Archivio del Tag ‘Russia’
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Renzi, atroce imbroglio: la faccia allegra della catastrofe
Quanti disoccupati produrrà la sciagurata privatizzazione della Fincantieri, che sinora proprio perché pubblica ha permesso all’Italia di essere competitiva nella costruzione delle grandi navi, assieme alla Germania? Vogliamo parlare della privatizzazione di Ilva, Telecom, Italtel e Alitalia, dei disastri che hanno prodotto in tutte le direzioni senza un centesimo di guadagno, anzi con gigantesche perdite, per lo Stato? Vogliamo parlare dello scandalo della Fiat delocalizzata e che fugge il fisco, con il governo muto e complice? Quanti nuovi disoccupati e precari produrrà la cosiddetta riforma della pubblica amministrazione che, dietro la misura demagogica del taglio dei permessi sindacali (che alla fine sarà un boomerang per i suoi autori perché rafforzerà chi lotta sul serio), dietro la propaganda attua il taglio lineare del personale e la deresponsabilizzazione pubblica nella catena degli appalti? E soprattutto quanti disoccupati produrrà la continuazione delle politiche di austerità che già ora hanno creato 7 milioni di senza lavoro?E non si venga a dire che gli 80 euro sono una rottura di questa politica. Chi fa credere questo è in totale malafede. Quell’assegno è stato concordato tra Renzi e Merkel per indorare la pillola del rigore alla vigilia delle elezioni, e verrà restituito con gli interessi, con le tasse i ticket e i tagli ulteriori alla spesa sociale. Però bisogna ammettere che l’operazione gattopardesca per il momento è riuscita. Durante i governi Monti e Letta si parlava sempre più di vincoli europei e di austerità. Ora non se ne parla più, le questioni economiche e sociali vengono dopo il calcio. Si parla di legge elettorale e di abolizione del Senato elettivo, di riforme di tutti i tipi, ma di austerità non si parla più, la si attua e basta. Gli scandali delle grandi opere non provocano più nessuna pubblica discussione sulla loro necessità, ma solo uno stanco ritorno delle campagne di moralizzazione ipocrita e inconcludente, con Renzi naturalmente alla loro testa. Anche Grillo pare esserci cascato in pieno… la crisi economica si risolve con le riforme… Ma va, son venti anni che i liberisti fanno questa propaganda e attuano questa politica e la crisi si aggrava sempre di più.Comunque con ben maggiore efficacia rispetto al suo ammiratore invidioso e frustrato, Berlusconi, Renzi può compiere un’opera di distrazione di massa. Naturalmente non c’è la fa da solo, con lui stanno tutti i poteri forti nazionali e internazionali e un sistema informativo vergognoso, che è saltato sul suo carro come quei giornalisti “embedded” che stavano in Iraq sui carri armati di Bush e raccontavano quelle menzogne che han fatto danno sino ad oggi. Qualcuno parla ancora di Fiscal Compact? Nel nuovo Pd di Renzi che vuol battere i pugni in Europa, qualcuno propone forse di abolire quella mostruosità unica che è il pareggio di bilancio costituzionale? Cameron, quando quella riforma fu approvata, disse che Keynes, cioè lo stato sociale, erano stati messi fuori legge. Nelle elezioni locali qualche candidato del Pd si è forse impegnato a mettere in discussione il patto di stabilità? No di certo, perché Renzi spinge a fare i primi della classe in Europa. Forse anche per questo il vertice europeo torinese è stato rinviato: vuoi mai che per colpa delle parole di qualche sconsiderato burocrate i temi dell’austerità potessero tornare di pubblico confronto?Bisogna depistare e nascondere, noi siamo la seconda cavia di Europa dopo la Grecia. Si mette in atto la stessa politica, ma con un metodo diverso, quello di Renzi. Che si paragona a Obama ma in realtà è un epigono di Blair, che ha distrutto in Gran Bretagna tutto ciò che aveva resistito alla signora Thatcher. Compreso il suo partito. Attenti, sostenitori esultanti e anestetizzati del Pd: alla fine sarà proprio il vostro partito a pagare la politica del suo leader. Intanto però si festeggia e le fragili e tremebonde opposizioni ufficiali di destra e sinistra si inchinano al regime. Berlusconi e la Lega son sempre più parte del gioco. La Cgil ha adottato come massima forma di protesta il borbottio, anche se riceve uno schiaffone al giorno. Grillo dialoga sulle riforme e la lista Tsipras ha già le prime scissioni verso il Pd. Il presidente del consiglio sta sbancando.Eppure, nonostante i clamorosi successi attuali, il progetto di Renzi è destinato a fallire per due ragioni di fondo. La prima è che la crisi economica si trasforma in stagnazione e continuerà così, senza nessuna luce in fondo al tunnel. D’altra parte la politica di Renzi non serve ad uscire dalla crisi, ma solo ad abituarci a convivere con essa. Dobbiamo accettare la disoccupazione di massa e la distruzione dello stato sociale, e imparare a sopravvivere arrangiandoci. Ci dobbiamo rassegnare alla ingiustizia e alla diseguaglianza, questo insegnano il Jobs Act o il feroce articolo 5 del decreto Lupi, che colpisce con crudeltà da Ottocento vittoriano i senza casa. Il punto non è la soluzione della crisi, impossibile con l’austerità, ma la passività sociale. È su questa che contano Renzi e la signora Merkel per andare avanti. Ed è su questo che falliranno.Certo ora sfiducia e rassegnazione sono massimi, mai in Italia si è fatto così tanto danno alle persone con così poche reazioni. Ma questa situazione finirà, il conflitto ripartirà e Renzi rischierà allora di apparire per come lo dipinge il suo unico oppositore televisivo, il comico Maurizio Crozza. La seconda ragione è che l’Europa della signora Merkel che ha benedetto Renzi ha rivelato tutta la sua subalternità e fragilità mondiale. Il governo ucraino con i suoi ministri nazifascisti ha rotto il disegno della Germania di portare l’Europa da essa dominata alla intesa cordiale con Putin e ad una maggiore autonomia dagli Stati Uniti. La nuova guerra, anzi la guerra mai finita in Iraq, rafforza la stessa spinta di fondo. Gli Usa hanno ripreso il controllo del blocco occidentale con la vecchia Nato e ancor di più lo faranno con il Ttip, il patto liberista tra le due sponde dell’Atlantico che vuole trasformare la Ue in appendice di Usa e Canada, mentre di fronte si delinea la nuova alleanza globale di Russia e Cina.Forse non ce ne siamo accorti nel teatrino della nostra politica, ma la globalizzazione è morta, si torna ai grandi schieramenti di potenze e un’Europa indebolita da anni di austerità viene assorbita nel vecchio impero americano. Povero Renzi, che c’entra la sua politica con tutto questo? Nulla, e ancora una volta il conto di un potere politico gattopardesco, che sta indietro rispetto alla realtà del mondo, lo pagheremo tutti noi. Bisogna augurarsi allora che il regime di Renzi non ci metta i venti anni di quello berlusconiano per farci scoprire tutti i suoi danni. Bisogna augurarselo e bisogna agire perché questo regime fallisca il prima possibile. Solo con la sconfitta di Renzi e del renzismo si ridà un futuro a questo paese.(Giorgio Cremaschi, estratto dall’intervento “Facciamo fallire il regime renziano”, da “Micromega” del 20 giugno 2014).Quanti disoccupati produrrà la sciagurata privatizzazione della Fincantieri, che sinora proprio perché pubblica ha permesso all’Italia di essere competitiva nella costruzione delle grandi navi, assieme alla Germania? Vogliamo parlare della privatizzazione di Ilva, Telecom, Italtel e Alitalia, dei disastri che hanno prodotto in tutte le direzioni senza un centesimo di guadagno, anzi con gigantesche perdite, per lo Stato? Vogliamo parlare dello scandalo della Fiat delocalizzata e che fugge il fisco, con il governo muto e complice? Quanti nuovi disoccupati e precari produrrà la cosiddetta riforma della pubblica amministrazione che, dietro la misura demagogica del taglio dei permessi sindacali (che alla fine sarà un boomerang per i suoi autori perché rafforzerà chi lotta sul serio), dietro la propaganda attua il taglio lineare del personale e la deresponsabilizzazione pubblica nella catena degli appalti? E soprattutto quanti disoccupati produrrà la continuazione delle politiche di austerità che già ora hanno creato 7 milioni di senza lavoro?
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I Brics: addio dollaro, così fermeremo i missili Usa
Porre fine al monopolio del dollaro come valuta internazionale. Obiettivo: frenare l’aggressività militare degli Usa, che sta mettendo in pericolo la stabilità geopolitica del mondo. Russia e Cina guidano i Brics verso la de-dollarizzazione del pianeta, allo scopo di sottrarre linfa all’apparato industriale-militare statunitense. Grandi manovre sono ormai in corso, conferma “Zero Hegde”, per re-impostare il commercio mondiale costruendo un’alternativa al dollaro come moneta di scambio. «Mentre i governi di tutto il mondo sono occupati a nascondere alla loro devastata classe media la vera faccia del mercato e a distrarla dal progressivo impoverimento della sua esistenza, dietro le quinte sta avvenendo qualcosa di veramente importante, di cui solo pochissimi si rendono conto». Un nuovo sistema di scambio monetario tra le banche centrali dei Brics faciliterà il finanziamento del commercio, bypassando completamente il dollaro. Il nuovo sistema «potrà agire anche come sostituto de facto del Fmi», segnando la fine di un’epoca.Sono molti, segnala “Zero Hedge” in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, i paesi che stanno «gettando le basi per questa guerra valutaria finale». Valentin Madrescu, di “Vor”, spiega che la “riconversione” sta avvenendo «lentamente ma inesorabilmente, nei paesi del Brics». Lavori in corso: Elvira Nabiullina, governatore della banca centrale russa, ha concertato con Putin l’imminente accordo rublo-yuan con la Banca Popolare Cinese. Sergej Glaziev, consigliere economico di Putin, sostiene la necessità di «creare un’alleanza internazionale di paesi disposti a sbarazzarsi del dollaro per i loro commerci internazionali e a rifiutarsi di continuare a stoccare dollari come riserve valutarie». L’obiettivo finale, rileva “Zero Hedge”, sarebbe quello di «far ingrippare la macchina-stampa-soldi di Washington che serve ad alimentare il suo complesso militare e industriale, che sta permettendo agli Usa di diffondere il caos in tutto il mondo, fomentando le guerre civili in Libia, Iraq, Siria e in Ucraina».La missione tecnica dei banchieri russi e cinesi: semplificare il finanziamento del commercio internazionale. «Stiamo discutendo con la Cina e con i nostri parter del Brics sull’istituzione di un sistema di scambi multilaterali, che permetterà di trasferire risorse da un paese all’altro, se necessario», dice Glaziev a “Prime News Agency”. «Una parte delle riserve valutarie potrà essere destinata a questo scopo», cioè la creazione del nuovo sistema.«Sembra che il Cremlino abbia scelto l’approccio all-in-one per costruire la sua alleanza anti-dollaro», scrive Tyler Durden. «Uno scambio monetario tra le banche centrali dei Brics faciliterà il finanziamento del commercio, bypassando completamente il dollaro. Allo stesso tempo, il nuovo sistema potrà anche agire come sostituto de facto del Fondo Monetario Internazionale, perché permetterà ai membri dell’alleanza di usare le risorse per finanziare i paesi più deboli». I Brics probabilmente useranno le loro attuali riserve in dollari per sostenere il nuovo sistema, «riducendo drasticamente la quantità di strumenti in dollari acquistati dai più grandi creditori esteri degli Stati Uniti».Gli scettici, aggiunde Durden, sicuramente diranno che l’alleanza dei Brics contro il dollaro non riuscirà a privare il biglietto verde del suo status di valuta di riserva globale. In compenso, bisogna ammettere che Washington «sta facendo del suo meglio per allargare le fila dei nemici del dollaro». Quando il canale televisivio “Russia 24” ha chiesto a Sergej Kostin di commentare le dichiarazioni della Nabiullina, tra le più convinte sostenitrici della svolta anti-dollaro, ha ottenuto una risposta illuminante sui contraccolpi in Europa: l’asse tra la valuta russa e quella cinese è ormai imminente, la modalità dei pagamenti rublo-yuan «sarà lasciata libera», mentre la stessa Banca di Francia – per proteggere Bnp Paribas da Wall Street – per bocca del governatore Christian Noyer annuncia che il commercio con la Cina sarà «gestito in yuan o in euro», non più in dollari. «Se la tendenza attuale dovesse continuare – rileva Durden su “Zero Hedge” – presto il dollaro sarà abbandonato dalle più importanti economie globali e sbattuto fuori dalla finanza del commercio globale. Il bullismo di Washington porterà anche i suoi alleati storici a dover scegliere l’allenza dei Brics, invece del sistema monetario attuale basato sul dollaro». Secondo Durden, «il punto di non-ritorno per il dollaro potrebbe essere molto più vicino di quanto si creda».Porre fine al monopolio del dollaro come valuta internazionale. Obiettivo: frenare l’aggressività militare degli Usa, che sta mettendo in pericolo la stabilità geopolitica del mondo. Russia e Cina guidano i Brics verso la de-dollarizzazione del pianeta, allo scopo di sottrarre linfa all’apparato industriale-militare statunitense. Grandi manovre sono ormai in corso, conferma “Zero Hegde”, per re-impostare il commercio mondiale costruendo un’alternativa al dollaro come moneta di scambio. «Mentre i governi di tutto il mondo sono occupati a nascondere alla loro devastata classe media la vera faccia del mercato e a distrarla dal suo progressivo impoverimento, dietro le quinte sta avvenendo qualcosa di veramente importante, di cui solo pochissimi si rendono conto». Un nuovo sistema di scambio monetario tra le banche centrali dei Brics faciliterà il finanziamento del commercio, bypassando completamente il dollaro. Il nuovo sistema «potrà agire anche come sostituto de facto del Fmi», segnando la fine di un’epoca.
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Non credete a Obama, è pronto a usare la bomba atomica
«E’ cambiata la dottrina di guerra degli Stati Uniti: le armi nucleari americane non sono più limitate alla controffensiva, ma sono state elevate al ruolo di attacco preventivo». Lo sostiene Paul Craig Roberts, editorialista e già viceministro di Reagan, citando un recente servizio di Eric Zuesse su “Op-Ed News”: Washington sta mettendo a punto i piani per un primo attacco nucleare contro la Russia di Putin, come se non sapesse che anche un attacco atomico “limitato”, secondo in maggiori esperti, porterebbe a sconvolgimenti planetari capaci di causare la morte di non meno di 2 miliardi di persone nel mondo. Craig Roberts accusa l’America di Obama: si è tirata fuori dai trattati anti-balistici e sta sviluppando il suo “scudo anti-missile” in Europa con l’obiettivo di intercettare l’eventuale reazione russa a un attacco contro Mosca. Attacco che non avverrebbe comunque a freddo: «Washington sta demonizzando la Russia e il suo presidente con una vergognosa propaganda diffamatoria, preparando la popolazione statunitense e i suoi Stati-sudditi alla guerra contro la Russia».Secondo Roberts, la Casa Bianca si è fatta convincere dai neo-conservatori che le forze nucleari russe sono ferme e impreparate, quindi un ottimo bersaglio per un attacco. «Questa falsa opinione – scrive l’analista, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – si basa su informazioni vecchie di dieci anni», prima cioè del poderoso riarmo difensivo promosso da Putin, che ha permesso alla Russia di giocare un ruolo-chiave per impedire che la Siria diventasse la scintilla della possibile Terza Guerra Mondiale. In ogni caso, «indipendentemente dalle reali condizioni delle forze nucleari russe, dal successo del “primo attacco” di Washington e dal livello di protezione dello “shield” americano», uno studioso come Steven Starr conferma che «il carattere letale delle armi nucleari» non è arginabile: un conflitto atomico non avrebbe vincitori, perché tutti soccomberebbero nella catastrofe.Lo ribadiscono autorevoli scienziati atmosferici, in studi come quello pubblicato già nel 2008 da “Physics Today”: nonostante la riduzione degli arsenali nucleari programmata con Gorbaciov nel lontano 1986 (ridurre a circa 2.000 entro il 2012 le 70.000 testate dell’epoca) non si è ancora ridotta la minaccia che una guerra nucleare rappresenta per la vita umana sulla Terra. E’ scontata la distruzione simultanea di centinaia di milioni di persone, mentre il fumo atomico emanato dalle esplosioni nella stratosfera «causerebbe l’inverno nucleare e il collasso dell’agricoltura». Sicché, «gli esseri umani scampati alla morte e alle radiazioni morirebbero comunque di fame». Reagan e Gorbaciov l’avevano ben compreso, ma «purtroppo non c’e’ stato un degno successore tra i governi americani che seguirono», sostiene Craig Roberts. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, i 9 paesi dotati di armi nucleari ancora possiedono un totale di 16.300 testate atomiche.E il maggior pericolo viene proprio dagli Usa: «E’ ormai appurato che a Washington ci siano dei politici che pensano, erroneamente, che la guerra nucleare sia una guerra che si può vincere, e che sia un valido strumento per arrestare l’ascesa di Russia e Cina che mette a repentaglio l’egemonia americana nel mondo». Il governo degli Stati Uniti, indipendentemente dal partito in carica, è «una grossa minaccia per la vita sulla Terra», accusa Roberts. E i governi europei, «che si reputano civilizzati», in realtà «non lo sono affatto, poiché permettono a Washington di perseverare nella sua sete di egemonia». E’ quello il problema: «L’ideologia che concede all’eccezionale e indispensabile America questa supremazia è un’enorme minaccia per il mondo».Iraq e Afghanistan, Libia e Siria, Yemen e Somalia, per non parlare della Jugoslavia. «La distruzione parziale o totale di sette paesi del mondo operata dall’Occidente nel 21° secolo, con l’appoggio di altre “civiltà e mezzi d’informazione occidentali”, è la prova lampante che la leadership del mondo occidentale è completamente svuotata di coscienza morale e di compassione per il genere umano», dichiara Craig Roberts. «Ora che Washington è armata della sua falsa dottrina di “supremazia nucleare”, si prospetta un triste futuro per l’umanità». Secondo l’ex consigliere di Reagan, infatti, «Washington ha dato il via alla preparazione di una Terza Guerra Mondiale, e gli europei sembrano ben disposti a prenderne parte». A fine 2012, il danese Rasmussen a capo dell’Alleanza Atlantica aveva detto che la Nato non considerava la Russia come un nemico, ma «ora che la folle Casa Bianca insieme ai suoi folli vassalli ha dimostrato alla Russia che l’Occidente è ancora un nemico», Rasmussen ha cambiato posizione, dichiarando: «Dobbiamo accettare il fatto che la Russia ci considera suoi avversari», per aver sostenuto militarmente l’Ucraina (golpista) insieme agli altri paesi dell’Europa orientale.L’escalation è ormai avviata: per Alexander Vershbow, ex ambasciatore statunitense in Russia e attuale vicesegretario Nato, la Russia è «un nemico». Pertanto, «i contribuenti americani ed europei devono sostenere l’ammodernamento degli armamenti, non solo per Ucraina ma anche per Moldova, Georgia, Armenia e Azerbaijan». L’apparato militare americano sta riesumando la guerra fredda, scrive Roberts, proprio perché ha appena perso la cosiddetta “guerra al terrore” in Iraq e Afghanistan. «Questo probabilmente è il punto di vista delle industrie di armamenti e di qualcuno a Washington». Ma i neocon sono ancora più ambiziosi: «Non perseguono solo il profitto nel sistema della sicurezza e degli armamenti, il loro scopo è l’egemonia degli Stati Uniti nel mondo, ovvero azioni sconsiderate come la minaccia strategica che il regime di Obama, con la complicità dei vassalli europei, ha lanciato contro la Russia in Ucraina».Dall’autunno scorso, continua Roberts, il governo americano «non ha fatto che mentire sull’Ucraina, dando la colpa alla Russia per le conseguenze delle azioni di Washington e demonizzando Putin nello stesso modo in cui Washington ha demonizzato Gheddafi, Saddam Hussein, Assad, i Talebani e l’Iran». Il governo conta su formidabili complici: «La stampa “prostituita” e le capitali dei paesi europei hanno assecondato queste menzogne e questa propaganda, ripetendole senza sosta». Così, l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti della Russia è diventato apertamente negativo. «Come pensate che vedano tutto questo Russia e Cina? La Russia ha visto la Nato spingersi fino ai suoi confini, una violazione degli accordi sottoscritti da Reagan e Gorbaciov». Peggio: Mosca «ha visto gli Stati Uniti violare gli accordi del trattato “Shield” e costituire un proprio “scudo” da guerre stellari». Se poi questo “shield” funzioni o meno «è del tutto irrilevante: il suo scopo è quello di convincere i politici e l’opinione pubblica che gli americani sono al sicuro».La notizia peggiore, continua Craig Roberts, è che i russi hanno visto gli Stati Uniti cambiare il ruolo delle armi nucleari, da mezzi deterrenti a strumenti di attacco preventivo. «E ora la Russia sente ogni giorno fiumi di menzogne ripetute in Occidente e assiste al massacro di civili nell’Ucraina russa da parte del vassallo ucraino degli Stati Uniti». Civili che Washington definisce “terroristi”, e che invece vengono sterminati «con armi come il fosforo bianco». E tutto questo «senza alcuna protesta da parte dei paesi dell’Occidente». E’ cronaca, benché oscurata dai media mainstream: «Attacchi massicci di artiglieria e aerei sulle case dell’Ucraina russa si sono compiuti nel giorno del 25° anniversario di Piazza Tienanmen, mentre Washington e i suoi paesi-marionetta hanno condannato la Cina per un evento che non è mai accaduto». La farsa della presunta “strage” di Pechino è infatti stata smascherata da fonti diplomatiche Usa: il governo cinese non ha mai sparato sulla folla degli studenti, ma ha contrattato con loro l’abbandono della piazza.«Come oggi sappiamo, non c’era stato alcun massacro in piazza Tienanmen», sottolinea Craig Roberts. «Era solo un’altra bugia di Washington, come quella del Golfo del Tonchino, come le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, come l’uso di armi chimiche di Assad, come le armi nucleari iraniane». Si stupisce, l’ex viceministro di Reagan: «E’ davvero sorprendente vedere come il mondo stia vivendo una falsa realtà creata dalle bugie di Washington. Il film “Matrix” è una fedele rappresentazione della vita in Occidente: la popolazione vive in una falsa realtà creata dai suoi governanti». L’opinione pubblica è così assuefatta da non riuscire a distaccarsene, come spiega – in quel film – Morfeo, il capo dei ribelli “risvegliati”: «La maggior parte della gente non è pronta a staccare la spina», molti di loro sono «così completamente schiavi del sistema che lotteranno per proteggerlo».Confessa Craig Roberts: «Vivo quest’esperienza ogni volta che scrivo un articolo: ecco che arrivano le proteste di quelli che non sono disposti a staccare la spina, attraverso e-mail o dai quei siti che nella sezione dei commenti accusano gli scrittori di calunnia verso i loro governi-troll». Se non altro, aggiunge l’analista, ad abboccare è l’Occidente, ma non le popolazioni russe e cinesi, quelle che vedono benissimo il cappio che si sta stringendo giorno per giorno. «Come pensate che reagirà la Cina quando Washington dichiarerà che il Mar Cinese Meridionale è una zona di interesse nazionale degli Stati Uniti, e invierà il 60% della sua flotta nel Pacifico e costruirà nuove basi aeree e navali americane dalle Filippine al Vietnam?». Finora, aggiunge Roberts, russi e cinesi «si sono comportati in modo ragionevole». Sergej Lavrov, il ministro degli esteri di Putin, è estremamente chiaro: «In questa fase, vogliamo dare ai nostri partner la possibilità di calmare gli animi. Vedremo cosa succederà in seguito. Se continueranno le accuse contro la Russia e i tentativi di pressione su di noi attraverso la leva economica, allora potremo rivalutare la situazione».«Se la folle Casa Bianca, le prostitute mediatiche di Washington e i vassalli d’Europa convinceranno la Russia che la guerra è inevitabile, la guerra diventerà davvero inevitabile», avverte Craig Roberts. «E poiché non esiste possibilità alcuna che la Nato sia in grado di montare un’offensiva convenzionale contro la Russia nemmeno lontanamente vicina alle dimensioni e alla potenza delle forze d’invasione tedesche del 1941, che poi incontrarono la distruzione, la guerra non potrà che essere nucleare, e questo significa la fine per tutti. Tenetelo bene a mente, mentre Washington e i suoi canali d’informazione continuano a far rullare i tamburi di guerra». La storia è lì a dimostrare che, oltre ogni dubbio, «tutto quello che Washington e le sue prostitute mediatiche hanno detto e dicono, non sono che bugie al servizio di un fine non dichiarato». E la cosa, purtroppo, «non si risolve votando democratico invece che repubblicano». Thomas Jefferson suggerì una soluzione: «L’albero della libertà di tanto in tanto si deve bagnare con il sangue dei patrioti e dei tiranni. E’ il suo concime naturale». Per Roberts, il guaio è che oggi «a Washington ci sono pochi patrioti e molti tiranni».«E’ cambiata la dottrina di guerra degli Stati Uniti: le armi nucleari americane non sono più limitate alla controffensiva, ma sono state elevate al ruolo di attacco preventivo». Lo sostiene Paul Craig Roberts, editorialista e già viceministro di Reagan, citando un recente servizio di Eric Zuesse su “Op-Ed News”: Washington sta mettendo a punto i piani per un primo attacco nucleare contro la Russia di Putin, come se non sapesse che anche un attacco atomico “limitato”, secondo in maggiori esperti, porterebbe a sconvolgimenti planetari capaci di causare la morte di non meno di 2 miliardi di persone nel mondo. Craig Roberts accusa l’America di Obama: si è tirata fuori dai trattati anti-balistici e sta sviluppando il suo “scudo anti-missile” in Europa con l’obiettivo di intercettare l’eventuale reazione russa a un attacco contro Mosca. Attacco che non avverrebbe comunque a freddo: «Washington sta demonizzando la Russia e il suo presidente con una vergognosa propaganda diffamatoria, preparando la popolazione statunitense e i suoi Stati-sudditi alla guerra contro la Russia».
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Crepi Lampedusa, meglio soldi sporchi da migranti ricchi
Mentre l’Unione Europea chiude le sue porte a migliaia di migranti che naufragano sulle coste siciliane, alcuni dei candidati desiderosi di stabilirsi hanno trovato un comitato d’accoglienza. Non c’è più bisogno di conoscere la lingua del paese di accoglienza, di fare prova di un particolare interesse per la sua storia e la sua cultura… basta avere il portafoglio pieno ed essere pronti ad alleggerirsi di qualche decina di milioni di euro a beneficio di un’azienda o di uno Stato. La Lettonia è stato uno dei primi paesi a vedere una fonte di guadagno potenziale nell’appartenenza all’Unione Europea. Dal 2010, questo piccolo paese sulle rive del Mar Baltico è diventato uno dei porti d’accesso all’Eldorado europeo. Nella capitale Riga, lontano dalle spiagge di Lampedusa e dei suoi “boat-people”, i candidati al permesso di soggiorno sbarcano invece negli uffici lettoni dell’immigrazione con il proprio agente immobiliare e l’interprete. La maggior parte sono russi e cinesi.La conditio sine qua non per ottenere un permesso di soggiorno è possedere un bene immobile sul suolo lettone – d’un valore minimo di 150 mila euro nella capitale, della metà di tale cifra in provincia. Alcuni, meno numerosi, hanno scelto una delle altre opzioni offerte: investire in un’azienda nazionale o piazzare 300 mila euro in una banca lettone. In cambio, un permesso di soggiorno di 5 anni che, in seguito, può diventare definitivo. Immigrati, sì, ma facoltosi. Per il governo questa manna finanziaria deve aiutare a risanare l’economia nazionale, ma anche a sostenere la demografia. In dieci anni, il paese ha perso più del 10% della sua popolazione, in parte a causa di un saldo migratorio negativo. Tra il 2010 e il 2011, data d’inizio d’entrata in funzione del dispositivo, il numero di permessi di soggiorno è raddoppiato. Il primo anno, sono stati consegnati 1.700 certificati di residenza rispondenti ai criteri d’investimento economico. Abbastanza per rilanciare gradualmente l’immigrazione – facoltosa – verso questo paese. Per il poco che la gente ci resta!Agli arrivanti non è imposta nessuna condizione di residenza sul territorio nazionale: in quanto residenti di un paese dell’Unione Europea e dell’area Schengen, sono liberi di spostarsi in Europa. In base a certi criteri, possono anche ottenere un diritto di soggiorno in un altro Stato membro. Basta provare che possiedano le risorse necessarie e un’assicurazione sanitaria, spiega Cecilia Malmström, commissario europeo per gli Affari Interni. La Lettonia non è il solo paese in Europa a proporre i nuovi visti. Quanti altri praticano questo scambio nell’Unione? Due? Cinque? Una quindicina! Ungheria, Portogallo, Malta, Paesi Bassi…da nord a sud, dai più toccati dalla crisi ai più risparmiati. La maggior parte hanno iniziato tale pratica tra il 2010 e il 2014, certi vedendoci un mezzo per attirare nuovi capitali, altri per ridinamizzare un mercato immobiliare duramente colpito dalla crisi, come la Spagna.Le condizioni iniziali variano da un paese all’altro: investimenti finanziari nell’industria, aiuto al riscatto del debito pubblico, acquisizione di un bene immobile… Si tratta soltanto di essere ricchi. La differenza sta negli importi imposti e nel monitoraggio dei nuovi residenti. Nei Paesi Bassi, dove il sistema esiste da ottobre 2013, la soglia imposta è tra le più elevate 1,25 milioni di euro piazzati nell’economia locale per ottenere un visto definitivo. Quasi allo stesso livello della Spagna che, da settembre 2013, chiede due milioni di euro di riscatto del debito pubblico. Per i “più modesti”, la penisola iberica concede anche permessi di soggiorno per un investimento immobiliare di 500 mila euro. Dal canto suo, Cipro propone dal 2012 dei permessi di soggiorno per l’acquisto di un bene per 300.000 euro, ma esige che i candidati abbiano la fedina penale immacolata, per prevenire le cattive sorprese.Dall’Irlanda a Malta: come ci si compra il diritto di vivere in Europa? Verificare chi sono i nuovi arrivanti è una condizione che forse il Portogallo avrebbe dovuto applicare quando ha lanciato il suo dispositivo nel 2012. In questo paese colpito dalla crisi, con l’avallo della Troika (Commissione Europea, Bce e Fmi), il governo portoghese di Pedro Passos Coelho (centro-destra) decide di creare a sua volta un “permesso di soggiorno per attività d’investimento”. Permessi soprannominati nel paese “vistos durados”, visti dorati. I candidati possono scegliere tra un acquisto immobiliare di almeno 500.000 euro, il trasferimento di minimo un milione di euro, o la creazione di 10 impieghi. Dalla sua applicazione, secondo le stime ufficiali il Portogallo avrebbe rilasciato 772 permessi di soggiorno, di cui 612 a cinesi. Tra questi Xiadong Wang, sistematosi dal 2013 a Cascais, sontuosa città alle porte di Lisbona. Nel marzo 2014, il cittadino cinese viene arrestato dalle autorità portoghesi. Come rivelato da un giornale locale, “Diario de Noticias”, l’uomo è ricercato in Cina per frode fiscale. Su di lui pende una pena di 10 anni di prigione. Il suo paese d’origine non l’aveva segnalato.L’elemento scatenante è stato l’inserimento del suo nome della banca dati dell’Interpol, lo scorso gennaio. Per le autorità portoghesi, il suo arresto è la prova che il governo e la polizia di frontiera hanno fatto il loro lavoro. Ma sul sito Internet di “Diario de Noticias”, numerosi internauti insorgono. «Questo governo è incompetente. Svendono il paese, ne fanno una discarica a cielo aperto dove i [truffatori] vengono a lavare il denaro sporco», si legge. Poco dopo, un’altra persona non esita a dire: «Questo governo [e il suo dispositivo] sono la vergogna dei portoghesi». La faccenda è stato uno shock, rilanciando la domanda delle ragioni di questo ricchi migranti. Far traghettare i ricchi? Un affare redditizio. Alcune aziende si sono specializzate nell’accompagnamento dei migranti facoltosi. Un esempio è la società Henley & Partners, come descrive “Le Figaro” in un articolo. Con base a Jersey, un paradiso fiscale, tale società rappresenterebbe il leader mondiale nel settore. Sul suo sito Internet, sono elencate le destinazioni. L’Europa è largamente rappresentata: Austria, Belgio, Croazia, Cipro, e ancora la Svizzera e il Regno Unito. Per ciascun paese, un programma dettagliato di tappe e condizioni da rispettare.Un autentico manuale d’istruzioni, al quale si aggiungono le attrattive proprie ad ogni regione. Natura verdeggiante e calorosa qui, vantaggi fiscali per i residenti là, e le nicchie di cui si può beneficiare. La società non lascia nulla al caso affinché ognuno trovi il suo paradiso. E per agevolare l’arrivo dei nuovi migranti. Perché perdere tempo con le lunghe e complesse procedure di richiesta dei visti quando un permesso di residenza permette di circolare facilmente in tutta l’Unione? In più, la maggior parte di questi paesi tassa poco o per nulla i residenti in possesso di un permesso di soggiorno a lungo periodo. Per gli stranieri dai migliori portafogli, la ditta propone una soluzione ancor più interessante: regalarsi una nazionalità europea. Sul sito ci sono tre destinazioni: l’Austria, Cipro e Malta. Dal 2013, il governo del più piccolo stato dell’Unione Europea, Malta, ha deciso di “vendere” la cittadinanza del suo paese. Ha affidato l’esclusività della gestione delle pratiche alla società Henley & Partners, in cambio di una commissione di 7.500 euro per candidatura.Una cittadinanza europea da vendere ai migliori offerenti: 650.000 euro, è il prezzo fissato lo scorso autunno dal parlamento maltese. Nessuna condizione di residenza sull’isola, basta questo semplice apporto finanziario. Il primo ministro, Joseph Muscat, vede in ciò un modo di attirare nuovi capitali nel paese. Secondo le stime avanzate dal governo, la misura potrebbe interessare dai 200 ai 300 candidati l’anno. Ossia un minimo di 130 milioni di euro di introiti annui per il paese. Ma secondo un sondaggio realizzato dal quotidiano locale “Malta Today”, la maggior parte della popolazione sarebbe contraria al dispositivo. Un parere condiviso da Bruxelles. La decisione ha provocato un vero terremoto all’interno del Parlamento Europeo, sollevando alcune critiche rispetto alla mercificazione della cittadinanza europea. Nelle istanze dell’Unione, alcuni eurodeputati e membri delle commissioni europee hanno immediatamente manifestato la loro ostilità verso la nuova normativa maltese. Tra questi, Vivianne Reding, commissario incaricato della Giustizia. «La cittadinanza non è in vendita», ha dichiarato a Strasburgo nel mese di gennaio. Subito dopo, il Parlamento Europeo adotta una risoluzione, stimando che «un tale regime di vendita pura e semplice della cittadinanza europea compromette la fiducia reciproca su cui poggia l’Unione».Da allora Malta ha accettato di tornare sul dispositivo, in parte: è oramai obbligatorio risiedere sull’isola la maggior parte dell’anno e dimostrare un legame reale con Malta. È inoltre necessario un investimento di 1,15 milioni di euro, di cui 500.000 in acquisti immobiliari, a cui si aggiunge un importo di 25.000 euro per il coniuge o per il figlio minorenne, e 50.000 euro per il figlio dai 18 ai 26 anni. Concessioni che il governo maltese ha accettato nonostante nulla lo obbligasse a farlo. Nell’Unione Europea, la nazionalità di un paese membro permette di accedere automaticamente alla nazionalità europea, ma le condizioni di rilascio fanno parte di prerogative proprie ad ogni Stato. Ciascuno dei 28 governi decide quindi della propria legislazione e delle sue condizioni. Mentre l’immigrazione clandestina è al cuore dei dibattiti per le elezioni europee, i candidati ignorano completamente la mercificazione dei permessi di soggiorno.Clarisse Heusquin, candidata per “Europe Écologie-Les Verts” nella regione Centro-Massiccio Centrale (Francia), ammette di scoprire il dispositivo: «Sono rimasta scioccata, mortificata venendone a conoscenza. Si sta costruendo un’Europa a due velocità. Da un lato, si chiudono le frontiere e dall’altro si accolgono i capitali. Questa Europa-fortezza è indegna». Secondo lei la soluzione passa da un’Europa federale e politiche armonizzate in materia d’immigrazione. Dal canto suo, Pierre Henry, direttore generale dell’Ong “France Terre d’Asile” si rammarica che il dibattito sulle questioni migratorie non sia affrontato nel suo insieme. «Tra quelli che si augurano di uscire da Schengen, quelli che vogliono punire gli Stati che non rispettano alcune regole, quelli che pensano che la nomina di un commissario europeo per l’immigrazione risolverebbe il problema e quelli che si accontentano di criticare senza proporre. In realtà, non c’è un vero dibattito sulla questione migratoria».La vendita della nazionalità è tenuta a debita distanza dalla pubblica piazza, ma si popolarizza tra i governi. La Lituania affina il progetto e dovrebbe essere il prossimo paese a porre le sue condizioni. Il prezzo: 260.000 euro versati a un’azienda lituana e la creazione di cinque posti di lavoro. Il governo non attende altro che il via del Parlamento. E in Francia? L’Esagono non propone le stesse condizioni agevolate dei suoi vicini. Tuttavia, in un documento della Commissione Europea, si precisa che in Francia si possono attribuire dei permessi di residenza per “contributi economici eccezionali” ad azionisti (almeno il 30% del capitale) di grandi società. Le condizioni: creare 50 posti di lavoro sul territorio nazionale o investire almeno 10 milioni di euro. Per ora non è prevista l’applicazione di clausole più vantaggiose o più severe per i ricchi investitori. Nulla di sorprendente, secondo Pierre Henry: «Oggi, in Francia, il governo cerca ad ogni costo di evitare il dibattito sull’immigrazione, come per paura del populismo. Ciò non risolve niente e non è in questo modo che si arrestano le polemiche». Quelle e quelli che non dispongono dei visti “business class” ne pagano caro il prezzo: in 14 anni, 23.000 migranti sono morti alle porte dell’Europa.(Morgane Thimel, “Quando la cittadinanza europea diventa mercanzia”, da “Bastamag” del 21 giugno 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte).Mentre l’Unione Europea chiude le sue porte a migliaia di migranti che naufragano sulle coste siciliane, alcuni dei candidati desiderosi di stabilirsi hanno trovato un comitato d’accoglienza. Non c’è più bisogno di conoscere la lingua del paese di accoglienza, di fare prova di un particolare interesse per la sua storia e la sua cultura… basta avere il portafoglio pieno ed essere pronti ad alleggerirsi di qualche decina di milioni di euro a beneficio di un’azienda o di uno Stato. La Lettonia è stato uno dei primi paesi a vedere una fonte di guadagno potenziale nell’appartenenza all’Unione Europea. Dal 2010, questo piccolo paese sulle rive del Mar Baltico è diventato uno dei porti d’accesso all’Eldorado europeo. Nella capitale Riga, lontano dalle spiagge di Lampedusa e dei suoi “boat-people”, i candidati al permesso di soggiorno sbarcano invece negli uffici lettoni dell’immigrazione con il proprio agente immobiliare e l’interprete. La maggior parte sono russi e cinesi.
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Ma Renzi non piace agli Usa: quanto resisterà al governo?
Matteo Renzi non piace agli americani, che non perdono occasione per farlo notare: Obama, nell’incontro, fu freddissimo, limitandosi ad apprezzamenti sull’ “energia” del nostro presidente del Consiglio (ben più calorosi erano stati i giudizi su Enrico Letta); poi, nel momento peggiore della crisi di Crimea, le note del Dipartimento di Stato evitavano ostentatamente di citare l’Italia a differenza di Francia e Germania; poi è venuto lo schiaffo del D-Day e del G7. Insomma, l’ometto non suscita entusiasmi sul Potomac. Capita, ma perché? In fondo, con il suo inconfondibile stile alla Fonzie, tanto po’ dinoccolato e un po’ tamarro, non dovrebbe dispiacergli. Ha anche fatto il boy scout! Eppure… Forse sarà perché gli americani badano anche ad altre cose oltre che il look. Certo, a Renzi non mancano gli amici americani come Michael Ledeen, ma il guaio è che sono della destra repubblicana, colore opposto a quello dell’attuale amministrazione. Poi, sicuramente, gli americani si capivano molto meglio con Enrico Letta e, probabilmente, non gli è piaciuto il modo con cui è stato buttato giù di sella: allo zio Sam non piace che i suoi amici vengano trattati in quel modo.Ma i motivi più “pesanti” probabilmente sono altri. Il primo si chiama Eni. Gli americani avrebbero tanto gradito la nomina ad Ad di Leonardo Maugeri, già rappresentante dell’Eni a New York, grande esperto di petrolio, soprattutto loro grande amico e sicuro avversario della politica pro-Mosca di Scaroni. Con lui alla guida dell’ente, l’operazione Southstream sarebbe cosa morta e sepolta. Finalmente! E invece no: Renzi nomina Descalzi. Insomma, lo zio Sam sogna da anni di togliersi dai piedi il duo Berlusconi-Scaroni, fa quello che può per ammazzare il primo (quelle di Geithner sono lacrime di coccodrillo), aspetta con pazienza la fine del mandato dell’aborrito Scaroni e tu che fai? Nomini al suo posto il suo vice? Vero è che, in queste settimane, l’Eni ha ridotto la sua partecipazione in Southstream dal 50 al 15% in favore di tedeschi e francesi, vero è che il nuovo percorso del gasdotto passa tutto per i Balcani e non fa neppure più il passaggio per il Tarvisio ed è anche vero che Renzi non sa neppure dove stanno i Balcani ed il Tarvisio; ma sa dove sta l’Eni e ci nomina Descalzi che, per ora, lascia al suo posto Marco Alverà (che è stato quello che ha ordito la trama con i russi) e accetta che sia comunque la Snam a fare la posa dei tubi del gasdotto.Qui non ci siamo capiti: il problema non è cambiare il percorso di Southstream, ma proprio la cancellazione del progetto. E lo zio Sam si arrabbia. C’è poi la questione Finmeccanica. C’è chi dice che per far confermare l’amico De Gennaro al suo posto, gli americani abbiano dovuto smuovere Re Giorgio dal Colle, cosa poi smentita dallo stesso Re. E va bene, ma Re Giorgio o non Re Giorgio, resta che l’ometto di Palazzo Chigi ha provato a togliere di mezzo De Gennaro e anche questo non sta bene. Poi, come amministratore delegato, ci piazza Moretti, con il quale aveva vecchi legami personali per questioni fiorentine. Il fatto è che Moretti conosceva le ferrovie traversina per traversina, e quindi si dedicherà al ramo trasporti di Finmeccanica (come già sta facendo) ma di armi capisce quanto di dialetto algonkino e questo è un momento in cui gli americani, nel settore armi, hanno bisogno di interlocutori sì obbedienti, ma che capiscano di che si sta parlando. Insomma, anche qui, buca!Come si sa, Renzi ha importanti legami con Israele e, se non li ha lui, li ha il suo consigliere economico Yoram Gutgeld; questo sarebbe stato un ottimo viatico in altri tempi, ma negli ultimi anni Tel Aviv ha dato più dispiaceri che altro all’amico americano: loro sono ostilissimi al Qatar e gli americani hanno bisogno del suo gas per fare un gasdotto alternativo a quello russo (come aveva ben capito Enrico Letta), hanno urgenza di chiudere la partita palestinese e gli israeliani fanno le bizze, ora hanno bisogno di capirsi con l’Iran per mettere un freno all’offensiva di Al Qaeda in Irak senza andare a impantanarsi di nuovo lì e gli israeliani non apprezzano… Insomma, neanche da questo versante c’è modo di capirsi con il nuovo capo del governo italiano. Intendiamoci: noi abbiamo sempre apprezzato chi sa dire no agli americani e far valere l’interesse nazionale, ma è una cosa che occorre saper fare e non per fare un favore a terzi. Tutte cose che richiedono cervello lucido e spalle larghe, molto larghe. Il guaio è che Palazzo Chigi va largo a Renzi, troppo largo. Comincio a pensare che questo non durerà molto su quella poltrona.(Aldo Giannuli, “Ma perché Renzi non piace agli americani?”, dal blog di Giannuli del 20 giugno 2014).Matteo Renzi non piace agli americani, che non perdono occasione per farlo notare: Obama, nell’incontro, fu freddissimo, limitandosi ad apprezzamenti sull’ “energia” del nostro presidente del Consiglio (ben più calorosi erano stati i giudizi su Enrico Letta); poi, nel momento peggiore della crisi di Crimea, le note del Dipartimento di Stato evitavano ostentatamente di citare l’Italia a differenza di Francia e Germania; poi è venuto lo schiaffo del D-Day e del G7. Insomma, l’ometto non suscita entusiasmi sul Potomac. Capita, ma perché? In fondo, con il suo inconfondibile stile alla Fonzie, tanto po’ dinoccolato e un po’ tamarro, non dovrebbe dispiacergli. Ha anche fatto il boy scout! Eppure… Forse sarà perché gli americani badano anche ad altre cose oltre che il look. Certo, a Renzi non mancano gli amici americani come Michael Ledeen, ma il guaio è che sono della destra repubblicana, colore opposto a quello dell’attuale amministrazione. Poi, sicuramente, gli americani si capivano molto meglio con Enrico Letta e, probabilmente, non gli è piaciuto il modo con cui è stato buttato giù di sella: allo zio Sam non piace che i suoi amici vengano trattati in quel modo.
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Die Zeit: Obama non ci conviene, molto meglio la Russia
Non ci conviene seguire Obama nella sua sfida a Putin, molto meglio – per noi europei – cercare una partnership stabile con la Russia. Lo afferma, clamorosamente, il settimanale tedesco “Die Zeit”, di orientamento liberale. Il più autorevole giornale tedesco fa parlare Chris Luenen, direttore del programma geopolitico del “Global Policy Institute” di Londra, che propone all’Ue di smetterla di sottomettersi alla strategia Usa e imparare piuttosto a difendere i propri interessi, specialità nella quale «l’Europa è stata debole da sempre». Luenen constata che l’Unione Europea segue la strategia unilaterale di Washington, trascurando i propri bisogni, che raccomanderebbero a Bruxelles di allearsi più strettamente con la Russia. Il giornale cita la dottrina dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, che già nel ‘97 definiva l’Europa «irrinunicabile testa di ponte geopolitica» degli Usa, spiegando: con il controllo sull’Ucraina – i suoi 52 millioni di abitanti, importanti risorse naturali e l’accesso al Mar Nero – la Russia «otterrebbe automaticamente i mezzi per diventare un impero potente di estensione euro-asiatica».Per Chris Luenen, «sarebbe abbastanza facile assicurare gli interessi occidentali in fatto di energia e sicurezza tramite la costruzione di un partenariato con la Russia (e con l’Iran), pittosto che che continuare a mirare a sottomettere la Russia agli interessi e alle strutture occidentali». Come riferisce il newmagazine “Sinistra.Ch”, espressione della sinistra svizzera ticinese, sullo “Zeit” l’editorialista sostiene che «la decisione di allargare la zona di influsso occidentale verso Est, tramite una progressiva espansione dell’Ue e della Nato» è praticamente «il più grave errore strategico dell’Occidente sin dalla fine della guerra fredda». Solitamente, aggiunge la rivista elvetica, “Die Zeit” «difende concetti e posizioni che sono rappresentati anche nell’establishment della politica tedesca». Finora, nel conflitto dell’Ucrania, il settimane si era allineato nel giustificare «il regime golpista di Kiev», attaccando la Russia di Putin e i russi d’Ucraina, definiti “separatisti”. Se oggi invece quel giornale ribalta la sua posizione, significa che «siamo di fronte senza dubbio a qualcosa di sensazionale».Niente però di così inatteso, in fondo, secondo “Sinistra.Ch”: «Importanti settori dell’industria tedesca, infatti, si sono nettamente opposti alla tendenza di seguire ciecamente il diktat di Obama, relativo alle sanzioni economiche contro la Russia». E il recente affare di spionaggio da parte della Nsa «si rivolge non a caso in prima linea contro la Germania», colpendo anche la sfera privata della cancelliera Merkel. Inoltre, in Germania, «la tendenza fortemente anti-russa dei media tedeschi viene fortemente contestata dai lettori: da mesi, i blogger si rivoltano in massa contro le direttive informative delle maggiori redazioni». La maggior parte dei commenti dei lettori contestano la politica occidentale. Per moltissimi di loro, quindi, l’apertura dello “Zeit” è «un vero raggio di luce nell’oscurità». Per Massimiliano Ay, segretario del partito comunista della Svizzera italiana, la crisi ucraina «si è scatenata per la esplicita volontà degli Usa di bloccare il rifornimento energetico russo all’Europa, inchiodando così in modo ancora più vincolante il vecchio continente al petrolio e al gas nordamericano: un passo necessario per evitare lo sviluppo dell’asse Berlino-Mosca-Pechino che potrebbe accerchiare Washington». Che ora lo sostenga anche “Die Zeit”, lascia sperare che Berlino potrebbe tentare di frenare la pericolosa guerra fredda di Obama.Non ci conviene seguire Obama nella sua sfida a Putin, molto meglio – per noi europei – cercare una partnership stabile con la Russia. Lo afferma, clamorosamente, il settimanale tedesco “Die Zeit”, di orientamento liberale. Il più autorevole giornale tedesco fa parlare Chris Luenen, direttore del programma geopolitico del “Global Policy Institute” di Londra, che propone all’Ue di smetterla di sottomettersi alla strategia Usa e imparare piuttosto a difendere i propri interessi, specialità nella quale «l’Europa è stata debole da sempre». Luenen constata che l’Unione Europea segue la strategia unilaterale di Washington, trascurando i propri bisogni, che raccomanderebbero a Bruxelles di allearsi più strettamente con la Russia. Il giornale cita la dottrina dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, che già nel ‘97 definiva l’Europa «irrinunicabile testa di ponte geopolitica» degli Usa, spiegando: con il controllo sull’Ucraina – i suoi 52 millioni di abitanti, importanti risorse naturali e l’accesso al Mar Nero – la Russia «otterrebbe automaticamente i mezzi per diventare un impero potente di estensione euro-asiatica».
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Sangue e Pil: una guerra mondiale per salvare la crescita
ita – crescita di tutto, compresi i veleni, i disastri, gli sprechi criminali. Lungi anche solo dall’ipotizzare un’economia non più fondata sulla crescita illimitata (non solo “impossibile” ma anche letale per la Terra) il professor Cowen, docente ultra-liberista della George Mason University, sostiene che il mondo di oggi non sia più visitato, come in passato, dalla favolosa opportunità rappresentata dal genocidio bellico.«Alcuni dei recenti titoli di giornale sull’Iraq o il Sud Sudan fanno sembrare il nostro mondo un posto molto cruento – premette Cowen – ma le vittime di oggi impallidiscono alla luce delle decine di milioni di persone uccise nelle due guerre mondiali nella prima metà del XX secolo». La stessa Guerra del Vietnam, aggiunge, ha avuto molti più morti di qualsiasi guerra recente che coinvolga un paese ricco. Ecco il punto: «Il maggior pacificismo del mondo può rendere meno urgente, e quindi meno probabile, il raggiungimento di alti tassi di crescita economica». Nel suo intervento, ripreso da “Zero Hedge” e tradotto da “Come Don Chisciotte”, Cowen sostiene che la semplice possibilità del precipitare verso la guerra «focalizza l’attenzione dei governi su come prendere correttamente alcune decisioni fondamentali», per esempio su come «investire nella scienza o semplicemente liberalizzare l’economia». E questa “attenzione”, di fatto, «finisce per migliorare le prospettive a più lungo termine di una nazione».«Può sembrare ripugnante trovare un lato positivo alla guerra in questo senso», ammette ancora Cowen, deciso però a “rivalutare” fino in fondo la prospettiva del conflitto come volano economico, come fossimo ancora agli albori dell’era del carbone e del petrolio: «Uno sguardo alla storia americana suggerisce che non possiamo respingere l’idea così facilmente». E spiega: «Innovazioni fondamentali come l’energia nucleare, il computer e l’aviazione moderna sono state tutte spinte da un governo americano desideroso di sconfiggere le potenze dell’Asse o, più tardi, di vincere la Guerra Fredda». La stessa rete Internet è stata progettata a scopo militare-strategico, e la Silicon Valley «deve le sue origini alle forniture militari, non alle start-up imprenditoriali di oggi». Tutto merito del lancio del primo Sputnik, il satellite con cui l’Urss sfidò gli Usa mettendosi in pole position nella conquista dello spazio. Proprio lo Sputnik «ha stimolato l’interesse americano nel campo della scienza e della tecnologia, a beneficio della conseguente crescita economica». Piccolo particolare: questo succedeva mezzo secolo fa, quando eravamo 1 miliardo e mezzo anziché 7 e il “terzo mondo” era ancora una sconfinata cassaforte da saccheggiare.La guerra, insiste Cowen, «porta con sé un’urgenza a cui i governi altrimenti non riescono ad appellarsi». Lo conferma la storia del Progetto Manhattan per l’atomica, realizzata in soli sei anni «partendo praticamente dal niente» e coinvolgendo lo 0,4% della produzione economica americana: «In questi giorni è difficile immaginare un risultato così rapido e decisivo». Il dogmatico Cowen cerca alleati, nella sua visione economico-bellicista così consonante con gli Usa di Obama, che provocano la Russia accerchiando la Cina. Secondo Ian Morris, professore di letteratura e storia a Stanford e autore del saggio “Guerra! A che cosa serve?”, che esamina il rapporto tra conflitto e progresso “dai primati ai robot”, la guerra ha sempre aiutato la crescita: prima sotto l’Impero Romano, poi col Rinascimento e infine con la nascita degli Stati Uniti. «Ci sono prove che l’intenzione di prepararsi alla guerra abbia spinto l’invenzione tecnologica e portato anche un certo maggior grado di ordine sociale».Un altro libro, “Guerra e oro, una storia di 500 anni di imperi, avventure e debito”, scritto da un altro conservatore, il deputato britannico Kwasi Kwarteng, si sostiene che la necessità di finanziare le guerre abbia portato i governi a sviluppare le istituzioni monetarie e finanziarie, consentendo l’ascesa dell’Occidente. Una terza indagine sul tema, dossier firmato dagli economisti Chiu Yu Ko, Mark Koyama e Tuan-Hwee Sng, si afferma che l’Europa si è evoluta in modo più frammentario rispetto alla Cina, costretta al centralismo di Pechino per evitare invasioni da ovest. L’accentramento avrebbe fatto arretrare il paese, mentre gli europei avrebbero investito di più in tecnologia e modernizzazione «proprio perché avevano sempre paura di essere conquistati dai vicini loro rivali». Se non altro, concede Cowen, «vivere in un mondo pacifico con una crescita del Pil del 2% ha alcuni grandi vantaggi che non si ottengono con una crescita del 4% e molti più morti in guerra».Per contro, dice ancora l’economista di destra, i nostri antenati non hanno probabilmente mai conosciuto una stagnazione come l’attuale. Errore: fu spaventoso il crollo in cui sprofondò l’Europa, economia compresa, dopo la caduta dell’Impero Romano. Qualcosa del genere potrebbe accadere oggi, se dovesse collassare l’impero americano. Cowen però non è uno storico, ma un economista: e la sua ideologia neoliberale, smentita dai fatti ma più che mai al potere, vede solo un futuro lineare e progressivo, proprio come la leggenda della crescita infinita e l’atroce fiaba dell’austerity espansiva. In attesa di scoprire se l’ipotetico colossale business chiamato Terza Guerra Mondiale sia davvero alle porte – magari innescato a Kiev contro Mosca, o da Israele contro Teheran – Cowen si limita a domandarsi «se la recente diffusione della pace è una semplice bolla temporanea che aspetta solo di essere fatta scoppiare», naturalmente a beneficio di un Pil finanziario ormai controllato da pochissimi super-padroni, forse pronti a lasciare sul terreno i 2 miliardi di morti che un attacco nucleare contro la Russia provocherebbe.L’economia occidentale è in stagnazione da troppo tempo? Niente di meglio che una bella guerra, magari mondiale, per “far ripartire la crescita”. Lo afferma, senza troppi giri di parole, l’economista statunitense Tyler Cowen, allievo della “scuola austriaca” di Friedrick Von Hayek cui si ispirano i famigerati professori europei del rigore, a cominciare dal non rimpianto Mario Monti. Sul “New York Times”, Cowen spiega che solo la guerra è il potente motore dell’economia, anche se purtroppo «il conflitto porta morte e distruzione». Il problema, però, è che la pace non aiuta il Pil, cioè il grossolano indicatore convenzionale di crescita – crescita di tutto, compresi i veleni, i disastri, gli sprechi criminali. Lungi anche solo dall’ipotizzare un’economia non più fondata sulla crescita illimitata (non solo “impossibile” ma anche letale per la Terra) il professor Cowen, docente ultra-liberista della George Mason University, sostiene che il mondo di oggi non sia più visitato, come in passato, dalla favolosa opportunità rappresentata dal genocidio bellico.
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Altre sanzioni, e addio dollaro: Mosca passa allo yuan
L’asse eurasiatico anti-dollaro sta rapidamente prendendo forma, accelerato dalla politica estera degli Usa in Ucraina: la crisi, osserva Tyler Durden, ha rapidamente spinto la Russia verso la Cina. Il “Financial Times” conferma che le imprese russe si stanno preparando a modificare i loro contratti per accettare pagamenti in renminbi e altre valute asiatiche, nel timore che le sanzioni occidentali possano congelare le loro spettanze una volta tagliate fuori dal mercato del dollaro. Lo conferma Pavel Teplukhin, capo della Deutsche Bank in Russia, mentre un altro super-banchiere come Andrej Kostin, ceo della banca di Stato russa Vtb, ammette che l’allargamento dell’uso di valute alternative al dollaro è uno dei loro «maggiori obiettivi», in vista del poderoso incremento dei volumi del commercio bilaterale con la Cina. Per i pagamenti, dunque, via libera al rublo e allo yuan. «Ci stiamo lavorando», conferma lo stesso Putin. E un altro banchiere europeo in Russia ammette: «Non c’è niente di sbagliato se la Russia vuol provare a ridurre la propria dipendenza dal dollaro».La notevole esposizione in dollari della Russia costringe Mosca ad un’estrema volatilità, pericolosa in tempi di crisi: «Non c’è ragione, per esempio, di pagare i conti in dollari se si commercia con il Giappone». L’amministratore delegato di una importante industria manufatturiera russa, che fattura le esportazioni per il 70% in dollari Usa, spiega che la sua azienda ha già fatto i passi opportuni per modificare la forma di pagamento dei suoi contratti anche in altre valute, nel caso di ulteriori sanzioni: «Se capitasse qualcosa, saremmo pronti ad accettare pagamenti anche in altre valute, per esempio in yuan o in dollari di Hong Kong e Singapore dalla Cina». Mentre i rapporti di Mosca con l’Unione Europea si vanno facendo sempre più tesi, scrive Durden in un post su “Come Don Chisciotte”, è evidente la svolta della Russia verso Pechino: non devono meravigliare gli attacchi improvvisi contro il valore del renmimbi, in vista del suo possibile futuro «come valuta di capitali russi».La domanda più importante: quanto peserà sulla tenuta della valuta cinese la maggiore domanda di yuan per pagare le importazioni russe? «Quello che non si vuol capire, ancora una volta – scrive Durden – è che la Russia sta servendo solamente l’aperitivo di quello che serviranno al G-20 gli altri paesi, molti dei quali sono veramente indispettiti per l’uso prepotente del potere di voto Usa al Fondo Monetario Internazionale». Questo, secondo l’analista, potrebbe portare ad accordi bilaterali che ogni paese potrebbe stipulare con la Cina: «Pratiche che comporterebbero una ulteriore de-dollarizzazione, permettendo al renminbi di diventare progressivamente ancora più importante sul palcoscenico mondiale». Secondo Teplukhin, le società russe sono già pronte ad affrontare il rischio di future sanzioni Usa con un semplice «cambio di clausola nei loro contratti, per permettere di cambiare la valuta di pagamento, ove necessario».Ma forse, continua Durden, è ancora più importante il prossimo passo accennato dal Cremlino: a Mosca c’è chi suggerisce a Putin di rispondere alle sanzioni occidentali con una «completa de-dollarizzazione» della propria economia. Per il momento, Putin valuta e prende tempo. «Fino a quando la Russia non sarà soggetta a sanzioni sistemiche, che potrebbero portare a dei limiti artificiali per la nostra economia nell’accesso al dollaro, non credo che faremo ulteriori passi per raggiungere una artificiosa de-dollarizzazione», dice Andrej Belousov, consigliere economico di Putin. In ogni caso, per Tyler Durden lo scenario è delineato: «Più l’Occidente insisterà con le sanzioni, più rapida sarà la caduta del dollaro americano». La Russia? Oggi «ha in mano la carta vincente», perché «se solo volesse mostrare al mondo che l’asse Russia-Cina non ha bisogno dei verdoni dello Zio Sam, le basterebbe essere appena più “aggressiva” in Ucraina e farsi appioppare altre sanzioni, in modo da essere “obbligata” a de-dollarizare un tantino di più. Poi la vedremmo risciacquarsi la bocca e sputare l’acqua sporca».L’asse eurasiatico anti-dollaro sta rapidamente prendendo forma, accelerato dalla politica estera degli Usa in Ucraina: la crisi, osserva Tyler Durden, ha rapidamente spinto la Russia verso la Cina. Il “Financial Times” conferma che le imprese russe si stanno preparando a modificare i loro contratti per accettare pagamenti in renminbi e altre valute asiatiche, nel timore che le sanzioni occidentali possano congelare le loro spettanze una volta tagliate fuori dal mercato del dollaro. Lo conferma Pavel Teplukhin, capo della Deutsche Bank in Russia, mentre un altro super-banchiere come Andrej Kostin, ceo della banca di Stato russa Vtb, ammette che l’allargamento dell’uso di valute alternative al dollaro è uno dei loro «maggiori obiettivi», in vista del poderoso incremento dei volumi del commercio bilaterale con la Cina. Per i pagamenti, dunque, via libera al rublo e allo yuan. «Ci stiamo lavorando», conferma lo stesso Putin. E un altro banchiere europeo in Russia ammette: «Non c’è niente di sbagliato se la Russia vuol provare a ridurre la propria dipendenza dal dollaro».
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Reclus: la strage degli animali prepara guerra e genocidio
Il reduce della Comune di Parigi ha scritto acutamente circa il processo che permette agli esseri umani di commettere la violenza sugli animali, «un processo che potremmo chiamare di socializzazione specista», afferma Hochschartner. La reazione inorridita di un bambino di fronte allo sfruttamento degli animali «svanisce nel tempo, cedendo davanti alla perniciosa influenza dell’educazione quotidiana», ha dichiarato Reclus. «I genitori, gli insegnanti, in modo ufficiale o amichevole, i medici, per non parlare del singolo potente che noi chiamiamo “tutti”, lavorano tutti quanti insieme per “indurire” il carattere del bambino rispetto a questo alimento a quattro zampe che, tuttavia, ama come facciamo noi, e sente come noi».Forse anticipando il lavoro di scrittori come Joan Dunayer, Reclus ha riconosciuto il ruolo dei giochi linguistici nel negare o razionalizzare lo sfruttamento degli animali. «Gli animali sacrificati per l’appetito dell’uomo sono stati sistematicamente e metodicamente resi orrendi, informi, e sviliti in intelligenza e valore morale», ha scritto Reclus. «Anche il nome degli animali è stato trasformato, il cinghiale viene utilizzato come grossolano insulto, la massa di carne che vediamo sguazzare nelle piscine rumorose è talmente ripugnante da guardare che evitiamo ogni somiglianza tra il nome della bestia e quello dei piatti che se ne ricavano». Naturalmente, Reclus credeva nel collegamento tra la violenza sugli animali e quella contro gli esseri umani: «C’è poi così tanta differenza tra il corpo morto di una giovenca e quello di un uomo?».«Gli arti mozzati, le interiora mescolate uno con l’altro, sono molto simili», scrive Reclus. «Il massacro del primo rende facile l’omicidio del secondo, soprattutto quando fuori squilla l’ordine di un leader, o da lontano arriva la parola del maestro incoronato, “essere senza pietà”». Elisée Reclus è morto nel 1905 all’età di 75 anni. «Si dice che i suoi ultimi giorni siano stati resi particolarmente felici dalla notizia della rivoluzione popolare in Russia», secondo Camille Martin e John P. Clark. «Morì poco dopo aver sentito della rivolta dei marinai sulla corazzata Potemkin».Si illude, chi crede che macellare un vitello sia poi tanto diverso dal massacrare un cristiano: e non capisce che l’assuefazione alla strage quotidiana degli animali ci “prepara” all’indifferenza verso l’omicidio, la guerra, il genocidio. Parola di Elisée Reclus, anarchico francese e geografo nonché vegetariano militante: aveva, per l’epoca, idee molto progressiste riguardo ai diritti degli animali. Servendo come membro della milizia, partecipò attivamente alla rivolta che diede vita alla mitica Comune di Parigi del 1871, storica ribellione della classe operaia che lo stesso Marx definì «il presagio glorioso di una nuova società». Dopo la sua cattura da parte delle forze governative, Reclus venne inizialmente deportato in Nuova Caledonia, remoto arcipelago al largo delle coste dell’Australia. Ma grazie all’intervento dei suoi sostenitori, che secondo alcune fonti includevano anche Charles Darwin, una nuova sentenza ridusse la distanza del confino, permettendogli di vivere in Svizzera.
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Scuri come africani: ecco i nostri antenati europei
Occhi azzurri, ma pelle scura. Lo dice il Dna estratto dal dente di un maschio cacciatore e raccoglitore che sarebbe vissuto circa 7.000 anni fa nella regione delle Asturie, nel nord della Spagna. Lo riferisce il “Guardian”, su recenti indagini condotte da un pool di scienziati dediti allo studio dell’Homo Sapiens in Europa. Già in precedenza, ricorda Gary Leupp, gli studiosi avevano compreso che gli occhi azzurri erano il risultato di una mutazione genetica avvenuta tra 10.000 e 6.000 anni fa: prima di allora tutti gli uomini avevano gli occhi castani. Ma fino a pochi anni fa si era convinti che la pelle bianca fosse comparsa molto prima di allora: il pool genico europeo, con la sua tipica carnagione chiara, sembrava essersi completamente “differenziato” da quello dell’Asia orientale circa 50.000 anni fa, quando l’Homo Sapiens comparve per la prima volta in Europa e poi in Cina. Ma ora questa analisi temporale dev’essere rivista. Sembra infatti che il pallore europeo abbia avuto origini in tempi molto più recenti.Forse, 7.000 anni fa in Europa non esistevano uomini bianchi quando era in vita il cacciatore-raccoglitore dagli occhi azzurri, che nell’articolo del “Guardian” viene chiamato “bruno”. Secondo Leupp, storico della Tufts University, la nuova ricerca conferma la teoria secondo cui la diffusione dell’agricoltura in Europa, iniziata solo 6.000 anni fa, abbia favorito la sopravvivenza delle persone con una mutazione genetica, capace di generare la carnagione chiara. Tutto questo, sette millenni fa: «E’ un periodo davvero remoto, più di 2.000 anni prima della costruzione di Stonehenge o delle prime piramidi egizie, prima della divisione in classi, prima della nascita degli Stati e della scrittura», osserva Leupp in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «L’agricoltura era agli albori nella valle del Nilo e nella valle del Fiume Giallo in Cina, mentre questi proto-scandinavi iniziavano nella parte più isolata d’Europa la loro attività di caccia e raccolta. Siamo ancora lontani millenni dall’apparizione storica delle grandi popolazioni europee dei greci, italiani, celti, popoli germanici e slavi».Ancora una volta, però, i tempi sembrano essere molto più dilatati del previsto: «Ci sono prove a supporto del fatto che gli abitanti della penisola scandinava discendessero da popolazioni che si erano insediate in quelle zone già da molto tempo. Se al contrario, così come i celti e i popoli germanici, discendessero dai cacciatori-raccoglitori con gli occhi azzurri delle Asturie, con la pelle scura di 7.000 anni fa, sarebbe opportuno rivalutare l’origine della pelle chiara, non credete?». Ne consegue un’ovvia affermazione: «Gli europei (caucasici) non sono l’unica popolazione bianca del pianeta». A partire dal loro primo contatto con il popolo giapponese nel 1.540 fino almeno all’inizio del 1.800, gli europei descrissero sia i giapponesi che i cinesi come “bianchi”. Marco Polo, alla fine del 1.200, descrisse i cinesi come “bianchi”. Categorizzazione poi sostituita intorno al 1.800 dalla nuova categoria “fulvo” o “giallo”, «che era percepito come un colore intermedio, appena sotto il bianco, in una gerarchia razziale che vede in cima i bianchi e i neri in fondo. Questo concetto, associato al “darwinismo sociale” è un primo approccio ideologico a sostegno del colonialismo e della schiavitù oltre che l’attuale fondamento del razzismo e dell’imperialismo».Le popolazioni dell’est asiatico, così come gli europei, hanno subito una mutazione genetica che li ha resi bianchi, continua Leupp. Mutazione avvenuta migliaia di anni prima rispetto ai nostri antenati nordici? Non possiamo più essere sicuri che fossero “bianchi” i nostri progenitori europei di 7.000 anni fa. Ma forse lo erano i giapponesi. «L’Homo Sapiens che visse nella valle del Fiume Giallo nella Cina del nord 7.000 anni fa, appartenente alla cultura Yangshao che avrebbe inventato a breve l’agricoltura, si pensa fosse “anatomicamente cinese”. I loro forse non lontani cugini giapponesi, i popoli Jomon, in Giappone da 14.000 anni, e il popolo Yayoi, che forma la gran parte del pool genetico giapponese, si crede fossero di pelle chiara». Se erano effettivamente di pelle chiara, conclude Leupp, potrebbero essere stati i primi “bianchi” sul pianeta, ben lontani «da quelli che si pensavano essere i fulcri da cui si è sviluppata la pelle chiara, come il Caucaso, la Scandinavia o la Germania». Le popolazioni di pelle chiara nell’Est asiatico potrebbero aver proliferato e aver raggiunto l’Europa attraverso la vasta steppa russa. «Il genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza dell’università di Standford sostiene che due terzi dei geni europei arrivano dall’Asia, un terzo invece dall’Africa».Quand’è che l’uomo è diventato bianco? Dov’è accaduto? «Non ci è chiaro», ammette Leupp, «ma è successo piuttosto di recente e non per forza in Europa». Perché è importante saperlo? «Perché le nozioni di gerarchia razziale basate sul colore della pelle continuano a tormentarci e a perseguitare il nostro inconscio. Vivono nella mente collettiva nordamericana, per essere pronti all’uso ogni qual volta il regime consideri sia giunta l’ora di bombardare un altro Stato asiatico o africano, per portare la “nostra” civiltà bianca alle popolazioni indigene e per poter raffigurare qualsiasi possibile fatto spiacevole come “il fardello dell’uomo bianco”: si vedano ad esempio le lamentele degli uomini del Congresso su come gli iracheni o gli afghani siano stati poco riconoscenti nonostante gli enormi sforzi fatti per conquistarli». Per Leupp, «la comprensione e demistificazione delle vere origini della pelle bianca potrebbero aiutarci a superare la questione».Occhi azzurri, ma pelle scura. Lo dice il Dna estratto dal dente di un maschio cacciatore e raccoglitore che sarebbe vissuto circa 7.000 anni fa nella regione delle Asturie, nel nord della Spagna. Lo riferisce il “Guardian”, su recenti indagini condotte da un pool di scienziati dediti allo studio dell’Homo Sapiens in Europa. Già in precedenza, ricorda Gary Leupp, gli studiosi avevano compreso che gli occhi azzurri erano il risultato di una mutazione genetica avvenuta tra 10.000 e 6.000 anni fa: prima di allora tutti gli uomini avevano gli occhi castani. Ma fino a pochi anni fa si era convinti che la pelle bianca fosse comparsa molto prima di allora: il pool genico europeo, con la sua tipica carnagione chiara, sembrava essersi completamente “differenziato” da quello dell’Asia orientale circa 50.000 anni fa, quando l’Homo Sapiens comparve per la prima volta in Europa e poi in Cina. Ma ora questa analisi temporale dev’essere rivista. Sembra infatti che il pallore europeo abbia avuto origini in tempi molto più recenti.
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Stanno progettando di colpire la Russia con armi nucleari
Sorpresa: Washington pensa che in una guerra nucleare ci possa essere chi vince. E sta progettando un primo attacco alla Russia, o forse alla Cina, per evitare qualsiasi sfida alla sua egemonia sul mondo. Il piano è molto avanzato, avverte Paul Craig Roberts, citando “La letalità delle armi nucleari” di Steven Starr: «Basterebbe l’1% degli arsenali nucleari degli Usa o della Russia per provocare una “piccola guerra nucleare” che porterebbe a un disfacimento catastrofico del clima globale e alla distruzione massiccia dello strato di ozono, con conseguenti danni, tanto gravi per l’agricultura del mondo, che due miliardi di persone potrebbero morire di fame». La brutta notizia è che la dottrina strategica degli Stati Uniti è cambiata: con Obama, «il ruolo dei missili nucleari è stato portato da strumento di reazione ad arma offensiva, da usare al primo colpo». Per questo sono stati piazzati i missili anti-balistici Abm nelle basi americane in Polonia, e altri missili verranno dislocati nell’Est Europa. «Una volta completato il lavoro, la Russia sarà circondata da basi missilistiche americane».I missili anti-balistici, noti come “star wars”, sono armi progettate per intercettare e distruggere missili balistici intercontinentali, spiega Craig Roberts, già viceministro del Tesoro con Reagan e “associated editor” del “Wall Street Journal”. Secondo la nuova strategia di guerra di Washington, continua Roberts in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, gli Stati Uniti dovrebbero colpire la Russia per primi. Qualunque sia la capacità di risposta russa, l’artiglieria missilistica di Mosca non riuscirebbe più a raggiungere il territorio statunitense, perché i missili russi verrebbero intercettati dallo scudo degli Abm dislocati in Europa orientale. Il pretesto agitato da Washington è quello della minaccia terroristica: come se i terroristi fossero una nazione che disponga di un esercito minaccioso. Ufficialmente, i missili Abm sono in Polonia come “scudo” contro i missili intercontinentali iraniani: ma Washington, «come ogni altro governo europeo, sa bene che l’Iran non ha nessun Icnm e che l’Iran non ha mai detto di aver intenzione di attaccare l’Europa».Nessun governo crede nelle ragioni di Washington, continua Craig Roberts. Qualsiasi governo, invece, capisce che le motivazioni dell’America sono «deboli tentativi di nascondere il fatto che sta posizionando le sue basi per poter vincere una guerra nucleare». Il governo russo, naturalmente, è consapevole che questo cambio di strategia di guerra degli Stati Uniti e le basi Abm americane poste ai suoi confini siano orientate contro la Russia. «Sono segnali evidenti che Washington intende essere pronta per un primo attacco con armi nucleari contro la Russia». Anche la Cina, aggiunge l’analista statunitense, ha perfettamente capito che Washington ha le stesse intenzioni contro Pechino. Proprio in risposta alla minaccia di Washington, «la Cina ha attirato l’attenzione del mondo sulla sua capacità di distruggere gli Stati Uniti, nel caso che Washington dovesse intraprendere un conflitto di questo genere». Il peggio è che Obama «crede di poter vincere una guerra nucleare con pochi o senza danni per gli Stati Uniti: ed è questa convinzione che rende probabile una guerra nucleare».Secondo Steven Starr, questa convinzione è basata sull’ignoranza: una guerra nucleare non avrà nessun vincitore. «Anche se le città degli Stati Uniti fossero salvate dallo scudo contro gli Abm, le radiazioni e gli effetti prodotti dall’inverno nucleare delle armi che avranno colpito la Russia o la Cina distruggerebbero gli Stati Uniti allo stesso modo». Prosegue Craig Roberts: «I media, opportunamente concentrati in poche mani durante il corrotto regime di Clinton, sono complici perché stanno ignorando il problema. Anche i governi degli stati vassalli di Washington in Europa occidentale e orientale, del Canada, dell’Australia e del Giappone sono complici, perché accettano il piano di Washington e mettono a disposizione le basi militari per la sua attuazione. Un governo polacco demente, probabilmente, ha già firmato la condanna a morte per l’umanità». E’ corresponsabile anche il Congresso degli Stati Uniti, «perché non è stata presentata nessuna audizione contro il progetto esecutivo per l’avvio di una guerra nucleare». Per Roberts, Washington ha creato una situazione pericolosa: «Dato che Russia e Cina sono state chiaramente minacciate di un primo lancio nucleare, anche loro potrebbero decidere di colpire per prime: perché Russia e Cina dovrebbero restare sedute ad attendere l’inevitabile, mentre l’avversario sta creando i presupposti per proteggersi, sviluppando il suo scudo Abm?».Una volta che Washington abbia terminato lo scudo, Russia e Cina possono essere certe che «saranno attaccate, a meno che non si arrendano prima». Il network “Russia Today” spiega che il piano segreto di Washington per colpire la Russia per prima non è affatto un segreto: il reportage chiarisce anche che Washington è pronta a eliminare qualsiasi leader europeo che non si allineerà con gli Usa. Che fare, dunque? Innanzitutto, «non ascoltare il Ministero della Propaganda spegnendo Fox News, Cnn, Bbc , Abc, Nbc e Cbs, smettendo di leggere il “New York Times”, il “Washington Post”, il “Los Angeles Times”», scrive Craig Roberts. «Basta uscire dal circuito dell’informazione dei media ufficiali. Non credere una parola di quello che dice il governo. Non votare. Rendersi conto che il male è concentrato a Washington. Nel 21° secolo Washington ha distrutto in tutto o in parte sette paesi. Ha ucciso milioni di persone, li ha mutilati, li ha fatti fuggire dalle loro case e Washington non ha mai dato segni di rimorso. E nemmeno le chiese “cristiane”. Tutta la devastazione che Washington ha provocato nel mondo è raccontata come se fosse stato un grande successo: ha vinto Washington». Gli Usa sono determinati a vincere, conclude Craig Roberts. «Ma è lo stesso male, che Washington rappresenta, che sta portando il mondo verso la sua distruzione».Sorpresa: Washington pensa che in una guerra nucleare ci possa essere chi vince. E sta progettando un primo attacco alla Russia, o forse alla Cina, per evitare qualsiasi sfida alla sua egemonia sul mondo. Il piano è molto avanzato, avverte Paul Craig Roberts, citando “La letalità delle armi nucleari” di Steven Starr: «Basterebbe l’1% degli arsenali nucleari degli Usa o della Russia per provocare una “piccola guerra nucleare” che porterebbe a un disfacimento catastrofico del clima globale e alla distruzione massiccia dello strato di ozono, con conseguenti danni, tanto gravi per l’agricultura del mondo, che due miliardi di persone potrebbero morire di fame». La brutta notizia è che la dottrina strategica degli Stati Uniti è cambiata: con Obama, «il ruolo dei missili nucleari è stato portato da strumento di reazione ad arma offensiva, da usare al primo colpo». Per questo sono stati piazzati i missili anti-balistici Abm nelle basi americane in Polonia, e altri missili verranno dislocati nell’Est Europa. «Una volta completato il lavoro, la Russia sarà circondata da basi missilistiche americane».
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I leader Ue sono marci: tangenti da 120 miliardi l’anno
L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati. Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della Ue è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.Le forme di tale corruzione devono ancora trovare una tassonomia sistematica. C’è la corruzione pre-elettorale: il finanziamento di persone e partiti da fonti illegali – o legali – contro la promessa, esplicita o tacita, di futuri favori. C’è la corruzione post-elettorale: l’uso delle cariche per ottenere fondi mediante malversazioni sulle entrate o mazzette sui contratti. C’è l’acquisto di voci o voti nei parlamenti. C’è il furto puro e semplice dalle casse pubbliche. C’è la falsificazione di credenziali per vantaggi politici. C’è l’arricchimento dalla carica pubblica dopo l’evento, così come durante o prima di esso. Il panorama di questa malavita è impressionante. Un affresco di esso potrebbe cominciare con Helmut Kohl, governante della Germania per sedici anni, che accumulò due milioni di marchi di fondi neri da donatori illegali i cui nomi, quando fu denunciato, rifiutò di rivelare per timore che venissero alla luce i favori che aveva fatto loro. Oltre il Reno, Jacques Chirac, presidente della Repubblica Francese per dodici anni, fu condannato per appropriazione di fondi pubblici, abuso di ufficio e conflitti d’interesse, una volta caduta l’immunità. Nessuno dei due ha subito pene. Questi erano due dei più potenti politici dell’epoca in Europa.In Germania il governo di Gerhard Schroeder garantì un prestito da un miliardo di euro alla Gazprom per la costruzione di un gasdotto sul baltico poche settimane prima che egli si dimettesse da cancelliere e andasse a libro paga della Gazprom con uno stipendio maggiore di quello che aveva ricevuto governando il paese. Dopo la sua partenza, Angela Merkel ha visto due presidenti della repubblica, uno dietro l’altro, costretti a dimettersi da screditati: Horst Koehler, ex capo del Fmi, per aver spiegato che il contingente della Bundeswehr in Afghanistan stava proteggendo interessi commerciali tedeschi; e Christian Wulff, ex capo cristiano-democratico della Bassa Sassonia, per un prestito discutibile ricevuto da un affarista amico per la sua casa. Due ministri eminenti, uno della difesa e l’altro dell’istruzione, hanno dovuto andarsene quando sono stati privati dei loro dottorati – una credenziale importante per una carriera politica nella Repubblica Federale – per violazione dei diritti di proprietà intellettuale. Quando il secondo, Annette Schavan, un’intima amica della Merkel (che aveva manifestato piena fiducia in lei) era ancora in carica, il “Bild Zeitung” ha osservato che avere un ministro dell’istruzione che aveva falsificato le sue ricerche era come avere un ministro delle finanze con un conto segreto in Svizzera.In Francia il ministro socialista del bilancio, il chirurgo plastico Jérôme Cahuzac, la cui direttiva era di difendere la probità e l’equità fiscale, è stato scoperto detenere qualcosa tra i 600.000 e i 15 milioni di euro in depositi segreti in Svizzera e a Singapore. Nicolas Sarkozy, nel frattempo, è accusato da testimoni concordi di aver ricevuto circa 20 milioni di dollari da Gheddafi per la campagna elettorale che lo portò alla presidenza. Christine Lagarde, il suo ministro delle finanze, che oggi dirige il Fmi, è sotto inchiesta per il suo ruolo nella concessione di 420 milioni di dollari di ‘risarcimento’ a Bernard Tapie, un ben noto truffatore con un passato in carcere, negli ultimi tempi amico di Sarkozy. Contiguità disinvolta con la criminalità è bipartisan. François Hollande, attuale presidente della repubblica, usava come pied-à-terre per gli incontri con la sua amante un appartamento della donna di un gangster corso, ucciso l’anno scorso in una sparatoria sull’isola.In Gran Bretagna, circa nello stesso periodo, l’ex premier Blair consigliava a Rebekah Brooks, che rischiava il carcere per cinque accuse di cospirazione criminale («Sii forte e prendi pastiglie per dormire. Passerà») e la sollecitava a «pubblicare un rapporto in stile Hutton», come aveva fatto lui per sterilizzare qualsiasi parte il suo governo potesse aver avuto nella morte di una fonte interna che aveva fatto rivelazioni sulla sua guerra in Iraq: un’invasione dalla quale ha poi proseguito a raccogliere – naturalmente per la sua Fondazione Faith – mance e contratti assortiti in giro per il mondo, considerevoli fondi in contanti da una compagnia petrolifera della Corea del Sud gestita da un delinquente condannato con interessi in Iraq e presso la dinastia feudale del Kuwait. Quali ricompense possa essersi guadagnato più a est resta da vedere («I progressi del Kazakistan sono splendidi. Comunque, signor Presidente, lei ha toccato nuovi vertici nel suo messaggio alla nazione». Alla lettera.).In patria, in uno scambio di favori a proposito dei quali ha mentito compuntamente al Parlamento, le sue mani sono state unte da un milione di sterline versate alle casse del partito dal magnate delle corse automobilistiche Bernie Ecclestone, attualmente sotto giudizio in Baviera per tangenti al ritmo di 33 milioni di euro. Nella cultura del New Labour, figure di spicco della cerchia di Blair, ministri di gabinetto un tempo – Byers, Hoon, Hewitt – non sono stati in grado di offrirsi in vendita al successore. Negli stessi anni, indipendentemente dal partito, la Camera dei Comuni è stata denunciata come un pozzo nero di meschine malversazioni di denaro dei contribuenti. In Irlanda, contemporaneamente, il leader del Fianna Fàil, Bertie Ahern, avendo canalizzato più di 400.000 euro di pagamenti non spiegati prima di diventare “taioseach”, si è votato lo stipendio più elevato di qualsiasi premier in Europa – 310.000 euro, più persino del presidente degli Stati Uniti – un anno prima di doversene andare con disonore per assoluta disonestà.In Spagna l’attuale primo ministro, Mariano Rajoy, alla guida di un governo di destra, è stato colto con le mani nel sacco mentre riceveva mazzette per contratti di costruzione e di altro genere per un totale di un quarto di milione di euro nel giro di un decennio, passategli da Luis Bàrcenas. Tesoriere del suo partito per vent’anni, Bàrcenas è oggi sotto arresto per aver accumulato un tesoro di 48 milioni di euro in conti svizzeri non dichiarati. I libri mastri, compilati a mano, contenenti i dettagli dei suoi versamenti a Rajoy e ad altri notabili del Partito del Popolo – tra cui Rodrigo Rato, altro ex capo del Fmi – sono apparsi in facsimile in abbondanza sulla stampa spagnola. Una volta scoppiato lo scandalo Rajoy ha inviato a Bàrcenas un messaggio con parole virtualmente identiche a quelle di Blair alla Brooks: «Luis, io capisco. Resta forte. Ti chiamerò domani. Un abbraccio». Pur con uno scandalo in cui l’85% del pubblico spagnolo ritiene che egli menta, resta incollato alla poltrona nel Palazzo della Moncloa.In Grecia, Akis Thochatzopoulos, del Pasok – ministro, in successione, dell’interno, della difesa e dello sviluppo – in un’occasione arrivato a un soffio dalla guida della socialdemocrazia greca, è stato meno fortunato: condannato l’autunno scorso a vent’anni di carcere per una formidabile carriera di estorsioni e di riciclaggi di denaro sporco. Oltre il mare Tayyip Erdogan, a lungo celebrato dai media e dall’establishment intellettuale dell’Europa come il più grande statista democratico della Turchia, la cui condotta ha virtualmente dato al paese il titolo di membro onorario della Ue ante diem, ha dimostrato di essere meritevole di essere incluso nei ranghi della dirigenza europea in un altro modo: in una conversazione registrata in cui dava al figlio istruzioni su dove nascondere decine di milioni in contanti, in un’altra in cui alzava il prezzo di una robusta tangente su un contratto di costruzioni. Tre ministri del governo sono caduti dopo scoperte analoghe, prima che Erdogan purgasse le forze della polizia e della magistratura per assicurarsi che non si spingessero oltre.Mentre egli faceva questo la Commissione Europea ha pubblicato il suo primo rapporto ufficiale sulla corruzione nell’Unione, la cui dimensione il commissario autore del rapporto l’ha descritta come “mozzafiato”: secondo una stima prudente, costa alla Ue quanto l’intero bilancio dell’Unione, circa 120 miliardi l’anno, ma la cifra reale è «probabilmente molto più alta». Prudentemente il rapporto si è occupato solo degli stati membri. La stessa Ue, la cui intera Commissione fu costretta in tempi non lontani a dimettersi screditata, è stata esclusa (la Commissione Santer fu costretta a dimettersi nel 1999 per accuse di corruzione contro alcuni suoi membri). Diffuso in un’Unione che si presenta come tutore morale del mondo, l’inquinamento del potere ad opera del denaro e della frode deriva dallo svuotamento di sostanza o dalla caduta del coinvolgimento nella democrazia. Le élite, liberate sia da una reale divisione in alto sia da un significativo dovere di rispondere in basso, possono permettersi di arricchirsi alla follia e impunite. La denuncia cessa di contare molto, poiché l’impunità diviene la regola. Come i banchieri, i politici di spicco non finiscono in carcere.Ma la corruzione non è solo una funzione del declino dell’ordine politico. E’ anche, ovviamente, un sintomo del regime economico che si è impossessato dell’Europa a partire dagli anni ’80. In un universo neoliberista dove i mercati sono il metro del valore, il denaro diventa, più platealmente che mai, la misura di tutte le cose. Se ospedali, scuole e carceri possono essere privatizzati a fini di profitto delle imprese, perché non anche le cariche politiche? Oltre alla ricaduta culturale del neoliberismo, tuttavia, vi è l’impatto del sistema socio-economico, la terza e, nell’esperienza del popolo, di gran lunga più acuta delle malarie che affliggono l’Europa. Che la crisi economica scatenate in occidente nel 2008 sia stata il risultato di decenni di liberalizzazioni nel settore finanziario e di espansione del credito lo ammettono, più o meno, i loro stessi architetti; si veda Alan Greenspan. Collegate oltre Atlantico, le banche e le attività immobiliari europee erano già coinvolte nel disastro tanto quanto le loro omologhe statunitensi. Nella Ue, tuttavia, questa crisi generale è stata aggravata da un altro fattore peculiare dell’Unione, le distorsioni create dalla moneta unica imposta a economie nazionali molto diverse tra loro, spingendo le più vulnerabili di esse sull’orlo della bancarotta quando sono state colpite dalla crisi generale.(Perry Anderson, estratto dall’intervento “Il disastro italiano”, pubblicato da “Sinistra in rete” il 29 maggio 2014).L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati. Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della Ue è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.