Archivio del Tag ‘Sant’Antonino’
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Giovagnoli, alchimista: ero malato, e il bosco mi ha guarito
L’alchimista che vi hanno raccontato gira sempre con l’inseparabile alambicco, no? Ricordo che in un libro di scuola, quando facevo le superiori, c’era mezza pagina sull’alchimia, e c’era ’sto sfigato che girava dappertutto con il suo alambicco. Era uno così, nascosto dal cappuccio perché sente freddo alla testa, e poi l’alambicco – lui ci fa anche il bidet, con l’alambicco! Ma questo è l’aspetto folcloristico che hanno diffuso per allontanarci dall’alchimia. E’ una tecnica: rendi ridicola una persona, così non la cerchi più. Si innesca una dinamica selvaggia: il gregge segue il più forte, evitando lo sfigato solitario con il suo alambicco. Allegorie, il potere dell’immagine: in realtà l’alchimista ha la testa coperta dal cappuccio perché perché la sua attenzione è rivolta dentro di sé. Lui si chiude, e l’alambicco è l’immagine di tutto il suo sistema vitale. Lui quindi cerca di gestire i suoi flussi interni, che sono dominati da un centro mentale, un centro sentimentale, un centro sessuale creativo e un centro fisico, che è la macchina biologica che abbiamo. Cosa vuol fare l’alchimista? Vuole fare il processo inverso rispetto a ciò che hanno fatto fare all’umanità, che è stata creata e addomesticata.L’alchimista sfrutta i codici attraverso i quali hanno creato l’uomo, che è una creatura molto potente – non c’è niente, in natura, che abbia il nostro potenziale biologico. Però l’alchimista lo sfrutta non per essere come come vogliono “loro”, ma per essere come vuole lui. Quindi il processo di alchimia non è altro che un lavorare il proprio “composto”, per riconoscere la propria fattura e capire come siamo fatti, e quindi sperimentare e educare la propria macchina a fare certe cose, in modo tale che la macchina non faccia quello che vuole lei, ma quello che vuoi tu. E’ come se prendesse un computer che ha un sistema operativo: glielo toglie e gliene mette uno nuovo. Quando facciamo alchimia di gruppo, nel bosco, io invito i partecipanti a camminare bendati. Da quel momento, nella loro “macchina” (sotto la loro volontà) viene disinstallato un sistema, un programma che gli diceva “vai dove vedi”, e iniziano a dire: “Vai dove vedi con le mani, coi piedi, con i campi elettromagnetici”. Questa è una forma di alchimia. Io iniziato a praticarla dopo aver vissuto quello che un credente avrebbe attribuito all’intervento “miracoloso” di un santo, che gli ha “fatto la grazia”.Con il bosco ho vissuto un rapporto, un’esperienza forte. Avevo una malattia che non riuscivo a guarire. Avevo una “sigmoidite aspecifica con processi erosivi”. Quando il mio gastroenterologo me l’ha detto, pensavo di avere solo uno zaino, sulle spalle. Invece avevo anche una “sigmoidite aspecifica con processi erosivi”. Stavo letteralmente perdendo l’intestino. Falliti tutti i rimedi farmacologici, restava solo la via chirurgica. Mi sono detto: se sto perdendo il colon e mi devo far tagliare l’intestino, che contiene un terzo del cervello, allora vuol dire che è finito il mio tempo: me ne vado, non devo vivere per forza, e magari “dopo” starò anche meglio, chi lo sa. Quella sera ero in preda a una bella disperazione. E allora mi sono “dichiarato guerra”. E’ la prima operazione che l’alchimista compie: dichiararsi guerra. Mi sono detto: Michele, qual è la cosa che ti fa più paura? Il bosco di notte. Ci vado? Non ci vado? Scatta una sorta di sana schizofrenia, che in alchimia si chiama “doppio alchemico”. In pratica, ti sdoppi. Ti guardi da fuori, e il testimone ti osserva e ti parla. Lo dice anche Dante, “mi ritrovai per una selva oscura” (e infatti la Divina Commedia è un libro iniziatico). “Mi ritrovai”: erano in due, lui e “l’altro”. Così è cominciato quel dialogo, quella seea. “Mi fa paura, il bosco di notte”. “Bene, allora adesso ti ci porto”. “Ma sei matto?”. “Sì, ci andiamo. E senza torcia elettrica”.Così sono entrato nel bosco al buio, alla cieca. Ho cominciato a seguire un sentiero, ma poi mi sono perso. Ci sono rimasto per 4 ore. Sono successe cose turche, unne, ostrogote. Ho vissuto momenti di grande terrore, uno shock emozionale. Sono succese cose particolari, che non so descrivere perché non so cosa fossero. Però avvertito che c’erano dei movimenti, attorno a me, c’erano come delle presenze. C’era qualcuno, con me. Cos’era? Non lo so. Ho fatto incontri particolari, diciamo. E ho stretto un accordo con gli alberi: di questo non vi posso parlare, perché è una cosa che riguarda me e loro. Sta di fatto che, quando ho raggiunto la sommità del pendio, ho avuto un’esplosione di caldo fortissimo alla pancia. Ho fatto una gran sudata, poi scoppiato in singhiozzi. Sono caduto a terra, esausto, e ho pianto fino all’alba. Tornato a casa, la mattina, ho scoperto di essere totalmente guarito: non avevo più niente.Vi racconto questo dettaglio perché bisogna anche prendersi gioco di sé, per vincere. Dopo diversi anni, sapete, ero arrivato a pesare 42 chili. E quella mattina, dopo tanto tempo, sono riuscito a fare… la cacca. Ora, quando parli di un uomo e racconti che va a fare la cacca non piace, è poco virile. Ma io ho fatto la cacca e non volevo neppure tirare l’acqua: dopo anni, finalmente, avevo fatto una cacca normale. La rimiravo, pensavo addirittura di conservarla sotto spirito! Davvero: da allora non ho più avuto nessun disturbo. Il mio gastroenterologo non se lo spiegava: pensava che fossi stato a Lourdes, figuratevi. Mi sono detto: caro dottore, io e te non ci vedremo più, se non per un caffè o un aperitivo. Io questa storia l’ho vissuta e basta, e da lì non ho avuto più niente. Pensate che bello. Non vi nascondo che ho un po’ di commozione, nel raccontarla. Avevo seguito la via normale: hai problema, vai dal medico. Avevo lasciato perdere le alternative: mi ero affidato alla scienza, alla medicina ufficiale. E vi lascio immaginate a che tipo di analisi intrusive sono stato sottoposto, con tutte quelle sonde. Ero diventato carne da macello, ma non era servito a niente. Poi, appunto, sono andato nel bosco di notte.E’ successo qualcosa, sotto quegli alberi. Mi reputo una persona normalmente intelligente, capace di coltivare il dubbio. E il dubbio è una delle cose più preziose, è l’anticamera di ogni processo evolutivo. Se cominci a dubitare, smetti di prendere tutto per buono. E allora mi sono detto: è successo qualcosa, nel bosco. Non so cosa: non posso portarvi la formula chimica, non posso dire “è come se avessi preso questo farmaco che inibisce questa cosa e attiva quest’altra”. Eppure sono passato dalla malattia alla guarigione. Posso dire questo: qundo sono entrato nel bosco, quella notte, sapevo che la mia condizione andava degenerando. Lì è successo qualcosa, e infatti ne sono uscito guarito. Da allora ho cominciato a tornarci, tra gli alberi. La sera dopo sono tornato in quel bosco e ho fatto la stessa cosa, però senza più abbandonarmi totalmente. Una volta entrato ho percorso trecento metri e mi sono fermato lì in mezzo: ascoltavo. Il giorno dopo sono ritornato. Poi sono passato ad altri boschi. Cos’era successo, la prima notte? Provo a descriverlo come posso. Stare in quel bosco ha come attivato una memoria, un ricordo.Un po’ come dire: mi ricordo che sono fatto in un certo modo. E mi ricordo che posso anche modificarmi, se ho delle conoscenze. E così mi si è aperto tutto. E’ cos’ che sono morto. Quella sera sono morto: è morto il vecchio Michele, ed è iniziata una vita nuova, sicuramente consapevole e più libera. Per certi aspetti una vita anche più difficile, perché ti accorgi che nel tuo mondo precedente, di cui ti fidavi, c’erano troppe falsità. E allora dici: adesso devo veramente far fronte esclusivamente con le mie forze. E’ faticoso, tutto diventa più difficile. Sta meglio il pollo d’allevamento, sotto certi aspetti, rispetto al gallo cedrone: il pollo ha da mangiare, è protetto e curato. Ma la sua vita è in funzione del padrone. Vuoi mettere, un secondo da gallo cedrone, rispetto ai 43 giorni di vita del pollo d’allevamento? Pensate alla volpe: si sveglia ogni mattina e, di tutti i pensieri che facciamo noi, non ne fa neanche mezzo. Non pensa: devo pettinarmi prima di uscire, devo telefonare a questo e a quello, ho la scadenza dell’Iva, ho un senso di colpa che mi fa marcire dentro perché sono andato a letto con un’altra.La volpe non vive niente di tutto ciò: ha una libertà esperienziale estrema. La cosa ci deve far riflettere, perché il primo punto di partenza – per qualunque processo di guarigione – sta nel capire che stiamo vivendo una quotidianità che è totalmente artefatta. Iniziare a metterla in discussione significa aprire alternative. Poi c’è chi, come me, ha incontrato un albero, ma c’è chi può incontrare una persona e c’è chi, semplicemente, può vivere un sogno: qualcosa di particolare, che gli apre un’alternativa. Aprirsi un’alternativa, secondo me, significa raggiungere il massimo obiettivo. Dove ti porta, questa strada? E’ del tutto secondario. L’obiettivo non è raggiungere qualcosa. L’obiettivo è riuscire ad avere la voglia di cercare. Il risultato non è nel trovare, ma nel voler cercare. E quando la vivi, la ricerca stessa diventa un nutrimento assoluto.(Michele Giovagnoli, dichiarazioni relative alla conferenza al termine del seminario “Il mondo magico degli alberi: come interagire con loro e attingere a una conoscenza superiore”, svoltosi in valle di Susa il 26 agosto 2018, nei boschi che circondano la borgata Cresto, a Sant’Antonino di Susa. Alchimista e naturalista, scrittore e formatore, Giovagnoli ha pubblicato “Assoluta. Analisi logica della Rivelazione”, edizioni Il Grappolo, 2004; “Alchimia selvatica”, Macroedizioni, 2014; “La messa è finita”, UnoEditori, 2017; “Impara a parlare con gli alberi”, UnoEditori, 2018. Info: sul blog di Giovagnoli e sulla sua pagina Facebook, che documenta il suo “Contatto Tour” alla ricerca degli alberi secolari italiani).L’alchimista che vi hanno raccontato gira sempre con l’inseparabile alambicco, no? Ricordo che in un libro di scuola, quando facevo le superiori, c’era mezza pagina sull’alchimia, e c’era ’sto sfigato che girava dappertutto con il suo alambicco. Era uno così, nascosto dal cappuccio perché sente freddo alla testa. E poi l’alambicco: lui ci fa anche il bidet, con l’alambicco! Ma questo è l’aspetto folcloristico che hanno diffuso per allontanarci dall’alchimia. E’ una tecnica: rendi ridicola una persona, così non la cerchi più. Si innesca una dinamica selvaggia: il gregge segue il più forte, evitando lo sfigato solitario con il suo alambicco. Allegorie, il potere dell’immagine: in realtà l’alchimista ha la testa coperta dal cappuccio perché la sua attenzione è rivolta dentro di sé. Lui si chiude, e l’alambicco è l’immagine di tutto il suo sistema vitale. Lui quindi cerca di gestire i suoi flussi interni, che sono dominati da un centro mentale, un centro sentimentale, un centro sessuale creativo e un centro fisico, che è la macchina biologica che abbiamo. Cosa vuol fare l’alchimista? Vuole fare il processo inverso rispetto a ciò che hanno fatto fare all’umanità, che è stata creata e addomesticata.
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Parlare con gli alberi cambia la vita, ve lo spiega Giovagnoli
«Parlare con gli alberi è un gesto antichissimo, meraviglioso e potente: quasi una danza, erotica e delicata, che vivifica l’intelligenza emotiva e armonizza gli emisferi celebrali». Maghi, streghe e alchimisti l’hanno compiuta per millenni, «celebrando la connessione sacra fra la nostra intimità e il pianeta Terra». Oggi, secondo Michele Giovagnoli, «l’umanità è pronta per tornare a parlare con gli alberi». Magari anche con l’aiuto di un testo «rivoluzionario, semplice e poetico, preciso e sorprendente», come appunto “Impara a parlare con gli alberi”, che Uno Editori presenta come “manuale pratico per comunicare, evolvere e guarire col bosco”. Missione: «Ricordarci chi siamo davvero e da dove veniamo», fino ad «ampliare il fronte del possibile», alla ricerca del proprio essere. E’ verdissima e decisamente fuori ordinanza la bussola che orienta Giovagnoli, laureato in scienze naturali e a lungo impegnato nello studio dei boschi. Poi, una notte, la rivelazione: il contatto ancestrale con la foresta può essere illuminante e persino radicalmente terapeutico. Ricerca, a metà strada tra il visibile scientifico e l’invisibile, che solo gli ingenui chiamano ancora soprannaturale. Niente di occulto, nella sapienza (naturale) dell’ultrapiccolo: piuttosto una sorta di misteriosa, antichissima saggezza, dove a “parlare” è l’immanenza di una dimensione percettiva sospesa a mezz’aria fra terra e cielo – come, appunto, quella degli alberi.Alchimista e scrittore, Giovagnoli si dichiara «animato dalla pulsione alla verità e da un universale senso di giustizia». Dalla frequentazione quotidiana dei boschi sostiene di apprendere «l’infinita arte dell’autotrascendenza». Qualcosa che ricorda, misteriosamente, il Giovanni Francese che poi passò alla storia come San Francesco, l’uomo di Assisi che elevò il primo Cantico delle Creature, mettendo l’uomo al pari delle stelle, del sole, dell’acqua e degli uccelli. Giovagnoli condivide le sue conoscenze “di frontiera” attraverso conferenze e seminari. Ha esordito nel 2004 con il saggio “Assoluta. Analisi logica della Rivelazione” (Edizioni Il Grappolo). Dieci anni dopo, ecco il sorprendente “Alchimia Selvatica” (Macroedizioni), seguito a ruota da “La Messa è finita” (2017) e “Impara a parlare con gli Alberi” (2018). Perplessi, di fronte al rischio di consolatorie vaghezze di sapore new age? Peccato, perché Giovagnoli è innanzitutto uno scienziato degli alberi: li studia, li cerca e li scova in tutta Italia, sulle tracce delle piante secolari che popolano i nostri versanti. Gli alberi millenari, invece – con l’eccezione di qualche olivastro pugliese e sardo – li fece abbattere la Chiesa medievale dopo il Concilio Namnetense, come ad eliminare dei pericolosi “concorrenti”, oggetto di devozione popolare.In questo svolge anche la funzione dello storico, l’alchimista “selvatico” Giovagnoli: prima del suo libro-denuncia “La messa è finita”, quell’oscuro concilio vaticano – vero e proprio atto di guerra contro la tenace resistenza del panteismo pagano – era praticamente irrintracciabile su Google. Si dirà che nel frattempo l’umanità si è evoluta, per fortuna. Punti di vista: da quando abbiamo smesso di “parlare con gli alberi”, sono sparite le foreste vergini europee, mentre le altre (in Amazzonia, in Congo, nel Sud-Est Asiatico) sono ormai al lumicino, assediate da ruspe e motoseghe. Dove sarebbe, allora, quest’umanità improvvisamente pronta a tornare a guardare al bosco con altri occhi? Teorie: quelle dell’astrofisica Giuliana Conforto parlano di eventi cosmici in pieno corso, vento solare in rapidissima evoluzione – con pioggia notturna di microparticelle sul nostro cervello in apparenza dormiente. Ieri, nessun lettore scolastico avrebbe potuto prenderli sul serio, i tipi come Giovagnoli. Da qualche anno – lo dice la crescita vertiginosa di nicchie di consumo culturale – si sta invece diffondendo una nuova forma di curiosità collettiva, la stessa che affolla seminari e conferenze, gonfiando gli scaffali di libri semplicemente impensabili nei decenni precedenti.Quelli di Giovagnoli hanno il passo incantato dell’infanzia che sopravvive, adulta, nella maturità della poesia. Il bosco come preesistenza individuale e collettiva, fisica e metafisica, alla quale fare finalmente ritorno. Tornare là è indispensabile, scrive, in “Alchimia selvatica”: «La crescita è un viaggio in profondità, uno scavare e penetrare, ed è quindi indispensabile tornare indietro, tornare nel bosco». Sappiamo che esiste, ma restiamo sempre a distanza di sicurezza, perché «guardarlo significa sfidarsi». Tra gli alberi, «sentiamo di aver lasciato qualcosa in sospeso, come il vuoto di un tassello staccato da un mosaico. E guardando il bosco – scrive l’autore – si attiva un ingranaggio strano che recupera una corda da un abisso». C’è qualcosa di vivo, legato a quella corda. «Il bosco incute paura, una paura talmente forte da essere attrazione. Tentazione. Ci riguarda, ecco il punto!». Sembra “solo” una foresta, ma è anche uno specchio: «Ci piace parlarne come fosse un’entità esterna, ma intimamente sappiamo che parliamo di noi stessi». Il bosco è misterioso, intricato, buio: un reticolo di forze incontrollabili. «Tutto ciò che è scomodo e minaccioso racchiude in sé una forza propulsiva e creativa immane, e l’atto di affrontare il bosco è quindi il gesto coraggioso di chi affronta la propria immensità occulta, consapevole che dentro agli aspetti più ombrosi e inquietanti troverà un nutrimento essenziale per la propria crescita».Ciò che ci spaventa va quindi cercato, sostiene Giovagnoli: occorre chiamarlo per nome e raggiungerlo. «La crescita si compie attraverso un contatto, un abbraccio, e un riconoscere nel lato oscuro uno strumento di congiunzione con l’assoluto». E così, assicura l’autore, «ci si avvolge anche di innocenza e di stupore, rendendo lecita e obbligata ogni meraviglia». Si intenerisce, Giovagnoli: «Nel suo farsi specchio dell’animo del visitatore, il mondo selvatico risponde con un gesto protettivo fatto di ineguagliabile bellezza e armonia». A modo suo, lo scrittore-alchimista si sbarazza di qualsiasi residuo antropocentrico: niente ci appartiene davvero, siamo noi – semmai – ad appartenere al tutto, di cui il bosco è un simbolo-madre, potentemente archetipitico. L’albero, scrive Giovagnoli nel suo ultimo libro, è un essere senziente in grado di comunicare anche con l’essere umano. Lo stesso bosco «è un organismo dotato di una intelligenza superiore, capace di interagire con l’essere umano e indurre processi evolutivi sani». Parlare con gli alberi? E’ un gesto antico, quasi sovrumano. Aiuta a scoprire sensibilità inimmaginabili. «C’è una potenza smisurata in te: va risvegliata, accolta e poi protetta», si legge, nel manuale “Impara a parlare con gli alberi”, dedicato al nostro «patto ancestrale col Cosmo Natura».Facile declinarla in poesia, la filosofia alchemica di Giovagnoli. «Quando eri poco più che una cellula – scrive – nell’ossigeno che assorbivi ruotava già il ciclo delle stagioni selvatiche. Dagli stomi ti giungeva il fresco della primavera, l’indaco dei crochi e la caduta infinita di ogni foglia d’autunno. Era lì con te la neve, la luce dell’alba e anche l’influsso di Orione. Il mondo vegetale si faceva liquido e aria per diventare animale. Fedele a un accordo incomprensibile, diventavi Bosco in una forma nuova. Cellula dopo cellula, atomo dopo atomo. E su di un punto invisibile chiamato Anima si addensava il canto di un cosmo intero: la Natura!». L’albero quindi è con noi da sempre, aggiunge il poeta, e continua a “nutrirci” di ossigeno a ogni respiro. Un’antenna potente, capace di «trasmette al cuore le informazioni del cielo». Aggiunge Giovagnoli, rivolto al lettore: «Tu sei un albero, un albero che cammina. Quindi sai già tutto del Bosco, del pianeta Terra e del concilio infinito degli astri. Di ciò che è stato e di ciò che è pronto a venire. Ti occorre solo ricordare. Ed è proprio questo “ricordare” che significa saper parlare con gli alberi».In fondo, basta considerare il bosco come «l’archivio vivente, per eccellenza, di tutto l’universo emozionale umano». Per questo, assicura Giovagnoli, a chi lo “consulta” offre «infinite possibilità per il risveglio interiore». Seguendo le ciclicità delle stagioni «in accordo con le fasi alchemiche», l’autore di “Alchimia selvatica” guida un percorso pratico di interazione con gli elementi selvatici, mantenendo una posizione intermedia tra il narratore poetico e il “life coach”. Gli attrezzi da usare sono svariati tipi di comunicazione: quella dell’incanto e quella dell’osmosi, la comunicazione estetica e quella onirica. Teoria e pratica, dalla “comunicazione epidermica” alla “comunicazione invocativa”. Quasi giocoso l’approccio dell’ultima fatica, “Impara a parlare con gli alberi”: istruzioni per “ricordare” dov’è sepolta la sorgente misteriosa della nostra ancestrale parentela originaria con il bosco, la foresta di esseri “fatti di mente e cuore”, fieramente immobili sul terreno, incapaci di menzogna e portatori di una verità che ci sfugge: il sentimento della Terra, non più vista come oggetto di conquista ma finalmente dall’interno, come universo orbitante cui si deve, semplicemente, la vita.(I libri: Michele Giovagnoli, “Alchimia selvatica. La via del risveglio attraverso le arti magiche del bosco”, MacroEdizioni, 135 pagine, euro 10,20; “Impara a parlare con gli alberi”, UnoEditori, 109 pagine, euro 13,90. Giovagnoli li presenterà entrambi in valle di Susa domenica 26 agosto 2018 all’ombra degli alberi nel Parco Scholzel Manfrino in borgata Cresto a Sant’Antonino di Susa, ore 19. Nel pomeriggio, dalle ore 14 alle 19, animerà il seminario “Il mondo magico degli alberi, come interagire con loro ed attingere ad una conoscenza superiore”. Prenotazioni per il seminario: AncheAncora, più la pagina Facebook di Giovagnoli).«Parlare con gli alberi è un gesto antichissimo, meraviglioso e potente: quasi una danza, erotica e delicata, che vivifica l’intelligenza emotiva e armonizza gli emisferi celebrali». Maghi, streghe e alchimisti l’hanno compiuta per millenni, «celebrando la connessione sacra fra la nostra intimità e il pianeta Terra». Oggi, secondo Michele Giovagnoli, «l’umanità è pronta per tornare a parlare con gli alberi». Magari anche con l’aiuto di un testo «rivoluzionario, semplice e poetico, preciso e sorprendente», come appunto “Impara a parlare con gli alberi”, che Uno Editori presenta come “manuale pratico per comunicare, evolvere e guarire col bosco”. Missione: «Ricordarci chi siamo davvero e da dove veniamo», fino ad «ampliare il fronte del possibile», alla ricerca del proprio essere. E’ verdissima e decisamente fuori ordinanza la bussola che orienta Giovagnoli, laureato in scienze naturali e a lungo impegnato nello studio dei boschi. Poi, una notte, la rivelazione: il contatto ancestrale con la foresta può essere illuminante e persino radicalmente terapeutico. Ricerca, a metà strada tra il visibile scientifico e l’invisibile, che solo gli ingenui chiamano ancora soprannaturale. Niente di occulto, nella sapienza (naturale) dell’ultrapiccolo: piuttosto una sorta di misteriosa, antichissima saggezza, dove a “parlare” è l’immanenza di una dimensione percettiva sospesa a mezz’aria fra terra e cielo – come, appunto, quella degli alberi.