permesso di denunciare abusi e pericoli è stato inquisito per false comunicazioni e procurato allarme. Come una certa Tina Merlin a proposito del Vajont. Alla lunga una certa disistima nelle istituzioni centrali appare giustificata. L’incrollabile convinzione del Procuratore di Torino sull’eversione ricorda con amarezza le “prove granitiche” che dieci anni fa sono state considerate dalla Cassazione insufficienti per sostenere proprio l’accusa di terrorismo nella nostra valle, non senza aver cagionato due suicidi in carcere e 4 anni di ingiusta detenzione al terzo indagato. Si sta recitando da capo lo stesso identico copione, e nessuno qui in giro vuole che si ripeta anche lo stesso epilogo.Nonostante tutto, rimane la speranza – forse ingenua – che la giustizia faccia il suo corso. Non si spiegherebbe altrimenti l’ostinazione nell’analizzare progetti, sorvegliare il cantiere, produrre documenti, redigere i famosi esposti. Va poi ricordato, per quanto fastidioso sia, che in tutta questa storia si annoverano tre sentenze: quella che ha assolto i presunti Lupi Grigi dall’accusa di terrorismo, quella che ha condannato la dirigenza Sitaf per turbativa d’asta per gli appalti di Venaus, quella che riconosce i pestaggi ingiustificati delle forze dell’ordine durante lo sgombero del 2005, sempre a Venaus. Quest’ultima addirittura proclama l’omertà dei funzionari e la loro reticenza davanti ai giudici! Sentenze, non chiacchiere NoTav. Tutte decisioni ultime della Magistratura che in qualche modo confermano le tesi degli oppositori alla Torino-Lione. Aspettiamo dunque rispettosamente le conclusioni dei processi istruiti negli ultimi due anni: potrebbero rivelare delle sorprese.Il Procuratore ha già radicato la convinzione che tutti i sabotaggi sono da ricondursi al movimento NoTav, nonostante non siano stati rivendicati, le indagini siano in corso, e addirittura alcuni bersagli abbiano dichiarato di pensarla diversamente. Ma il giudizio è già vissuto come inappellabile. Eppure, molti dubbi si affollano sulle dinamiche dei singoli episodi, così come sul contesto in cui sarebbero avvenuti. Ad esempio, si apprende dalla stampa che attentati simili si sono verificati nel chivassese e nell’emiliano, sempre a carico di ditte in qualche modo coinvolte nei movimenti di terre Tav. In quelle aree lontane, per fortuna, nessuno ha ancora incolpato i NoTav. Non sarà possibile, almeno in ipotesi, che anche in val Susa gli autori siano altri e abbiano altri scopi? Che la torta da spartire sia così succulenta da attirare appetiti più onnivori di qualche presunto contestatore più esuberante di altri? E’ positivo che la legge finanziaria in discussione preveda nuove risorse proprio per risarcire le ditte eventualmente colpite dai NoTav. Costringerà a individuare senza dubbi i veri autori dei danneggiamenti, perché senza responsabilità accertata in capo ai NoTav i risarcimenti saranno zero. Come in una famosa pubblicità: No colpevoli, No soldi!A nostro modo di vedere, c’è un sistema molto facile e immediato per scoprire se davvero esiste una frattura negli oppositori e se una frangia del movimento vuole lo scontro a tutti i costi. Ascoltare le voci degli amministratori e dei docenti universitari, che chiedono di fermarsi a riflettere – ma in maniera seria, trasparente e obiettiva – sui dati trasportistici, economici, ambientali e sociali dell’opera. Se dopo tale analisi si dovesse appurare che la Torino-Lione è utile, proposta in maniera cristallina, sopportabile dall’ambiente e dalle casse dello Stato, una buona parte di chi si oppone sarebbe disposto a farsi da parte. Noi, almeno, lo faremmo. In ogni caso, è indubitabile che sic stantibus rebus non si possa andare avanti. Occorre prendere atto che l’Osservatorio governativo istituito nel 2006 ha fallito. Era stato incaricato di condividere il progetto con il territorio, di facilitare l’accettazione dell’opera, di ridurre la contestazione e abbassare la tensione. Non c’è riuscito, per la semplice ragione che la Torino-Lione è indifendibile sotto ogni punto di vista.Per accorgersene definitivamente, basta smettere di ascoltare i proclami rassicuranti che il Commissario dipinge nei salotti e in luoghi protetti, ben lontano da ogni confronto. Non potranno certo essere installati i cantieri a Susa nei prossimi due anni, come più volte annunciato. In mezzo a quartieri abitati, aziende, scuole, strade e altre strutture pubbliche. Non ci si troverà più in una valle secondaria isolata tra i monti e disabitata. Dall’estate del 2011 Chiomonte e la val Clarea insegnano che costa di più difendere l’opera che costruirla. A Susa questi costi potrebbero decuplicare. E ormai dovrebbe essere evidente a tutti che repressione e falsità non sono i metodi idonei per uscire da questo buco.(Luca Giunti e Bruno Teghille, “Riflessioni sulla lettera del procuratore della Repubblica di Torino”, 24 ottobre 2013. Giunti e Teghille sono due esponenti del movimento No-Tav).Il Procuratore della Repubblica di Torino interviene sulla manifestazione di sabato 19 a Roma, spiegando che se una marcia pacifica si può fare a Roma allora in val Susa si possono e si devono isolare i violenti. Con il massimo rispetto per la sua figura e la sua storia, proviamo a esprimere qualche riflessione, perché da molti anni sentiamo ripetere questo ritornello. Giornalisti e politici, anche sensibili alle ragioni della protesta, spesso ci spiegano quali danni porterebbe alla causa non espellere le mele marce. Noi, stolidi montanari, continuiamo a non capire. In realtà anche a Roma qualche scontro si è verificato, certamente non come due anni fa, sempre in ottobre, quando un analogo corteo ha avuto tutt’altro esito, né come – ricordiamo tutti – a Napoli e ancor più a Genova nel 2001. In quelle situazioni, anche sabato scorso, i filmati mostrano che curiosamente la polizia fa agire i violenti per poi accanirsi con i più tranquilli. In qualche caso si vedono agenti in borghese confondersi con i manifestanti o con i giornalisti. La storia del nostro Paese ci ha fatto conoscere anche le figure dei provocatori e degli infiltrati. Non c’è ragione per credere che gli antitav siano riusciti a restarne immuni.
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Caselli ai No-Tav: imparate da Roma a isolare i violenti
«Dunque è possibile. Stando alle cronache del corteo di Roma del 19 settembre, cui hanno partecipato migliaia di “antagonisti”, è possibile manifestare con forza ma senza violenza, distinguendosi nettamente dalla minoranza dei facinorosi illegalmente aggressivi. È persino possibile cercare di ostacolarne o impedirne le gesta, così facilitando l’azione delle forze dell’ordine. Perché quel che è successo a Roma sembra invece lontano se non impossibile in val di Susa, con i No-Tav?». Così il capo della Procura di Torino, Gian Carlo Caselli, dalle colonne del “Fatto Quotidiano”. Il movimento valsusino, aggiunge il magistrato, è formato per la stragrande maggioranza di persone “per bene”. «Ma ce ne sono anche “per male”, con tutte le sfumature del male, fino a mettere in conto la commissione di reati. E le persone per bene – aggiunge Caselli – non osano distinguersi troppo dai violenti. Anzi, li tollerano. Spesso li accettano e ne condividono l’azione (“siamo tutti black bloc” è uno slogan abituale…). E ciò nonostante si sia registrata, negli ultimi due anni, una evidente impennata» nelle forme di protesta adottate.A partire dal giugno-luglio 2011, continua il procuratore, vi sono stati pesanti attacchi (di solito notturni) contro il cantiere di Chiomonte: «Un’infinità di oggetti atti a offendere (pietre, biglie di ferro, razzi, bombe carta e bottiglie incendiarie) è stata scagliata contro gli operai e poliziotti che sono costretti a vivere asserragliati in quel cantiere». A operare sono «squadre organizzate secondo schemi paramilitari», tanto da indurre il Tribunale della libertà di Torino (giudice “terzo”, indipendente) a parlare ripetutamente di “eversione” e “micidialità”. «E ancora recentemente – continua Caselli – è stata fermata un’auto (che viaggiava in convoglio con altre di copertura) zeppa di strumenti che una consulenza tecnica ha qualificato come assai pericolosi». Poi si sono registrati svariati sabotaggi, «con danni assai gravi», contro i mezzi di lavoro delle ditte che sono impegnate nel cantiere: uno stile intimidatorio di stampo ‘ndranghetista, secondo Stefano Rodotà. Senza contare le «reiterate iniziative illegali contro vari giornalisti “sgraditi” in valle», tra cui il redattore della “Stampa”, Massimo Numa, a cui è stato recapitato un ordigno esplosivo in grado di uccidere. Attentato anonimo: lo stesso Numa non pare credere alla “pista No-Tav” ma, in linea di principio, la Procura non esclude la possibilità di “schegge impazzite”.Tra gli aspetti più antagonistici, Caselli include anche la cosiddetta “Libera repubblica della Maddalena”, l’occupazione temporanea dell’area di Chiomonte con cui i No-Tav nel 2011 tentarono di ritardare l’avvio del cantiere. Per il magistrato, la vicenda «avrebbe meritato ben altra attenzione», dal momento che «si è trattato di una “enclave” creata nei pressi del cantiere, con tanto di posti di blocco valicabili soltanto da coloro (forze dell’ordine comprese) che ottenevano il permesso dei sedicenti “repubblicani”». Dunque, scrive il magistrato, «un pezzo del territorio dello Stato italiano sottratto per qualche mese alla sovranità dello Stato medesimo». Un fatto che «può serenamente definirsi “eversivo”, così come è “eversivo” bloccare mezzi di trasporto sull’autostrada, circondarli con un manipolo di persone molte delle quali travisate, pretendere l’esibizione di documenti personali e di trasporto per verificare che il carico non abbia a che fare col cantiere, com’è successo a un ignaro e terrorizzato camionista olandese, al cui mezzo è stata anche squarciata una ruota per meglio bloccarlo».Tutto ciò, conclude Caselli, comporta l’usurpazione di funzioni che ogni Costituzione democratica riserva esclusivamente al potere pubblico. «E se le parole hanno ancora un senso, per definire tale usurpazione ce n’è una soltanto: che è appunto eversione». Eppure, secondo il capo della Procura di Torino, «la voce delle persone per bene del Movimento o non si è fatta sentire per nulla o ha balbettato qualche confuso distinguo, quando non ha addirittura preteso di legittimare con pubblici proclami certe azioni violente come i sabotaggi». Risultato: «Le persone per bene del Movimento potrebbero anche avere tutte le ragioni del mondo (non lo so, non rientra nel perimetro delle mie competenze) circa l’utilità e i costi del Tav: ma per quanto siano eventualmente valide, queste ragioni non possono che risultare screditate dall’accettazione di fatto di forme anche gravi di violenza».In modo ormai irreversibile, lo scontro sulla Torino-Lione «sembra diventato un pretesto per professionisti della violenza assortiti (le persone “per male”), affluiti nella Valle da varie città italiane ed europee per sperimentare metodi di lotta incompatibili con il sistema democratico». Una sorta di “laboratorio”, «che si spera non abbia mai a rivelarsi come incubatrice di vicende ancor più gravi». Per Caselli, «sono fatti che non si possono non vedere. Invece, fra politici, amministratori, intellettuali e opinionisti si trovano ancora – purtroppo – personaggi che a prendere le distanze, condannandola senza riserve, dalla commissione di reati (anche violenti) gli viene l’orticaria. Per cui preferiscono tacere o addirittura manifestare indulgenza. Inglobando in questo “generoso” atteggiamento un catalogo di attacchi scomposti contro il doveroso accertamento delle responsabilità penali. In realtà per esprimere radicale insofferenza verso la prospettiva che i violenti possano essere soggetti – come qualunque altro cittadino – all’obbligo di rispondere delle illegalità commesse».«Dunque è possibile. Stando alle cronache del corteo di Roma del 19 settembre, cui hanno partecipato migliaia di “antagonisti”, è possibile manifestare con forza ma senza violenza, distinguendosi nettamente dalla minoranza dei facinorosi illegalmente aggressivi. È persino possibile cercare di ostacolarne o impedirne le gesta, così facilitando l’azione delle forze dell’ordine. Perché quel che è successo a Roma sembra invece lontano se non impossibile in val di Susa, con i No-Tav?». Così il capo della Procura di Torino, Gian Carlo Caselli, dalle colonne del “Fatto Quotidiano”. Il movimento valsusino, aggiunge il magistrato, è formato per la stragrande maggioranza di persone “per bene”. «Ma ce ne sono anche “per male”, con tutte le sfumature del male, fino a mettere in conto la commissione di reati. E le persone per bene – aggiunge Caselli – non osano distinguersi troppo dai violenti. Anzi, li tollerano. Spesso li accettano e ne condividono l’azione (“siamo tutti black bloc” è uno slogan abituale…). E ciò nonostante si sia registrata, negli ultimi due anni, una evidente impennata» nelle forme di protesta adottate.
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Berardi: guerra civile europea, solleviamoci per fermarla
Potremo ritrovare la libertà solo grazie a una «sollevazione europea», partendo dalla grande manifestazione del 19 ottobre a Roma, evitando le fiammate rabbiose, «una trappola cui potrebbe seguire depressione e disgregazione». Energia popolare, da trasformare «in un processo diffuso e permanente di autonomia solidale». Per Franco “Bifo” Berardi, il popolo “ribelle” che ha sfilato a Roma è quello più consapevole, che vuole «sottrarre la società al cappio mortale del finanzismo, il capitalismo finanziario che sta portando l’Europa verso il nazismo». E’ il regime che ha tradito persino le aspettative della tecnologia, la promessa di liberare tempo-lavoro per destinarlo alla cura e all’educazione. Al contrario, la tecnologia globalizzata si traduce in disoccupazione e miseria, ulteriore sfruttamento, con sempre nuovi tagli alle spese per la scuola e la sanità. Attenzione: «Il sistema politico non può nulla contro la devastazione finanzista», perché la nostra democrazia «è stata cancellata»: come dice Draghi, «sommo sacerdote della teologia finanzista», il “patto di stabilità” procede con il pilota automatico, contro di noi.Secondo Berardi, autore di un intervento su “Micromega”, «soltanto una sollevazione generale, che non si limiti a riempire le piazze per un giorno, ma che occupi in maniera permanente la vita quotidiana, può liberare la società dalla trappola del finanzismo». La sollevazione, precisa “Bifo”, non è un’azione militare, e neppure una ribellione momentanea, ma «il dispiegamento della corporeità sociale, il rifiuto permanente di pagare un debito che non abbiamo contratto, l’autonomia delle forme di vita di sapere e di produzione». Niente black-bloc, per intenderci: «Un’evoluzione violenta del movimento anticapitalista oggi sarebbe poco intelligente, perché nessuno crede alla possibilità di sconfiggere le forze armate degli Stati, ultimo residuo del loro potere nazionale». Ci sono state «esplosioni di violenza precaria» come quelle del 2011 in Inghilterra, scatenate dalle giovani generazioni che «si vedono promesse a un futuro di miseria e di schiavismo», seguite dall’“acampada” spagnola, da Occupy Wall Street e dalle rivolte giovanili in Tunisia e in Egitto. L’Italia? E’ rimasta ai margini, «perché molti ingenui credevano che il problema fosse riducibile al potere di un vecchio caimano mafioso». Ma ora che Berlusconi pare al tramonto, «nulla cambia se non in peggio, e la società si trova in una stretta ogni giorno più soffocante».Lo spettacolo che ci assedia è scoraggiante: «Fiaccata dall’attacco finanzista, l’Unione Europea è un morto che cammina. Un sentimento di rancore impotente si esprime in forme di nazionalismo e di razzismo». Il Mediterraneo è «trasformato in una fossa comune», mentre «campi di concentramento razziali» sorgono «in ogni territorio dell’Unione». Sulla Grecia incombe “Alba Dorata”, in Spagna riemerge il conflitto tra nazionalismo e indipendentismo catalano, in Ungheria si affacciano «la dittatura e il razzismo». Quanto alla Francia, Berardi non crede alla sincerità democratica di Marine Le Pen, leader del Front National che ormai si presenta come forza di maggioranza. Per “Bifo”, la Bce «sta consegnando ai nazionalisti il governo del paese senza il quale “Europa” non significa niente». Il patto di pace franco-tedesco «si sta sgretolando, e crollerà quando il Front National sarà partito di maggioranza». A quel punto, «l’agonia dell’Unione lascerà il posto alla guerra civile». Fondamentale, quindi, il ruolo della “sollevazione permanente europea” in nome della democrazia solidale, a partire dal bilancio della manifestazione di Roma.Potremo ritrovare la libertà solo grazie a una «sollevazione europea», partendo dalla grande manifestazione del 19 ottobre a Roma, evitando le fiammate rabbiose, «una trappola cui potrebbe seguire depressione e disgregazione». Energia popolare, da trasformare «in un processo diffuso e permanente di autonomia solidale». Per Franco “Bifo” Berardi, il popolo “ribelle” che ha sfilato a Roma è quello più consapevole, che vuole «sottrarre la società al cappio mortale del finanzismo, il capitalismo finanziario che sta portando l’Europa verso il nazismo». E’ il regime che ha tradito persino le aspettative della tecnologia, la promessa di liberare tempo-lavoro per destinarlo alla cura e all’educazione. Al contrario, la tecnologia globalizzata si traduce in disoccupazione e miseria, ulteriore sfruttamento, con sempre nuovi tagli alle spese per la scuola e la sanità. Attenzione: «Il sistema politico non può nulla contro la devastazione finanzista», perché la nostra democrazia «è stata cancellata»: come dice Draghi, «sommo sacerdote della teologia finanzista», il “patto di stabilità” procede con il pilota automatico, contro di noi.
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In piazza l’Italia più vera, sfidando la disinformazione
Disinformazione a parte, quella del 19 ottobre è stata una delle più belle e più grandi manifestazioni di massa degli ultimi anni. E anche una vera manifestazione di popolo, dice Giorgio Cremaschi: un corteo con svariate decine di migliaia di giovani, di migranti, di donne e di militanti dei movimenti sociali e di quelli ambientali, di lavoratori e pensionati. Se la si collega con quella del 18 ottobre per lo sciopero dei sindacati di base, come del resto proposto dagli stessi promotori, vediamo finalmente delineato «un possibile blocco sociale antagonista, che rompe le barriere tra generazioni», gli steccati «tra lavoro, precarietà, disoccupazione e reddito, tra diritti sociali e ambiente». E così «si comincia a sentire anche una maturazione di obiettivi politici, con la rivendicazione democratica di decidere mentre si individuano come avversari diretti l’Europa dell’austerità e i suoi governi, da noi quello voluto da Giorgio Napolitano».Chi condivide molti obiettivi sociali e politici di questi movimenti ma non ha voluto sfilare nella capitale «per settarismo o supponenza aristocratica», farà bene a dirsi che ha sbagliato, aggiunge Cremaschi in un post su “Micromega”, perché il 19 ottobre 2013 – col sommarsi di molte voci nel bagno di folla che ha attraversato il centro di Roma – può diventare una data storica, uno spartiacque: fino a ieri a subire la durezza della crisi c’era un’Italia spesso anonima, costretta a restare ai margini, priva di una vera rappresentanza democratica, delusa dai partiti e dai grandi sindacati vicini all’establishment. E’ l’Italia del lavoro che non c’è più, dei diritti confiscati, delle verità negate, dell’economicidio decretato dalla Troika europea col Fiscal Compact, espressione della dittatura dell’euro che impone di riscattare il debito pubblico senza più potere sovrano di spesa pubblica. Quell’Italia si è messa in marcia e ha parlato forte e chiaro, nonostante la pesantissima disinformazione dei media.«C’è da ridere nel vedere la vergogna della grande informazione italiana, davvero ridicola espressione del palazzo», osserva Cremaschi. «Tutti i grandi mass media hanno annunciato la manifestazione del 19 ottobre come un mattinale della questura. Poi, nonostante ci siano stati meno incidenti che in una normale partita di calcio, han cancellato la forza, la bellezza, la freschezza di una manifestazione, ove per la prima volta le famiglie dei migranti sfilavano con i bambini, e han gonfiato all’inverosimile piccolissimi episodi». Ancora una volta, aggiunge l’ex dirigente della Fiom, «la grande informazione si conferma come parte della crisi della nostra democrazia». Eppure, la grande prova offerta dalla manifestazione del 19 ottobre dimostra che si può ripartire lo stesso: «Senza esaltarsi troppo e consapevoli di tante difficoltà, si riparte». Obiettivo: costringere la politica a mettere in agenda la verità della crisi, verso soluzioni che profumino finalmente di democrazia e sovranità popolare.Disinformazione a parte, quella del 19 ottobre è stata una delle più belle e più grandi manifestazioni di massa degli ultimi anni. E anche una vera manifestazione di popolo, dice Giorgio Cremaschi: un corteo con svariate decine di migliaia di giovani, di migranti, di donne e di militanti dei movimenti sociali e di quelli ambientali, di lavoratori e pensionati. Se la si collega con quella del 18 ottobre per lo sciopero dei sindacati di base, come del resto proposto dagli stessi promotori, vediamo finalmente delineato «un possibile blocco sociale antagonista, che rompe le barriere tra generazioni», gli steccati «tra lavoro, precarietà, disoccupazione e reddito, tra diritti sociali e ambiente». E così «si comincia a sentire anche una maturazione di obiettivi politici, con la rivendicazione democratica di decidere mentre si individuano come avversari diretti l’Europa dell’austerità e i suoi governi, da noi quello voluto da Giorgio Napolitano».