Archivio del Tag ‘servilismo’
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Attkisson, star della Cbs: è il potere a dettarci i telegiornali
C’era una volta la stampa americana. E in parte esiste ancora, ma soprattutto nei film di Hollywood che continuano ad esaltare il coraggio delle grandi testate o di singoli giornalisti con toni romantici e a volte epici. Che fanno cassetta, ma non rispecchiano la realtà. Dai tempi del Watergate i media americani hanno visto erodere buona parte della propria credibilità, sotto i colpi di una serie di inefficienze e talvolta di scandali. Dai giornalisti pluripremiati che inventavano storie di sana pianta, all’incapacità cronica e talvolta compiacente di contrastare le tecniche degli spin doctor per orientare i media, l’elenco è lungo e tutt’altro che lusinghiero. Ora la Attkisson, grande della star Cbs, lancia un j’accuse pesante nel suo ultimo libro “Stonewall”. In parte non sorprendente: che la maggior parte dei giornalisti americani siano liberal, ovvero di sinistra, e che riservino a Obama un atteggiamento privilegiato, fazioso quasi fino al servilismo, era già stato denunciato da alcuni studiosi. Dove invece la Attkisson squarcia davvero un velo è sulla parte invisibile della gestione dei grandi media americani, sulle connessioni invisibili con l’establishment.
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Bifo: noi e la barbarie dell’Ue, fabbrica di miseria e guerra
Si può fermare l’offensiva liberista in Italia? La manifestazione nazionale indetta a Roma dalla Cgil il 25 ottobre può essere l’inizio di un’onda di rivolta dei lavoratori italiani contro il soffocante austeritarismo dell’Unione Europea, e contro il governo Renzi-Berlusconi, vassalli locali del potere finanziario. Speriamo che lo sia, facciamo tutto quel che possiamo perché lo sia, ma con poche illusioni. Non si può più fermare fermare l’offensiva padronale, la precarizzazione, l’impoverimento, lo smantellamento delle strutture sociali, perché tutto questo è già avvenuto, con la collaborazione dei sindacati. E’ meglio saperlo. Nel 1980, di fronte a 25.000 licenziamenti decisi da Agnelli, Berlinguer chiamò gli operai Fiat a occupare la fabbrica, ma il suo partito negli anni precedenti aveva lavorato a disgregare la forza operaia, e ne aveva isolato le avanguardie fino al punto di avallare il licenziamento di 62 lavoratori “estremisti”. Naturalmente fu una sconfitta dalla quale gli operai italiani non si sono ripresi più.Così oggi il sindacato si mobilita contro la precarizzazione che ormai dilaga, contro l’impoverimento e lo smantellamento del sistema economico italiano che ormai sono cosa fatta. Ancora una volta si chiude la stalla dopo che i buoi sono scappati. L’articolo 18 è un feticcio vuoto perché la precarietà è divenuta forma generale del rapporto di lavoro salariato, e a questo si aggiunge l’espansione continua del lavoro schiavistico, mascherato da lavoro volontario. La cancellazione dell’articolo 18 è il colpo di grazia, il sacrificio rituale che il dio della finanza chiede a Renzi per concedergli in cambio un po’ di flessibilità finanziaria. Nonostante tutto questo la mobilitazione contro la ferocia del ceto politico-finanziario può avere un effetto positivo nel lungo periodo, riaprendo una dinamica di solidarietà e organizzazione che negli ultimi anni si è progressivamente spenta. Ma qual è il contesto?L’Unione Europea è un morto che cammina. A che punto è la notte europea? Purtroppo la notte è appena cominciata, anzi quel che stiamo vivendo forse è solo il tramonto. Il tramonto della speranza di democrazia e di pace nel continente. La democrazia è parola svuotata dalla pratica austeritaria, mentre dovunque cresce il nazionalismo come hanno dimostrato le elezioni del maggio che il ceto finazista europeo non ha voluto neppure considerare. Al finazismo della Bce e al revanscismo tedesco risponde un nuovo nazionalismo nei paesi economicamente più impoveriti dall’offensiva finazista. Il disegno del finazismo globale è stato da sempre ed è oggi più che mai lo smantellamento definitivo dell’Unione Europea, e la sottomissione della popolazione europea alla condizione semi-schiavistica della precarietà. Il punto di precipitazione definitiva dell’Unione, e di inizio della nuova guerra civile europea si trova nel confronto franco-tedesco. La probabile vittoria del Front National è destinata a segnare la fine dell’Unione con conseguenze inimmaginabili, sullo sfondo della guerra russo-ucraina.Non occorre molta sapienza storica per capire che il nazionalismo francese non può tollerare che l’Europa sia unita sotto il dominio tedesco, anche se la Deutsche Bank ha preso il posto che nel 1941 aveva la Wehrmacht. La sceneggiatura è già scritta: crollo del partito di Hollande, affermazione dei nazionalisti, sgretolamento dell’Unione Europea. E dopo? Un articolo di George Soros uscito sulla “Repubblica” del 26 ottobre chiama l’Europa a prepararsi alla guerra con la Russia. Alcuni auspicano l’uscita dell’Italia dall’Unione come se questo fosse la soluzione di qualcosa. L’Italia è uno stato fallito, una società disgregata, depressa, corrotta, un’economia smantellata, un patrimonio industriale distrutto o svenduto come Alitalia. Parlare di Italia è idiota. Occorre parlare della classe operaia che da Torino a Napoli – per quanto decimata, tradita, sconfitta – può mettere in moto un processo che coinvolga il lavoro precario, e soprattutto il lavoro cognitivo disperso fuori dai confini nazionali. Non per la riscossa nazionale di un paese la cui unica azienda in attivo è la mafia, ma per aprire e guidare un processo di rivolta e di autonomia dei lavoratori europei.Siamo entrati in un’epoca oscura e non serve fingere di non vederlo: non si può restaurare la democrazia, l’occupazione non è destinata a crescere ma a diminuire, la pace civile si sta sgretolando, e la crescita non ha più senso economico né ecologico. Occorre prepararsi al pieno dispiegamento delle condizioni che stanno iscritte nella disgregazione sociale, e nella cultura della competizione e della paura: prepararsi alla miseria e alla guerra, per dirlo in chiaro. E’ in questa prospettiva che si devono creare le condizioni per l’autonomia sociale e il dispiegamento delle potenzialità contenute nell’alleanza possibile tra tecnologia e lavoro.Che caratteri avrà un nuovo movimento di emancipazione, dentro e oltre il disastro che liberismo e finazismo hanno preparato con l’aiuto servile della sinistra?Si uscirà dall’epoca buia solo quando la cultura sociale si orienterà verso la riduzione generale del tempo di lavoro. Metà dei posti di lavoro sono inutili, se si applica a pieno la potenza tecnologica. Nelle condizioni del capitalismo questo è un disastro senza rimedio. In condizioni libere dalla stretta del capitalismo questa potenza tecnica può diventare fattore di arricchimento egualitario e di rinascimento culturale. La potenza dell’intelletto generale in rete riduce il tempo di lavoro necessario. L’effetto di questa riduzione è stato finora riduzione del salario, aumento dello sfruttamento relativo e assoluto, aumento della disoccupazione e della miseria. Il sindacato ha testardamente e inutilmente difeso il posto di lavoro mentre si trattava (ormai dagli anni ’80) di scatenare la forza della società e l’immaginazione del lavoro cognitivo per la liberazione di tempo sociale dal lavoro salariato. La sconfitta politica e l’arretramento culturale di questi anni derivano direttamente dall’incapacità della sinistra e del sindacato di allearsi con la tecnologia e il lavoro cognitivo, e di battersi per la riduzione del tempo di lavoro generale.Ora siamo in un tunnel molto nero. La luce verrà soltanto dal rovesciamento della cultura lavorista. Non il produttivismo, non la difesa della composizione esistente del lavoro, non la partecipazione alla corsa del topo liberista. Ma la riduzione generale del tempo di lavoro, la redistribuzione della ricchezza, la liberazione delle energie affettive, educative, culturali dalla morsa imbecille della competizione. Occorre cominciare subito, mentre il tramonto volge verso il buio assoluto. Occorrerà continuare mentre nel buio l’uomo si farà lupo per l’uomo. I lavoratori italiani possono riprendere il ruolo di avanguardia che ebbero nel passato non per salvare il cadavere d’Europa che sta ammorbando l’atmosfera, ma per mettere in moto un processo di lotta europea e internazionalista, per la liberazione del tempo dal lavoro, per la liberazione dell’intelligenza dall’oscurantismo economicista.(Franco “Bifo” Berardi, “Al tramonto d’Europa”, da “Micromega” del 25 ottobre 2014).Si può fermare l’offensiva liberista in Italia? La manifestazione nazionale indetta a Roma dalla Cgil il 25 ottobre può essere l’inizio di un’onda di rivolta dei lavoratori italiani contro il soffocante austeritarismo dell’Unione Europea, e contro il governo Renzi-Berlusconi, vassalli locali del potere finanziario. Speriamo che lo sia, facciamo tutto quel che possiamo perché lo sia, ma con poche illusioni. Non si può più fermare fermare l’offensiva padronale, la precarizzazione, l’impoverimento, lo smantellamento delle strutture sociali, perché tutto questo è già avvenuto, con la collaborazione dei sindacati. E’ meglio saperlo. Nel 1980, di fronte a 25.000 licenziamenti decisi da Agnelli, Berlinguer chiamò gli operai Fiat a occupare la fabbrica, ma il suo partito negli anni precedenti aveva lavorato a disgregare la forza operaia, e ne aveva isolato le avanguardie fino al punto di avallare il licenziamento di 62 lavoratori “estremisti”. Naturalmente fu una sconfitta dalla quale gli operai italiani non si sono ripresi più.
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Torneremo sudditi: il piano del demonio, padrone d’Europa
Tagli al welfare. Si persegue quella che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa. Afferma un celebre adagio che nella pervicacia si annida il demonio. Se è vero, le leadership europee sono prigioniere di potenze infere. Da sette anni infliggono ai propri paesi e alle loro economie una terapia nel segno dell’austerity che dovrebbe debellare la crisi e rimettere in moto la crescita. Non solo questa cura non ha prodotto nessuno dei risultati attesi. Tutte le evidenze depongono in senso contrario, al punto che sempre più numerosi economisti mainstream si pronunciano a favore di politiche espansive. Ciò nonostante la musica non cambia, nemmeno ora che l’Istituto statistico nazionale della Germania federale ha reso noti i dati sul secondo semestre di quest’anno. Anzi, il mantra delle “riforme strutturali” imperversa più forte che mai. Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere.Sta di fatto che a suon di “riforme” l’Europa si sta suicidando, come già avvenne nel secolo scorso dopo il crollo di Wall Street, nonostante il buon esempio degli Stati Uniti rooseveltiani, che pure di capitalismo ne capivano. Questa è una lettura possibile. I capi di Stato e di governo e i grandi banchieri starebbero sbagliando i conti. Per superbia e presunzione, forse per incapacità, come pare suggerire il ministro Padoan parlando di previsioni errate. Ma c’è un’altra ipotesi altrettanto plausibile. Anzi, a questo punto ben più verosimile. Che non si tratti di errori ma del pesante tributo imposto dal massimo potere oggi regnante. Nonché (di ciò troppo di rado si discute) del perseguimento di un lucido progetto. E di un calcolo costi benefici forse spericolato ma coerente, in base al quale la recessione, con i suoi devastanti effetti collaterali (deflazione, disoccupazione, deindustrializzazione), appare un prezzo conveniente a fronte del fine che ci si prefigge: la messa in sicurezza di un determinato modello sociale nei paesi dell’Eurozona.Quale modello è facile a dirsi, se leggiamo in chiave politica le “riforme strutturali” di cui si chiede a gran voce l’adozione. Costringere gli Stati a “far quadrare i conti” significa nei fatti imporre loro, spesso congiuntamente, tre cose. La prima: vendere (svendere) il proprio patrimonio industriale e demaniale. La seconda: accrescere la pressione fiscale sul lavoro dipendente (posto che ci si guarda bene – soprattutto ma non solo in Italia – dal colpire rendite, patrimoni e grandi evasori). La terza: tagliare la spesa sociale destinata al welfare (vedi le ultime esternazioni del ministro Poletti in tema di pensioni), al sistema scolastico pubblico e all’occupazione nel pubblico impiego (dato che altre voci del bilancio non sono mai in discussione). Non è difficile capire che tutto ciò significa affamare il lavoro e spostare enormi masse di ricchezza verso il capitale privato. Nel frattempo, accanto a questi provvedimenti, ci si impegna a modificare le cosiddette relazioni industriali. Così si varano “riforme del lavoro” che hanno tutte un denominatore comune: l’attacco ai diritti dei lavoratori (“rigidità”) al fine di fare della forza lavoro una variabile totalmente subordinata (“flessibile”) al cosiddetto “datore”, che deve poter decidere in libertà se, quanto e a quali condizioni utilizzarla.Ne emerge un progetto nitido, che rovescia di sana pianta non solo il sogno sovversivo degli anni della sommossa operaia ma anche quello dei nostri costituenti. Si vuole fare finalmente della vecchia Europa quello che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa, cioè sul potere pressoché assoluto del capitale privato. Dopodiché potrà forse spiacere che dilaghino disoccupazione e povertà mentre enormi ricchezze si concentrano nelle mani di pochi. Pazienza. La “libertà” è un bene sommo intangibile, al quale è senz’altro opportuno sacrificare un feticcio d’altri tempi come la giustizia sociale. A chi obiettasse che questa è una lettura tendenziosa, sarebbe facile replicare con un rapido cenno alla teoria economica. L’enfasi sulla disciplina di bilancio suppone il ruolo chiave del capitale finanziario nel processo di produzione, secondo quanto stabilito dalla teoria neoclassica. Nel nome della “democrazia” questa teoria affida la dinamica economica alle decisioni del capitale privato. Il processo produttivo si innesca soltanto se esso prevede di trarne un profitto, il che significa concepirlo non soltanto come dominus naturale della produzione ma anche come il sovrano sul terreno sociale e politico.Vi sono naturalmente altre teorie. Marx, per esempio (ma anche Keynes) vede nella produzione una funzione sociale determinata principalmente da due fattori: la domanda (i bisogni sociali, compresi quelli relativi a beni o servizi “fuori mercato”) e la forza lavoro disponibile a soddisfarli. In questa prospettiva la funzione del capitale (soprattutto di quello finanziario, il denaro) è solo quella di mettere in comunicazione la domanda col lavoro. Per questo non gli è riconosciuto alcun potere di veto, meno che meno la sovranità. Anzi: la disponibilità di capitale è interamente subordinata alla decisione politica, per quanto concerne sia la leva fiscale, sia la massa monetaria. Inutile dire che queste teorie sono tuttavia reiette, bollate come stravaganti e antimoderne. Si pensa alle teorie come cose astratte, ma, come si vede, esse in filigrana parlano di soggetti in carne e ossa e di concretissimi conflitti. Il che spiega in abbondanza la povertà logica delle resistenze alle critiche keynesiane e marxiste. Spiega il vergognoso servilismo dei media, fatto di ignoranza e opportunismo. E spiega soprattutto perché, per l’establishment europeo, le “riforme strutturali” propugnate nel nome della teoria neoclassica siano un valore in sé, benché non servano affatto a risolvere la crisi, anzi la stiano aggravando oltremisura.La questione, insomma, è solo in apparenza economica e in realtà squisitamente politica. Del resto, nella sovranità assoluta del capitale e nella totale subordinazione della classe lavoratrice risiede la sostanza dei trattati europei che in questi vent’anni hanno modificato i rapporti di forza tra Stati e istituzioni comunitarie, tra assemblee elettive e poteri tecnocratici. È questo il punto di caduta di provvedimenti in apparenza dettati dalla ragion pura economica come il famigerato Fiscal Compact; questa la ratio della sciagurata decisione, al tempo del “governo del presidente”, di inserire il pareggio di bilancio in Costituzione. Non ve n’era bisogno, essendoci già Maastricht. Ma si sa, si prova un brivido particolare nel prosternarsi dinanzi ai primi della classe, nell’eccedere in espressioni servili. In altri tempi si sarebbe parlato di collaborazionismo.Un solo dubbio resta, nonostante tutto. È chiaro che alle leadership europee non interessa granché dell’equità sociale, né fa problema, ai loro occhi, l’instaurarsi di un’oligarchia. Ma a un certo momento (ormai prossimo) non sarà più tecnicamente possibile drenare risorse verso il capitale. Già oggi l’impoverimento di massa genera disfunzioni gravi, come dimostra l’imperiosa esigenza di “riformare” le Costituzioni per affrancare i governi dall’onere del consenso. Insomma, è sempre più evidente che il modello neoliberista urta contro limiti sociali e politici non facili a varcarsi. È vero che in un certo senso il capitale non conosce patria (è di casa ovunque riesca a valorizzarsi). Ma, a parte il fatto che gli equilibri geopolitici risentono del grado di forza interna delle compagini sociali (per cui l’Occidente rischia grosso nel confronto con l’«altro mondo», in vertiginosa crescita, ricco di capitali e di risorse umane), davvero è pensabile tenere a bada società già avvezze alla democrazia sociale (in questo l’Europa si distingue dagli Stati Uniti) a dispetto di una regressione ad assetti neofeudali? Abbiamo detto che non si capisce la discussione economica se non la si legge in chiave politica. Ma è proprio un problema politico quello che le leadership neoliberiste sembrano non porsi. Confermando tutta la distanza che corre tra gli statisti e i politicanti.(Alberto Burgio, “L’inchino europeo al capitale privato”, da “Il Manifesto” del 20 agosto 2014).Tagli al welfare. Si persegue quella che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa. Afferma un celebre adagio che nella pervicacia si annida il demonio. Se è vero, le leadership europee sono prigioniere di potenze infere. Da sette anni infliggono ai propri paesi e alle loro economie una terapia nel segno dell’austerity che dovrebbe debellare la crisi e rimettere in moto la crescita. Non solo questa cura non ha prodotto nessuno dei risultati attesi. Tutte le evidenze depongono in senso contrario, al punto che sempre più numerosi economisti mainstream si pronunciano a favore di politiche espansive. Ciò nonostante la musica non cambia, nemmeno ora che l’Istituto statistico nazionale della Germania federale ha reso noti i dati sul secondo semestre di quest’anno. Anzi, il mantra delle “riforme strutturali” imperversa più forte che mai. Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere.
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Industrie e banche agli stranieri, per Renzi va bene così
La vendita della Indesit a Whirpool è solo l’ultimo caso: si sta verificando nel silenzio generale la fine dell’Italia industriale, come predetto da Luciano Gallino. Il pericolo imminente è quello di cedere al capitale estero non solo le industrie ma anche le grandi banche, e di svendere completamente il risparmio italiano. A causa del declino verticale dell’industria e della sofferenza delle banche italiane, e a causa della colpevole inerzia governativa e dei pesanti vincoli europei, il capitalismo nazionale sta diventando un servile vassallo di quello internazionale. E l’Italia rischia così di precipitare definitivamente nel Terzo Mondo. Se l’“Economist” definisce “untangled” (sciolto, smembrato) il capitalismo italiano, sfugge il peso della svolta forzata di Mediobanca, che ha deciso di sciogliere gli accordi incrociati tra le maggiori aziende nazionali: da allora, secondo Enrico Grazzini, il capitalismo italiano si è votato a una sorta di suicidio irreversibile.Al cosiddetto capitalismo di relazione, «cioè all’intreccio tra capitalismo (semifallito) delle grandi famiglie, capitalismo finanziario e capitalismo (quasi dismesso) di Stato, si è sostituito l’arrembaggio dell’industria e della finanza internazionale, con la benedizione del governo Renzi», scrive Grazzini su “Micromega”. Intervistato dal “Corriere della Sera”, il premier ha definito «un’operazione fantastica» la vendita dell’Indesit di Merloni alla concorrente Whirpool: «Ho parlato personalmente io con gli americani a Palazzo Chigi. Non si attraggono gli investimenti esteri riscoprendo una visione autarchica e superata del mondo. Noi vogliamo portare aziende da tutto il mondo a Taranto come a Termini Imerese. Il punto non è il passaporto, ma il piano industriale. Gli imprenditori stranieri sono i benvenuti in Italia se hanno soldi e idee per creare posti di lavoro». Così, commenta Grazzini, il liberista Renzi esulta di fronte al fatto che il capitalismo industriale italiano non è più competitivo e si sta smembrando a favore dei capitali stranieri.Ovvio che gli investimenti esteri sono benvenuti, non si possono proteggere a tutti i costi le società nazionali, «ma bisognerebbe assolutamente evitare di cedere le industrie strategiche indispensabili per il futuro industriale del nostro paese». Quasi sempre, continua Grazzini, le cessioni all’estero arricchiscono solo le grandi famiglie, come i Merloni e i Tronchetti Provera (vedi i casi di Pirelli e Telecom Italia). L’ondata di cessioni industriali non comporta solo la riduzione drastica dell’occupazione, ma anche l’impossibilità di mantenere le condizioni per uno sviluppo economico autonomo e democratico. L’Italia, «cedendo le sue industrie e le sue banche», di fatto «mina le basi del suo sviluppo». E, da domani, «peserà come il due di picche nel turbolento scenario economico e politico europeo e mondiale». Parla da sola la “fuga” americana della Fiat, «propiziata dai miliardi concessi da Obama per proteggere l’industria americana dell’auto e dal silenzio criminale e assurdo dei governi italiani».De-italianizzata anche Telecom, che non ha più pesanti azionisti italiani e «dietro lo schermo ideologico della public company guidata dai manager è sostanzialmente in vendita», sono rimasti pochissimi i grandi gruppi italiani in grado di competere sul mercato internazionale. «E sono praticamente tutti statali, ovvero Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri e pochi altri». Nonostante i peccati mortali attribuiti (spesso giustamente) ai boiardi di Stato, quel che resta della nostra industria pubblica sa competere meglio di quella privata, rileva Grazzini. «Anche per queste industrie strategiche il governo prevede però una disgraziata privatizzazione a favore dei capitali esteri, con l’obiettivo (falso) di diminuire il debito pubblico e rispettare i vincoli di deficit pubblico posti dall’Unione Europea». La verità è ben altra: «L’euro ci strozza e la Ue vuole farci vendere i gioielli di famiglia. Ma anche un grullo capisce che non si può alleggerire un debito di 2.100 miliardi con la vendita di quote di società da cui ricavare al massimo qualche decina di miliardi».All’opposto, lo Stato francese difende il controllo della sua industria nucleare e dell’energia, diventando il maggiore azionista di Areva per impedirne la completa acquisizione da parte dell’americana General Electric. «L’ideologia liberista di Renzi non è più praticata neppure presso i paesi più liberisti», scrive Grazzini. «Obama protegge gelosamente le sue industrie strategiche, l’auto, l’hi-tech e la finanza. La Fed, la banca centrale americana, stampa decine di miliardi di dollari al mese grazie ai quali le banche d’affari e le industrie statunitensi possono acquistare facilmente i concorrenti esteri. Anche grazie al “privilegio esorbitante” del dollaro facile, il 40% circa della Borsa italiana è in mano a banche d’affari, fondi pensione e fondi speculativi e di private equity americani, arabi, europei, fondi sovrani di Stati esteri». Esempio: il fondo BlackRock, gigante della finanza Usa, è uno dei principali azionisti non solo di Telecom Italia ma anche di Unicredit e Intesa, cioè delle due principali banche nazionali in cui confluisce gran parte del risparmio degli italiani.Ma non è solo il governo americano a intervenire a favore della sua industria: secondo uno studio di Mediobanca, il governo britannico e quello tedesco hanno speso rispettivamente 1.213 e 446 miliardi di euro per salvare le loro banche nazionali dalla crisi. Angela Merkel fa di tutto per proteggere e sviluppare l’industria tedesca dell’auto e della meccanica. La Germania, inoltre, «manovra l’euro come se fosse il marco per favorire le sue esportazioni e la proiezione internazionale della sua industria». E il governo bianco-rosa della cancelliera finanzia (giustamente) con denaro pubblico la sua industria delle energie alternative, contrastando duramente l’Unione Europea che vorrebbe impedire gli aiuti di Stato anti-competitivi. «I paesi emergenti – a partire da Cina, India e Brasile – sono riusciti a svilupparsi negli ultimi decenni attirando gli investimenti industriali esteri, ma anche proteggendo le industrie strategiche grazie allo stretto controllo dei capitali stranieri».Solo una politica pubblica attiva e intelligente, conclude Grazzini, può infatti difendere l’economia nazionale dall’assalto dei grandi enti finanziari che divorano le industrie, sviluppando ricerca, infrastrutture, aziende hi-tech e energie alternative. «Purtroppo il governo Renzi sembra avere una visione di politica economica completamente subordinata all’ideologia del “lasciar fare” ai mercati finanziari. Il governo interviene solo “a babbo morto” quando un’azienda è completamente fallita, come Alitalia, per cederla ai capitali esteri, cercando solo, per quanto possibile, di salvare le grandi banche creditrici (Intesa e Mps innanzitutto, nel caso Alitalia)». A fermare la slavina basterebbe un intervento deciso della Cassa Depositi e Prestiti, «l’unico ente nazionale simile a una banca pubblica». Meglio ancora: «Il governo dovrebbe nazionalizzare e gestire una grande banca, e finanziare (con profitto pubblico) le piccole aziende italiane in grave crisi di liquidità», nonché «le medie aziende del cosiddetto “quarto capitalismo” in grado di competere sui mercati internazionali».Un fondo pubblico specializzato, continua Grazzini, dovrebbe inoltre co-finanziare massicciamente le società private di “venture capital”, per sponsorizzare l’avvio e lo sviluppo globale di nuove start-up nei campi promettenti ma incerti dell’hi-tech. Peccato che politica sia praticamente inesistente, a cominciare da sinistra e sindacati, pur sapendo che «l’intervento statale non basta assolutamente per salvare e sviluppare l’industria nazionale: nell’economia dell’innovazione e delle conoscenze occorre mobilitare soprattutto l’intelligenza e la partecipazione dei lavoratori». Democrazia dal basso, per consentire alla forza lavoro – come avviene in Germania – di eleggere i suoi rappresentanti nei consigli di amministrazione delle grandi imprese, come l’Ilva e Telecom. Per Grazzini, «il pericolo maggiore – e imminente – è che non solo le industrie manifatturiere ma anche le banche nazionali vengano cedute all’estero (come è già successo con Mps, la terza banca nazionale) e che il risparmio degli italiani vada ad alimentare completamente lo sviluppo delle economie estere». Con soddisfazione sospetta, l’“Economist” annuncia che dal 2010 le fondazioni nazionali (lottizzate, ma pur sempre semi-pubbliche) abbiano perso la presa sulle banche italiane quotate in Borsa, che ormai dipendono dal “libero” mercato azionario per il 77%, con investitori stranieri padroni dell’11% del credito italiano, cioè il doppio rispetto a pochi anni fa.L’unificazione bancaria europea decisa dalla Ue genera la necessità di ricorrere al mercato per ricapitalizzare le banche nazionali colme di debiti in sofferenza a causa della crisi, e spesso dei crediti erogati agli “amici”. «L’apertura del mercato bancario nazionale sollecitata dall’Unione Europea è una fortuna per la speculazione internazionale», spiega Grazzini. «Le ricapitalizzazioni sono una manna per gli investitori esteri che con pochi soldi potranno acquistare il risparmio nazionale: ma senza il minimo controllo sul risparmio non ci saranno nuovi investimenti e prospettive di sviluppo più o meno sostenibile». L’Italia? «Diventerà irrimediabilmente un paese del terzo mondo». Ama conclusione: «L’economia italiana avrebbe bisogno di democrazia economica dal basso, di una avanzata politica industriale, di capitani d’industria come Enrico Mattei e Adriano Olivetti, di innovatori come Steve Jobs, di banchieri come Raffaele Mattioli, e di politici della statura di De Gaulle per difendere e sviluppare l’economia nazionale. Purtroppo invece in Italia hanno prevalso i Marchionne, i Berlusconi e i Renzi».La vendita della Indesit a Whirpool è solo l’ultimo caso: si sta verificando nel silenzio generale la fine dell’Italia industriale, come predetto da Luciano Gallino. Il pericolo imminente è quello di cedere al capitale estero non solo le industrie ma anche le grandi banche, e di svendere completamente il risparmio italiano. A causa del declino verticale dell’industria e della sofferenza delle banche italiane, e a causa della colpevole inerzia governativa e dei pesanti vincoli europei, il capitalismo nazionale sta diventando un servile vassallo di quello internazionale. E l’Italia rischia così di precipitare definitivamente nel Terzo Mondo. Se l’“Economist” definisce “untangled” (sciolto, smembrato) il capitalismo italiano, sfugge il peso della svolta forzata di Mediobanca, che ha deciso di sciogliere gli accordi incrociati tra le maggiori aziende nazionali: da allora, secondo Enrico Grazzini, il capitalismo italiano si è votato a una sorta di suicidio irreversibile.
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Vogliono mangiarsi la Russia, piani di guerra in autunno
Lo status quo post guerra fredda nell’Europa dell’Est, per non parlare di quella occidentale, è morto: «Per la plutocrazia occidentale, quello 0,00001% all’apice, i veri Signori dell’Universo, la Russia è il premio finale», scrive Pepe Escobar. «Un immenso tesoro di risorse naturali, foreste, acque cristalline, minerali, petrolio e gas: abbastanza per portare ad uno stato di estasi qualsiasi gioco di guerra Nsa-Cia owelliano-panottico». Domanda: «Come prendere al volo e approfittarsi di un bottino tanto succulento?». Qui entra in gioco la “globopolizia” Nato. Sul punto di vedere la sua retroguardia impietosamente maltrattata da un pugno di guerriglieri di montagna armati di Kalashnikov, l’Alleanza Atlantica si sta velocemente voltando – lo stesso vecchio schema Mackinder-Brzezinsky – verso la Russia. La road map, avverte il giornalista di “Asia Times”, verrà preparata al summit dei primi di settembre in Galles. Gli Usa vanno “a caccia di orsi”, ma la pazienza dell’orso russo non è infinita: sostenuto dalla Cina, prima o poi Putin sarà costretto a reagire. E saranno guai per tutti.Semplicemente incredibile, rileva Escobar in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, la vicenda del volo Mh17 della Malaysia Airlines abbattuto da un caccia di Kiev nei cieli dell’Est Ucraina: a inchiodare i golpisti ucraini sostenuti dalla Nato, le testimonianze di un osservatore canadese dell’Ocse e di un pilota tedesco. «Tutto punta ad un cannone da 30 millimetri di un Su-25 ucraino che fa fuoco sulla cabina di pilotaggio dell’Mh17, causando una decompressione istantanea e lo schianto». Nessun razzo, dunque, men che meno il missile aria-aria evocato nelle «prime, frenetiche dichiarazioni statunitensi». In più, le nuove versioni collimano con le testimonianze oculari in loco registrate dalla Bbc in un reportage «notoriamente “scomparso”». Conclusione: incidente pianificato dagli Usa e messo in atto da Kiev per incolpare Mosca. «Ci si può solo lontanamente immaginare il terremoto geopolitico se il “false flag” fosse reso di pubblico dominio».Nebbia, ovviamente, sulle indagini: la Malesia ha consegnato i registratori dell’Mh17 al Regno Unito, «quindi alla Nato, quindi alle manipolazioni della Cia», mentre il volo Air Algerie Ah5017, precipitato dopo l’Mh17, è già stato chiarito grazie a un’indagine prontamente divulgata. «Sorge spontanea la domanda sul perché ci sta volendo così tanto per analizzare/manipolare le scatole nere dell’Mh17». Fare chiarezza ostacolerebbe il gioco sporco delle sanzioni: «La Russia resta colpevole – senza alcuna prova – quindi deve essere punita». L’Ue? «Ha seguito servilmente la voce del padrone e ha adottato tutte le sanzioni estreme contro la Russia». Mosca avrà accesso ridotto ai mercati in dollari ed euro, e alle banche di Stato russe sarà proibito vendere azioni o bond in Occidente. Ma ci sono scappatoie decisive: Sberbank, la più grande banca russa, non è stata sanzionata. Nel medio-breve termine, la Russia dovrà finanziarsi da sola? «Le banche cinesi possono facilmente rimpiazzare quel tipo di prestiti».E’ ormai strategica la partnership con Pechino. «Come se Mosca avesse bisogno di altri avvertimenti che l’unico modo per farcela è abbandonare sempre più il sistema dollaro». Gli Stati dell’Ue ne soffriranno molto, continua Escobar: Bp ha una partecipazione del 20% nella Rosneft, e per la cronaca «sta già dando di matto». Anche Exxon Mobil, la Statoil norvegese e la Shell saranno penalizzate. Le sanzioni non toccano l’industria del gas: se così fosse stato, «la stupidità controproducente dell’Ue sarebbe schizzata a livelli galattici». La Polonia, «che istericamente incolpa la Russia per qualsiasi cosa accada», compra da essa più dell’80% del gas, e «le non meno isteriche Repubbliche Baltiche, così come la Finlandia, il 100%». Il veto sui prodotti a doppio uso – militare e civile – creeranno invece problemi alla Germania, il maggior esportatore dell’Ue verso la Russia. Nel ramo della difesa saranno Francia e Regno Unito a soffrire: quest’ultimo ha almeno 200 contratti di vendita di armi e controlli per il lancio di missili in Russia; tuttavia la vendita da 1,2 miliardi di euro (1,6 miliardi di dollari) di navi d’assalto “Mistral” alla Russia da parte della Francia continuerà a procedere.Il consigliere economico di Putin, Sergei Glazyev, sostiene che l’economia europea dovrebbe stare veramente attenta nel proteggere i propri interessi, mentre gli Usa cercano di «scatenare una guerra in Europa e una Guerra Fredda contro la Russia». Conclusione: «Settori chiave della plutocrazia occidentale vogliono una continua e indefinita guerra con la Russia». Il piano-A della Nato, aggiunge Escobar, prevede di impiantare batterie di missili in Ucraina: «Se dovesse accadere, per Mosca la linea rossa verrebbe oltrepassata di parecchio», visto che a quel punto «si darebbe la possibilità di un primo attacco ai confini russi occidentali». Nel frattempo, Washington punta a isolare dalla Russia i separatisti dell’Est Ucraina. «Ciò implica finanziare direttamente e massivamente Kiev e parallelamente costruire e armare, per mezzo di consiglieri statunitensi già sul posto, una enorme armata (circa 500.000 entro la fine dell’anno, secondo le proiezioni di Glazyev)». Lo scacco matto: rinchiudere i federalisti in una minuscola area. Per il presidente ucraino Petro Poroshenko, dovrebbe accadere entro settembre, alla peggio entro la fine del 2014.«Negli Stati Uniti e in gran parte dell’Ue, si è sviluppata una mostruosa caricatura che rappresenta Putin come il nuovo Osama Bin Laden stalinista», scrive Escobar. «Fino ad ora la sua strategia sull’Ucraina si è basata sulla pazienza», cioè «stare a guardare le gang di Kiev suicidarsi mentre si tentava di sedersi civilmente con l’Ue per trovare una soluzione politica». Ora però ci potremmo trovare di fronte a una variabile che cambia i giochi, perché «l’ammassarsi di prove, che Glazyev e l’intelligence russa stanno fornendo a Putin, indicano l’Ucraina come campo di battaglia, come una spinta ad un cambio di regime a Mosca, verso una Russia destabilizzata». Si avvicina dunque la possibilità di «una provocazione definitiva». Geopolitica mondiale: «Mosca, alleata con i Brics, sta lavorando attivamente per bypassare il dollaro – che rappresenta il punto di riferimento di una economia di guerra statunitense basata sulla stampa di inutili pezzi di carta verde. I progressi sono lenti ma tangibili: non solo i Brics, ma anche gli aspiranti Brics, i G-77, il Movimento Non Allineato e tutto il Sud del mondo ne hanno piene le tasche dell’eterno bullismo dell’Impero del Caos e vogliono un nuovo paradigma nelle relazioni internazionali».Gli Usa contano sulla Nato – che manipolano a loro piacimento – e sul “cane pazzo” Israele, e forse sul Ggg (Consiglio di Cooperazione del Golfo), le petro-monarchie sunnite complici nel massacro di Gaza, che possono essere comprate e messe a tacere «con uno schiaffo sul polso». A Mosca, i nervi sono stati messi a dura prova: «La tentazione per Putin di invadere l’Ucraina dell’Est in 24 ore e ridurre in polvere le milizie di Kiev deve essere stata sovrumana. Specialmente con la crescente escalation di follia: missili in Polonia e presto in Ucraina, bombardamenti indiscriminati di civili nel Donbass, la tragedia dell’Mh17, l’isterica demonizzazione da parte dell’Occidente». Moltissima pazienza, finora, da parte dell’“orso” russo – pazienza non illimitata, però. «Putin è programmato per giocare la partita a lungo termine. La finestra per un attacco-lampo ormai s’è chiusa: quella mossa di kung fu avrebbe fermato la Nato con un fatto compiuto e la pulizia etnica di 8 milioni di russi e russofoni nel Donbass non sarebbe mai iniziata». Putin, però, non “invaderà” l’Ucraina: sa che «l’opinione pubblica russa non vuole che lo faccia».Mosca, aggiunge Escobar, continuerà a sostenere quello che si configura come un movimento di resistenza de facto nel Donbass: tra due mesi al massimo, «l’inverno inizierà ad imporsi in quelle lande ucraine distrutte e saccheggiate dal Fmi». Il piano di pace russo-tedesco da poco trapelato, continua l’analista di “Asia Times”, potrà essere sviluppato «sul cadavere di Washington». Ecco perché questo nuovo “Grande Gioco” promosso dagli Usa punta a prevenire un’integrazione delle economie di Ue e Russia attraverso la Germania, «che diverrebbe parte di una più estesa integrazione eurasiatica che includa la Cina e la sua moltitudine di vie della seta». Se i commerci della Russia con l’Europa – circa 410 miliardi di dollari nel 2013 – stanno per ricevere un colpo a causa delle sanzioni, ciò implica un movimento che spinga ad Est. Il che comporta un aggiustamento del progetto di Unione Economica Eurasiatica, o una Grande Europa da Lisbona a Vladivostock, «l’idea iniziale di Putin», in tandem coi cinesi. «Tradotto, sta a significare una forte partnership Cina-Russia nel cuore dell’Eurasia – una terrificante maledizione per i Padroni dell’Universo».Non si sbaglia, la partnership strategica Cina-Russia continuerà a svilupparsi velocemente – con Pechino in simbiosi con le immense risorse naturali e tecnologico-militari di Mosca. Per non menzionare i benefici a livello strategico, aggiunge Escobar: «Una cosa del genere non accadeva dai tempi di Genghis Khan. Ma in questo caso, Xi Jinping non sta arruolando un Khan per sottomettere la Siberia ed oltre». Attenzione: «La guerra fredda 2.0 è ormai inevitabile perché l’Impero del Caos non accetterà mai che la Russia abbia una sfera di influenza in zone dell’Eurasia (come non accetta che ce l’abbia la Cina). Non accetterà mai la Russia come un partner paritario (l’eccezionalismo non ha eguali) e non perdonerà mai la Russia – come la Cina – per aver apertamente sfidato il cigolante e eccezionalista ordine imposto dagli Stati Uniti». Per cui, «se il Dipartimento di Stato Usa, guidato da quelle nullità che passano per leader, nella disperazione, andasse un passo troppo avanti – potrebbe avvenire un genocidio nel Donbass, un attacco della Nato in Crimea o, nel peggiore dei casi, un attacco alla Russia stessa – attenzione: l’orso colpirà».Lo status quo post guerra fredda nell’Europa dell’Est, per non parlare di quella occidentale, è morto: «Per la plutocrazia occidentale, quello 0,00001% all’apice, i veri Signori dell’Universo, la Russia è il premio finale», scrive Pepe Escobar. «Un immenso tesoro di risorse naturali, foreste, acque cristalline, minerali, petrolio e gas: abbastanza per portare ad uno stato di estasi qualsiasi gioco di guerra Nsa-Cia owelliano-panottico». Domanda: «Come prendere al volo e approfittarsi di un bottino tanto succulento?». Qui entra in gioco la “globopolizia” Nato. Sul punto di vedere la sua retroguardia impietosamente maltrattata da un pugno di guerriglieri di montagna armati di Kalashnikov, l’Alleanza Atlantica si sta velocemente voltando – lo stesso vecchio schema Mackinder-Brzezinsky – verso la Russia. La road map, avverte il giornalista di “Asia Times”, verrà preparata al summit dei primi di settembre in Galles. Gli Usa vanno “a caccia di orsi”, ma la pazienza dell’orso russo non è infinita: sostenuto dalla Cina, prima o poi Putin sarà costretto a reagire. E saranno guai per tutti.
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Viale: sondaggi bugiardi, Tsipras smentirà il regime
«Il baratro in cui è precipitato il giornalismo italiano si vede dal fatto che molti non riescono nemmeno a capire che si possa volere un’ Europa diversa da quella che c’è», ovvero «quella di Renzi come lo era di Letta, di Monti e anche di Berlusconi e Tremonti quando erano al governo». Guido Viale denuncia la congiura del silenzio sulla lista Tsipras, nel coro assordante dei media che seguono il premier come un oracolo. «Da qualche mese, al seguito della cavalcata sul nulla di Matteo Renzi», lo spazio che gli riservano giornali e televisioni «è totalitario, come documenta l’Osservatorio sulle Tv di Pavia». E il servilismo degli adulatori è dilagante: «Papa Francesco copia “lo stile di Renzi”, ci ha informato un notiziario». Osserva Viale: «Non c’è più un regime fascista a imporre questo allineamento, sono piuttosto questi allineamenti a creare le solide premesse di un “moderno” autoritarismo, auspicato dall’alta finanza», quella che – Jp Morgan in testa – si scaglia contro la nostra Costituzione, che “ostacola” il loro business.Autoritarismo: quello delle “riforme” costituzionali ed elettorali di Renzi, «tese a cancellare con premio e soglie di sbarramento ogni possibilità di controbilanciare i poteri dei partiti». Nel mirino anche i Comuni, cioè poteri locali ancora relativamente controllati dai cittadini, ai quali erogano i servizi pubblici fondamentali. «Renzi, come Letta, Monti e Berlusconi, vuole costringerli ad alienarli: come aveva fatto Mussolini sostituendo ai Consigli comunali i suoi prefetti», scrive Viale sull’ “Huffington Post”. I media, naturalmente, si regolano di conseguenza. La campagna elettorale per le europee? Interamente confinata nel confronto Renzi-Grillo, «tutto incentrato sulle diverse forme di “carisma” che i due leader esibiscono». Silenzio di tomba sull’unica novità politica nelle urne, la lista “L’altra Europa con Tsipras”. Dai media, ostracismo bulgaro: hanno «ingigantito le difficoltà incontrate nel corso della sua formazione, per poi calare una cortina di silenzio totale sulla sua esistenza». Non una parola sulla visita di Tsipras a Palermo, con teatro pieno e «mille persone rimaste fuori ad ascoltare». E non una riga sulle 220.000 firme di presentazione, «risultato su cui molti media avevano scommesso che non sarebbe mai stato raggiunto».Eppure, aggiunge Viale, non è mancato agli stessi giornali e telegiornali lo spazio per occuparsi del congresso del “nuovo” partito comunista fondato da Rizzo, in realtà «il quattordicesimo», della presentazione della lista elettorale “Stamina” e della riammissione dei Verdi alla competizione elettorale. «Il tutto viene completato con la presentazione di sondaggi che danno la lista per morta: sono i tre divulgati dalle televisioni di regime, mentre tutti gli altri sondaggi la danno due o tre punti al di sopra della soglia di sbarramento, ma non vengono resi noti». Aggiunge Viale: «Io, che ho lavorato anche in una società di sondaggi, so bene come si fa ad orientarli (e anche a falsificarli) e quanto contribuiscano a “orientare” e a manipolare la realtà». Così, poco per volta, «impercettibilmente si scivola verso un nuovo regime», confortato regolarmente da cerimonieri come Eugenio Scalfari, autore di una «omelia settimanale», la domenica, su “Repubblica”.Gli 80 euro in busta paga? Una bufala senza copertura, riconosce Scalfari, inventata solo per vincere le europee. Ma c’è da augurarsi che l’imbroglio funzioni, aggiunge il fondatore di “Repubblica”, perché così il governo si rafforzerà, recupererà anche in Europa il prestigio perduto e la crescita potrà ripartire. «Il che – dice Viale – mostra in che conto Scalfari tenga “questa Europa”», cioè «quella a cui stiamo sacrificando le ormai molte “generazioni perdute” del nostro e di altri paesi, l’esistenza, la salute, la vecchiaia e la vita stessa di un numero crescente di cittadini, di lavoratori e di imprenditori, e l’intero tessuto produttivo del nostro e paese». Soprattutto, l’accondiscendenza conformista di Scalfari «mostra dove porta questa teoria, o visione, o percezione, sempre più diffusa dai media e tra la gente, del governo Renzi come “ultima spiaggia”. Così, quando si sarà compiuto il disastro economico, sociale e istituzionale a cui ci sta trascinando quella sua cavalcata fatta di vuote promesse, di trucchi contabili e di nessuna capacità di progettare un vero cambiamento di rotta per l’Italia e per l’Europa, non si potrà più tornare indietro». La miglior risposta, si augiura Viale, sarebbe il rovesciamento dei pronostici di regime: proprio a partire dal voto europeo.«Il baratro in cui è precipitato il giornalismo italiano si vede dal fatto che molti non riescono nemmeno a capire che si possa volere un’ Europa diversa da quella che c’è», ovvero «quella di Renzi come lo era di Letta, di Monti e anche di Berlusconi e Tremonti quando erano al governo». Guido Viale denuncia la congiura del silenzio sulla lista Tsipras, nel coro assordante dei media che seguono il premier come un oracolo. «Da qualche mese, al seguito della cavalcata sul nulla di Matteo Renzi», lo spazio che gli riservano giornali e televisioni «è totalitario, come documenta l’Osservatorio sulle Tv di Pavia». E il servilismo degli adulatori è dilagante: «Papa Francesco copia “lo stile di Renzi”, ci ha informato un notiziario». Osserva Viale: «Non c’è più un regime fascista a imporre questo allineamento, sono piuttosto questi allineamenti a creare le solide premesse di un “moderno” autoritarismo, auspicato dall’alta finanza», quella che – Jp Morgan in testa – si scaglia contro la nostra Costituzione, che “ostacola” il loro business.
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Vattimo: i grillini han ragione, per questo fanno paura
Lasciatelo dire a me, che non meno di un mese fa, all’annuncio che, in nome del mio comunismo ermeneutico, avrei voluto candidarmi alle elezioni europee con i Cinque Stelle, sono stato oggetto di una durissima campagna telematica da parte di militanti del Movimento che non mi hanno risparmiato nessuna delle ingiurie che ora scandalizzano tanto la stampa di regime. Le ingiurie e gli insulti, sessisti e no (ma non mi hanno nemmeno rinfacciato di essere gay, peraltro), non mi fanno piacere, e credo che in generale siano controproducenti, come insegna il caso Berlusconi, che dalle sue malefatte sessual-politico-barzellettesche ha sempre tratto enormi vantaggi in termini di popolarità anche elettorale.Ma il diluvio di accuse, insulti, deprecazioni, allarmi in difesa della democrazia, che tutti i media dell’arco “costituzionale” rovesciano ogni mattina su Grillo il suo movimento non dovrebbero più lasciare indifferenti i benpensanti. I quali non possono non vedervi la prova che i grillini hanno ragione da vendere, e per questo il mondo dell’informazione mainstream ne ha tanta paura. Come si fa a qualificare a gran voce come “sgangherata” la costituzionalissima richiesta di messa in stato d’accusa del Capo dello Stato, che a partire dalla nomina di Monti a senatore a vita e poi a primo ministro non avrà attentato alla Costituzione, ma l’ha almeno applicata con molta elasticità e arbitrarietà, sempre nello spirito di un atlantismo addirittura servile (pensiamo alla grazia per il colonnello Romano).Fino all’ultimo decreto che, dopo tanti altri, ha lasciato passare senza battere un colpo, alla faccia della manifesta disomogeneità tra l’Imu e il regalo alle banche, non mitigato nemmeno da un richiamo al dovere di sostenere l’economia con una politica creditizia meno rapinatoria. Quanto all’ostruzionismo, che qualche zelante democratico ha addirittura pensato di perseguire penalmente, sarebbe il caso di capire che mentre si chiude sempre più un blocco renziano-berlusconiano teso a perpetuare il regime delle larghe intese che strangolano la nostra economia, è fin troppo poco ciò che si è visto in Parlamento. La legge elettorale che si progetta è l’anticamera del regime, una sorta di legge truffa costituzionalizzata, come il Fiscal Compact che minaccia di ridurci alla miseria e forse alla guerriglia urbana. Salviamoci almeno dall’ipocrisia dei tanti democratici di complemento che si stracciano le vesti in nome della dignità di un Parlamento che sembra sempre più avviato a una indecorosa eutanasia.(Gianni Vattimo, “M5S, i grillini hanno ragione da vendere. Per questo fanno paura”, da “Il Fatto Quotidiano” del 4 febbraio 2014).Lasciatelo dire a me, che non meno di un mese fa, all’annuncio che, in nome del mio comunismo ermeneutico, avrei voluto candidarmi alle elezioni europee con i Cinque Stelle, sono stato oggetto di una durissima campagna telematica da parte di militanti del Movimento che non mi hanno risparmiato nessuna delle ingiurie che ora scandalizzano tanto la stampa di regime. Le ingiurie e gli insulti, sessisti e no (ma non mi hanno nemmeno rinfacciato di essere gay, peraltro), non mi fanno piacere, e credo che in generale siano controproducenti, come insegna il caso Berlusconi, che dalle sue malefatte sessual-politico-barzellettesche ha sempre tratto enormi vantaggi in termini di popolarità anche elettorale.
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Della Luna: Italia da buttare, vogliono staccare la spina
Italia indifendibile? Lo dice la Suprema Corte, confermando la storia di un paese dominato per secoli dagli stranieri, grazie a “reggenti” sleali verso il popolo. I difensori dell’establishment, Napolitano e Boldrini in testa, sostengono che il Parlamento possa rilegittimare se stesso e l’intero ordinamento statale facendo semplicemente una nuova legge elettorale che corregga i vizi dichiarati il 4 dicembre dalla Corte Costituzionale? Problema: a votare la nuova legge sarebbero parlamentari eletti “illegittimamente”. Dunque, osserva Marco Della Luna, questa stessa legge sarebbe illegittima. «Insomma, qualunque cosa metteranno insieme, sarà chiaramente un pasticcio, sputtanato in partenza, e contribuirà alla già bassissima credibilità del sistema e delle sue regole, quindi compromettendo ulteriormente il suo funzionamento». L’incidente costituisce un precedente assoluto, nonostante il già scarso prestigio delle istituzioni: quest’ultima sentenza «è la prima auto-certificazione di illegittimità del sistema».A questa rottura senza uscita della legittimità dello Stato, aggiunge Della Luna nel suo blog, corrisponde sul piano economico una recessione senza via di uscita: «Le manovre e le predizioni di risanamento e rilancio falliscono tutte, gli indicatori fondamentali continuano a peggiorare, redditi e occupazione vanno a picco e destabilizzano il sistema previdenziale, destinato a non poter erogare pensioni sufficienti a vivere». Inoltre, l’“Europa” di Olli Rehn «preme brutalmente sull’euroservile governo Letta per accelerare e aumentare le privatizzazioni, ossia i trasferimenti sottocosto di industrie e servizi di interesse nazionale ai capitali predatori che guidano la politica comunitaria», mentre le promesse di ripresa «sono chiaramente menzognere, assolutamente impossibili da realizzare, buone solo a puntellare la casta».Per salvarsi davvero l’Italia avrebbe bisogno di investimenti privati, che però mancano «perché tasse, costo del lavoro, costo della burocrazia e inefficienza sistemica sono eccessivi, e perché non si investe in un mercato che non può comprare per mancanza di redditi». E servirebbero investimenti pubblici, anch’essi assenti «perché lo Stato ha sempre meno soldi», imprigionato nell’euro-trappola che lo priva di risorse monetarie e ora lo costringe, attraverso il Fiscal Compact, a ridurre il debito pubblico per qualcosa come 50 miliardi l’anno. Dopodiché, sarebbe necessario “riqualificare” la spesa pubblica tagliando gli sprechi destinati al clientelismo di casta, e fermare l’esodo dei cervelli investendo su ricerca e innovazione per riconquistare competitività. Serve liquidità, anche per far fronte al debito storico, «ma la liquidità viene sempre più sottratta all’economia nazionale da fuga dei capitali, fuga dei risparmi, rimesse degli immigrati, contribuzioni al Mes, contrazione del credito, banche che raccolgono denaro per investirlo nei mercati speculativi e improduttivi».Servirebbero «governanti competenti e non ciarlatani», in grado di introdurre «regole efficienti e applicate», mentre – al contrario – abbiamo «un continuo deterioramento della fiducia sociale e della qualità delle norme e del loro rispetto da parte di cittadini, imprese e istituzioni». Inevitabilmente, aggiunge Della Luna, questa doppia crisi sistemica – giuridica ed economica – porta verso una rottura violenta. «La violenza potrà essere quella di insurrezioni interne di disperati-esasperati e conseguenti repressioni armate; oppure quella del nuovo dominus-creditore, il capitalismo rapinatore e affamatore euro-germanico che manderà, o farà chiamare dal governo “responsabile” di turno, l’Eurogendfor (il corpo di polizia militare antisommossa internazionale istituito col Trattato di Velsen nel 2007, con Prodi per l’Italia) ad eseguire quelle forme di repressione a cui le nostre forze dell’ordine non riuscirebbero ad arrivare». Analogamente, la repressione fiscale sarà affidata al Mes, in grado di «perpetrare quei prelievi fiscali per cui neanche Equitalia avrebbe l’animo».Domanda: «Fino a che livello di disastro, di asservimento e avvelenamento si vuole spingere questo infelice paese?». Per Della Luna, sarebbe saggio prevenire questi scenari accettando la realtà: vista oggi, la «cosiddetta unità d’Italia» sembra fallita, non funziona, non è vitale, «è una misconstruction come l’euro, la Pac (Politica agricola comune) e la stessa costruzione comunitaria». Sarebbe meglio «staccare la spina a questo Stato insieme mafioso e pagliaccesco, screditato dentro e fuori i propri confini, senza alcuna ragionevole prospettiva di miglioramento». Non basta essere «un’area monetaria ottimale», bisogna anche essere «un’area normativa ottimale, un’area morale ottimale». Missione impossibile, conclude Della Luna, per regioni che hanno subito la dominazione straniera per 14 secoli: per questo, nei conti del popolo, «i reggenti italiani tendono ad assumere il ruolo di governatori vassalli di potenze straniere», e la gente «tende a percepire lo Stato come qualcosa di sovraimposto, di sempre più estraneo e ostile e padronale». Risultato: «La slealtà dei governanti verso i cittadini induce la slealtà dei cittadini verso lo Stato, e viceversa, in una spirale autodistruttiva».Italia indifendibile? Lo dice la Suprema Corte, confermando la storia di un paese dominato per secoli dagli stranieri, grazie a “reggenti” sleali verso il popolo. I difensori dell’establishment, Napolitano e Boldrini in testa, sostengono che il Parlamento possa rilegittimare se stesso e l’intero ordinamento statale facendo semplicemente una nuova legge elettorale che corregga i vizi dichiarati il 4 dicembre dalla Corte Costituzionale? Problema: a votare la nuova legge sarebbero parlamentari eletti “illegittimamente”. Dunque, osserva Marco Della Luna, questa stessa legge sarebbe illegittima. «Insomma, qualunque cosa metteranno insieme, sarà chiaramente un pasticcio, sputtanato in partenza, e contribuirà alla già bassissima credibilità del sistema e delle sue regole, quindi compromettendo ulteriormente il suo funzionamento». L’incidente costituisce un precedente assoluto, nonostante il già scarso prestigio delle istituzioni: quest’ultima sentenza «è la prima auto-certificazione di illegittimità del sistema».
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Macché Renzi, la carta di Napolitano si chiama Draghi
Non fatevi incantare dal talent show per la scalata del Pd: nessuno dei partecipanti ha il cosiddetto x factor. Uno dei tre moschettieri, quasi certamente Renzi, riuscirà a conquistare il partito. Ma per andare al governo dovrà attendere il 2015. Non perché Letta reggerà fino a quel momento. Ma proprio perché Letta, «come il latte, è già scaduto». Mentre alle sue spalle «s’avanza un altro bidone di latta e di governo, con la convocazione del Quirinale in tasca». Secondo Gianni Petrosillo, «sta per rientrare dall’estero il miglior fusto made in Italy che c’è in circolazione», ovvero Mario Draghi. Napolitano? «Tirerà presto fuori questo coniglio dal cilindro, per saldare definitivamente i pezzi del suo piano», che dopo la decadenza di Berlusconi ha di fronte una vistosa accelerazione. Infatti, la maggioranza in Parlamento è cambiata: i numeri più risicati «richiedono l’investitura di un condottiero di maggior spessore e prestigio». Meglio: «Un portatore di grandi interessi internazionali (tanto di cerchie finanziarie che di potenze globali) ai quali deputati e senatori non possono opporsi». Letta? «Non è adatto alla nuova “impresa”».Quindi, prima ancora di vedersela con gli elettori italiani e con «il prossimo burattino di Berlusconi, si tratti di un figlio o di un altro figlioccio», il nuovo segretario del Pd «si troverà davanti uno scenario prefabbricato, puntellato da soluzioni imprescindibili ed impegni ineludibili e già sottoscritti, rispetto ai quali non avrà nessun potere decisionale», scrive Petrosillo in un post su “Conflitti e Strategie”, ripreso da “Come Don Chisciotte”. In altre parole, il futuro segretario Pd «non potrà mettere becco in niente e dovrà limitarsi ad amministrare l’esistente, cioè la devastazione e la desolazione totale». Perché «l’uomo del miracolo», al contrario, cioè «il profeta che sta per approdare sulle nostre coste, ha il nome di un mostro mitologico che sputa fuoco e prescrizioni dell’Ue». A lui, l’uomo che cena a casa di Eugenio Scalfari in compagnia di Letta e dell’uomo del Colle, «toccherà il compito di ingabbiare la nazione secondo i diktat di Bruxelles e di svendere il patrimonio pubblico secondo dettami che provengono da molto più lontano».Il super-curriculum del presidente della Bce «è garanzia di servilismo e sottomissione ai nostri tradizionali padroni, continentali e soprattutto extracontinentali», sostiene Petrosillo, alludendo evidentemente al ruolo-chiave di Draghi all’epoca delle grandi privatizzazioni degli anni ’90 pianificate con la lobby britannica degli “Invisibili” e poi il ruolo di stratega della Goldman Sachs e privatizzatore del sistema bancario italiano. «Tra qualche giorno si aprirà ufficialmente la crisi e i draghi invaderanno i nostri cieli per toglierci tutto quello che abbiamo», continua Petrosillo. «Questa non è una profezia, questa è la soluzione pro-zio-Sam trovata dal nostro sovrano Napolitano». Fantapolitica? «Può essere, ma è sempre meglio farsi trovare preparati dopo quanto successo in questi ultimi miserabili vent’anni». Questa volta «potrebbe trattarsi dell’assalto finale alla nostra sovranità nazionale», ovvero «pene nuove, che si assommano a dolori atavici».Non fatevi incantare dal talent show per la scalata del Pd: nessuno dei partecipanti ha il cosiddetto x factor. Uno dei tre moschettieri, quasi certamente Renzi, riuscirà a conquistare il partito. Ma per andare al governo dovrà attendere il 2015. Non perché Letta reggerà fino a quel momento. Ma proprio perché Letta, «come il latte, è già scaduto». Mentre alle sue spalle «s’avanza un altro bidone di latta e di governo, con la convocazione del Quirinale in tasca». Secondo Gianni Petrosillo, «sta per rientrare dall’estero il miglior fusto made in Italy che c’è in circolazione», ovvero Mario Draghi. Napolitano? «Tirerà presto fuori questo coniglio dal cilindro, per saldare definitivamente i pezzi del suo piano», che dopo la decadenza di Berlusconi ha di fronte una vistosa accelerazione. Infatti, la maggioranza in Parlamento è cambiata: i numeri più risicati «richiedono l’investitura di un condottiero di maggior spessore e prestigio». Meglio: «Un portatore di grandi interessi internazionali (tanto di cerchie finanziarie che di potenze globali) ai quali deputati e senatori non possono opporsi». Letta? «Non è adatto alla nuova “impresa”».
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Berlusconi ha vinto: addio sinistra, c’è solo lo spread
«Il codardo oltraggio dopo il servo encomio, ci ricorda Manzoni, fa parte della storia della fine di ogni regime», e ora che il ventennio berlusconiano starebbe finendo, dice Giorgio Cremaschi, è bene ricordare che non tutto ciò che si è opposto a Berlusconi era davvero diverso da lui. Vent’anni, dice Letta? Ma in tutto questo tempo, il Cavaliere ha effettivamente governato per poco più di otto. Il centrosinistra lo ha fatto per sette, il resto son stati governi di larghe intese, tecnici e di unità nazionale. Era “berlusconismo” anche quando governavano Prodi e tutti gli altri leader del centrosinistra, «i cui governi non hanno mai cambiato le leggi della destra, neppure la Bossi Fini». Di che cosa ci si libera, oggi, grazie alla magistratura? «Del liberismo e delle spinte autoritarie, della flessibilità del lavoro e della disoccupazione di massa, dell’ideologia del mercato e della globalizzazione? No di certo».La fine politica di Berlusconi, scrive Cremaschi su “Micromega”, non è cominciata oggi, ma quando Marchionne ha mostrato che si poteva distruggere il sindacato in fabbrica senza ricorrere a Sacconi, e soprattutto quando la Bce ha scritto il programma che dovevano attuare i governi del nostro paese. «Berlusconi è stato destituito da quella che una volta avremmo chiamato la destra economica, italiana ed europea, che non sapeva più che farsene di un leader impresentabile». Chi è cambiato in profondità è il popolo della sinistra, rassegnatosi al pensiero liberale. Sicché, «onesti conservatori che in altri paesi sarebbero tranquillamente schierati con la destra», in Italia sono targati centrosinistra. E le politiche del rigore, contro cui scendono in piazza le folle di tutta Europa, sono diventate «la bandiera di chi non voleva cedere ai ricatti del populista di Arcore». E ora che il governo sopravvive a Berlusconi, «si potrà finalmente fare quella riforma della Costituzione che tutti i poteri forti chiedono e che il presidente Napolitano da tempo rivendica e promuove».Una controriforma, aggiunge Cremaschi, che ha già avuto una premessa fondamentale nell’approvazione dell’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio. Il vero risultato del berlusconismo? «E’ quello di aver ottenuto, tramite un certo antiberlusconismo, la distruzione a livello di massa del pensare e dell’agire di una vera sinistra». L’ex leader della Fiom cita ancora Manzoni: “Il forte si mesce col vinto nemico, col novo signore rimane l’antico”. Al nostro «confuso mondo progressista» bisogna ricordare che «non c’è nulla da gioire di una vittoria che non è nostra e che proprio per questo verrà usata dai veri vincitori per continuare la politica economica e sociale di questi venti anni. Per liberarsi della eredità berlusconiana che tuttora governa – conclude Cremaschi – bisogna ricostruire una vera sinistra, che voglia cambiare la società e non amministrarla in nome dello spread».«Il codardo oltraggio dopo il servo encomio, ci ricorda Manzoni, fa parte della storia della fine di ogni regime», e ora che il ventennio berlusconiano starebbe finendo, dice Giorgio Cremaschi, è bene ricordare che non tutto ciò che si è opposto a Berlusconi era davvero diverso da lui. Vent’anni, dice Letta? Ma in tutto questo tempo, il Cavaliere ha effettivamente governato per poco più di otto. Il centrosinistra lo ha fatto per sette, il resto son stati governi di larghe intese, tecnici e di unità nazionale. Era “berlusconismo” anche quando governavano Prodi e tutti gli altri leader del centrosinistra, «i cui governi non hanno mai cambiato le leggi della destra, neppure la Bossi Fini». Di che cosa ci si libera, oggi, grazie alla magistratura? «Del liberismo e delle spinte autoritarie, della flessibilità del lavoro e della disoccupazione di massa, dell’ideologia del mercato e della globalizzazione? No di certo».
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Scanzi a Grillo: anziché attaccarmi, fatti intervistare
Un minuto di silenzio per chi, per anni, mi ha dato del “servo di Grillo” (che non sento da maggio 2011) e ora deve prendere atto di come lui e Casaleggio mi abbiano simpaticamente sfanculato nel loro blog, con un post tanto prevedibile (ci avevo scommesso la casa) quanto meraviglioso. E un minuto di silenzio anche per chi, per anni, ha sostenuto che il “Fatto” fosse house organ di Grillo, ora pure quello amenamente crivellato dai due. Non che nutrissi la perversione triste di prendere lezioni da Zucconi o Battista, professionisti della non-critica e fedeli della non-linea, ma Grillo e Casaleggio ci hanno fatto un bel regalo. Da oggi non ho più neanche i difetti inventati e il mio ego potrà finalmente esplodere. Vamos. La speranza è che, un giorno, anche i santoni vicini al Pd facciano le pulci al Pd come noi abbiamo sempre fatto al M5S (e a tutti gli altri): ne guadagnerebbero il paese, il giornalismo italiano e magari pure la sinistra italiana.Capisco comunque la rabbia di Grillo e Casaleggio: sanno che il sottoscritto, Travaglio e il “Fatto” hanno ragione. E sanno anche che la maggioranza di elettori e parlamentari la pensa probabilmente come noi. Il loro rosicamento, per quanto infantile e masochistico, è dunque giustificato. Ne ho quindi rispetto. Mi permetto solo di rammentar loro un vecchio adagio: quando si sbaglia, si sbaglia. Quando si perde, si perde. Capita anche ai migliori. Non tutte le battaglie – e gli sfoghi – possono essere giusti. Quel post sul reato di clandestinità era e resta una cazzata titanica. E quello di stamani sul “Fatto” è persino peggiore. Meglio ammetterlo. Altrimenti viene il dubbio che per loro il giornalismo ideale non sia quello libero, ma quello che gli dà ragione.(Il Cernobbico Casaleggio mi accusa di dire il falso sulla sua candidatura in Forza Italia. Uh oh. Vedo che anche lui, in mancanza di appigli migliori, gioca alla pagliuzza e alla trave. Come un D’Alema qualsiasi. Vero: tecnicamente non si candidò in Forza Italia. Chiedo scusa per la gravissima semplificazione: mi autopunirò guardando in loop un video qualsiasi su “Gaia”. Casaleggio si candidò però in una lista civica, nel 2004, a Settimo Vittone nel Canavese. Quella lista, “Per Settimo”, era capeggiata da Vito Groccia, “politico calabrese vicino a Forza Italia”. Ops. Casaleggio partecipò alla stesura del programma, si impegnò in prima persona e ottenne un risultato rutilante: sei voti e niente elezione. Sarò felice di parlarne con lui. Chissà, magari in una intervista. Quella stessa intervista che, da mesi, Casaleggio rifiuta al “Fatto”. Oppure accetta, ma dettando condizioni capestro che ovviamente mai accetteremo. L’invito è ovviamente esteso anche a Grillo, nella speranza che prima o poi scenda stabilmente dall’eremo di Sant’Ilario, aiuti da vicino i suoi parlamentari soli contro tutti e – già che c’è – cominci a fare quelle conferenze stampa promesse da tempo. Fiducioso e divertito, nonché assai grato, attendo).(Andrea Scanzi, giornalista del “Fatto Quotidiano”, il 13 ottobre 2013 replica così – dalla sua pagina Facebook – alle accuse mossegli da Grillo e Casaleggio; il post è ripreso da “Megachip”).Un minuto di silenzio per chi, per anni, mi ha dato del “servo di Grillo” (che non sento da maggio 2011) e ora deve prendere atto di come lui e Casaleggio mi abbiano simpaticamente sfanculato nel loro blog, con un post tanto prevedibile (ci avevo scommesso la casa) quanto meraviglioso. E un minuto di silenzio anche per chi, per anni, ha sostenuto che il “Fatto” fosse house organ di Grillo, ora pure quello amenamente crivellato dai due. Non che nutrissi la perversione triste di prendere lezioni da Zucconi o Battista, professionisti della non-critica e fedeli della non-linea, ma Grillo e Casaleggio ci hanno fatto un bel regalo. Da oggi non ho più neanche i difetti inventati e il mio ego potrà finalmente esplodere. Vamos. La speranza è che, un giorno, anche i santoni vicini al Pd facciano le pulci al Pd come noi abbiamo sempre fatto al M5S (e a tutti gli altri): ne guadagnerebbero il paese, il giornalismo italiano e magari pure la sinistra italiana.
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Migranti, Grillo-choc: dopo il diktat, accusa il Fatto
Beppe Grillo tenta di rimediare in extremis, spiegandosi – sbagliato concentrarsi sulla disperazione dei migranti trascurando quella dell’Italia che affonda (lavoro, aziende, famiglie) – ma il post “stalinista” firmato con Casaleggio per scomunicare brutalmente i parlamentari 5 Stelle mobilitatisi per abrogare l’infame reato di clandestinità colpisce duro, con migliaia di proteste dalla Rete, di fronte allo spettacolo delle bare allineate a Lampedusa. Così non va, avverte un grande supporter grillino come Dario Fo. E persino Travaglio, che si è permesso di scrivere che Grillo e Casaleggio hanno «perso un’ottima occasione per tacere», finisce nella lista nera dei “falsi amici”. Peter Gomez, direttore della versione web del “Fatto Quotidiano”, affonda il coltello: a parte il fatto che a considerare “nemico” il suo giornale è solo una esigua minoranza di ultras, è semplicemente sconcertante che anche presso Grillo – esattamente come per Pd e Pdl – «resti molto popolare l’idea che l’esistenza di una stampa amica sia un fatto normale».