Archivio del Tag ‘salvaguardia’
-
E se nascesse il Partito del Papa, pro-migranti e pro-Islam
Prima o poi il Partito Popolare rinascerà. Lo farà Romano Prodi, o il suo erede, Enrico Letta; lo farà Berlusconi, o il suo Antonio Tajani del momento, o lo faranno insieme, i rivali di ieri, all’ombra del Ppe che già li unisce. Ma alla fine qualcosa del genere si farà, pensando all’Europa e ai sovranismi, più che a don Sturzo e al centenario del Partito Popolare. Però mentre i tirannosauri del popolarismo si muovono lentamente, indugiando e tergiversando, qualcuno sta bruciando le tappe. È la Chiesa di Bergoglio, è la Chiesa del Cardinal Bassetti, a capo della Conferenza episcopale italiana, è la Chiesa di Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna. Se il Partito Popolare lo fondò un prete, perché non dovrebbe pensarci ora un prelato anziché un politico? La novità è che un Partito del Papa, ossia un Partito dei Cattolici sotto l’egida di Bergoglio, avrebbe solo una cosa in comune col Partito Popolare prodiano e/o berlusconiano: nascerebbe contro la presente maggioranza, per sbarrare la strada ai populismi, ai nazionalismi e ai sovranismi. Ma dopo questa concordanza, il Partito del Papa sarebbe inevitabilmente il Partito dell’Accoglienza, il Partito Pro-Migranti, la prosecuzione della Caritas e della Comunità Sant’Egidio in politica. Al limite, sarebbe il partito di Gino Strada e di Mimmo Lucano, per capirci. Una cosa assai diversa da quello che fu da noi il Partito dei cattolici, la vecchia Dc.Allora lasciamo le polemiche contingenti e vediamo le cose in una prospettiva più ampia, storica. L’Italia riuscì a sopravvivere al fascismo, alla sconfitta della guerra, alle vendette e alle minacce del comunismo, rifugiandosi sotto le mammelle della Dc. Un partito che ebbe la sua forza nella sua debolezza, nel non opporsi a niente in modo radicale e risoluto, nel rispecchiare la realtà in modo duttile e malleabile, garantendo un po’ tutti, o non minacciando nessuno. Organizzò la fuoruscita dalla storia a tariffe convenienti, fu insieme una pomata e una polizza contro i traumi passati e presenti. La Dc fu l’autobiografia della nazione in versione materna, mentre il fascismo era stato l’autobiografia della nazione in versione paterna, virile, guerresca. La forza della Dc fu quella di garantire una transizione indolore dal fascismo all’antifascismo, dalla Nazione che volle farsi impero al paese che volle accucciarsi sotto l’ombrello atlantico americano e sotto il parasole europeista, ricevendo in cambio aiuti, piani di sostegno e controllo militare. La sua forza fu la paura del comunismo, la voglia di tranquillità. E la Matria al posto della Patria.Avrebbe senso oggi un partito dei cattolici in un paese fortemente scristianizzato, radicalmente secolarizzato, con le chiese svuotate? Ma soprattutto riuscirebbe a sfondare un partito dei cattolici proiettato sulla linea pontificia di Bergoglio? Non rischierebbe di lasciar fuori troppi cattolici che si riconoscono nella tradizione, nella civiltà cristiana, nella difesa della famiglia? Che posizione assumerebbe un partito papista sui temi dell’aborto e delle adozioni omosessuali, delle nozze gay e dell’eutanasia, delle nascite e della salvaguardia della figura materna e paterna? La Dc resse su un tacito ma duraturo compromesso tra questa componente conservatrice e la componente moderata che riteneva prioritaria la salvaguardia occidentale, l’atlantismo e l’anticomunismo, la difesa del mercato e del privato. Ma l’avversario principale per un partito cattolico non dovrebbe essere il laicismo radical, lo spirito giacobino e progressista, il materialismo ateo che è oggi il principale sponsor del bergoglismo? E la paura del comunismo non si traduce oggi nella paura dell’Islam, verso cui la Chiesa di Bergoglio è assai aperta?È evidente che il Partito del Papa non riuscirebbe a rappresentare che una piccola quota di cattolici, più una fetta di elettori radicali, di sinistra, non cattolici se non atei. Oggi il loro organo ufficiale non sarebbe l’“Avvenire” ma “La Repubblica”. E sarebbe un bel paradosso. Dopo mezzo secolo di guida democristiana, i cattolici riuscirono a ritagliarsi un ruolo nel sistema bipolare con l’antica strategia dei due forni, facendosi corteggiare da ambo i poli, perché stando nel mezzo e non avendo più rappresentanza politica, pur in minoranza, potevano spostare l’equilibrio a favore del centro-destra o del centro-sinistra. Da qualche anno invece, è lampante l’irrilevanza dei cattolici nelle scelte della politica. Certo, non mancano figure di garanzia per il mondo cattolico, da Mattarella a Conte. Ma l’influenza esercitata nel passato è oggi impensabile, e non parliamo del passato remoto o della Prima Repubblica ma anche più recente.Anche perché si è ridotta la pressione dei cattolici, della Cei, della Curia sui temi bioetici e sulla famiglia, per crescere invece sul tema migranti e accoglienza. Un tema che allontana molti cattolici, non perché siano refrattari alla carità, ma perché diffidenti davanti a una Chiesa-Ong che non si cura della civiltà cristiana in declino e apre le porte anche agli islamici. Allo stato attuale nessuno è in grado di rappresentare i cattolici in politica. Tre partiti cattolici s’intravedono all’orizzonte, quello che nascerebbe dalle ceneri dell’Ulivo, quello che sorgerebbe sulle spoglie di Forza Italia e quello che spunterebbe dalla tonaca del Papa (e dalla Cei). Ma sono tre partiti difficilmente componibili tra loro, tutti fortemente minoritari. E’ difficile immaginare che possa rinascere qualcosa come un partito unitario dei cattolici. Un tempo si diceva, con rassegnazione, moriremo democristiani. Oggi invece si dovrebbe dire: non rinasceremo democristiani.(Marcello Veneziani, “E se nascesse il Partito del Papa?”, da “Panorama” n. 4 del 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Prima o poi il Partito Popolare rinascerà. Lo farà Romano Prodi, o il suo erede, Enrico Letta; lo farà Berlusconi, o il suo Antonio Tajani del momento, o lo faranno insieme, i rivali di ieri, all’ombra del Ppe che già li unisce. Ma alla fine qualcosa del genere si farà, pensando all’Europa e ai sovranismi, più che a don Sturzo e al centenario del Partito Popolare. Però mentre i tirannosauri del popolarismo si muovono lentamente, indugiando e tergiversando, qualcuno sta bruciando le tappe. È la Chiesa di Bergoglio, è la Chiesa del Cardinal Bassetti, a capo della Conferenza episcopale italiana, è la Chiesa di Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna. Se il Partito Popolare lo fondò un prete, perché non dovrebbe pensarci ora un prelato anziché un politico? La novità è che un Partito del Papa, ossia un Partito dei Cattolici sotto l’egida di Bergoglio, avrebbe solo una cosa in comune col Partito Popolare prodiano e/o berlusconiano: nascerebbe contro la presente maggioranza, per sbarrare la strada ai populismi, ai nazionalismi e ai sovranismi. Ma dopo questa concordanza, il Partito del Papa sarebbe inevitabilmente il Partito dell’Accoglienza, il Partito Pro-Migranti, la prosecuzione della Caritas e della Comunità Sant’Egidio in politica. Al limite, sarebbe il partito di Gino Strada e di Mimmo Lucano, per capirci. Una cosa assai diversa da quello che fu da noi il Partito dei cattolici, la vecchia Dc.
-
Sechi: il governo è finito, ma durerà. Mancano alternative
«Non stiamo facendo una bella figura», ha detto Salvini al Movimento 5 Stelle che sta bloccando il riconoscimento di Guaidó come presidente del Venezuela. Il ministro dell’interno non ha perso l’occasione per replicare all’alleato di governo dopo che Di Maio ha sonoramente bocciato le aperture sulla Tav del collega vicepremier. «Che si tratti di Venezuela, di Torino-Lione o di caso Diciotti – scrive Federico Ferraù sul “Sussidiario” – tra M5S e Lega sembra si sia toccato un punto di non ritorno». Ma secondo Mario Sechi, direttore di “List”, è la mancanza di alternative a consolidare, almeno per ora, la coabitazione a Palazzo Chigi. Con tre variabili: la crisi, l’autonomia differenziata e i voti al Sud. Davvero non c’è tregua: «C’è tanto rumore: per nulla, aggiungerei», dice Sechi, intervistato da Ferraù. «In un sistema normale i governi vanno in crisi, ma qui di normale c’è ben poco». Ovvero: «Siamo in una situazione eccezionale, con un governo di necessità». Realismo: «Questo esecutivo è l’unico “format” disponibile, non ci sono alternative».Dunque Di Maio e Salvini non possono aprire una crisi? «Per andare dove e con chi? Il governo – sostiene Sechi – dal punto di vista della coesione delle forze che lo compongono, è finito. Questo non significa che sia morto». Coabitazione forzata: «Una coabitazione necessaria», secondo Sechi. «In questo quadro, M5S e Lega possono litigare su cose molto serie, ma sapendo che alla fine conviene ad entrambi trovare un accordo». Eppure, sottolinea Ferraù, sul progetto Tav Torino-Lione la tensione è alta. «Se la Lega non porta a casa la Tav è un problema. Per il M5S invece è un problema se la Tav si fa. Però sarebbe un problema ancora maggiore, per entrambi, aprire una crisi di governo». Stallo completo, dunque. Eppure, si domanda Ferraù, perché i sondaggi continuano a premiare l’esecutivo? «La gente non è soddisfatta della politica economica di M5S e Lega, ma li voterebbe ancora – secondo Sechi – perché hanno mantenuto intatta la capacità di alimentare la speranza di cambiamento. Le due cose non sono in contraddizione».Che rischio corrono i pentastellati? «Che il reddito di cittadinanza non funzioni e che alla fine siano assunti soltanto i “navigator”». E la Lega? Il pericolo, per Sechi, è che salti l’autonomia: «La “constituency” del M5S sono gli italiani in cerca di reddito e protezione, quella della Lega sono le imprese del Nord. Autonomia, nei fatti, significa secessione dolce». Lombardia e Veneto, dopo un referendum dirompente che tutti hanno sottovalutato, secondo Sechi vogliono l’autonomia differenziata per avere il controllo delle risorse. «Questo fa ancora parte dell’immaginario del Nord ed è anche il patto fondativo della prima Lega di Bossi con il suo elettorato di riferimento. Salvini lo sa e deve fare presto». Ma quella Lega non s’era pensato che non esistesse più? «Al Nord esiste, eccome. Alle imprese di Lombardia e Veneto non importa nulla o molto poco del partito nazionale che ha in mente Salvini». La nuova Lega sembra importare a Salvini, «ma per altre ragioni, che non interessano i ceti produttivi». E cioè: «Salvini prende i voti del Sud sulla sicurezza e sull’idea di una leadership forte. Per il Nord l’autonomia differenziata è un’assicurazione sulla vita in tempo di recessione, una salvaguardia contro lo spreco di soldi al Sud».L’eventuale statuto autonomo del Nord-Est spaccherebbe l’Italia? «Ma l’Italia è già spaccata», risponde Sechi: «Basta scendere sotto Firenze per vedere un altro paese. Anzi, la vera riuscita del governo gialloverde sarebbe proprio quella di tenere insieme il Sud in cerca di occupazione e il Nord produttivo. La novità, semmai, è un’altra ed è lo scontro generato dalla gestione condominiale». Dovuto a che cosa? «A un imprevisto che ha cambiato i piani iniziali: i voti di Salvini sono destinati a crescere anche al Sud». E sono cifre importanti, sottolinea Sechi. «Ma siccome il voto ravvicinato Salvini non lo avrà, e forse segretamente nemmeno lo vuole perché è troppo rischioso, si tratterà di vedere se e come il suo consenso al Sud si consolida nel tempo». E poi, ricorda Ferraù, per andare al voto occorre un capo dello Stato disposto a sciogliere le Camere. Infatti: «Senza il sì del Quirinale è da pazzi lanciarsi in una crisi al buio». Quindi, conclude Sechi, in queste condizioni «a Salvini resta solo una cosa da fare, perdere tempo per prendere tempo. Il tempo che gli serve per dare l’autonomia al Nord».E con le europee, si domanda Ferraù, cosa potrà cambiare? Il voto di maggio, dice Sechi, «può essere lo spartiacque se le cose vanno molto male ai 5 Stelle, anche se – aggiunge – non credo che accadrà». I grillini potrebbero avere una flessione, «ma non eccessiva, perché tutto il Sud sta aspettando il reddito». Altra mina, l’autorizzazione a procedere contro Salvini per lo sbarco ritardato dei migranti della Diciotti. «Mi auguro che venga respinta», dichiara Sechi, perché «per i pentastellati, votarla sarebbe un suicidio politico». Però, aggiunge, «è vero che sono capaci di tutto». E la Tav valsusina? Alla fine si farà o resterà nel congelatore? Dipende, ragiona Sechi: «I grillini avevano detto che avrebbero chiuso l’Ilva e l’Ilva è aperta; il Tap non si doveva fare e si fa». Insomma, «non mi sorprenderei se anche sulla Tav si trovasse un compromesso». Da parte sua, «Salvini ci starebbe». E con la Francia si può sempre trattare. «Il tema vero – insiste Sechi – è cosa succede nella base a 5 Stelle con il sì alla Tav e nel voto pro-Lega al Nord con il no all’opera. Il rischio del cortocircuito è molto grande, ma torniamo all’inizio: nessuno apre una crisi se non è certo di poterla condurre».«Non stiamo facendo una bella figura», ha detto Salvini al Movimento 5 Stelle che sta bloccando il riconoscimento di Guaidó come presidente del Venezuela. Il ministro dell’interno non ha perso l’occasione per replicare all’alleato di governo dopo che Di Maio ha sonoramente bocciato le aperture sulla Tav del collega vicepremier. «Che si tratti di Venezuela, di Torino-Lione o di caso Diciotti – scrive Federico Ferraù sul “Sussidiario” – tra M5S e Lega sembra si sia toccato un punto di non ritorno». Ma secondo Mario Sechi, direttore di “List”, è la mancanza di alternative a consolidare, almeno per ora, la coabitazione a Palazzo Chigi. Con tre variabili: la crisi, l’autonomia differenziata e i voti al Sud. Davvero non c’è tregua: «C’è tanto rumore: per nulla, aggiungerei», dice Sechi, intervistato da Ferraù. «In un sistema normale i governi vanno in crisi, ma qui di normale c’è ben poco». Ovvero: «Siamo in una situazione eccezionale, con un governo di necessità». Realismo: «Questo esecutivo è l’unico “format” disponibile, non ci sono alternative».
-
Vaccini sicuri? Falso: negli Usa, risarcimenti per 4 miliardi
Oggi mi voglio rivolgere direttamente a un ministro della Repubblica italiana. Sul finire del 2018, infatti, il ministero della sanità di Giulia Grillo ha prodotto due comunicazioni istituzionali, cioè due spot pubblicitari, nei quali si promuovono le vaccinazioni, che vengono definite “sicure” all’interno dello spot stesso. E’ Samantha Cristoforetti, chiamata a fare da testimonial in uno di questi spot governativi, a rassicurarci tutti dicendo che i vaccini sono sicuri: «Facciamo squadra per la nostra salute, i vaccini funzionano e sono sicuri». Affermare che i vaccini sono sicuri è falso, clamorosamente falso e dimostrabilmente falso: basta guardare i dati più recenti del tribunale americano per la compensazione dei danni da vaccino, la cosiddetta Vaccine Court. La tabella è aggiornata al 31 dicembre 2018, meno di un mese fa: da quando è stato creato nel 1986 ad oggi, il tribunale dei vaccini americano ha erogato oltre 4 miliardi di dollari per i danneggiati da vaccino. Quindi, se i vaccini fossero sicuri, a chi li hanno dati questi 4 miliardi di dollari? Li hanno regalati al primo che passava di lì? Ovviamente no. Comunque sia, non c’è bisogno di confrontarsi con le cifre, se uno non vuole farlo: che i vaccini siano inevitabilmente non sicuri lo stabilisce, nero su bianco, la Corte Suprema americana.Basta leggere una delle sue sentenze più famose, “Bluesewitz versus Whyeth”, una sentenza del 2011 che fu scritta proprio per proteggere in modo definitivo le case farmaceutiche dalle denunce che continuavano a piovere contro di loro per i danni provocati dai vaccini. Nella sentenza, la Corte faceva riferimento alla legge 42 del codice legale americano, dicendo: questa legge esclude ogni responsabilità da parte del produttore per le inevitabili reazioni avverse dei vaccini. Più avanti, nella sentenza, la Corte Suprema spiega il concetto: la legge stabilisce che nessuna casa produttrice di vaccini possa essere denunciata in una causa civile, a partire dal 1° ottobre 1988, per danni derivanti da menomazione o morte da vaccino, se la menomazione o la morte siano sopraggiunti da effetti collaterali che erano inevitabili (nonostante il vaccino fosse stato preparato adeguatamente e fosse accompagnato dalle corrette indicazioni e controindicazioni). In altre parole, se ti fai il vaccino – dice la Corte Suprema – ti può succedere che ti vada male, ma non per questo potrai rivalerti sulle case farmaceutiche: i danni da vaccino te li paga lo Stato. Quindi, nel tentativo di proteggere economicamente le case farmaceutiche, lo Stato federale americano ha ammesso che i vaccini non siano sicuri, e da quel giorno si è accollato ogni spesa per i danni derivanti dalle vaccinazioni.Anche in Italia funziona così: tu non puoi fare causa direttamente alle case farmaceutiche, e i danneggiati da vaccino li risarcisce lo Stato. Peccato che lo stesso Stato che si offre così generosamente di ripagarti i danni (con i soldi tuoi, sia ben chiaro) sia proprio lo Stato che i vaccini ti ha obbligato a farli. Quindi, pensate al paradosso meraviglioso in cui viviamo: le case farmaceutiche producono i vaccini e ci mettono dentro quello che vogliono, tanto loro non sono responsabili in ogni caso. Noi cittadini veniamo obbligati a farci i vaccini, che vengono pagati alle case farmaceutiche con i soldi delle nostre tasse. E poi, se a qualcuno va male, c’è sempre lo Stato (ovvero sempre noi cittadini) che ripaga i danni, con i nostri soldi. Un po’ come in Cina, dove ti condannano a morte quando gli pare e piace, poi ti fucilano, e la pallottola per la fucilazione deve pure pagarla la famiglia del condannato. Nel frattempo, con questo meccanismo perverso, le case farmaceutiche si arricchiscono da far schifo – con un business di 27 miliardi di dollari all’anno, puliti puliti – senza correre il minimo rischio: il rischio che invece corriamo noi, che siamo obbligati a mettere in gioco la salute dei nostri figli.E adesso arriva pure lo Stato, nella forma del ministero della sanità, a raccontarci che i vaccini sono sicuri. E lo fa sempre con i nostri soldi: infatti, secondo voi, con cosa li paga, il ministero della sanità, i produttori dello spot pubblicitario? Sempre con i soldi dei cittadini. Ovviamente, rispetto a questa gente, Machiavelli era un dilettante. Ecco, questo è il paradigma complessivo che andrebbe affrontato, sulla questione vaccini: cittadini obbligati a rischiare la salute dei propri figli, con la scusa di epidemie inesistenti, per arricchire le case farmaceutiche con i nostri soldi – e poi obbligati a risarcire noi stessi, sempre con i nostri soldi, se per caso qualcosa va male. Ovviamente, per affrontare un argomento del genere ci vorrebbero dei politici “con le contropalle”, che qui da noi nemmeno con il telescopio si riescono a vedere.Nel frattempo però bisogna almeno correggere questa bugia plateale che i vaccini sono sicuri. Perché fin che lo dice Burioni va bene, fa parte del gioco: lui ha scelto di stare dalla parte di Big Pharma, e quindi la bugia ci può anche stare. Ma lei, ministro, non può mentire. Lei dovrebbe essere dalla parte dei cittadini: dovrebbe proteggerli, non ingannarli. Glielo ripeto: lo scrive, nero su bianco, la Corte Suprema americana. I vaccini sono “unavoidable unsafe”, cioè inevitabilmente non sicuri. Non c’è molto da girare intorno alla traduzione di queste due parole. Quindi, cara ministra Grillo, rifaccia lo spot (che è stato pagato con i nostri soldi) e faccia dire alla Cristoforetti, chiaro e tondo, che i vaccini non sono affatto sicuri. Oppure dia le dimissioni se ne vada a casa, perché evidentemente non è in grado di gestire la responsabilità che le è stata affidata, e che riguarda in primo luogo la salvaguardia della sicurezza di tutti i nostri bambini. Lei dice sempre che bisogna fare un’informazione corretta, e poi alla prima a disinformare la popolazione dicendo in uno spot che i vaccini sono sicuri? Oppure c’è anche una terza ipotesi, volendo: rimanga al suo posto e faccia finta di niente. Questo video glielo segnaleranno almeno mille persone diverse. Ma lei faccia finta di non averlo visto. Nel qual caso, avremo tutti la certezza assoluta che lei non sta dalla parte del cittadino, ma sta anche lei dalla parte di Big Pharma – insieme ai Burioni e a tanti altri ignoranti, che non sono nemmeno in grado di leggere una sentenza della Corte Suprema americana.(Massimo Mazzucco, video-appello “I vaccini non sono sicuri: lo dice la Corte Suprema americana”, rivolto al ministro della salute Giulia Grillo. Pubblicato su YouTube, l’appello è ripreso dal blog “Luogo Comune” il 30 gennaio 2019).Oggi mi voglio rivolgere direttamente a un ministro della Repubblica italiana. Sul finire del 2018, infatti, il ministero della sanità di Giulia Grillo ha prodotto due comunicazioni istituzionali, cioè due spot pubblicitari, nei quali si promuovono le vaccinazioni, che vengono definite “sicure” all’interno dello spot stesso. E’ Samantha Cristoforetti, chiamata a fare da testimonial in uno di questi spot governativi, a rassicurarci tutti dicendo che i vaccini sono sicuri: «Facciamo squadra per la nostra salute, i vaccini funzionano e sono sicuri». Affermare che i vaccini sono sicuri è falso, clamorosamente falso e dimostrabilmente falso: basta guardare i dati più recenti del tribunale americano per la compensazione dei danni da vaccino, la cosiddetta Vaccine Court. La tabella è aggiornata al 31 dicembre 2018, meno di un mese fa: da quando è stato creato nel 1986 ad oggi, il tribunale dei vaccini americano ha erogato oltre 4 miliardi di dollari per i danneggiati da vaccino. Quindi, se i vaccini fossero sicuri, a chi li hanno dati questi 4 miliardi di dollari? Li hanno regalati al primo che passava di lì? Ovviamente no. Comunque sia, non c’è bisogno di confrontarsi con le cifre, se uno non vuole farlo: che i vaccini siano inevitabilmente non sicuri lo stabilisce, nero su bianco, la Corte Suprema americana.
-
Ferrajoli: decreto Salvini, disobbedire è un dovere morale
Il rifiuto dei sindaci di applicare il decreto Salvini è un atto ammirevole di disobbedienza civile e di obiezione di coscienza e vale a svelarne il carattere «disumano e criminogeno», secondo le parole del sindaco Orlando. E rappresenta una forte presa di posizione istituzionale in difesa dei diritti umani dei migranti. Aggiungo, per chi non condivide statalismo etico e gius-positivismo ideologico, cioè la confusione autoritaria tra diritto e morale e l’appiattimento della morale sul diritto quale che sia, che la disobbedienza civile alla legge palesemente ingiusta è un dovere morale. Ovviamente, al prezzo delle conseguenze giuridiche alle quali si espongono i disobbedienti. Ma qui non siamo di fronte a un semplice atto morale di obiezione di coscienza. L’obiezione, in questo caso, è motivata dalla convinzione del carattere incostituzionale del decreto perché lesivo dei diritti fondamentali delle persone. Naturalmente i sindaci non possono disapplicare la legge e neppure promuovere essi stessi la questione di illegittimità di fronte alla Corte Costituzionale. L’accesso alla Corte per ottenere una pronuncia di illegittimità della legge è tuttavia possibile.Esso è previsto nel corso di un giudizio, qualora il giudice ritenga la questione non manifestamente infondata e, inoltre, su iniziativa di una Regione, qualora essa ritenga che la legge statale o una sua parte invada la sfera delle sue competenze. Ci sono pertanto tre strumenti di tutela dei diritti fondamentali che potranno essere utilizzati contro l’applicazione di questa legge disumana e immorale. Il primo è affidato all’iniziativa degli stessi migranti, i cui diritti sono dalla legge vistosamente lesi. Consiste nell’attivazione della procedura d’urgenza prevista dall’articolo 700 del codice di procedura civile, secondo il quale «chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d’urgenza che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito».In questo caso il «provvedimento d’urgenza» che i migranti possono chiedere al giudice per opporsi alla minaccia di «un pregiudizio imminente e irreparabile» ai loro diritti fondamentali è precisamente l’eccezione di incostituzionalità che lo stesso giudice ha il potere di promuovere davanti alla Corte Costituzionale contro le norme del decreto che ledono o minacciano tali diritti, tutti costituzionalmente stabiliti. Il secondo strumento è affidato all’iniziativa delle Regioni e richiede la deliberazione delle rispettive giunte regionali. È infatti indubbio che il decreto cosiddetto «sicurezza», sopprimendo il permesso di soggiorno per motivi umanitari, ha trasformato decine di migliaia di migranti in clandestini irregolari, privandoli di fatto delle garanzie dei loro diritti fondamentali, a cominciare dai diritti alla salute e all’istruzione. Ebbene, sia l’istruzione che la tutela della salute, secondo il terzo comma dell’articolo 117 della nostra Costituzione, sono «materie di legislazione concorrente» tra Stato e Regioni. Le norme del decreto che direttamente o indirettamente incidono su tali materie appartengono perciò alla competenza legislativa, sia pure concorrente, delle Regioni.Non solo. L’assistenza sociale, che il decreto Salvini rende impossibile a favore dei migranti da esso ridotti allo stato di clandestini, è materia di competenza esclusiva delle Regioni: una competenza esclusiva ribadita più volte dalla Corte Costituzionale, intervenuta in sua difesa con svariate pronunce (sentenze n. 300 del 2005; n. 156 del 2006; n. 50 del 2008; n. 124 del 2009; nn. 10, 134, 269 e 299 del 2010; nn. 40, 61 e 329 del 2011) contro le invadenze dello Stato. Di qui la legittimazione delle Regioni, prevista dall’articolo 127, 2° comma della Costituzione, a sollevare sul decreto Salvini la questione di legittimità costituzionale della legge di conversione, entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 3 dicembre 2018. Ci sono ancora, in Italia, molte regioni governate da maggioranze democratiche, dal Lazio al Piemonte, dall’Emilia alla Toscana, dalle Marche alla Campania, dalle Puglie alla Calabria. La loro disponibilità a promuovere la questione davanti alla Corte Costituzionale sarà il banco di prova di quanto, al di là delle parole, queste Regioni a guida democratica intendono prendere sul serio i principi costituzionali. Infine c’è una terza via di accesso alla giustizia costituzionale, percorribile dagli stessi sindaci che hanno deciso di non dare applicazione al decreto Salvini.Oltre alla strada intrapresa dal sindaco Orlando – l’azione di accertamento, già sperimentata in materia elettorale, davanti al giudice civile perché questi chieda alla Corte Costituzionale se la legge è conforme o meno alla Costituzione – i sindaci disobbedienti potranno, qualora i loro provvedimenti venissero annullati dai prefetti, impugnare gli atti di annullamento di fronte ai Tar, cioè ai tribunali amministrativi, e, in quella sede, proporre l’eccezione di incostituzionalità delle norme da essi ritenute incostituzionali. Insomma, la battaglia in difesa della Costituzione è nuovamente aperta, grazie alla coraggiosa iniziativa dei sindaci antirazzisti. Ciò che ora occorre è una mobilitazione di massa a loro sostegno e a salvaguardia, di nuovo, della Costituzione della Repubblica, già difesa dal 60% degli elettori nel referendum costituzionale di poco più di un anno fa e oggi tradita dai nuovi governanti. Questa volta è in questione assai più della tenuta o della modifica delle regole formali sul funzionamento dei nostro organi di governo. Sono in gioco – direttamente – tutti i principi sostanziali della nostra democrazia: l’uguaglianza, la dignità delle persone, il rifiuto delle discriminazioni razziste, la solidarietà, i diritti fondamentali di tutti, la civile e pacifica convivenza.(Luigi Ferrajoli, “Disobbedire è un dovere morale. Gli strumenti contro il decreto Salvini ci sono. Serve mobilitarsi”, da “Il Manifesto” del 6 gennaio 2019).Il rifiuto dei sindaci di applicare il decreto Salvini è un atto ammirevole di disobbedienza civile e di obiezione di coscienza e vale a svelarne il carattere «disumano e criminogeno», secondo le parole del sindaco Orlando. E rappresenta una forte presa di posizione istituzionale in difesa dei diritti umani dei migranti. Aggiungo, per chi non condivide statalismo etico e gius-positivismo ideologico, cioè la confusione autoritaria tra diritto e morale e l’appiattimento della morale sul diritto quale che sia, che la disobbedienza civile alla legge palesemente ingiusta è un dovere morale. Ovviamente, al prezzo delle conseguenze giuridiche alle quali si espongono i disobbedienti. Ma qui non siamo di fronte a un semplice atto morale di obiezione di coscienza. L’obiezione, in questo caso, è motivata dalla convinzione del carattere incostituzionale del decreto perché lesivo dei diritti fondamentali delle persone. Naturalmente i sindaci non possono disapplicare la legge e neppure promuovere essi stessi la questione di illegittimità di fronte alla Corte Costituzionale. L’accesso alla Corte per ottenere una pronuncia di illegittimità della legge è tuttavia possibile.
-
Latouche: consumatori perfetti, cioè infelici. Serviamo così
L’espressione “decrescita felice” suscita ancora oggi molta perplessità. E’ un equivoco tutto italiano. Io non ho mai usato questa espressione. La decrescita ha un significato preciso e parte dall’assunto che noi viviamo in un mondo finito e con risorse finite. La seconda legge della termodinamica ci dice che se bruciamo 10 litri di benzina essa “non si distrugge”, ma non la possiamo nemmeno più riutilizzare come forma di energia. Come forma di energia la benzina se n’è andata per sempre. E la benzina, che è un derivato del petrolio, è un combustibile limitato, cioè finito. Queste sono cose che capirebbe anche un bambino, ma gli economisti no, si rifiutano di includere nell’economia questo aspetto determinante per il nostro futuro. Pertanto, io ritengo che siamo giunti ad un punto cruciale, che impone il non-sviluppo. Purtroppo la stragrande maggioranza dei mass media e delle persone è indotta a pensare il contrario, e cioè che sia necessario produrre sempre di più. Per farlo, tuttavia, è necessario che le persone siano infelici. Le persone felici, infatti, non hanno interesse a consumare, nel senso che consumano solo ciò che è strettamente necessario, e non acquistano cose per noia e frustrazione, come accade oggi. Ma il mercato è proprio di questa frustrazione che ha bisogno, se vuole crescere.Dunque, io vedo la felicità come una cosa lontana dalla crescita e, sotto molti punti di vista, in antitesi allo sviluppo. Più cresciamo senza che ce ne sia bisogno, più siamo infelici. Il concetto di felicità inteso come accumulo e consumo, comunque, è piuttosto recente, e risale agli ultimi tre secoli, che non a caso sono i secoli dell’industrializzazione. Prima, il concetto di beatitudine prevaleva su quello di felicità che, per certi punti di vista, nemmeno esisteva. Quando le risorse erano scarse, la frugalità era un valore. Ora che le risorse sono ritenute abbondanti il consumo, invece, è diventato il valore per eccellenza. Io propongo di tornare ad un modello frugale, è vero, ma non può essere questa una mera nostalgia per una mitica età bucolica. Al tempo stesso, però, è molto stupido e bugiardo ritenere che non ci sia mai stata nella storia dell’umanità un’era della frugalità conforme alla natura umana, ai suoi ritmi e ai suoi bisogni. Anzi! Per centinaia di migliaia di anni, cioè per la maggior parte del tempo della nostra storia, l’uomo è stato cacciatore-raccoglitore, e lavorava 2-3 ore al giorno. Il resto del tempo si interessava alle relazioni sociali e al gioco.Dunque, noi oggi lavoriamo quasi il triplo dei nostri predecessori per motivi legati alla crescita fine a se stessa, ma non perché ciò sia necessario alla nostra sopravvivenza, e tanto meno per la nostra felicità. Se la produzione agricola diminuisce secondo un modello di decrescita, com’è possibile mantenere alti standard di quantità e qualità alimentare? L’agricoltura è stata industrializzata a partire dal Settecento. Prima della rivoluzione agricola e industriale c’erano dei terreni comuni, cioè terreni di tutti, dove si pascolava il bestiame (openfield). Poi, in Inghilterra sono arrivate le recinzioni (enclosures) che hanno responsabilizzato i coltivatori, hanno aumentato la superficie coltivabile e implementato l’ambizione del proprietario della terra. Ciò ha determinato una grave crisi per quel modello contadino, basato sull’economia di villaggio, il dono e la solidarietà. Si può recuperare qualcosa del modello “openfiled” senza però gettare vie le conquiste fatte in questi secoli in termini di progresso? Ci sono molte proposte, ma la più credibile e percorribile è quella dell’agricoltura biologica, perchè riduce al minimo gli sprechi e consente anche di salvare i beni comuni dalla privatizzazione.Per beni comuni intendo realtà materiali come ovviamente l’aria e l’acqua, ma anche beni non legati alla natura, come i trasporti, l’istruzione e la salute. La decrescita prende atto che lo sviluppo per lo sviluppo non ha senso. Lo sviluppo ha senso solo se soddisfa determinati bisogni, altrimenti diventa una religione: la religione dell’economia. Se guardo alla mia personale biografia devo ammettere che anch’io ero caduto nell’errore di pensare che la crescita produttiva fosse sempre e comunque positiva. Ho lavorato in Africa, ad esempio, e anche da quell’esperienza mi sono reso conto che nel tentativo di industrializzare l’Africa stavamo facendo lo stesso errore fatto in Unione Sovietica, che infatti si è rivelato un errore grave perché quel tipo di comunismo ha cercato di combattere il capitalismo sul suo stesso terreno, e cioè quello della produttività fine a se stessa. Tra le dottrine economiche elaborate negli ultimi secoli, marxismo e Keynes rappresentano senza dubbio alternative che mi piacciono, se non altro perché mirano a risolvere la disoccupazione, che è l’arma attraverso la quale il capitale alimenta se stesso producendo precarietà, e dunque ricatto (e il consumismo, che come detto si basa sull’infelicità e l’insoddisfazione).Detto questo, tuttavia, è più corretto pensare alla decrescita più come ad una “mentalità”, ad un salto culturale, che non come ad un’alternativa qualsiasi al modo di produzione. Il pensiero liberale si è imposto come cambio di paradigma ed è basato su un’autoregolazione del mercato che esiste solo nella fantasia, come quella di una “mano” che non si vede. Concetti come “decrescita” e “frugalità” hanno a che fare con il concetto di limite, un concetto che aveva un grande valore nell’antica Grecia e che oggi è stato sostituito dal suo opposto: l’illimitato. Per recuperare il limite come valore è necessario tornare alle poleis greche, cioè al comunitarismo? Io sono un fiero avversario dell’universalismo, cioè di quella ideologia secondo la quale ci sono valori assoluti determinatisi in Occidente ed esportabili in tutto il mondo. Pertanto, credo che le comunità locali siano una valida risposta alla globalizzazione del mercato, che è la nuova veste assunta dall’imperialismo, seppur più subdola e pericolosa di altre ideologie del passato.La Terra è un pianeta con un ecosistema finito, ma l’universo ci vene raccontato come infinito, o perlomeno in espansione. Si può sostenere che il concetto di limite sia dato da limiti umani che verranno a breve superati, oppure anche l’universo ha dei limiti? La fisica non sostiene affatto che l’universo sia infinito, ma a prescindere da questo non è stato ancora detto come trasportare gli esseri umani, probabilmente tutti, e cioè 7 miliardi, nel pianeta vivibile più vicino. Secondo alcuni, il pianeta vivibile più vicino si trova a decenni di anni luce dalla Terra, e non è nemmeno sicuro che sia idoneo alla nostra sopravvivenza. Inoltre, nessuno è ancora in grado di dirci con quale tipologia di carburante si potrà inaugurare una simile Arca della salvezza. L’ipotesi transumanista non è percorribile al momento e, direi, non è nemmeno auspicabile. Qual è lo stato dell’arte del progetto sulla decrescita? Ad alti livelli il dibattito – anche in Francia – è zero, nel senso che non se ne parla e non se ne vuol parlare tra istituzioni e politici, e stessa cosa dicasi per il mondo accademico. Diverso il discorso per l’ambito culturale, tra le associazioni e tra le persone comuni. Temo però che a prescindere dal dibattito, il collasso del sistema sia dietro l’angolo e che quindi poi il cestino, a cose fatte, ci farà esclamare: “Troppo tardi, coglioni!”.(Serge Latouche, dichiarazioni rilasciate in una recente conferenza a Sernaglia della Battaglia, Treviso, moderata e condotta da Massimo Bordin, che ha riportato il testo integrale della conversazione del suo blog, “Micidial”, il 9 novembre 2018).L’espressione “decrescita felice” suscita ancora oggi molta perplessità. E’ un equivoco tutto italiano. Io non ho mai usato questa espressione. La decrescita ha un significato preciso e parte dall’assunto che noi viviamo in un mondo finito e con risorse finite. La seconda legge della termodinamica ci dice che se bruciamo 10 litri di benzina essa “non si distrugge”, ma non la possiamo nemmeno più riutilizzare come forma di energia. Come forma di energia la benzina se n’è andata per sempre. E la benzina, che è un derivato del petrolio, è un combustibile limitato, cioè finito. Queste sono cose che capirebbe anche un bambino, ma gli economisti no, si rifiutano di includere nell’economia questo aspetto determinante per il nostro futuro. Pertanto, io ritengo che siamo giunti ad un punto cruciale, che impone il non-sviluppo. Purtroppo la stragrande maggioranza dei mass media e delle persone è indotta a pensare il contrario, e cioè che sia necessario produrre sempre di più. Per farlo, tuttavia, è necessario che le persone siano infelici. Le persone felici, infatti, non hanno interesse a consumare, nel senso che consumano solo ciò che è strettamente necessario, e non acquistano cose per noia e frustrazione, come accade oggi. Ma il mercato è proprio di questa frustrazione che ha bisogno, se vuole crescere.
-
Tumori: le città Usa contro il wireless 5G, in arrivo in Italia
America dei controsensi: dal 1° ottobre il sistema 5G è regolarmente in funzione a Houston, Indianapolis, Los Angeles e Sacramento, ma c’è pure chi s’è sfilato e ha detto “no”. Se a Doylestown (Pennsylvania) da più d’un anno i funzionari rimbalzano tra le aule dei tribunali statali e federali per opporsi alla massiccia invasione di mini-antenne di quinta generazione, dopo le città di San Anselmo e Ross, anche il Comune di Mill Valley (sempre in California) ha deciso di fermare il 5G: «Troppo inquinamento elettromagnetico, esiste un fondato pericolo per la salute pubblica». Ricevute le protesta dei cittadini, scrive “Terra Nuova”, i municipi hanno infatti bloccato l’installazione del wireless del 5G per salvaguardare «la salute e la sicurezza della comunità». Lo stesso è accaduto a Palm Beach, in Florida, perché – sostengono i maligni – vi risiede nientemeno che il presidente Donald Trump, che pare non gradisca vivere in un groviglio di radiofrequenze. «Fatto sta che, numeri alla mano, solo in fase sperimentale oltre l’Atlantico sono già quattro le città che faranno (volentieri) a meno dei 20 Gigabit al secondo in download». Come ricorda anche l’Agcom, aderire al 5G significa garantire infrastrutture in grado di sostenere fino un milione di dispositivi connessi contemporaneamente per chilometro quadrato.Tradotto: irradiazioni di microonde millimetriche ovunque, non più solo dalle stazioni radio sui tetti dei palazzi (in Italia già 60.000) ma anche dai vecchi pali della luce «riconvertiti in ubiquitari Wi-Fi, uno ogni poche decine di metri, ovunque». Enel X, aggiunge “Terra Nuova”, ne ha annunciati poco meno di 2 milioni, distribuiti nei su 3.300 Comuni italiani. Con quali effetti per la salute? «Le prime evidenze che stanno venendo fuori dalla sperimentazione del 5G sono abbastanza preoccupanti», sostiene Agostino Di Ciaula, presidente di Isde-Italia (Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica, che ha già chiesto al governo Conte – inutilmente – una moratoria, per il nostro paese». Secondo Di Ciaula, «sono state segnalate alterazione dell’espressione genica, effetti sulla cute, effetti sulla proliferazione cellulare, sulla sintesi di proteine, sui processi infiammatori». Dati di fatto «ormai consolidati», secondo Di Ciaula: «Le onde elettromagnetiche ad alta frequenza causano effetti biologici soprattutto in termini di plesso ossidativo, che è alla base di numerose patologie croniche e dello stesso cancro». L’esposizione a onde come quelle fel 5G può danneggiare l’estensione del genoma e causare rischi in termini di fertilità, oltre che conseguenze neurologiche.«Ci sono numerosissime evidenze che documentano danni nello sviluppo, comportamentali, persino danni metabolici», aggiunge Di Ciaula. Sull’ipotesi di revisione da parte dell’Oms sulla “cancerogenesi da elettrosmog”, lo stesso Isde puntializza: «Il cancro è una evenienza che sembra molto probabile, ma è soltanto la vetta dell’iceberg». Secondo “Terra Nuova”, sono troppe le cose non dette, in materia: «Tra l’imbarazzante silenzio di amministratori locali, istituzioni regionali, politica e governo nazionale – non a caso anche mainstream e stampa faticano a informare l’opinione pubblica sullo scontro (titanico) in atto tra i massimi organismi di controllo sanitari del mondo – l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro dovrà esprimersi sulla richiesta di revisione nella classificazione della radiofrequenze tra gli agenti cancerogeni». Secondo il newsmagazine ecologista, sarà un “terremoto” per il business 5G se la connessione elettrosmog-salute passerà dall’attuale livello (Classe 2B) alla Classe 2A o addirittura alla Classe 1, venendo cioè elevata da “possibile” a “probabile”, se non addirittura “certo” agente cancerogeno.La partita, aggiunge “Terra Nuova”, s’è riaperta proprio in questi giorni, con i risultati degli studi americani del National Toxicology Program e dell’Istituto Ramazzini di Bologna, bollati però come «non convincenti» dalla Commissione Internazionale per la Tutela dalle Radiazioni non Ionizzanti (Icnirp), che li ha definiti «studi che non forniscono un corpus di prove coerenti, attendibili e generalizzabili che possano essere utilizzate come base per la revisione delle attuali linee guida sull’esposizione umana». Sono davvero necessarie ulteriori ricerche? Non s’è fatta attendere la risposta degli scienziati chiamati in causa, «spartiacque in un’invisibile lotta tra negazionisti e precauzionisti che già in passato s’è macchiata di anomalie, scandali e conflitti d’interesse». Un’ombra che, secondo “Terra Nuova”, ancora oggi grava sulla tesi di quanti – anche davanti l’evidenza negli aggiornamenti e del numero degli “elettrosensibili” in crescita – si ostinano a considerare solo gli effetti termici (escludendo danni biologici da elettrosmog).«I nostri studi sono stati ben eseguiti e senza pregiudizi sui risultati», assicura Fiorella Belpoggi, direttrice della ricerca condotta per il Ramazzini: si tratta dell’indagine attualmente più importante al mondo, non finanziata dalle lobby del wireless né da privati, ma da enti pubblici. Dieci lunghi anni di studi e test, condotti su cavie “uomo-equivalenti”, che hanno permesso di riscontrare «gravi tumori maligni al cervello», oltre che l’insorgenza di infarti cardiaci. Ora, certo, la sanità pubblica dovrà valutare lo studio e trarne le conclusioni: il ruolo degli scienziati “finisce” nel momento in cui alle autorità si forniscono i dati accertati, che in questo caso rivelano la presenza di un rischio concreto e allarmante. «La sottostima delle prove dei biotest sui cancerogeni e i ritardi nella regolamentazione – osserva la dottoressa Belpoggi – hanno già dimostrato molte volte di avere gravi conseguenze, come nel caso dell’amianto, del fumo e del cloruro di vinile». La posizione ultra-prudente dell’Icnirp? Per Fiorella Belpoggi si commenta da sé, visto che sottovaluta gli evidentissimi rischi per la salute dei cittadini.America dei controsensi: dal 1° ottobre il sistema 5G è regolarmente in funzione a Houston, Indianapolis, Los Angeles e Sacramento, ma c’è pure chi s’è sfilato e ha detto “no”. Se a Doylestown (Pennsylvania) da più d’un anno i funzionari rimbalzano tra le aule dei tribunali statali e federali per opporsi alla massiccia invasione di mini-antenne di quinta generazione, dopo le città di San Anselmo e Ross, anche il Comune di Mill Valley (sempre in California) ha deciso di fermare il 5G: «Troppo inquinamento elettromagnetico, esiste un fondato pericolo per la salute pubblica». Ricevute le protesta dei cittadini, scrive “Terra Nuova”, i municipi hanno infatti bloccato l’installazione del wireless del 5G per salvaguardare «la salute e la sicurezza della comunità». Lo stesso è accaduto a Palm Beach, in Florida, perché – sostengono i maligni – vi risiede nientemeno che il presidente Donald Trump, che pare non gradisca vivere in un groviglio di radiofrequenze. «Fatto sta che, numeri alla mano, solo in fase sperimentale oltre l’Atlantico sono già quattro le città che faranno (volentieri) a meno dei 20 Gigabit al secondo in download». Come ricorda anche l’Agcom, aderire al 5G significa garantire infrastrutture in grado di sostenere fino un milione di dispositivi connessi contemporaneamente per chilometro quadrato.
-
Miliardi dal traffico di esseri umani: manette alla Ong greca
Il 28 di agosto trenta membri della Ong greca “Centro Internazionale di Risposta alle Emergenze” (Erci) sono stati arrestati per il loro coinvolgimento nella rete del traffico di esseri umani che opera nell’isola di Lesbo fin dal 2015. Secondo una dichiarazione rilasciata dalla polizia greca, in seguito alle indagini che hanno portato agli arresti, «le attività di una rete criminale organizzata che facilitava sistematicamente l’ingresso illegale di stranieri, sono state portate totalmente alla luce». Tra le attività scoperte ci sono la falsificazione, lo spionaggio e il monitoraggio illegale sia della Guardia Costiera greca sia dell’agenzia di confine Ue, Frontex, allo scopo di ottenere informazioni confidenziali sui flussi di immigrati turchi. Le indagini hanno inoltre portato alla scoperta di altri sei cittadini greci e 24 cittadini stranieri implicati nei reati. L’Erci si autodescrive come «un’organizzazione greca senza scopo di lucro che fornisce risposte alle emergenze e aiuti umanitari in tempo di crisi». La filosofia di Erci è di «identificare le lacune negli aiuti umanitari e colmarle, per fornire assistenza nella maniera più efficiente e impattante». Al momento «Erci ha 4 programmi attivi con i rifugiati in Grecia, nell’area di ricerca e salvataggio, medica, nell’istruzione e nel coordinamento dei campi di rifugiati».Tuttavia, a dispetto della sua missione dichiarata e del suo profilo senza scopo di lucro, la Erci – secondo le autorità greche – ha guadagnato una quantità di denaro considerevole grazie al fatto di essersi messa a disposizione come collegamento al servizio di attività illegali. L’Erci a quanto pare ha ricevuto 2.000 euro per ogni migrante illegale che ha aiutato ad entrare in Grecia. Inoltre, i suoi membri hanno creato un business per “l’integrazione dei rifugiati” nella società greca, assicurandosi 5.000 euro all’anno per ogni immigrato da diversi programmi governativi (nell’istruzione, nell’alloggio e nel sostentamento). L’Erci avrebbe favorito l’ingresso illegale in Grecia di 70.000 immigrati a partire dal 2015, facendo incassare all’organizzazione “no-profit” mezzo miliardo di euro all’anno. Tuttavia questa scoperta non rivela che una piccola parte dell’estensione delle attività illecite che gravitano intorno all’ingresso di immigrati in Grecia. Nel 2017, per esempio, le autorità greche hanno arrestato 1.399 trafficanti di esseri umani, alcuni dei quali si celavano dietro operazioni “umanitarie”; e durante i primi quattro mesi del 2018, le autorità hanno arrestato 25.594 immigrati illegali.Ancora più preoccupante del prezzo decisamente salato pagato ai trafficanti di persone dagli immigrati stessi – o dal governo greco sotto forma di sussidi per l’integrazione – è il pesante tributo che questa situazione sta imponendo a tutta la società greca. Secondo le statistiche della polizia greca, ci sono state 75.707 rapine e furti nel 2017. Di questi casi, solo 15.048 sono stati risolti, e 4.207 sono stati commessi da stranieri. Inoltre, la polizia stima che più del 40% dei crimini gravi sono commessi da immigrati illegali (in Grecia gli immigrati – legali e illegali – rappresentano il 10-15% della popolazione totale). Nel 2016, le prigioni greche contenevano 4.246 greci e 5.221 stranieri condannati per crimini gravi: 336 per omicidio, 101 per tentato omicidio, 77 per stupro e 635 per rapina. Inoltre, migliaia di casi erano in attesa di giudizio. In un recente e drammatico caso, il 15 agosto, uno studente di college di 25 anni di Atene – mentre era in visita a casa dagli studi all’università di Scozia – è stato ucciso da tre immigrati illegali mentre era in giro a visitare la città con una sua amica portoghese.I tre colpevoli, due pakistani e un iracheno di età compresa tra i 17 e i 28 anni, hanno detto alla polizia di aver inizialmente assalito la giovane donna, rubandole denaro, carte di credito, un passaporto e un telefono cellulare dalla borsetta, ma quando hanno visto che il suo cellulare era “vecchio” hanno puntato al cellulare del ragazzo, minacciandolo con un coltello. Quando questi ha cercato di difendersi, hanno dichiarato nella confessione, lo hanno spinto e lui è caduto da una rupe, incontrando la morte. Dopo l’interrogatorio, è emerso che i tre assassini erano già ricercati per 10 altre rapine nella stessa zona. In una lettera di protesta indirizzata al primo ministro greco Alexis Tsipras, ai membri del Parlamento e al sindaco di Atene, la madre della vittima ha accusato Tsipras di “negligenza criminale” e di “complicità” nell’uccisione di suo figlio. «Invece di dare il benvenuto e fornire “terra e acqua” a ogni criminale o individuo pericoloso dagli istinti selvaggi», ha scritto, «lo Stato non dovrebbe forse pensare prima alla sicurezza dei suoi stessi cittadini, a cui succhia il sangue tutti i giorni [economicamente]? [Lo Stato dovrebbe forse] abbandonare [i cittadini] a bande fameliche, per le quali la vita umana vale meno di un telefono cellulare o una catenina d’oro?». Anche se queste sono le parole di una madre in lutto, questi sentimenti sono diffusi e si manifestano in tutta la Grecia, dove incidenti simili sono sempre più comuni.Il 29 agosto, due settimane dopo l’omicidio, nel nord della Grecia sei immigrati hanno assalito verbalmente un uomo di 52 anni in strada, apparentemente senza motivo. Quando questi ha continuato a camminare ignorandoli, uno di loro lo ha pugnalato alla scapola con un coltello da 24 centimetri, mandandolo all’ospedale. Due giorni prima, il 27 agosto, circa 100 immigrati, che protestavano per le condizioni di vita nel loro campo a Malakasa, hanno bloccato l’autostrada statale per più di tre ore. I guidatori bloccati sulla strada hanno detto che alcuni manifestanti si sono infuriati, bersagliando le auto a colpi di bastone. A peggiorare la situazione, la polizia intervenuta sulla scena ha detto di non aver ricevuto istruzioni dal ministero della protezione civile di sgomberare l’autostrada o proteggere le vittime. Dopo ulteriori indagini, “Gatestone” ha scoperto che non c’è stata alcuna dichiarazione da parte della polizia o del ministero, solo le dichiarazioni dei cittadini. Mentre a quanto pare il governo greco non ha la più pallida idea di come gestire la crisi migratoria e salvaguardare la sicurezza dei suoi cittadini, è particolarmente sconcertante scoprire che le principali Ong, il cui mandato è dare aiuti umanitari agli immigrati, approfittano invece della situazione per trarre profitto da questo traffico illegale. Il recente arresto dei membri dell’Erci evidenzia la necessità di mettere sotto esame tutte le organizzazioni di questo tipo.(Maria Polizoidou, “La Ong greca che guadagna miliardi dal traffico illegale di esseri umani”, post apparso su “Zero Hedge” e ripreso da “Voci dall’Estero” il 15 settembre 2018. Maria Polizoidou, reporter, è una giornalista radiofonica e consulente per gli affari internazionali ed esteri, residente in Grecia. Ha un master in “Geopolitica e problemi di sicurezza nel complesso islamico di Turchia e Medio Oriente” presso l’università di Atene).Il 28 di agosto trenta membri della Ong greca “Centro Internazionale di Risposta alle Emergenze” (Erci) sono stati arrestati per il loro coinvolgimento nella rete del traffico di esseri umani che opera nell’isola di Lesbo fin dal 2015. Secondo una dichiarazione rilasciata dalla polizia greca, in seguito alle indagini che hanno portato agli arresti, «le attività di una rete criminale organizzata che facilitava sistematicamente l’ingresso illegale di stranieri, sono state portate totalmente alla luce». Tra le attività scoperte ci sono la falsificazione, lo spionaggio e il monitoraggio illegale sia della Guardia Costiera greca sia dell’agenzia di confine Ue, Frontex, allo scopo di ottenere informazioni confidenziali sui flussi di immigrati turchi. Le indagini hanno inoltre portato alla scoperta di altri sei cittadini greci e 24 cittadini stranieri implicati nei reati. L’Erci si autodescrive come «un’organizzazione greca senza scopo di lucro che fornisce risposte alle emergenze e aiuti umanitari in tempo di crisi». La filosofia di Erci è di «identificare le lacune negli aiuti umanitari e colmarle, per fornire assistenza nella maniera più efficiente e impattante». Al momento «Erci ha 4 programmi attivi con i rifugiati in Grecia, nell’area di ricerca e salvataggio, medica, nell’istruzione e nel coordinamento dei campi di rifugiati».
-
“Lo smog annebbia il cervello”. Torino la città più inquinata
L’inquinamento può “annebbiare” le funzioni mentali e ha un impatto negativo sulle capacità cognitive che, peraltro, peggiorano con l’età. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista americana “Pnas” (Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America), condotto da un team internazionale di ricercatori tra Usa e Cina. L’analisi ha coinvolto qualcosa come 20.000 individui in Cina, dai 10 anni in su, di entrambi i sessi. «I livelli di inquinamento cui ciascun partecipante era esposto sono stati misurati in base al suo indirizzo di residenza», spiega il newsmagazine ecologista “Terra Nuova”. I ricercatori hanno tenuto conto di diverse molecole inquinanti e del “particolato fine”, quello che penetra più facilmente nelle vie respiratorie. Tutto il campione è stato sottoposto a una serie di test per valutarne le abilità matematiche e linguistiche: è emerso che queste abilità erano tanto minori, quanto maggiore era l’esposizione ad agenti inquinanti. Inoltre è stato appurato che l’impatto negativo dello smog aumenta con l’età dell’individuo, come conferma su “Bbc Health” uno degli autori del lavoro, Xi Chen, in servizio alla Yale School of Public Health.Lo studio, secondo “Terra Nuova”, conferma anche i risultati di precedenti lavori, secondo cui «essere esposti a livelli di inquinamento elevati è associato a maggior rischio di ammalarsi di demenza». Il lavoro, sia pur vasto e approfondito, non permette ancora di stabilire in modo incontrovertibile l’esistenza di una relazione di causa-effetto tra smog e abilità mentali di un individuo, né di mettere in luce eventuali meccanismi con cui l’inquinamento atmosferico nuocerebbe alla mente. Quel che è certo, in ogni caso, è che l’aria avvelenata dallo smog è una minaccia molto seria per la salute. Se l’Italia non sembra così lontana dalla media continentale, è la città di Torino a confermarsi tra le peggiori città in Europa per concentrazione di polveri sottili. Secondo l’elaborazione di Legambiente, intitolata “Che aria tira in città: il confronto con l’Europa”, basata sui dati raccolti nel rapporto dell’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, sotto la Mole si registrano 39 microgrammi per metro cubo in media. Più di quanto succeda a Milano (37) e Napoli (35), e ben 10 microgrammi in più di quanto capita a Siviglia, Marsiglia e Nizza, ferme a 29.Un dato preoccupante, scrive “Repubblica”, che fa riferimento alle stime fatte nel 2013, ma che, secondo quanto spiegato dal coordinatore dell’ufficio scientifico di Legambiente Andrea Minutolo, non è migliorato molto negli anni successivi: nel 2014 la media a Torino è stata di 35 microgrammi per metro cubo, tornata a 39 nel 2015 e scesa a 36 nel 2016. «Tutte le città italiane superano ampiamente il valore limite di 20 microgrammi/mc come media annua di Pm10 indicato dall’Oms per la salvaguardia della salute umana», confermano a Legambiente. «Queste informazioni – dice Minutolo – confermano la cronicità delle lacune per l’inquinamento atmosferico». Da quasi un anno, intanto, il pm torinese Gianfranco Colace indaga sull’inquinamento in città e in provincia, con l’ipotesi di disastro ambientale. L’inchiesta, partita da un esposto presentato dagli avvocati Marino Careglio e Giuseppe Civale, ha portato all’acquisizione della documentazione relativa alle delibere “anti smog” delle amministrazioni comunali di Torino e dell’hinterland, ma anche delle procedure d’infrazione che l’Unione Europea ha avviato nei confronti dell’Italia.L’inquinamento può “annebbiare” le funzioni mentali e ha un impatto negativo sulle capacità cognitive che, peraltro, peggiorano con l’età. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista americana “Pnas” (Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America), condotto da un team internazionale di ricercatori tra Usa e Cina. L’analisi ha coinvolto qualcosa come 20.000 individui in Cina, dai 10 anni in su, di entrambi i sessi. «I livelli di inquinamento cui ciascun partecipante era esposto sono stati misurati in base al suo indirizzo di residenza», spiega il newsmagazine ecologista “Terra Nuova”. I ricercatori hanno tenuto conto di diverse molecole inquinanti e del “particolato fine”, quello che penetra più facilmente nelle vie respiratorie. Tutto il campione è stato sottoposto a una serie di test per valutarne le abilità matematiche e linguistiche: è emerso che queste abilità erano tanto minori, quanto maggiore era l’esposizione ad agenti inquinanti. Inoltre è stato appurato che l’impatto negativo dello smog aumenta con l’età dell’individuo, come conferma su “Bbc Health” uno degli autori del lavoro, Xi Chen, in servizio alla Yale School of Public Health.
-
L’euro-pareggio di bilancio demolisce ponti anche a Berlino
Era esattamente un anno fa, l’agosto del 2017, e un prestigioso editorialista denunciava chiaro che «ponti e strade si stanno sbriciolando mentre le amministrazioni usano i fondi destinati alla manutenzione per, invece, tagliare i deficit». Bruxelles richiedeva, insaziabile, di pareggiare i bilanci anche a livello locale. Un ingegnere intervistato dal grande quotidiano addirittura tuonava: «Questa è una sirena d’allarme per l’intero paese», e il cronista aggiungeva: «Ed è anche un monumento alla crisi delle sue infrastrutture». Sì, esatto, si parlava proprio di G… No, non di Genova: di Germania, dove «una vastità di strade, ponti e palazzi pubblici sono in uno stato di degrado scioccante». La parola usata fu “scioccante”. E che non ci siano equivoci in partenza. Il più prestigioso istituto di studi economici tedesco, il Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung di Berlino, lo scrive nero su bianco: la Germania ha voluto l’euro per arricchire smisuratamente le sue élite, lasciando però nel degrado vaste porzioni del paese. Fra cui proprio le infrastrutture ‘corrose’ dai tagli ai budget nazionali e locali. Lascia increduli leggere, fra le pagine dell’istituto, che «la Germania non solo vede un terribile abbandono delle infrastrutture dei trasporti e di quelle pubbliche, ma anche in quelle scolastiche».E, di nuovo, che non ci siano equivoci sul fatto che sono le regole dell’Eurozona a imporre i tagli più sciagurati alle infrastrutture tedesche. Sempre dagli studi del Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung di Berlino: «Il governo di Angela Merkel ha imposto nel 2007 il pareggio di bilancio per legge a tutte le amministrazioni pubbliche statali e municipali. Esse non possono più spendere a deficit in nessun caso… Ma questo è stato fatto ignorando totalmente la salute economica delle comunità tedesche, che devono obbedire a questa regola severissima anche se prive di mezzi, o addirittura in crisi nera». E infatti il prestigioso quotidiano di cui all’inizio, che è il “Financial Times”, titolava così il pezzo: “Sempre più crepe nelle infrastrutture affamate di fondi in Germania”. Pausa. Prima di continuare è doveroso però dar conto di una differenza fondamentale e, dopo il Morandi, da far accapponare la pelle, fra Berlino e Roma. Cioè: abbiamo detto che anche da loro le regole di Bruxelles stanno sbriciolando ponti, strade e muri, ma almeno da loro si agisce in tempo per la pubblica sicurezza.Il grande ponte di Leverkusen sul Reno, in uno dei centri industriali più produttivi della Germania, iniziò a mostrare crepe nel 2012, sotto il peso di un flusso enorme di Tir, 14.000 al giorno. Fu chiuso all’istante al traffico dei camion senza riguardo per il caos industriale che la disposizione causò. Riaprirà nel 2020. Lo stesso per un altro ponte enorme, sempre sul Reno, il Neuenkamp, che iniziò con crepe mentre si sorbiva almeno 100.000 veicoli al giorno: chiuso, con relativo panico per le aziende della Ruhr, ma chiuso. Mostrava «danni ai tiranti»… Vengono i brividi, a leggere quella frase. Ma l’Europa non perdona, e anche Angela Merkel deve imporre tagli selvaggi e ‘chemioterapia’ di qualsiasi spesa pubblica sul territorio, quando essa sia in eccesso di un deficit dello… 0,35%, mentre oltre la metà del paese ha infrastrutture scandalose. Il Kfw, che all’incirca equivale alla nostra Cassa Depositi e Prestiti, stima che la Germania avrebbe bisogno urgente, come minimo, di 126 miliardi di euro per strade, ponti e palazzi, ma c’è il veto firmato euro. Il partito Spd di centrosinistra ha scritto in campagna elettorale: «Per troppo tempo la Germania si è fissata sul pareggio di bilancio e sulla riduzione dei deficit invece che sugli investimenti necessari, e questo è il risultato».Il meccanismo perverso è identico in Germania come in Italia: si vive nel terrore del debito, spiega ancora il Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung, e quindi «appena ci sono anche solo due soldi in cassa, gli amministratori tedeschi a tutti i livelli corrono a ridurre i deficit invece che a riparare le infrastrutture». E’ per questo che io ho denunciato come disgustoso il gran proclama di Juncker, dove l’Ue tentava di discolparsi per la tragedia di Genova dicendo che stiamo ricevendo 2,5 miliardi di fondi europei per le infrastrutture dal 2014, e che abbiamo avuto da loro un ‘permesso’ di spendere 8,5 miliardi sulle autostrade. Certo, Juncker e Ue versano 5 gocce d’acqua nel nostro lago mentre ci obbligano a prosciugarlo con un’idrovora, e poi ci dicono: «Dove l’avete messa tutta l’acqua che vi abbiamo dato?». Ipocriti criminali. E intanto i bravi tedeschi del nord, che in termini relativi sono come il nostro meridione in Germania, soffrono disagi gravi in tutto, perché strade e ferrovie sono «in uno stato di degrado scioccante» e nessuno può spendere nulla.Nella Westfalia ci sono almeno 300 ponti a rischio, stanno andando in pezzi. Se poi si parla delle regioni meno industrializzate il quadro è disastroso, sembra che dagli anni ’70 nulla sia stato toccato, dicono all’istituto di Berlino. Naturalmente sia Merkel (Cdu) che Schulz (Spd), a fronte dell’insostenibilità di questo degrado infrastrutturale, ammettono che la spesa in effetti dovrebbe aumentare, ma… solo quando le amministrazioni avranno fatto bene i loro compiti ‘Eurozona’ a casa, cioè solo quando avranno dei surplus di bilancio… il che significa pagare le infrastrutture coi soldi di cittadini e aziende invece che usando l’investimento dello Stato (surplus di bilancio = gov. ti tassa più di quanto ti dà in spesa, e quindi spende i tuoi soldi invece che i suoi). Un trucco contabile indegno, perché anche la Germania ha perso sovranità monetaria con l’euro – mica può fare come il Giappone, che al momento del bisogno con case e strade devastate dallo tsunami del 2011 ha stampato di sana pianta, e a deficit, 148 miliardi di dollari.Il ragionamento dei due leader tedeschi tenta di nascondere la verità: e cioè che l’ossessione imposta dalle regole dell’Eurozona sul dogma dei pareggi di nilancio ovunque è precisamente la causa del drammatico dissesto delle infrastrutture in Germania; la quale infatti, come scrisse il “Wall Street Journal” nel 2013, «si vanta di essere il modello per l’Europa come ordine nei conti, dimenticando però di dire che quell’ordine è venuto al costo di emorragie negli investimenti per le infrastrutture». E qui si chiude il cerchio. Ve l’aspettavate? G…, no, non di Genova, di Germania, con ponti e strade in pezzi. Il fatto che la loro encomiabile vigilanza abbia finora impedito tragedie come quella del Morandi non toglie assolutamente nulla alla scioccante realtà: nelle criminali regole economiche dell’Eurozona ci si deve svenare per un insensato libro di bilancio dove appaia la scritta “– 10 + 10 = 0”. Poi se palazzi, scuole, strade e ponti si disfano e la gente e le aziende della parte sfigata del paese soffrono, o muoiono, chissenefrega. Anche in Germania, non solo a Genova.(Paolo Barnard, “L’euro demolisce ponti e strade, con o senza i Benetton – povera G.), dal blog di Barnard del 19 agosto 2018).Era esattamente un anno fa, l’agosto del 2017, e un prestigioso editorialista denunciava chiaro che «ponti e strade si stanno sbriciolando mentre le amministrazioni usano i fondi destinati alla manutenzione per, invece, tagliare i deficit». Bruxelles richiedeva, insaziabile, di pareggiare i bilanci anche a livello locale. Un ingegnere intervistato dal grande quotidiano addirittura tuonava: «Questa è una sirena d’allarme per l’intero paese», e il cronista aggiungeva: «Ed è anche un monumento alla crisi delle sue infrastrutture». Sì, esatto, si parlava proprio di G… No, non di Genova: di Germania, dove «una vastità di strade, ponti e palazzi pubblici sono in uno stato di degrado scioccante». La parola usata fu “scioccante”. E che non ci siano equivoci in partenza. Il più prestigioso istituto di studi economici tedesco, il Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung di Berlino, lo scrive nero su bianco: la Germania ha voluto l’euro per arricchire smisuratamente le sue élite, lasciando però nel degrado vaste porzioni del paese. Fra cui proprio le infrastrutture ‘corrose’ dai tagli ai budget nazionali e locali. Lascia increduli leggere, fra le pagine dell’istituto, che «la Germania non solo vede un terribile abbandono delle infrastrutture dei trasporti e di quelle pubbliche, ma anche in quelle scolastiche».
-
Terre rare, la nuova guerra che oppone Cina e Stati Uniti
Lo scorso dicembre, alla vigilia delle tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti, il presidente americano Donald Trump firmava un ordine esecutivo per ridurre la dipendenza del paese da fonti estere di “minerali critici” vitali nella produzione di una vasta gamma di beni strategici per l’industria americana. Un ordine palesatosi nell’ultimo round di restrizioni commerciali varate dal governo americano questo 10 luglio con l’imposizione di un aumento del 10% di dazi su una serie di importazioni provenienti dalla Cina, tra le quali figurano appunto anche le “terre rare”. Sconosciute ai più, le terre rare o lantanidi sono un gruppo di diciassette elementi contenuti in diversi minerali diventati fondamentali nella produzione di un’innumerevole quantità di prodotti ad alto contenuto tecnologico grazie alla loro capacità di dar luogo a leghe con elevate proprietà magnetiche. In particolare, tutta la moderna elettronica così come la produzione di semiconduttori, fibre ottiche, sistemi di navigazione, laser e monitor, fino alla produzione di cd, carte di credito e telefoni cellulari sarebbe totalmente irrealizzabile senza questi elementi. A dipendere dalle terre rare cinesi è inoltre la produzione dei più sofisticati strumenti bellici dell’esercito statunitense e quasi tutta l’industria della cosiddetta “green economy”, dai pannelli solari alle batterie ricaricabili per auto elettriche ed ibride.Tuttavia, queste “terre” non sono affatto rare. La loro rarità si deve principalmente al fatto che, per ricavare questi elementi, è necessaria un’estesa attività di estrazione, con enormi costi sia in termini economici che ambientali dovuti anche alla radioattività degli scarti derivanti della loro lavorazione. L’ampia disponibilità (un terzo degli attuali giacimenti conosciuti), i bassi costi della manodopera e la scarsa protezione ambientale hanno però di fatto consentito alla Cina di sbaragliare qualsiasi concorrenza e di controllare, secondo la United States Geological Survey (Usgs) tra l’85% e il 95% dell’offerta mondiale e il 78% del mercato americano. L’importanza di questi materiali era già stata riconosciuta nel 1992 dall’allora leader cinese Deng Xiaoping il quale sostenne che avrebbero avuto lo stesso valore strategico del petrolio mediorientale. A distanza di quasi trent’anni la sua profezia sembra essersi avverata, anche se si tratta di un’arma che Pechino può utilizzare con molta attenzione e cautela evitando che si tramuti in un’arma “spuntata”.Già nel 2010 infatti le terre rare furono al centro di un’accesa disputa commerciale, determinata dalla decisione cinese di ridurre le sue quote all’esportazione del 40% per motivi di salvaguardia ambientale. Le misure comportarono un aumento immediato dei prezzi internazionali delle terre rare e una crescente preoccupazione da parte dei paesi occidentali; preoccupazione culminata nel 2012 con la presentazione del caso di fronte all’ Organo di Conciliazione (Dispute Settlement Body) dell’Organizzazione Mondiale del Commercio da parte degli Stati Uniti affiancati da Giappone e Unione Europea. La decisione dell’Organo di Conciliazione arrivò nel 2014. Pur riconoscendo la possibilità da parte degli Stati membri di applicare restrizioni determinate da motivi ambientali, si contestò alla Cina la violazione del principio di non discriminazione, visto che l’aumento delle quote all’esportazione garantivano un maggior accesso al mercato e prezzi più favorevoli per le imprese nazionali cinesi.Da parte sua Pechino, pur applicando la sentenza ed eliminando le quote stabilite in precedenza, rinviava con fermezza le accuse al mittente constatando, non solo il fatto di aver superato le quote di estrazione fissate e il crescente impatto ambientale derivante, ma anche l’“ipocrisia” di chi, che senza privarsi delle proprie riserve, vuole continuare a sfruttare in modo economico quelle cinesi. Dietro l’atteggiamento cinese si nasconde però anche una duplice ambizione. In primo luogo Pechino tenta attraverso queste limitazioni di spingere le principali industrie occidentali ad alto contenuto tecnologico a trasferire le loro produzioni in Cina. In secondo luogo, queste misure vengono ritenute funzionali ad aiutare lo sviluppo delle imprese cinesi secondo il piano “Made in China 2025” varato dal premier Li Keqiang nel 2015. Un piano ambizioso volto a far progredire la produzione cinese nella catena del valore, concentrandosi sempre di più nell’industria ad alto valore aggiunto. In particolare, il piano si pone l’obiettivo di riuscire a produrre localmente entro il 2025 il 70% dei materiali definiti strategici per l’industria del futuro, facendo della Cina un paese leader nella produzione di materiali ad alto contenuto tecnologico.Molti commentatori ritengono che le misure commerciali varate dall’amministrazione americana siano una risposta proprio al piano Made in China 2025. Le misure, volte a riequilibrare alcune pratiche sleali portate avanti dal governo di Pechino, dovrebbero infatti, secondo le intenzioni dell’attuale presidenza, favorire il “ritorno” in patria della produzione industriale ritenuta strategica. Tuttavia, nel caso specifico delle recenti limitazioni relative la produzione di terre rare cinesi, si contesta da più parti l’efficacia del provvedimento. Un aumento dei dazi del 10% infatti sarebbe troppo poco per indurre un cambio di fonti di approvvigionamento e troppo poco per spingere le aziende americane a tornare in patria, senza considerare la lunghezza dei tempi in caso di riattivazione di eventuali giacimenti nazionali di terre rare. La sfida si gioca dunque sul filo del rasoio. Se da una parte Pechino può sfruttare il proprio vantaggio competitivo riducendo ulteriormente la capacità di approvvigionamento per le imprese americane, d’altra parte, un rincaro eccessivo dei prezzi spingerebbe alla ricerca di fonti alternative. Il tutto, al netto dell’attuale partita commerciale tra Pechino e Washington i cui scenari incerti continueranno a tenere in tensione i mercati globali.(Alberto Belladonna, “La guerra delle terre rare tra Cina e Stati Uniti”, da “Medium” del 30 luglio 2018, ripreso da “Megachip”. Belladonna è docente di geoeconomia e commercio internazionale presso l’università Francisco Marroquin di Guatemala. Le terre rare comprendono minerali come scandio, ittrio, lantanio, cerio, praseodimio, nodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio e lutezio).Lo scorso dicembre, alla vigilia delle tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti, il presidente americano Donald Trump firmava un ordine esecutivo per ridurre la dipendenza del paese da fonti estere di “minerali critici” vitali nella produzione di una vasta gamma di beni strategici per l’industria americana. Un ordine palesatosi nell’ultimo round di restrizioni commerciali varate dal governo americano questo 10 luglio con l’imposizione di un aumento del 10% di dazi su una serie di importazioni provenienti dalla Cina, tra le quali figurano appunto anche le “terre rare”. Sconosciute ai più, le terre rare o lantanidi sono un gruppo di diciassette elementi contenuti in diversi minerali diventati fondamentali nella produzione di un’innumerevole quantità di prodotti ad alto contenuto tecnologico grazie alla loro capacità di dar luogo a leghe con elevate proprietà magnetiche. In particolare, tutta la moderna elettronica così come la produzione di semiconduttori, fibre ottiche, sistemi di navigazione, laser e monitor, fino alla produzione di cd, carte di credito e telefoni cellulari sarebbe totalmente irrealizzabile senza questi elementi. A dipendere dalle terre rare cinesi è inoltre la produzione dei più sofisticati strumenti bellici dell’esercito statunitense e quasi tutta l’industria della cosiddetta “green economy”, dai pannelli solari alle batterie ricaricabili per auto elettriche ed ibride.
-
Sechi: New Deal rooseveltiano gialloverde, ora o mai più
Il quadro politico dice che il “governo Frankenstein” è il solo possibile. E se dovesse fallire L’alternativa sarebbe il caos, che vorrebbe dire, alla fine, un altro governo tecnico. Diciamocelo, a qualcuno piacerebbe: il piccolo establishment italiano vuole il commissariamento. Chi lavora per questa prospettiva? Piccoli gruppi di potere. Anche il Quirinale? No, il Quirinale no. Anzi, il Colle è stato il potere che più ha preso atto della situazione e favorito la nascita del governo gialloverde. Mattarella è più preoccupato di altre cose, come l’emergere nei 5 Stelle di quelle pulsioni di ruralismo cerebrale per cui tutto ciò che è infrastruttura, modernizzazione, rete non virtuale, non va bene. Il vero redde rationem comunque è sulla politica economica. La realtà è che il governo M5S-Lega ha un solo vero nemico, se stesso. Tria vuole tenere insieme tutto, Flat Tax, reddito di cittadinanza, annullamento delle clausole di salvaguardia, riforma Fornero, stop all’aumento dell’Iva, alcuni benefici fiscali. Nemmeno Mandrake riuscirebbe a fare una cosa del genere. Quindi dovrà sacrificare qualcosa. A meno che non intendano fare un po’ di deficit, ma quanto?Il punto è che non si vedono né il continuismo, né la svolta. Il primo avrebbe imposto di sacrificare punti importanti del programma di governo, la seconda di sfidare Bruxelles. Cosa vogliono fare Lega ed M5S? Qual è il disegno complessivo? Non si è capito. L’altro elemento di preoccupazione viene dalla Lega. Sta abbozzando su cose che, se si realizzano, il suo elettorato rifiuterà. La stretta sui contratti contenuta nel decreto lavoro, che ora è legge. E poi il reddito di cittadinanza non fa certo parte della base socioeconomica dei leghisti. In un modo o nell’altro si arriva sempre al M5S, perché nella testa dei 5 Stelle all’impostazione statalista si unisce una corrente molto forte di pensiero anti-industriale. Peccato che siano le imprese a produrre i posti di lavoro, e che l’agognata redistribuzione che vuole Di Maio – leggasi reddito di cittadinanza – possa venire solo dalla crescita e dal maggor gettito fiscale di lavoratori e imprese. Con la loro logica, invece, i 5 Stelle interrompono il vaso comunicante.Cosa mi aspetto a settembre? Non la crisi di governo, perché non c’è alternativa. La vera incognita sono i mercati, a cui allude Renzi. E Salvini? Potrebbe essere tentato di mollare Di Maio per Berlusconi? Tutto è possibile, non saprei però se il centrodestra vincerebbe le elezioni, ed è un calcolo che fa certamente anche Salvini. Se si andasse a votare, Salvini pescherebbe ulteriormente nel bacino di Berlusconi, mentre ai 5 Stelle, che ora sono forti, ruberebbe solo pochi voti. Se Salvini prendesse il 30% cento e Berlusconi il 10, avrebbero la maggioranza parlamentare, però al 40 bisogna arrivarci, non è affatto facile. Un nuovo governo che nascesse in Parlamento? Non ci sono i numeri per fare un accordo parlamentare. Al patto Salvini-Berlusconi servirebbero pezzi di altri gruppi parlamentari, ma c’è un particolare: Salvini è l’uomo nero con cui nessuno vuol fare alleanze. In mancanza di un accordo, si andrebbe al voto con un fallimento alle spalle. A quel punto sì che si sveglierebbero i mercati.Insomma Conte, Salvini, Di Maio e Tria devono trovare una sintesi. Ma è la strada per farlo che ancora non si vede. Il problema sostanziale è che i ceti produttivi della Lega si contrappongono alle masse in cerca di lavoro statalizzato del M5S, con i rappresentanti degli uni e degli altri che sono alleati in Parlamento. L’unico governo possibile si trova a lavorare in una situazione impossibile. Una soluzione, volendo, ci sarebbe. Un New Deal italiano, in cui Salvini e Di Maio smettono di fare campagna elettorale e mettono insieme un trust di persone pensanti con il compito di elaborare un accordo rooseveltiano coerente che unisca Nord e Sud. E’ quello che stanno facendo? Non è vero, perché non c’è un tentativo di politica corale, di sintesi, ma solo un contratto stilato dal notaio, fatto a compartimenti stagni, di cui alternativamente ognuna delle due forze punta a realizzare un pezzo, alla meglio. Non è così che si governa un paese. Salvini e di Maio sono ancora in tempo, ma devono agire subito.(Mario Sechi, dichirazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Attacco all’Italia, a settembre offensiva dei mercati: ecco chi sta con loro”, pubblicata da “Il Sussidiario” il 9 agosto 2018. Giornalista, già direttore del “Tempo”, Sechi si avvicinò a Monti per poi successivamente distaccarsene, riconoscendo la natura punitiva e “suicida” della strategia del rigore imposta all’Italia dall’oligarchia tecnocratica di Bruxelles).Il quadro politico dice che il “governo Frankenstein” è il solo possibile. E se dovesse fallire L’alternativa sarebbe il caos, che vorrebbe dire, alla fine, un altro governo tecnico. Diciamocelo, a qualcuno piacerebbe: il piccolo establishment italiano vuole il commissariamento. Chi lavora per questa prospettiva? Piccoli gruppi di potere. Anche il Quirinale? No, il Quirinale no. Anzi, il Colle è stato il potere che più ha preso atto della situazione e favorito la nascita del governo gialloverde. Mattarella è più preoccupato di altre cose, come l’emergere nei 5 Stelle di quelle pulsioni di ruralismo cerebrale per cui tutto ciò che è infrastruttura, modernizzazione, rete non virtuale, non va bene. Il vero redde rationem comunque è sulla politica economica. La realtà è che il governo M5S-Lega ha un solo vero nemico, se stesso. Tria vuole tenere insieme tutto, Flat Tax, reddito di cittadinanza, annullamento delle clausole di salvaguardia, riforma Fornero, stop all’aumento dell’Iva, alcuni benefici fiscali. Nemmeno Mandrake riuscirebbe a fare una cosa del genere. Quindi dovrà sacrificare qualcosa. A meno che non intendano fare un po’ di deficit, ma quanto?
-
Niente bavaglio al web, Strasburgo boccia il piano Oettinger
Sventato, per il momento, il temutissimo “bavaglio” al web. L’aveva predisposto la commissione giuridica del Parlamento Europeo su input della Commissione Ue, in particolare del commissario Günther Oettinger, l’uomo che – all’indomani delle elezioni del 4 marzo – disse che sarebbero stati “i mercati” a insegnare a gli italiani come votare. In pratica: con il pretesto della revisione (necessaria) della tutela del copyright, ferma al 2001, l’Unione Europea avrebbe, di fatto, proibito la libera circolazione di contenuti, idee e immagini su Internet, mettendo a tacere blog e social. Ma il passaggio democratico cercato dalla Commissione – la validazione (peraltro non vincolante) del Parlamento Europeo – ha dato esito negativo: 318 i voti contrari e 278 i favorevoli, più 31 astenuti. Merito anche della tambureggiante opposizione scatenatasi proprio via web, a partire dall’allarme lanciato in Italia da Claudio Messora su “ByoBlu”: quasi un milione le firme raccolte in pochi giorni dalla petizione online su “Change.org”. «Oggi è un giorno importante, il segno tangibile che finalmente qualcosa sta cambiando anche a livello di Parlamento Europeo», afferma Luigi Di Maio il 5 luglio, a poche ore dal voto di Strasburgo.La seduta plenaria dell’Europarlamento, scrive il vicepremier grillino sul “Blog delle Stelle”, ha rigettato il mandato sul copyright al relatore Axel Voss, smontando l’impianto della direttiva-bavaglio. La proposta della Commissione Europea ritorna dunque al mittente, rimanendo lettera morta. Per Di Maio il segnale è chiaro: «Nessuno si deve permettere di silenziare la Rete e distruggere le incredibili potenzialità che offre in termini di libertà d’espressione e sviluppo economico». La direttiva avrebbe infatti costretto a ricorrere a speciali iter autorizzativi – anche a pagamento – per la semplice possibilità di inserire un link: procedura che avrebbe segnato in Europa la fine del web così come lo conosciamo, fondato sulla libera condivisione dei contenuti in tempo reale, attraverso la rete dei social media. «In ogni caso, anche qualora il testo fosse passato al vaglio di Strasburgo – avverte Di Maio – ci saremmo battuti in sede di Consiglio; a livello nazionale saremmo invece stati disposti a non recepirla». Lo disse subito, il leader dei 5 Stelle: se l’Ue dovesse malauguratamente adottare quella norma-vergogna, l’Italia eviterebbe di applicarla.«Voglio ringraziare tutti i nostri rappresentanti a Bruxelles e anche gli altri europarlamentari che hanno deciso di seguirci in questa battaglia per la libertà d’informazione», aggiunge lo stesso Di Maio. «Ora si apre una nuova battaglia: nella prossima plenaria si terrà infatti un dibattito politico e la possibilità di presentare emendamenti». Di Maio si dice sicuro che gli articoli più pericolosi della direttiva – l’11 e il 13 – verranno definitivamente rimossi. «Questa direttiva – spiega – riportava infatti due concetti inaccettabili: il primo prevedeva un diritto per i grandi editori di autorizzare o bloccare l’utilizzo digitale delle loro pubblicazioni introducendo anche una nuova remunerazione, la cosiddetta “link tax”, mentre il secondo imponeva alle società che danno accesso a grandi quantità di dati di adottare misure per controllare ex ante tutti i contenuti caricati dagli utenti». Assicura Di Maio: «Questo governo vigilerà affinché la libertà di Internet venga salvaguardata, senza scendere ad alcun compromesso e rifiutando ogni bavaglio».Sventato, per il momento, il temutissimo “bavaglio” al web. L’aveva predisposto la commissione giuridica del Parlamento Europeo su input della Commissione Ue, in particolare del commissario Günther Oettinger, l’uomo che – all’indomani delle elezioni del 4 marzo – disse che sarebbero stati “i mercati” a insegnare a gli italiani come votare. In pratica: con il pretesto della revisione (necessaria) della tutela del copyright, ferma al 2001, l’Unione Europea avrebbe, di fatto, proibito la libera circolazione di contenuti, idee e immagini su Internet, mettendo a tacere blog e social. Ma il passaggio democratico cercato dalla Commissione – la validazione (peraltro non vincolante) del Parlamento Europeo – ha dato esito negativo: 318 i voti contrari e 278 i favorevoli, più 31 astenuti. Merito anche della tambureggiante opposizione scatenatasi proprio via web, a partire dall’allarme lanciato in Italia da Claudio Messora su “ByoBlu”: quasi un milione le firme raccolte in pochi giorni dalla petizione online su “Change.org”. «Oggi è un giorno importante, il segno tangibile che finalmente qualcosa sta cambiando anche a livello di Parlamento Europeo», afferma Luigi Di Maio il 5 luglio, a poche ore dal voto di Strasburgo.