Archivio del Tag ‘Simone Santini’
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Cacciari, il sangue di Soleimani e l’osceno silenzio europeo
Menzogne, sangue e colpevoli silenzi. E’ l’habitat nel quale prospera il verminaio terrorista alimentato sottobanco da un impero occidentale che non ha saputo svilupparsi, storicamente, se non spese di paesi terzi. E’ la tesi di giornalisti eretici come Paolo Barnard, corroborata da illustri colleghi come Seymour Hersh, Premio Pulitzer statunitense, spietato con i nostri media: se la stampa non avesse smesso di fare il proprio mestiere, sostiene, qualche politico – non codardo – avrebbe avuto modo di denunciare i crimini del potere mercuriale, costringendo l’establishment del terzo millennio a fare meno guerre e provocare meno massacri di vittime innocenti. Che poi la verità si annacqui negli opposti estremismi opportunistici e nel sostegno al terrorismo, fatale conseguenza di abusi criminali, non è che un aspetto della mattanza in corso, a rate, inaugurata dall’opaco maxi-attentato dell’11 Settembre a New York, di cui tuttora si tace la vera paternità presunta. Ma se si varca il Rubicone e si compie una violazione che non ha precdeenti nella storia, un attentato terroristico condotto con mezzi militari e apertamente rivendicato, allora si passa il segno.Fa impressione sentirlo dire in televisione dal filosofo Massimo Cacciari, solitamente prudente, ospite di Bianca Berlinguer il 7 gennaio 2020 insieme all’altrettanto compassato Paolo Mieli, parimenti preoccupato dall’inaudito omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani, assassinato senza preavviso in un paese neutrale e teoricamente sovrano, l’Iraq devastato dalle guerre americane. A spaventare Cacciari è innanzitutto la morte clinica della politica: senza nemmeno citare l’increscioso Salvini che tifa per i missili omicidi, auto-espellendosi dal club delle personalità pubbliche abilitate a occuparsi di noi, ciò che sconcerta è il vuoto pneumatico, culturale prima ancora che politico, che contraddistingue le cancellerie europee di fronte al pericolosissimo valzer di sangue innescato dal proditorio assassinio di Soleimani, eroe nazionale dell’Iran, le cui esequie in mondovisione hanno esibito nelle piazze il dolore di milioni di persone. Si ha un bel dire che il regime di Teheran non è certo un esempio di libertà e democrazia: la discussione si potrebbe svolgere alla pari quando l’Iran bombardasse l’Europa o l’America, ammazzando leader occidentali.Certo, se il mondo sembra sull’orlo dell’abisso, non bisogna dimenticare che – dietro le quinte – agiscono potentissime consorterie riservate, spesso tacitamente in accordo tra loro, pronte anche a sacrificare innocenti pur di incolparsi a vicenda e rafforzare nel modo più sleale il ferreo dominio sui rispettivi popoli, drogati di propaganda. Di fronte al suo omicidio così infame, imposto al mondo in modo pericoloso e oscenamente sfrontato, i media occidentali ripetono che Soleimani era una specie di terrorista, evitando di ricordare che proprio il comandante dei Pasdaran era il nemico numero unico del terrorismo targato Isis, da lui personalmente sgominato prima in Iraq e poi in Siria. Dove pensa di andare, un Occidente che si priva della minima dose vitale di verità? In nome di quale presunta superiorità democratica ritiene di prevalere sulla brutale teocrazia degli ayatollah, sulla “democratura” russa e sull’oligarchia cinese?Si abbia almeno la decenza di riconoscere che il generale Soleimani era innanzitutto un uomo del suo popolo, protesta – sempre alla televisione italiana, ospite di Barbara Palombelli – un intellettuale come Pietrangelo Buttafuoco, il solo a rammentare al gentile pubblico che l’Isis, il mostro che Soleimani ha sconfitto in Iraq e in Siria, era armato e protetto proprio da noi, Occidente democratico. Per la precisione, ha ricordato il saggista Gianfranco Carpeoro, a mettere in piedi l’inferno chiamato Isis è stata una Ur-Lodge supermassonica, la “Hathor Pentalpha”, creata nel 1980 dal clan Bush, reclutando prima Osama Bin Laden e poi il “califfo” Abu Bakr Al-Baghadi. Proprio la recente uccisione del macellaio Al-Baghdadi, uomo-chiave del Deep State statunitense, secondo Carpeoro avrebbe indotto la “Hathor” a premere su Trump, ricattandolo: se uccidi Soleimani, la passerai liscia al Senato per l’impeachment e avrai dalla tua parte, nella corsa per le presidenziali di novembre, anche l’ala repubblicana più reazionaria e naturalmente il potentissimo network sionista che i complottisti chiamano impropriamente “lobby ebraica”.Analisi, suggestioni e indizi che non raggiungono neppure lo 0,1% del pubblico, a cui viene raccontato che il generale Soleimani era “un feroce assassino”, senza mai specificare come, quando e dove si sarebbe esercitato nella sua diabolica specialità, così riprovevole e lontana mille miglia dalla soave, squisita e leggendaria gentilezza dei democraticissimi generali statunitensi e israeliani. Era attivo in Libano, Soleimani? Certo, ma lo erano anche i colleghi israelo-occidentali, che notoriamente in Libano ci vanno abitualmente come turisti. Era stato impegnato in Iraq, il generale iraniano, ed è noto a tutti che l’Iraq è da sempre nei cuori delle umanitarie democrazie occidentali, madrine dei diritti umani. Il bieco Soleimani era di casa pure in Siria, altro paese amatissimo dai democratici di Washington, Ankara, Riad e Tel Aviv. Per inciso: Siria, Libano e Iraq erano i paesi da cui gli impresari occidentali dell’Isis contavano di esportare i tagliagole in Iran, per abbattere finalmente l’odiato regime (sovrano) degli ayatollah. Paolo Barnard ha titolato un suo bestseller con la più scomoda delle domande: perché ci odiano? Tra le sue fonti: il numero due di Al-Qaeda in Egitto.E’ decisivo scoprire che il cuore nero e inconfessabile del jihadismo è l’invenzione perversa di un’élite occidentale criminale. Ma restando sulla superficie, questo non cambia il quadro, il bilancio finale: le nostre forze armate, impegnate in paesi islamici, hanno provocato centinaia di migliaia di morti e milioni di esuli. Perché ci odiano, dunque? Supporre che al nostro posto chiunque altro – Russia, Cina – si sarebbe comportato nello stesso modo, non è di grande consolazione. Alcuni incrollabili atlantisti, che vedono comunque negli Stati Uniti l’unica possibile fonte di riscatto democratico per il pianeta, sperano che il lume della ragione prenda possesso del governo imperiale della superpotenza prima che sia troppo tardi. Si illudono? Sono domande senza risposta, su cui pesa il vistoso smarrimento di Cacciari di fronte al vergognoso silenzio dell’Europa: com’è possibile, accusa, non prendere le distanze da un atto di terrorismo di Stato come quello compiuto dagli Usa ai danni dell’Iran?Lo stesso Cacciari, sempre in televisione, non si nasconde le possibili conseguenze: se gli Usa dovessero reagire alle ovvie rappresaglie iraniane bombardando Teheran, la potenza nucleare russa sarebbe costretta a intervenire. La chiamano: Terza Guerra Mondiale. Nessuno la vorrebbe, ma sembra avvicinarsi in modo terrificante, con sviluppi imprevedibili. Simone Santini, su “Megachip”, accosta la morte di Soleimani a quella dell’afghano Massud. Stessa dinamica e stessi mandanti, identico obiettivo: assassinare un leader autorevole, per far esplodere il caos e indebolire il paese finito nel mirino della potenza imperiale. La pakistana Benazir Bhutto accusò Bush e la Cia dell’omicidio Massud, candidandosi a ripulire il Pakistan, per poi rimarginare anche le ferite dell’Afghanistan: fu assassinata a sua volta, alla vigilia delle elezioni. Un conto però sono le autobombe, dice oggi Massimo Cacciari, e un altro è l’omicidio manu militari commesso impunemente, alla luce del sole. Non era mai accaduto prima, nella storia. E nessuno ha avuto il coraggio di protestare. Se stiamo zitti di fronte a questo, aggiunge Cacciari, cosa potrà accaderci, domani? Com’è possibile non capire che il sangue versato da Qasem Soleimani interroga personalmente ognuno di noi, prima ancora che i nostri impresentabili politici?(Giorgio Cattaneo, 8 gennaio 2020).Menzogne, sangue e colpevoli silenzi. E’ l’habitat nel quale prospera il verminaio terrorista alimentato sottobanco da un impero occidentale che non ha saputo svilupparsi, storicamente, se non a spese di paesi terzi. E’ la tesi di giornalisti eretici come Paolo Barnard, corroborata da illustri colleghi come Seymour Hersh, Premio Pulitzer statunitense, spietato con i nostri media: se la stampa non avesse smesso di fare il proprio mestiere, sostiene, qualche politico – non codardo – avrebbe avuto modo di denunciare i crimini del potere mercuriale, costringendo l’establishment del terzo millennio a fare meno guerre e provocare meno massacri di vittime innocenti. Che poi la verità si annacqui negli opposti estremismi opportunistici e nel sostegno al terrorismo, fatale conseguenza di abusi criminali, non è che un aspetto della mattanza in corso, a rate, inaugurata dall’opaco maxi-attentato dell’11 Settembre a New York, di cui tuttora si tace la vera paternità presunta. Ma se si varca il Rubicone e si compie una violazione che non ha precedenti nella storia, un attentato terroristico condotto con mezzi militari e apertamente rivendicato, allora si passa il segno.
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Soleimani come Massud: ucciso l’eroe, seppellirai la pace
Qassem Soleimani era certamente un militare, un duro, ma era anche uomo di Stato, un consigliere politico insostituibile per la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei: in quella veste «ha dimostrato di essere un uomo di stabilizzazione, un tessitore, al pari della sua risolutezza come guerriero». Attenzione: nel 2001, un paio di giorni prima dell’11 Settembre, il leggendario guerrigliero afghano Ahmad Shah Massud venne ucciso in un attentato. Chi lo fece (il signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, agente dell’Isi – l’intelligence pakistana, braccio operativo della Cia) sapeva benissimo che da lì a poco l’Afghanistan sarebbe stato invaso. I killer di Massud non volevano tra i piedi un eroe nazionale che rappresentasse un punto di stabilità per quel paese. «Chi ha ucciso Soleimani sa bene cosa sta per succedere e ha inteso togliere di mezzo preventivamente un perno di stabilità per tutta la regione». E’ l’analisi che Simone Santini offre, dal blog “Megachip”, per leggere tra le righe del caos scatenato dall’infame agguato terroristico statunitense, in territorio iracheno, costato la vita al leader dei Pasdaran, eroe nazionale iraniano e liberatore della Siria grazie alla storica sconfitta impartita al’Isis, la sanguinosa formazione terrorista sunnita finanziata e protetta dall’Occidente.Da Santini, uno sguardo disincantato e prospettico sul nuovo pericoloso incendio mediorientale, scatenato – colpendo l’Iran – per minare il possibile rafforzamento dell’asse tra Teheran e Pechino (e magari Mosca) nel quadro della “nuova guerra fredda” in corso (o, se si preferisce, Terza Guerra Mondiale a puntate). Già tre anni fa, all’indomani della elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, Santini elencava i compiti che sarebbero stati affidatio all’amministrazione Trump. Primo: ripristinare e proteggere l’economia interna, ricostruendo le sue basi fondamentali. Ovvero: Stati Uniti rimessi in pista come motore produttivo, manifatturiero, verso la piena occupazione, mettendo fine alle delocalizzazioni selvagge. Poi: distensione con la Russia, ma senza cedere nulla di quanto conquistato nel frattempo. Tradotto: «Congelamento dello status quo, fine delle aggressioni, reciproco rispetto formale e collaborazione laddove gli interessi fossero convergenti». Cruciale il capitolo Cina, come si è visto: massima competizione commerciale ed economica con Pechino, «ma senza spingere al momento sull’acceleratore del confronto militare». Sul medio periodo, prevedeva Santini, «si dovrà alzare sempre più l’asticella della competizione globale e porre Pechino davanti ad una scelta strategica: accettare la supremazia americana in cambio di una parziale condivisione dei dividendi dell’Impero oppure il confronto militare, sempre più aggressivo».E intanto: «Concentrarsi nell’immediato sullo scacchiere mediorientale, lo scenario più urgente». Dunque: «Fine della sponsorizzazione del jihadismo sunnita, che ha esaurito in quell’area la sua funzione, e spinta verso la democratizzazione delle petromonarchie del Golfo, a partire dall’Arabia Saudita. Il nemico principale, tuttavia – sottolineava Santini tre anni fa – torna ad essere lo sciismo politico e i suoi alleati, il cosiddetto asse della resistenza, e il suo centro nevralgico, l’Iran». Le linee di faglia su cui si sarebbe mossa l’amministrazione americana erano dunque ben visibili da subito, conferma oggi l’analista di “Megachip”. «Questi tre anni di presidenza, turbolenti, ci hanno poi confermato quelle direttrici e consentito di approfondire taluni approcci». In particolare, per quanto riguarda il confronto con l’Iran, «Trump è apparso bilanciarsi tra le due fazioni principali dello Stato Profondo statunitense che, semplificando e banalizzando, si potrebbero così riassumere: la fazione realista, “il partito dell’assedio”, per cui il nemico va accerchiato, logorato, ma non colpito a fondo perché poi diventa molto difficile ricomporre i cocci di quel che si è rotto; la fazione idealista, messianica, “il partito della guerra”, per cui vale il motto “colpisci per primo, colpisci due volte, e sui cocci pisciaci sopra”».Tra queste due posizioni “imperiali”, ne esistono tante altre, variegate e composite, e Trump è a cavallo di una di queste. «Nel gruppo di potere che lo ha portato alla Casa Bianca, ad esempio – scrive oggi Santini – ci sono quelli che vorrebbero concentrarsi esclusivamente sugli affari interni lasciando sullo sfondo il resto del pianeta, e le lobbies ultrasioniste il cui unico interesse è togliere di mezzo la Repubblica islamica iraniana». L’assassinio di Qasem Soleimani, secondo Santini, dimostra che il “partito della guerra” ha preso definitivamente il controllo della strategia nei confronti dell’Iran. «Se Trump abbia preso tale decisione o sia stato messo davanti al fatto compiuto sarà materia di dibattito per gli storici, ma non cambia la situazione», aggiunge l’analista. «In ogni caso, c’è chi ritiene prevalente l’ipotesi di una decisione diretta del presidente, soprattutto per scopi elettorali: creare un nemico esterno imminente lo aiuterebbe a tirarsi fuori dai guai interni, richiesta di impeachment e collaterali (va aggiunto che anche Israele è, di nuovo, in campagna elettorale, e questa tornata è esistenziale per Netanyahu ancor più che per Trump)». La tesi opposta è quella di un Trump che non vorrebbe lo scontro diretto, ma vi è spinto dai falchi del complesso militare-industriale. «Tutto più o meno plausibile», annota Santini: «Personalmente propendo per una ipotesi intermedia, rifacendomi anche ad un precedente storico», quello di Bill Clinton.Durante tutto il 1998, l’allora presidente vide montare in maniera virulenta lo scandalo Lewinsky, un sexgate che portò alla sua incriminazione per spergiuro ed ostacolo alla giustizia. «Clinton non aveva a cuore la crisi internazionale che si stava profilando all’orizzonte, il Kosovo: sapeva a malapena dove si trovasse». Poi, improvvisamente – continua Santini – nell’autunno inoltrato di quell’anno, «quando lo scandalo interno era al culmine, decise di mettere la crisi balcanica al centro della sua azione politica». Miracolo: «Altrettanto improvvisamente la crisi interna si sgonfiò». E la crisi del Kosovo, «da affare regionale, divenne affare globale». Si domanda Santini: «Furono molto bravi gli strateghi di Clinton a sviare l’attenzione o, piuttosto, il sexgate rivelò la sua vera natura?». Si trattò quindi di «uno strumento di pressione montato ad arte da alcuni centri di potere, per fare sì che il presidente, e alcuni altri centri di potere che egli rappresentava, portassero gli Stati Uniti in guerra». In altre parole: «Sventolando il Kosovo davanti a Clinton fu facile trovare un accordo win-win: tu ci dai la guerra e il sexgate finisce nel dimenticatoio». Mutatis mutandis, può essere accaduto lo stesso in questa fase tra Trump, i gruppi di potere del Deep State, l’impeachment e l’Iran.A questo punto, prosegue Santini nella sua analisi, si fa un gran discutere su quali potrebbero essere le future mosse degli iraniani: la preoccupazione di una escalation è fortissima e tangibile, visto che si temono ripercussioni drammatiche. «Alcuni analisti sostengono che gli Usa stiano scherzando col fuoco, che hanno commesso un errore fatale, che la politica estera statunitense è allo sbando, chiaro segnale del loro inarrestabile declino». Santini non è affatto d’accordo: «Ritengo invece che questa escalation, questa accelerazione di fase, sia stata lucidamente pianificata e perseguita». Infatti, le due conseguenze immediate che ha già prodotto «sono esattamente quelle che gli americani si attendevano». Tanto per cominciare, «l’Iran si è ritirato dall’accordo nucleare». Il governo di Rouhani-Zarif ha resistito fino all’ultimo: «Ha resistito alla denuncia unilaterale del trattato da parte americana, che lo rendeva di fatto vuoto, ha resistito alla imposizione di ulteriori pesantissime sanzioni che stanno avendo profondi effetti sulla società iraniana». I politici di Teheran «hanno più volte chiesto sostegno diplomatico agli immobili e tremebondi paesi europei, inutilmente».Ora, aggiunge Santini, «l’atto terroristico americano, una sorta di dichiarazione di guerra, ha colpito sotto la cintola la componente moderata del potere iraniano», che di fatto «non può più resistere alle pressioni della componente radicale senza esserne travolta sul piano interno». E così, «gli Stati Uniti hanno di nuovo lo strumento retorico e mediatico principe da brandire contro l’Iran e contro i riottosi alleati europei per giustificare le prossime aggressioni: la paura della bomba atomica in mano agli ayatollah (e poco importa se tale minaccia sia sempre stata inesistente, conta solo che venga percepita come tale)». La seconda conseguenza, poi, secondo Santini è molto sottile da interpretare: «Che il Parlamento iracheno abbia decretato la cacciata delle truppe straniere di occupazione dal paese potrebbe sembrare una sconfitta per gli americani, ma così non è». Il governo iracheno infatti è fragilissimo, di fatto dimissionario dopo le imponenti manifestazioni popolari contro corruzione e condizioni economiche dei mesi scorsi, represse a costo di centinaia di morti e migliaia di feriti, e che si sono interrotte solo in seguito alla promessa del premier Abdul-Mahdi di dimettersi. «Un governo in queste condizioni non ha la minima forza per imporre la decisione assunta contro gli Stati Uniti».L’Iraq si trova, oggettivamente, in una condizione di pre-guerra civile. «Se fossi uno stratega americano, o israeliano, farei il possibile per favorire tale drammatico esito», scrive Santini. Tutti nemici: iracheni contro curdi e sunniti contro sciiti, ma le divisioni interne travagliano le stesse componenti sciite. «Il mondo sciita non è monolitico», spiega Santini: «In particolare, la dottrina khomeinista ha prodotto al suo interno una profonda frattura di ordine religioso ma con importanti riflessi politici», dato che «religione e politica nell’Islam si intrecciano intimamente». In Iraq «esistono fazioni sciite radicali ma nazionaliste (la principale è quella che fa capo a Moqtada al Sadr) e fazioni sciite altrettanto radicali ma filo-iraniane (che si richiamano alla ideologia e organizzazione degli Hezbollah libanesi)». Gli sciiti nazionalisti iracheni – aggiunge Santini – mal sopportano (è un eufemismo) l’ascesa egemonica degli sciiti filo-iraniani in Iraq. Sicchè, lo scontro armato è all’ordine del giorno, visto che «questi partiti, gruppi e fazioni sono tutti strutturati in organizzazioni paramilitari». Dare la parola alle armi? «Sarebbe possibile se il paese sprofondasse nel caos», in una sorta di “tutti contro tutti” dagli esiti imprevedibili.In quel caso, conclude Santini, «l’Iran sarebbe risucchiato in questa guerra civile irachena e ne uscirebbe ulteriormente dissanguato». Dopo due guerre che hanno raso al suolo l’Iraq, emerge una verità di fondo: «Gli americani in questi lunghi anni di occupazione hanno dimostrato di non avere la forza militare sufficiente per imporre la loro egemonia, ma ce l’hanno a sufficienza per “controllare” una guerra civile, aperta o sotterranea, indefinitamente, finché fosse nel loro interesse». Ed ecco che, alla luce di questa analisi, risulta meno “folle” e incomprensibile l’efferata uccisione del grande tessitore carismatico Soleimani, che Santini – in modo davvero suggestivo – accosta alla fine, altrettanto atroce, che la longa manus terroristica degli Usa riservò al “leone del Panshir”, l’eroe nazionale afghano che (come il guerriero Soleimani) avrebbe avuto il prestigio, l’autorevolezza e la popolarità per imporre la pace, mettendo fine alle ingerenze internazionali nel suo tormentato paese. Ieri il comandante Massud, oggi il generale Soleimani: e i registi della morte provengono dalla medesima capitale, Washington.Qassem Soleimani era certamente un militare, un duro, ma era anche uomo di Stato, un consigliere politico insostituibile per la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei: in quella veste «ha dimostrato di essere un uomo di stabilizzazione, un tessitore, al pari della sua risolutezza come guerriero». Attenzione: nel 2001, un paio di giorni prima dell’11 Settembre, il leggendario guerrigliero afghano Ahmad Shah Massud venne ucciso in un attentato. Chi lo fece (il signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, agente dell’Isi – l’intelligence pakistana, braccio operativo della Cia) sapeva benissimo che da lì a poco l’Afghanistan sarebbe stato invaso. I killer di Massud non volevano tra i piedi un eroe nazionale che rappresentasse un punto di stabilità per quel paese. «Chi ha ucciso Soleimani sa bene cosa sta per succedere e ha inteso togliere di mezzo preventivamente un perno di stabilità per tutta la regione». E’ l’analisi che Simone Santini offre, dal blog “Megachip“, per leggere tra le righe del caos scatenato dall’infame agguato terroristico statunitense, in territorio iracheno, costato la vita al leader dei Pasdaran, eroe nazionale iraniano e liberatore della Siria grazie alla storica sconfitta impartita al’Isis, la sanguinosa formazione terrorista sunnita finanziata e protetta dall’Occidente.
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Scie chimiche: se sono innocue, perché non ce le spiegano?
Mi pare che l’argomento “geoingegneria” sia molto più serio e degno di studio di quel sottoprodotto che ha come nome divulgativo “scie chimiche”. L’altro giorno, per alcune ore nel pomeriggio, mi sono divertito a identificare i voli che tracciavano scie lunghe e persistenti che erano visibili nel cielo sopra casa mia, sull’Appenino centrale. Grazie ad un sito di flight tracking live, ho identificato tutti i voli che stavo osservando. Erano 5-6 ed erano tutti voli di linea, internazionali (dal Napoli-Francoforte al Cagliari-Varsavia, dal Zante-Londra al Mosca-Roma), gli aerei erano Airbus o Boeing 737, compagnie low cost ma anche di bandiera (come Lufthansa e Aeroflot). Ho potuto dunque facilmente dedurre che queste scie anomale sono rilasciate da normali aerei di linea commerciali. Forse anche aerei di altro tipo (droni, militari, ecc.) rilasciano queste scie, ma quelli che stavo osservando con i miei occhi erano aerei del tutto normali. Questa considerazione faceva il paio con un’altra che tutti hanno potuto osservare in questi ultimi venti anni. Dagli anni 2000 in poi le scie rilasciate dagli aerei sono del tutto diverse da quelle che osservavamo da ragazzi, negli anni ‘70-’80: le classiche scie di condensa, bianche e di breve vita, che seguivano da vicino l’aereo e si disperdevano nell’arco di alcuni secondi.Ogni tanto capita ancora di vedere quel tipo di scia, ma ormai sempre più di frequente esse sono sostituite da scie più rarefatte, più frastagliate, particolarmente persistenti (durano anche per ore) e che tendono a trasformarsi in un velo che scherma la luce solare, una foschia nuvolosa che spesso ingloba scie rilasciate da altri aerei o corpi nuvolosi. Dunque, nel corso degli anni ‘90 qualcosa è cambiato. Non so dire cosa, magari qualcosa di spiegabile molto semplicemente. I motori di alcuni aerei, ad esempio, che formano una scia diversa con cristalli molto più durevoli; oppure la qualità/composizione del combustibile dell’aereo. Questo potrebbe significare che in corso non c’è alcun complotto ma semmai che gli aerei moderni sono tecnologicamente più inquinanti dei loro predecessori. Oppure si potrebbe argomentare che una relazione tra scie anomali e geoingegneria esiste, e questa seconda utilizza alcuni sviluppi tecnologici dell’aviazione per perseguire altri e ulteriori scopi oltre quelli immediati. Su questo non ho risposte e finora non ho trovato studi completamente convincenti.Svolgo però una valutazione personale: se le attuali scie “anomale” derivano da sviluppi tecnologici “neutrali”, sarebbe molto facile mettere a tacere una volta per tutte il vociare sui complotti e le scie chimiche a cui assistiamo sul web. Questo non viene fatto. Sembra quasi esserci qualcuno che si diverte a confondere le acque, lasciando che si propaghino le teorie più fantasiose che inquinano quelle che si pongono invece domande molto più problematiche. In tal caso il chiacchiericcio affoga e neutralizza gli approfondimenti più seri. Così le scie chimiche, a livello di percezione diffusa e comune, scacciano via gli interrogativi sulla geoingegneria. Una classica metodologia di deception, per chi ha una qualche domestichezza con questi argomenti. Per ristabilire un po’ di sana ricerca riprendiamo dunque questo articolo di approfondimento di Giulietto Chiesa e del prematuramente scomparso Paolo De Santis, fisico, professore universitario, persona seria e rigorosa, umanamente straordinaria, che ho avuto l’onore di conoscere personalmente. Buona lettura.(Simone Santini, “Scie chimiche e geoingegneria – In ricordo di Paolo De Santis”, dal blog “Ora Zero” del 3 novembre 2017).Mi pare che l’argomento “geoingegneria” sia molto più serio e degno di studio di quel sottoprodotto che ha come nome divulgativo “scie chimiche”. L’altro giorno, per alcune ore nel pomeriggio, mi sono divertito a identificare i voli che tracciavano scie lunghe e persistenti che erano visibili nel cielo sopra casa mia, sull’Appenino centrale. Grazie ad un sito di flight tracking live, ho identificato tutti i voli che stavo osservando. Erano 5-6 ed erano tutti voli di linea, internazionali (dal Napoli-Francoforte al Cagliari-Varsavia, dal Zante-Londra al Mosca-Roma), gli aerei erano Airbus o Boeing 737, compagnie low cost ma anche di bandiera (come Lufthansa e Aeroflot). Ho potuto dunque facilmente dedurre che queste scie anomale sono rilasciate da normali aerei di linea commerciali. Forse anche aerei di altro tipo (droni, militari, ecc.) rilasciano queste scie, ma quelli che stavo osservando con i miei occhi erano aerei del tutto normali. Questa considerazione faceva il paio con un’altra che tutti hanno potuto osservare in questi ultimi venti anni. Dagli anni 2000 in poi le scie rilasciate dagli aerei sono del tutto diverse da quelle che osservavamo da ragazzi, negli anni ‘70-’80: le classiche scie di condensa, bianche e di breve vita, che seguivano da vicino l’aereo e si disperdevano nell’arco di alcuni secondi.
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Il bimbo siriano? Ucciso da noi democratici, non dai razzisti
Quando il governo italiano tentennava nel 2011 sulla guerra alla Libia, il presidente Giorgio Napolitano, in uno dei suoi più vibranti moniti, ricordava a noi democratici che l’Italia era legata ad alleanze internazionali che imponevano di tenere fede a certi impegni: fare la guerra. I razzisti si espressero contro. Quando l’Unione Europea ha varato le sanzioni contro Siria e Russia, noi democratici italiani abbiamo applaudito. I razzisti erano contrari. Quando nel 1999 noi democratici italiani abbiamo bombardato Belgrado i razzisti erano contro. Noi democratici europei ed italiani abbiamo dato il nostro decisivo contributo per annichilire e gettare nel caos Stati-cerniera nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in Europa orientale.Non i razzisti. Noi democratici abbiamo creato un sistema di accoglienza basato sulla corruzione e sullo sfruttamento dei migranti: li chiamiamo “risorse” perché è grazie a loro che possiamo tenere in vita ricche mangiatoie su cui lucrare più che con lo spaccio di droga (cit.). Noi democratici pappiamo sulla disperazione dei popoli più dei razzisti.Noi democratici siamo favorevoli alla libera concorrenza e alla competizione fra lavoratori, per questo vogliamo far venire tanti disperati dall’Africa così da poter gridare insieme a loro: più diritti per tutti! È stato instaurato un perverso circolo vizioso di guerra, sfruttamento, corruzione, guerra tra poveri che si nutre di ipocrisia e doppia morale, falsa pietà e carità untuosa. Questo perverso circolo vizioso va spezzato. Il campo di battaglia più prossimo è la difesa dei nostri territori. I democratici dovrebbero unirsi ai razzisti e impedire gli insediamenti della disperazione, dovrebbero essere con i loro corpi zeppe nell’ingranaggio, dovrebbero protestare non contro i “negri” (ed impedire ai razzisti di farlo) ma contro un sistema marcio, un modello di sviluppo che tritura i popoli e li mette uno contro l’altro. E non dovrebbero vergognarsi di dire ai migranti che devono starsene o tornare a casa: i migranti conquisteranno e difenderanno i loro diritti in Africa, Asia, America, non in Europa.Il che non toglie che occorrano corridoi umanitari da garantire a chi è in pericolo diretto, sottraendoli a chi li usa come bombe demografiche, come invece fa con cinismo e spietatezza il campione del triplogiochismo della Nato, Erdoğan. Ma noi democratici non lo faremo, non ci uniremo ai razzisti in questa lotta di civiltà. Preferiamo condannarli e non mescolarci con loro, perché possiamo esserne contaminati. Preferiamo disprezzarli e inorridire per la loro furente rabbia popolana invece che comprendere le ingiustizie che hanno generato tale rabbia. Preferiamo uccidere Thomas Sankara e poi dimenticarcene. Preferiamo coltivare vizi privati e sbandierare pubbliche virtù. Preferiamo indignarci, noi democratici, e continuare a contare i morti.(Simone Santini, “Il bambino siriano è stato ucciso dai democratici non dai razzisti”, da “Megachip” del 4 settembre 2014).Quando il governo italiano tentennava nel 2011 sulla guerra alla Libia, il presidente Giorgio Napolitano, in uno dei suoi più vibranti moniti, ricordava a noi democratici che l’Italia era legata ad alleanze internazionali che imponevano di tenere fede a certi impegni: fare la guerra. I razzisti si espressero contro. Quando l’Unione Europea ha varato le sanzioni contro Siria e Russia, noi democratici italiani abbiamo applaudito. I razzisti erano contrari. Quando nel 1999 noi democratici italiani abbiamo bombardato Belgrado i razzisti erano contro. Noi democratici europei ed italiani abbiamo dato il nostro decisivo contributo per annichilire e gettare nel caos Stati-cerniera nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in Europa orientale. Non i razzisti. Noi democratici abbiamo creato un sistema di accoglienza basato sulla corruzione e sullo sfruttamento dei migranti: li chiamiamo “risorse” perché è grazie a loro che possiamo tenere in vita ricche mangiatoie su cui lucrare più che con lo spaccio di droga (cit.). Noi democratici pappiamo sulla disperazione dei popoli più dei razzisti.
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Grillo, Ingroia e Salvini? Non facciano la fine di tutti gli altri
Cari Grillo, Ingroia e Salvini: se avete tempo per leggere tre brevi messaggi “tweet”, eccoveli. Grillo: grazie per tutto quello che hai fatto, ma ora il Movimento 5 Stelle proceda con le sue forze. Ingroia: il tuo riferimento sia Paolo Borsellino, non la “sinistra”. Salvini: archivia il Cavaliere, o fallirai anche tu. Firmato: Simone Santini, già coordinatore di “Alternativa”, laboratorio politico-culturale fondato da Giulietto Chiesa. Un triplice appello, sotto forma di tre brevi lettere aperte, pubblicate da “Megachip”. Santini ben rappresenta l’elettorato italiano sfinito dalle vane contorsioni della politica, presa al laccio dalla Troika del rigore neoliberista che impone il taglio selvaggio del benessere diffuso e la dittatura del “mercato”, cioè dell’oligarchia finanziaria dei “padroni dell’universo”. Nell’Italia che sprofonda nella catastrofe socio-economica, proprio Grillo, Ingroia e Salvini hanno tentato di arginare l’oceano dell’astensionismo, ma senza finora mettere in campo un’alternativa praticabile: Grillo auto-sabotato dalla sua stessa autocrazia, Ingroia usato come paravento presentabile tra le macerie dell’ex “sinistra arcobaleno”. Salvini? Messo in pericolo, oggi, dall’alleanza col vecchio centrodestra.Grillo ha appena nominato uno staff politico, una sorta di segreteria. Era ora, dice Santini, a patto che questo team rappresenti davvero il movimento e quindi si trasformi rapidamente «da nominato in elettivo, altrimenti non cambierebbe nulla». Lo staff politico «non dovrà essere un organo direttivo classico», il suo compito «non sarà quello di “decidere”, ma di facilitare e coordinare i processi decisionali collettivi». Finora, le decisioni stratetgiche «sono state semplicemente enunciate». Esempio: chi ha scelto, e con quali criteri, il programma delle europee e poi la raccolta firme per il referendum consultivo sull’euro? «Al di là che il programma elettorale o il referendum possano essere stati condivisi, a posteriori, dalla maggioranza dei militanti, non dovrà più accadere che tali decisioni di fondamentale importanza vengano calate dall’alto». Altrimenti, continua Santini, «quale sarebbe la differenza tra un Grillo (o uno staff che operasse allo stesso modo) e un Renzi, che almeno deve far finta di confrontarsi con la direzione del Pd?». Quanto alle nuove aperture per possibili alleanze, va bene «un accordo transitorio per eleggere un presidente della Repubblica più decente di un altro». Ma il dialogo, più che coi partiti, va impostato con «spezzoni di società (anche organizzati in movimenti o partiti veri e propri)», che possano «almeno potenzialmente rappresentare una reale alternativa al sistema di potere e al modello socio-economico attualmente imperante».Quanto a Ingroia, “reclutato” da Di Pietro e dai rottami dell’ex “sinistra radicale” per guidare la lista “Rivoluzione Civile” alle politiche 2013, secondo Santini il suo prestigio di magistrato coraggioso sarebbe degno di miglior causa, visto anche che le sue inchieste sono stati «di grande importanza per la crescita morale della nostra nazione». In politica, però, prestazioni meno brillanti: già la prima aggregazione, “Cambiare si può”, prima tappa del percorso fondativo di “Rivoluzione Civile”, era viziato dalla presenza-fantasma «dei partiti tradizionali della sinistra, dietro la patina di alcuni rappresentanti della società civile», cosa che «ne vanificò il potenziale di novità e reale cambiamento». Poi la nascita di “Azione Civile”, senza più partiti “clandestini”, ma senza presa sul pubblico: «Credo che lo spazio politico per quel progetto si sia quasi definitivamente consumato», scrive Santini. «La speranza tra i più fiduciosi che aveva destato la lista “L’Altra Europa con Tsipras” sta partorendo ciò che i meno fiduciosi avevano intravisto fin da subito: un agglomerato dei partitini della sinistra istituzionale che avrà nel suo deprimente orizzonte l’oscillazione tra l’opposizione al renzismo a livello nazionale e la collaborazione col sistema di potere del centrosinistra a livello locale (perfettamente interscambiabile con quello del centrodestra, allo stesso modo irriformabile e cancerogeno)».Qualunque progetto politico di «emancipazione dalla dittatura del presente», secondo Santini non ha alcuna possibilità di successo, in Italia, se non afferma radicalmente il principio della “legalità democratica” largamente inteso. Ovvero: «Debellare le mafie al sud come al nord, scoperchiare il verminaio del terzo e quarto livello» che trasforma il nostro in uno “Stato criminale”, per dirla con Ingroia. E poi, ovviamente, sconfiggere la corruzione. «La tua grande esperienza e credibilità su queste tematiche – scrive Santini nel suo appello a Ingroia – non deve essere messa a disposizione di una sola parte politica, ma di tutte quelle forze sane, da qualunque parte stiano, che volessero davvero intraprendere un percorso rivoluzionario». Aggiunge Santini: «Non ho bisogno di ricordarti che il tuo maestro Paolo Borsellino avesse simpatie politiche di destra, ma egli fu prima di tutto un autentico uomo dello Stato nel senso più alto del termine, un servitore del popolo, di tutto il popolo». E dunque: «Anche se non indossi più la toga, Antonio, sei ancora un uomo del vero Stato, non rinchiuderti negli spazi della sinistra ma poniti al servizio di un progetto il più largo possibile».Quanto al nuovo leader della Lega Nord, è impossibile non riconoscergli una vocazione trasversale, adatta ai tempi d’emergenza che viviamo: «A volte i percorsi politici compiono traiettorie imprevedibili», gli scrive Santini. «Non avrei mai pensato di dirlo, ma sei il politico che ho seguito con più attenzione in questo ultimo periodo. Ho davvero apprezzato un paio di posizioni che tu e il tuo movimento avete assunto. La prima, pressoché solitaria per nettezza nel panorama asfittico italiano, sul tema della pace in Europa, ovvero del colpo di stato in Ucraina, della guerra civile e dell’“aggressione occidentale” alla Russia. La seconda è la raccolta firme per cancellare, tramite referendum, la cosiddetta riforma Fornero». Santini mette tra parentesi il tema controverso della lotta all’immigrazione e quello, ancora più scomodo, della crociata contro l’euro. Metafora: «Un uomo (l’Italia) si trova alla deriva su una nave (l’euro) in mezzo all’oceano (il sistema finanziario globalizzato). La nave imbarca acqua pericolosamente, una tempesta minacciosa si avvicina, l’uomo per salvarsi si butta in mare ma si trova pur sempre in mezzo all’oceano e con tempeste minacciose che incombono su di lui».Nella sua sacrosanta battaglia sovranista per ripudiare l’euro, infatti, la Lega rivela una visione fondata sul mercantilismo: vede la rottamazione dell’euro come volano per rilanciare l’export, ma trascura l’enorme potenzialità della moneta sovrana per inaugurare una politica neo-keynesiana fondata sull’investimento pubblico vocato alla piena occupazione. Ad esempio, il programma della Mmt messo a punto da Warren Mosler e Paolo Barnard prevede il taglio del debito non-sovrano e la fine dei titoli di Stato: una rivoluzione democratica, al centro della quale l’istituzione pubblica ridiventa il massimo garante del benessere della cittadinanza, neutralizzando la speculazione finanziaria privata proprio grazie alla libera emissione di moneta, orientata al sostegno della riconversione sociale ed ecologica dell’economia. La Lega di Salvini preferisce annunciare una “rivoluzione fiscale” tranciante, con un’aliquota fissa al 15%, uguale per tutti. Proposta che, per Santini, «coglie un nesso fondamentale: la riduzione delle tasse non può che nascere da uno storico patto fiscale tra istituzioni e popolo», ma in ogni caso «non può essere disgiunta da una rigorosa equità contributiva e sociale, ovvero da una ampia “legalità democratica”».Sfide in ogni caso radicali, quelle impostate da Salvini: l’unico, oggi in Italia, a dichiarare guerra all’establishment tecnocratico che da Bruxelles tiene al guinzaglio il paese, condannandolo all’asfissia. Santini lo riconosce, ma interroga il leader della Lega sul percorso politico da adottare: «Ti chiedo, caro Salvini, al di là della ricerca elettoralistica del consenso, con chi ritieni di poter affrontare queste battaglie epocali? Con il centrodestra? Vuoi fare una rivoluzione di sistema con Berlusconi? Con i Gasparri e le Santanché? Soprattutto con tutto il carrozzone delle cricche affaristico-mafiose su cui quegli ambienti prosperano?». Conclusione: «Se ritieni davvero di determinare una qualche sorta di egemonia culturale su quell’area, ti faccio i migliori auguri. Ti auguro sinceramente di non fare la fine di Bossi». Salvini – alleato di Marine Le Pen contro la gestione autoritaria dell’Ue e solidale con Putin rispetto all’aggressività della Nato – è il politico italiano che oggi si presenta disponibile a scelte di rottura. Santini gli dedica un tweet: «#Salvini, rompi con B. o cadi».Cari Grillo, Ingroia e Salvini: se avete tempo per leggere tre brevi messaggi “tweet”, eccoveli. Grillo: grazie per tutto quello che hai fatto, ma ora il Movimento 5 Stelle proceda con le sue forze. Ingroia: il tuo riferimento sia Paolo Borsellino, non la “sinistra”. Salvini: archivia il Cavaliere, o fallirai anche tu. Firmato: Simone Santini, già coordinatore di “Alternativa”, laboratorio politico-culturale fondato da Giulietto Chiesa. Un triplice appello, sotto forma di tre brevi lettere aperte, pubblicate da “Megachip”. Santini ben rappresenta l’elettorato italiano sfinito dalle vane contorsioni della politica, presa al laccio dalla Troika del rigore neoliberista che impone il taglio selvaggio del benessere diffuso e la dittatura del “mercato”, cioè dell’oligarchia finanziaria dei “padroni dell’universo”. Nell’Italia che sprofonda nella catastrofe socio-economica, proprio Grillo, Ingroia e Salvini hanno tentato di arginare l’oceano dell’astensionismo, ma senza finora mettere in campo un’alternativa praticabile: Grillo auto-sabotato dalla sua stessa autocrazia, Ingroia usato come paravento presentabile tra le macerie dell’ex “sinistra arcobaleno”. Salvini? Messo in pericolo, oggi, dall’alleanza col vecchio centrodestra.
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Guerra: ma Pechino sarà pronta a morire per Mosca?
Gli Usa restano l’unica superpotenza imperiale, in una architettura a piramide, a carattere neofeudale, a cui gli altri Stati si associano, a vario rango, in condizione di vassallaggio. I grandi Stati vassalli avrebbero aree di influenza di loro pertinenza: alla Cina l’Asia orientale, alla Germania l’Europa, al Brasile il Sudamerica. Le nazioni che non volessero sottomettersi spontaneamente sarebbero affrontate con la forza. In questo schema, sembrerebbe naturale che la struttura neofeudale si riflettesse anche all’interno dei singoli Stati, con strutture sociali piramidali e con potere e grandi ricchezze detenute da piccole élite. «L’appello a tutti coloro che ritenessero un tale scenario almeno possibile, e non volessero ad esso assoggettarsi – scrive Simone Santini – è di considerare in questa fase la Russia come la terra di confine di un autentico scontro di civiltà». Quindi, si prospetta «una scelta di campo tra la civiltà umana e la civiltà della barbarie». Superfluo aggiungere che «si accettano scommesse sul rango di vassallaggio riservato all’Italia».Secondo l’analisi di Santini, pubblicata da “Megachip”, si è ormai diffusa la percezione (fuorviante, erronea) che l’ordine “imperiale” costituito dagli Stati Uniti dopo la caduta dell’Urss sia giunto sul viale del tramonto. Si esalta l’ascesa economica dei Brics, si cita la grande crisi finanziaria di Wall Street del 2007, si ricordano le defaillance militari americane in Afghanistan e in Iraq, seguite all’11 Settembre. «A questi fattori va aggiunto un panorama mondiale, specialmente negli ultimi anni, che sembra farsi sempre più caotico e privo di guida, con tensioni o addirittura guerre che si susseguono nelle cerniere fondamentali del pianeta». La rapidità dell’evoluzione in effetti «suggerisce la possibilità di un Impero allo sbando, in preda a una crisi sistemica senza uscita», ma non è detto che tutte le criticità possano determinare un esito univoco, avverte Santini. L’alternativa dei Brics è ancora «in fieri», la loro super-banca – alternativa a Fmi e Banca Mondiale – è una creatura neonata, ed non è scontato che nell’alleanza pesino ancora rivalità storiche, come quelle tra Cina e India, «su cui gli Usa potrebbero intervenire per determinarne la disgregazione».La crisi finanziaria, «originata dai limiti dello sviluppo del sistema capitalistico», con «mercati ormai saturi» e incapaci di garantire i maxi-profitti del passato, ha fatto volare la speculazione pura, la «finanza creativa» che genera denaro direttamente dal denaro, saltando l’economia reale: «Una enorme bolla di soldi virtuali che vale, a seconda delle stime, decine di volte il Pil mondiale», e che prima poi «scoppierà o verrà sgonfiata in qualche modo: vedremo chi ne pagherà il prezzo». Nel frattempo, però, questa immensa massa di denaro «può essere impiegata dai “Masters of Universe” per fare shopping tra i pezzi industriali pregiati dei sistemi economici in crisi (vedasi in Italia) o fare letteralmente incetta di terra coltivabile in Africa o America Latina». Di riflesso, la crisi è diventata «crisi dei debiti sovrani» nell’Europa che non è più “sovrana” della propria moneta. Se a soffrire sono innanzitutto i cosiddetti Piigs, lo scenario non è affatto sfavorevole agli Usa, perché – proprio grazie alla recessione dell’Eurozona – si sta staccando l’Europa dalla Russia.Il più grande successo di questa fase per l’Impero? «Scongiurare ogni tentazione di costituire un blocco europeo continentale, da Lisbona a Mosca, indipendente politicamente, autosufficiente dal punto di vista economico», scrive Santini. Un blocco «culturalmente e territorialmente coeso, avanzato tecnologicamente, armato nuclearmente, complessivamente il più ricco e dinamico del pianeta, più degli stessi Stati Uniti. Altro che Brics». Quanto alle non-vittorie militari americane in Iraq e Afghanistan, «sono tali solo se viste nell’ottica della classica conquista coloniale». Al contrario, diventano tappe-chiave della “geopolitica del caos”, «una metodologia imperiale più oscura e complessa», ma molto efficace, «propugnata da alcuni settori dell’establishment americano che hanno il loro pubblico rappresentante più noto in Zbigniew Brzezinski, già segretario di Stato durante la presidenza di Jimmy Carter e allora ideatore della “trappola afghana”». Una tecnica, che se ben condotta, è utile per «tenere divisi i popoli “barbari”» e «impedire la nascita di potenze regionali» che possano disturbare gli Usa.I focolai di crisi in Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Ucraina e Palestina potrebbero sembrare il sintomo di «un mondo in preda alla pazzia, senza più gendarmi in grado di imporre l’ordine», ma se invece «si ammette la possibilità, terribile e dunque da sottacere, di una regia di fondo», allora diventa lampante «un quadro complessivo lucido e atroce, in cui il destino dei popoli è giocato come su una “grande scacchiera”». Emblematico il caso ucraino, «attraverso cui gli Usa – continua Santini – stanno ottenendo il risultato storico di dividere in uno spazio temporale decisivo la Russia dal resto d’Europa, colpendo al contempo Mosca e Berlino, costringendo la Ue a votare sanzioni contro un possibile alleato strategico e contro i propri stessi interessi, contorcendosi e ripiegandosi su se stessa». Dove siamo diretti? Secondo Aldo Giannuli, gli Usa potrebbero arroccarsi sulla difensiva, sfruttando i vantaggi strategici che ancora detengono, oppure potrebbero “assorbire” l’Europa nel blocco commerciale euroatlantico protetto dalla Nato. O magari accettare un “nuovo ordine bipolare” con la Cina, persino aprendo a nuove potenze emergenti, in un Consiglio di Sicurezza dell’Onu riformato in base a un nuovo “ordine multipolare”. Davvero gli Usa lo accetterebbero?«È sorprendente – replica Santini – che il professor Giannuli non preveda, al di fuori di questi schemi, altri sbocchi che non siano “il progressivo degenerare verso un disordine mondiale sempre più caotico”. Ovvero, nemmeno prenda in considerazione la possibilità che l’attuale situazione si consolidi, mutatis mutandis, con gli Stati Uniti che rimangono l’unica superpotenza imperiale», ipotesi tutt’altro che da scartare. Al contrario, è la condizione «che ha maggiori probabilità di prosecuzione, almeno nel medio termine», perché «nessuna nazione appare in grado non solo di soppiantare, ma nemmeno di sfidare gli Stati Uniti con la forza». Per Santini, quella degli Usa non è affatto una “ritirata”, ma un’offensiva. In Medio Oriente, con possibilità di proiezione anche in Africa, Israele rimane l’unica vera potenza regionale, insieme all’Iran, mentre ad Est gli accadimenti ucraini accelerano «l’accerchiamento della Russia e il controllo sempre più stretto sull’Europa da parte americana». Cina e Russia «vedono sempre più comprimersi i rispettivi spazi di manovra». Per resistere, dovranno “compenetrarsi”: «Ma, davanti alle sfide che lancerà l’Impero, Mosca sarà pronta a morire per Pechino e Pechino sarà pronta a morire per Mosca?».Gli Usa restano l’unica superpotenza imperiale, in una architettura a piramide, a carattere neofeudale, a cui gli altri Stati si associano, a vario rango, in condizione di vassallaggio. I grandi Stati vassalli avrebbero aree di influenza di loro pertinenza: alla Cina l’Asia orientale, alla Germania l’Europa, al Brasile il Sudamerica. Le nazioni che non volessero sottomettersi spontaneamente sarebbero affrontate con la forza. In questo schema, sembrerebbe naturale che la struttura neofeudale si riflettesse anche all’interno dei singoli Stati, con strutture sociali piramidali e con potere e grandi ricchezze detenute da piccole élite. «L’appello a tutti coloro che ritenessero un tale scenario almeno possibile, e non volessero ad esso assoggettarsi – scrive Simone Santini – è di considerare in questa fase la Russia come la terra di confine di un autentico scontro di civiltà». Quindi, si prospetta «una scelta di campo tra la civiltà umana e la civiltà della barbarie». Superfluo aggiungere che «si accettano scommesse sul rango di vassallaggio riservato all’Italia».