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I Medici e l’Inca: l’America a Firenze prima di Colombo
Lorenzo il Magnifico discendeva direttamente dalla linea di sangue reale Inca. Era un meticcio: metà italiano (fiorentino) e metà andino. E la vera origine – occultata – del gran signore di Firenze, massimo promotore del Rinascimento italiano, dimostra una verità che ancora non si vuole ammettere, anche se sta ormai emergendo. Quale? Eccola: le maggiori signorie italiane rinascimentali (non solo Firenze, ma anche Milano e altre) erano in strettissimo contatto con le potenze d’oltreoceano. Legami pericolosi, per la Chiesa dell’epoca, perché rischiavano di demolire la teologia cristiana e il potere ecclesiastico, ripristinando l’antica conoscenza universale racchiusa nel culto solare, a cui sarebbe ispirata la stessa urbanistica rinascimentale, che nelle piazze italiane avrebbe riprodotto le piazze cerimoniali incaiche. E’ la tesi sostenuta da uno straordinario ricercatore come Riccardo Magnani, autore nel 2020 del saggio “Ceci n’est pas Leonardo” (ovvero, “Quello che non vi dicono su Leonardo da Vinci e il Rinascimento”).La stessa spedizione di Colombo del 1492, da cui si pretende inizi l’era moderna, secondo Magnani sarebbe un’invenzione storica: un escamotage del Vaticano per poi aprire la strada alla sanguinosa conquista cristiana delle Americhe, allo scopo di spezzare il legame con l’élite europea allora incarnata dalle signorie italiane come quella medicea. L’analisi di Magnani, tra le altre cose, ha il pregio di accendere i riflettori su dettagli che, in realtà, sono da sempre sotto gli occhi di tutti, benché sembra che si faccia finta di non vederli. Uno di questi è la presenza della “mascapaicha”, tradizionale copricapo Inca, nei dipinti della corte medicea (ben prima dell’ipotetica missione delle famose caravelle). «Fino ad oggi – scrive Magnani sul “Wall Street International Magazine” – nessuno ha posto l’accento sul fatto che, tra le innumerevoli evidenze contenute nell’arte rinascimentale, a rivelarci l’esistenza di numerosi viaggi in America (di gran lunga anteriori a quello presunto di Cristoforo Colombo) vi sia un antico simbolo regale e sacerdotale del popolo Inca, costituito da tre piume da portare in capo».Ufficialmente, scrive, le tre piume su mazzocchio vengono iscritte tra le imprese familiari del primo Rinascimento a partire da quella personale di Cosimo il Vecchio, che si vuole esser stata inserita per la prima volta nel tempietto del Santo Sepolcro: un edificio collocato nella cappella ancora oggi consacrata e annessa alla ex chiesa di San Pancrazio, accanto alla Basilica di Santa Maria Novella a Firenze. «Il tempietto, posizionato nel Sacello che si ispira al modello della Basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme, è costruito su progetto di Leon Battista Alberti e raccoglie le spoglie del suo committente, Giovanni di Paolo Rucellai, morto nel 1481». Le magnifiche tarsie che decorano le pareti esterne del sacello del Santo Sepolcro – continua Magnani – presentano le formelle istoriate che riportano gli stemmi araldici di Lorenzo il Magnifico, Cosimo il Vecchio e Piero il Gottoso. Lo stemma di Giovanni Rucellai, il committente, «rappresenta una vela spiegata al vento, con le sartie sciolte, forse proprio a intendere l’uso alla navigazione transoceanica».Iniziato nel 1457, il tempietto venne completato nel 1467. Non è neppure la prima volta che le tre piume vengono associate al “Pater Patriæ” fiorentino: esiste infatti un dipinto antecedente al tempietto – spiega lo studioso – in cui ritroviamo Cosimo il Vecchio associato a questo particolarissimo ornamento: siamo nella Cappella dei Magi del palazzo di famiglia, Palazzo Medici Riccardi in Via Larga a Firenze. «Qui, nel 1459 Benozzo Gozzoli dipinge il Corteo dei Magi, un affresco che tra le pieghe della sua rappresentazione risulta celebrativo proprio dei primi viaggi in America». L’opera celebra anche i personaggi che, a vario titolo, «si legarono alla famiglia de’ Medici in questa avventura, che condurrà in seguito Sisto IV e molti suoi alleati a ordire la Congiura dei Pazzi», delinando una palese ostilità tra la potenza romana e quella fiorentina. Il pretesto iconografico di questo decisivo ciclo di affreschi, ricorda Magnani, è quello dei festeggiamenti che la città di Firenze riservò a Mattia Corvino, eletto in quell’anno Re d’Ungheria, che proprio per questo guida il corteo a cavallo.Secondo Magnani, è palesemente errata l’interpretazione data finora dagli storici dell’arte, che lo identificano con un ritratto poco realistico di Lorenzo il Magnifico, forse in un tentativo di esaltarne la bellezza e la magnificenza. «Nonostante la presenza in questi affreschi dei molti bizantini che parteciparono al Concilio di Firenze – dice il ricercatore – è da ritenersi che i Magi a cui il corteo nominalmente si riferisce siano proprio i Magiari», cioè gli ungheresi, «guidati dal neoeletto Mattia Corvino», e quindi non i sacerdoti-astrologi dell’antica religione persiana di Zoroastro, il Mazdeismo, che secondo il Vangelo di Matteo giunsero a Beltemme, condotti dagli astri, per onorare la nascita di Gesù. Nel dipinto dei Medici, i Magi – secondo Magnani – sono idealmente rappresentati dal bizantino Giorgio Gemisto Pletone (riferimento culturale assoluto del primissimo Rinascimento), dal patriarca di Costantinopoli e da Giovanni VIII Paleologo, anch’esso di Bisanzio.«Gli Ungheresi – scrive Magnani – ebbero un ruolo attivo nei primissimi viaggi oltre oceano», tanto da potersi imputare a loro persino la scelta del nome dato al Nuovo Mondo: «Il nome America, infatti, è derivato da Emmerich (Amerigo, in italiano), figlio di Stefano I, primo Re d’Ungheria e fondatore della Chiesa Ungherese». Per lo studioso non deve stupire, dunque, o ritenersi anacronistico, che all’interno dello sviluppo del Corteo che accompagna Mattia Corvino – tra animali, piante, scene di caccia e rappresentazioni geografiche del nuovo mondo – Cosimo il Vecchio venga ritratto da Benozzo Gozzoli nei panni di un imperatore Inca (nello specifico Pachacutéc, che proprio nel 1459 morirà), con la classica pettinatura dei nativi sudamericani, la tipica tunica bordata d’oro del sommo sacerdote Inca e le tre piume in testa. «Sarà proprio questo particolare ad aiutarci a fare maggior chiarezza sul significato intrinseco di queste tre piume, e del perché sono diventate un emblema associabile alle famiglie che per prime, con molti anni di anticipo, ebbero contatti amichevoli con i nativi del Sudamerica».Il copricapo indossato da Cosimo il Vecchio, infatti, è la “mascapaicha” (parola di derivazione quechua), considerata in patria un simbolo assoluto del potere imperiale incaico. La “mascapaicha”, infatti, «garantiva al Sapa Inca il titolo di Governatore di Cusco e, a partire proprio da Pachacutéc (la cui statua da pochi anni è eretta nella Plaza des Armas di Cusco), di tutto il Tahuantinsuyo, ovvero di tutto il Perù, il più grande Impero dell’America precolombiana». Il riferimento a questo oggetto ornamentale, usato per sottolineare uno status di ceto e ruolo nella gerarchia religiosa Inca – spiga Magnani – è importantissimo: non solo per le implicite deduzioni cronologiche che comporta, in ordine ai primi viaggi nelle Americhe (viste le datazioni di cui stiamo parlando), ma anche per la corretta interpretazione del ciclo pittorico di Benozzo Gozzoli all’interno di Palazzo Medici Riccardi a Firenze. «Solo il Sapa Inca, infatti, poteva portare la “mascapaicha” più importante, che veniva tramandata da un sacerdote all’altro soltanto in caso di morte del predecessore».Questo ornamento, ricorda Magnani, era costituito da un filo intrecciato dello spessore di un dito, che veniva poi avvolto quattro o cinque volte attorno alla testa. All’epoca ne esistevano di tre tipi: rosso e blu per gli Incas dominanti, nero per gli Incas inferiori o di poco titolo, e poi il Llautu, una nappa di colore rosso e giallo (come appunto quello indossato da Cosimo il Vecchio) per la famiglia reale. Erano le Acllas (dette anche Vergini del Sole, donne prescelte all’interno della comunità Inca) che tessevano il Llautu, chiamato anche Paicha, «termine che esprime la congiunzione di spazio e tempo, assimilabile come concetto al compendio tra energia maschile e femminile». Il Llautu era costituito da una sottile, lunga treccia di lana rossa intarsiata da fili d’oro, ed era di uso esclusivo della famiglia reale. A completamento dell’ornamento imperiale, tre piume di Corequenque (il caracara andino, un rapace del Sudamerica dal piumaggio nero e bianco) venivano infilate nel Llautu.«Alla luce di tutto ciò – ragiona Magnani – è chiaro quindi che l’impresa considerata appartenente a Cosimo de’ Medici, e inserita nel tempietto del Santo Sepolcro, derivi idealmente da ciò che egli indossa nel dipinto di Benozzo Gozzoli di qualche anno prima: un omaggio a Pachacutéc, il primo imperatore Inca, che evidentemente Cosimo il Vecchio conosceva, se non altro nominalmente». Nello stesso dipinto, a portare la “mascapaicha” sono anche le tre nipoti di Cosimo il Vecchio, ovvero le figlie di Piero il Gottoso, nonché sorelle di Lorenzo il Magnifico. «Quanto descritto finora ci dice essenzialmente due cose: l’origine di questa impresa, che è indiscutibilmente legata ai primi viaggi oltreoceano (ovviamente databili ben anteriormente al 1492), e il fatto che le tre piume non siano sostenute da un mazzocchio, bensì da una “mascapaicha” (anche se, sostanzialmente, il significato sotteso a entrambe è lo stesso: compenetrazione tra il mondo eterico e mondo materico)».Anche l’associazione che sottolinea Benozzo Gozzoli (che proprio sotto l’indio si auto-ritrae) tra Cosimo il Vecchio e Pachacutèc, idealizzata nel segno della “mascapaicha” con cui è raffigurato il potente “Pater Patriæ” fiorentino, per Magnani «è molto importante ai fini di una revisione storica, in quanto narra di un rapporto evidentemente gioviale e amichevole tra i due popoli». Un rapporto «ben diverso da quanto poi la storia ci consegnerà in un secondo tempo, relativamente al genocidio operato dal colonialismo spagnolo post-colombiano e al ruolo interpretato dai frati, domenicani prima e gesuiti poi». La percezione di un rapporto di profonda amicizia tra i due popoli – aggiunge Magnani – ci viene confermata da una ulteriore rappresentazione di questo ornamento regale, anteriore sia all’affresco di Benozzo Gozzoli (1459) e sia all’arma intarsiata nel tempietto del Santo Sepolcro di Firenze (1461-1467). «Sto parlando di un oggetto molto particolare, tipico dell’epoca, oggi conservato presso il Metropolitan Museum of Art di New York».Magnani allude a un “desco da parto”, cioè un tipico vassoio commemorativo (in oro e argento) con cui venivano celebrate le nascite più importanti, da parte delle ricche famiglie del Rinascimento. Un manufatto «evocativo dell’offerta di dolci che tradizionalmente veniva portata alla partoriente». Opera di Giovanni di Ser Giovanni Guidi (detto Scheggia), questo vassoio venne creato nel 1449 per celebrare la nascita di Lorenzo, figlio di Piero de’ Medici e Lucrezia Tornabuoni, nipote prediletto di Cosimo il Vecchio e futuro capo della signoria che diede lustro a Firenze, tanto da meritarsi il soprannome di Magnifico. «Dipinto dal fratello minore di Masaccio, il vassoio fu poi conservato proprio negli alloggi privati di Lorenzo, nel Palazzo Medici Riccardi di Firenze». Attenzione: «L’intreccio ideale tra il popolo Inca e la famiglia de’ Medici qui è rafforzato dal fatto che le tre piume sono associate all’anello mediceo, che si sostituisce al mazzocchio e al Llautu, rafforzato dal motto familiare “semper” (per sempre), mentre gli stemmi delle due famiglie riconducibili ai genitori del nascituro, Medici e Tornabuoni, sono nella parte alta del vassoio stesso».Per Magnani, dunque, emerge sempre più chiaramente come la prima apparizione dell’arma di Cosimo de’ Medici non possa essere considerata quella sul tempietto di Giovanni Rucellai (il cui figlio, Bernardo, sposerà una nipote di Cosimo, Lucrezia, detta Nannina, che insieme alle sorelle Bianca e Maria nel dipinto del Gozzoli porta le tre piume della “mascapaicha”). Anzi, l’esistenza di questo vassoio «metterebbe in dubbio anche il fatto che le tre piume rappresentassero l’arma di Cosimo, lasciando intendere come il vero titolare dell’impresa, mutuata da Pachacutéc, fosse invece proprio Lorenzo, oggetto del “desco da parto” in visione». Oltretutto, il ritrovare le tre piume sia sul capo di Cosimo, nell’evidente atto di richiamare Pachacutéc e la “mascapaicha”, sia sul vassoio commemorativo della nascita di Lorenzo, «forse legittima un dubbio che confermerebbe una volta di più il carattere amichevole sottostante alle relazioni tra alcune famiglie dello schieramento politico ghibellino italiano e le più alte gerarchie dei popoli nativi del Sudamerica».Ragiona Magnani: «Sia Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, sia Ludovico Sforza, non a caso detto il Moro, erano di sangue misto, meticcio, come peraltro confermerebbero le stesse caratteristiche della fisionomia di questi due celebri personaggi». Lo studioso ricorda che il termine “meticcio” deriva proprio dallo spagnolo “mestizo” e dal portoghese “mestiço”. Non a caso: con questo vocabolo «si definivano in origine proprio gli individui che nascevano dall’incrocio fra i coloni europei (perlopiù spagnoli e portoghesi) e le popolazioni amerindie indigene precolombiane». Qualche anno dopo, aggiunge Magnani, a legare ulteriormente l’impresa con le tre piume a Lorenzo il Magnifico è Giorgio Vasari, pittore e biografo di tutti i più grandi pittori, architetti e scultori del Rinascimento, nel celebre dipinto – conservato a Palazzo Vecchio – che ritrae, tra gli altri animali esotici, anche la giraffa di Lorenzo. In un angolo, il quadro «ripropone proprio le tre piume del Magnifico, inserite in un anello gemmato, la stessa impresa raffigurata sul “desco da parto” di Giovanni di Ser Giovanni Guidi».Dagli elementi menzionati, e in particolar modo dalla rappresentazione che fa Benozzo Gozzoli di Cosimo il Vecchio a Palazzo Medici Riccardi, Magnani ricava una certezza: «E’ indubbio il fatto che l’assunzione delle tre piume, da parte degli esponenti della famiglia de’ Medici, sia da porre in strettissima relazione a una frequentazione delle Americhe, anteriore al 1492, ricollegandosi all’uso che di questo ornamento facevano gli esponenti dell’impero Inca». Lo stesso imperatore Pachacutéc era ancora in carica, racconta Magnani, all’epoca in cui le tre piume e la “mascapaicha” fecero la loro prima apparizione nei dipinti, nelle imprese e nelle monete di una delle più importanti famiglie del Rinascimento, attorno alla prima metà del XV secolo. «Questo ornamento, oltretutto, ci testimonia del profondo legame esistente tra la famiglia de’ Medici, la famiglia Sforza e il territorio lariano, che ospiterà a più riprese il giovanissimo Leonardo a metà del XV secolo».In due chiese dell’alto Lario, infatti, nel comune di Gravedona – chiosa Magnani – sono riprese scene riconducibili all’affresco di Benozzo Gozzoli. «In una di queste, in particolar modo, un giovane (con tutta probabilità Galeazzo Sforza, figlio di Francesco) ha il capo cinto dalla “mascapaicha”, mentre con la mano regge dei funghi allucinogeni». Il ricercatore italiano non ha dubbi, sull’operazione di occultamento e depistaggio che avrebbe condotto a non riconoscere quel clamoroso legame (precolombiano) tra Firenze e i signori del Perù. «Il corso della storia, nel lungo cammino che ha portato alla nascita del movimento rinascimentale – afferma Magnani – è stato dirottato a beneficio della Santa Sede e dei suoi alleati, mentre le evidenze di quello che fu sono state abilmente cancellate». Ma attenzione: non tutte le prove sono state distrutte, «e quel che rimane è più che sufficiente per ricostruire il reale corso delle cose». La verità sull’America restituita da un copricapo regale: la “mascapaicha”, che da mezzo millennio – a Firenze – suggerisce la sua verità.Lorenzo il Magnifico discendeva direttamente dalla linea di sangue reale Inca. Era un meticcio: metà italiano (fiorentino) e metà andino. E la vera origine – occultata – del gran signore di Firenze, massimo promotore del Rinascimento italiano, dimostra una verità che ancora non si vuole ammettere, anche se sta ormai emergendo. Quale? Eccola: le maggiori signorie italiane rinascimentali (non solo Firenze, ma anche Milano e altre) erano in strettissimo contatto con le potenze d’oltreoceano. Legami pericolosi, per la Chiesa dell’epoca, perché rischiavano di demolire la teologia cristiana e il potere ecclesiastico, ripristinando l’antica conoscenza universale racchiusa nel culto solare, a cui sarebbe ispirata la stessa urbanistica rinascimentale, che nelle piazze italiane avrebbe riprodotto le piazze cerimoniali incaiche. E’ la tesi sostenuta da uno straordinario ricercatore come Riccardo Magnani, autore nel 2020 del saggio “Ceci n’est pas Leonardo” (ovvero, “Quello che non vi dicono su Leonardo da Vinci e il Rinascimento”).
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Il Re Cristiano: Alarico era giudeo, chi glielo spiega a Hitler?
Gettate la rete dall’altra parte della barca, e troverete. E’ una pesca miracolosa quella che il redivivo Gesù, nel Vangelo di Giovanni, promette agli apostoli increduli: se volete pesce, calate le vostre reti sul fianco destro dell’imbarcazione. Linguaggio cifrato: la verità ti attende dove mai avresti pensato che fosse – magari dentro di te, nell’emisfero destro del cervello? Tra le pagine (romanzesche) dedicate a un personaggio devotissimo all’uomo di Betlemme – il “Re Cristiano”, appunto, in azione trecento anni dopo gli eventi evangelici – Gianfranco Carpeoro avverte: li state cercando dalla parte sbagliata, i resti del mitico sovrano dei Visigoti, l’autore del primo Sacco di Roma. Lui, Alarico, recava scritto già nel suo nome il proprio destino: “Re di tutti”, in lingua norrena proto-germanica. “Re di tutti”, tant’è vero che non voleva affatto radere al suolo Roma: al contrario, ambiva a diventarne l’imperatore. Per questo, lasciata la città, si portò via l’augusta principessa discendente della “gens Flavia”, Galla Placidia, sua promessa sposa, insieme a cui si spinse in Calabria per poi attraversare il Mediterraneo: diretto in Africa o a Gerusalemme? Morì a Cosenza, di malaria o avvelenato. Fu sepolto insieme al suo tesoro, a lungo inultilmente cercato – anche da Hitler. E adesso chi glielo spiega, al Führer, che forse il suo Alarico era addirittura un giudeo?Avete sempre scavato dalla parte sbagliata, scrive Carpeoro, perché Alarico non era un barbaro germanico: era romanizzato e cristiano, sia pure di confessione ariana. E forse addirittura ebreo, discendente nientemeno che dalla Maddalena e da Giuseppe di Arimatea, il misterioso armatore che riscattò il corpo di Cristo da Pilato. L’oscuro Giuseppe di Arimatea, cioè l’uomo che poi, si racconta, nel Primo Secolo guidò la spedizione navale che portò in Europa il Cristianesimo, tramite lo sbarco in Provenza delle “Marie venute dal mare” guidate proprio da Maria di Magdala, il cui vero nome – Miriam – è quello che tuttora i Gipsy attribuiscono alla loro regina, consacrata ogni anno a Saintes-Marie-De-La-Mer, in Camargue. Ma che c’entrano, i Goti, con i profughi palestinesi di origine semitica, probabilmente giudei, che raggiunsero le coste meridionali della Francia dopo i fatti di cui parlano i Vangeli? C’entrano eccome, se è vero che i Goti discesi dal Baltico e spintisi a ovest del Danubio – i Derving – poi cambiarono nome, secondo l’abate calabrese Gioacchino da Fiore, adottando la “M” di Miriam per diventare Merovingi, dinastia regale. E’ così strano pensare che un popolo erratico di origine baltica, poi attestatosi in Francia, sia entrato in contatto con i proto-cristiani di Palestina? Certo che no, se si pensa che i Goti furono in gran parte cristianizzati, già nel Quarto Secolo. Ma attenzione: non erano cattolici, erano seguaci di Ario.Corrente gnostica, secondo cui Cristo è “figlio di Dio” esattamente quanto noi, ciascuno avendo in sé la propria quota di divinità, l’Arianesimo (bocciato nel 325 dal Concilio di Nicea insieme a tutti gli altri cristianesimi non cattolici) ebbe un vastissimo seguito, specie nell’Europa balcanica popolata dai Goti, all’epoca reduci dal Medio Oriente turco: il loro primo vescovo, Wulfila, a partire dall’anno 348 tradusse la Bibbia in lingua gotica. E’ proprio lui, Ulfila, che apre il romanzo meta-storico di Carpeoro, svelando al giovane Alarico il senso profondo e segreto della sua missione: conquistare la regalità nella giustizia, proprio nel nome della mitica antenata Miriam. Simbologo e studioso dei Rosacroce, Carpeoro fa discendere quel “mandato ancestrale” (il governo terreno illuminato dall’alto) direttamente dalla Bibbia: è il compito che Abramo riceverebbe dal misterioso Melchisedek, “Re di Giustizia”, al quale chiede di essere autorizzato a regnare sugli ebrei. E’ il mandato che poi Giuda riceverà a sua volta da Giacobbe-Israele, che descrive le doti del figlio con i tre colori della bandiera italiana. Nella tradizione, proprio il bianco, il rosso e il verde designeranno il contenuto simbolico della discendenza di Davide, fino a tradursi nelle virtù teologali cristiane (fede, speranza e carità). Valori che il potere del mondo ha bandito, ma che qualcuno – in nome di Cristo – ha provato a restaurare? Anche indossando i panni, germanici ma romanizzati, dell’inquieto sovrano dei Goti dell’Ovest?E’ la tesi attorno a cui si interroga Carpeoro, avvicinando il lettore ai primissimi secoli attraverso l’espediente letterario del noir, impersonato dall’anomalo ricercatore milanese Giulio Cortesi, appassionato di musica e soprattutto di cucina. Come già nel “Volo del Pellicano” e poi in “Labirinti”, Cortesi è vegliato dal suo ruvido angelo custode, il commissario Amedeo Bertossi, il cui mestiere non è inseguire fantasmi del passato, ma brutali assassini in carne e ossa. Killer contemporanei, che questa volta fanno fuori un professore – tedesco – che aveva scoperto qualcosa di sconcertante sulla vera identità di Alarico. Un’intuizione fondamentale, imbarazzante e molto pericolosa, che porta dritto anche alla precisa ubicazione della leggendaria sepoltura del condottiero. Se Cosenza è tuttora alla ricerca del Tesoro di Alarico su quella che era la riva pagana del Busento, Carpeoro – che è cosentino di nascita – cita il conterraneo Vincenzo Astorino per suggerire che le spoglie del sovrano vanno cercate sulla sponda opposta del fiumicello, quella che all’epoca era cristiana, dove sorgeva l’antichissima chiesetta di San Pancrazio, oggi interrata dai detriti alluvionali. Secondo la leggenda – e la poesia di August von Platen, tradotta da Carducci – quel piccolo corso d’acqua avrebbe addirittura sommerso il Re dei Goti, inumato (come poi Attila) insieme al suo cavallo nel letto del torrente, deviato per l’occasione.A decrittare anche quei versi ottocenteschi – scomponendoli, in un gioco enigmistico – provvede, nel romanzo, la favolosa équipe di cui si avvale Cortesi: il professore torinese e il suo amico simbologo, l’anziano architetto milanese che tiene in casa un Caravaggio non censito, e poi il vero “aiutante magico”, Fra’ Tommasino, il decano dell’Abbazia di Chiaravalle, “coadiuvato” (in sogno) da Cecilia, la ragazza amata dall’immenso pittore Giorgione, sulla cui “Tempesta” la critica non ha finito di arrovellarsi. Una trama agile e avvincente, piena di colpi di scena giocati tra Milano e la Calabria, riesce a trasportare il lettore tra le brume meno esplorate degli ultimi decenni dell’Impero Romano, dato già per morto quando invece era ancora enorme l’impronta di un grande imperatore come Teodosio. E’ proprio nella guerra di successione che si inserisce l’apparente outsider “germanico” Alarico, che contende Galla Placidia al figlio del suo altrettanto apparente antagonista, il generale Stilicone, accanto al quale ha anche combattuto per difendere Roma. Alarico? Era sì il Re dei germanici Dervingi, ma anche un cittadino romano, promosso addirittura governatore dell’Illiria. E non era pagano: era cristiano. Di più: era ariano, devoto al vescovo Ulfila.Se poi il termine “ariano” ha assunto tutt’altro significato, lo si deve all’Uomo Nero, Hitler, che – in nome del mito della purezza razziale – spedì a Cosenza gli archeologi di Himmler e cercare, inutilmente, le spoglie (e il tesoro) del loro presunto campione germanico. Quello è il modo in cui la lettura distratta della storia può deviare dalla verità, coniando stereotipi e luoghi comuni che poi innescano dinamiche che finiscono sempre nello stesso modo, cioè con una strage di massa. Ne sa qualcosa il sinistro Rudolf von Sebottendorff , il vero fondatore del nazismo “etnico”, il cui spettro si presenta puntuale all’appuntamento coi lettori di Carpeoro – che non è uno storico, ma un simbologo: nella storia, cerca quello che gli storici non dicono, e forse non sanno. Per esempio: perché Alarico, conquistata Roma, porta con sé Galla Placidia? E perché, se voleva dirigersi in Africa, non è salpato da qualsiasi porto tirrenico, spingendosi invece fino a Reggio Calabria, cioè verso la rotta ionica del Medio Oriente? Aveva forse con sé qualcosa di prezioso, che – come poi i Templari – doveva essere “rimesso al suo posto”, cioè nel Tempio di Salomone a Gerusalemme, simbolo dell’unità pacifica di tutti i popoli della Terra?“Il Re Cristiano” (l’acronimo è R+C, Rosacroce) è un romanzo per chi ama le domande, più che le risposte. E’ il sequel della storia che lo precede, “Labirinti”, e in fondo disegna un altro dedalo: come Teseo ha bisogno dell’amore di Arianna per uscire vivo dal labirinto del Minotauro, il valoroso Alarico deve avere al suo fianco Galla Placidia. Non riuscirà a portare a termine la missione, morendo ancora giovane senza poter instaurare il suo “regno di giustizia” a Roma? Ma la storia non finisce lì, avverte Carpeoro. Vi siete mai chiesti chi fosse, davvero, Galla Placidia? Perché era così ambita, importante, decisiva? Vi siete mai domandati perché si fece erigere lo spettacolare mausoleo funebre a Ravenna, poi scegliere di essere sepolta altrove? Cosa nasconde, allora, il Mausoleo di Galla Placidia? E perché proprio lì, a due passi – come fosse un “guardiano della soglia” – volle farsi seppellire Dante Alighieri, amico dei Càtari e dei Templari, nonché capo della confraternita iniziatica dei Fidelis in Amore? Sono solo domande, non risposte. Ma quelle, del resto, spesso mancano anche agli storici. E appunto, a proposito di Goti: qualcuno s’è mai chiesto perché si chiamino “gotiche” le meravigliose cattedrali che ornano le capitali europee, erette mille anni dopo Alarico? E cosa salterebbe fuori, a Cosenza, se qualcuno prima o poi si decidesse a gettare la rete “dall’altra parte”?(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Il Re Cristiano”, Melchisedek, 272 pagine, 22 euro).Gettate la rete dall’altra parte della barca, e troverete. E’ una pesca miracolosa quella che il redivivo Gesù, nel Vangelo di Giovanni, promette agli apostoli increduli: se volete pesce, calate le vostre reti sul fianco destro dell’imbarcazione. Linguaggio cifrato: la verità ti attende dove mai avresti pensato che fosse – magari dentro di te, nell’emisfero destro del cervello? Tra le pagine (romanzesche) dedicate a un personaggio devotissimo all’uomo di Betlemme – il “Re Cristiano”, appunto, in azione trecento anni dopo gli eventi evangelici – Gianfranco Carpeoro avverte: li state cercando dalla parte sbagliata, i resti del mitico sovrano dei Visigoti, l’autore del primo Sacco di Roma. Lui, Alarico, recava scritto già nel suo nome il proprio destino: “Re di tutti”, in lingua norrena proto-germanica. “Re di tutti”, tant’è vero che non voleva affatto radere al suolo Roma: al contrario, ambiva a diventarne l’imperatore. Per questo, lasciata la città (non saccheggiata da lui, ma dai detenuti liberati) si portò via l’augusta principessa discendente della “gens Flavia”, Galla Placidia, sua promessa sposa, insieme a cui si spinse in Calabria per poi attraversare il Mediterraneo: diretto in Africa o a Gerusalemme? Morì a Cosenza, di malaria o avvelenato. Fu sepolto insieme al suo tesoro, a lungo inutilmente cercato – anche da Hitler. E adesso chi glielo spiega, al Führer, che forse il suo Alarico era addirittura un giudeo?