Archivio del Tag ‘skinheads’
-
Secondo voi è “normale” dover scappare dal proprio paese?
«Già la Bibbia ci rivela la nostra natura errante, a cominciare da Abramo», diceva qualche anno fa Moni Ovadia, di fronte all’agitarsi bellicoso ed elettoralistico di più inquietanti “respingitori”, alcuni dei quali pronti – a parole – persino a sparare sui barconi dei naufraghi, carichi di donne e bambini. Che farci? «L’uomo è migrante per natura», ripete – anni dopo, in televisione – un altro esponente di prestigio della cultura italiana come Gabriele Lavia, di fronte al dilagare dell’esodo, oggi aggravato dalle ultime guerre. Solo in Grecia, languono 40.000 profughi da Siria, Iraq e Afghanistan, paesi dove i migranti li abbiamo “aiutati a casa loro” (a scappare a gambe levate). «Per carità, non voglio mettere la palla al piede a Marco Polo», premette Gianfranco Carpeoro: è sacrosanto che chiunque possa sempre decidere di cambiare aria, reinventandosi la vita dall’altra parte del mondo, «ma a patto che lo faccia per sua scelta, non per disperazione, inseguito dalla guerra e dalla fame». Perché altrimenti il buonismo è ipocrita: «Non scordiamoci che siamo stati noi a rendere impossibile vivere, nei paesi dai quali ora si scappa: per questo, quell’immigrazione è innanzitutto un vergogna, un’ingiustizia». Ma non se ne ricorda nessuno. Anzi: «La cosa più assurda è che ci abbiano ormai abituato all’idea che l’immigrazione sia un fatto perfettamente naturale, pacifico, fisiologico».Autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” che rivela l’incubazione di matrice supermassonica del neo-terrorismo targato Isis, Gianfranco Carpeoro (che è appena tornato in libreria con “Il compasso, il fascio e la mitra”, un saggio sui retroscena massonici e vaticani all’origine del fascismo) torna a protestare contro la vulgata mainstream che impone l’accoglienza dei rifugiati in modo acritico, senza alcuna riflessione sulle vere cause di un esodo di massa così imponente e anomalo. Tanto per cominciare, premette Carpeoro – in diretta streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights” – evitiamo i trabocchetti della propaganda incrociata – per esempio, il tentativo di sminuire le intimidazioni come quella che gli skinheads veneti hanno rivolto all’associazione solidaristica “Como Senza Frontiere”, penetrando a forza negli uffici per leggere un proclama anti-migranti di fronte agli attivisti intimoriti, per lo più donne. «Quella è violenza privata», taglia corto Carpeoro, che ha alle spalle decenni di attività forense, come avvocato. «Ognuno a casa sua può dire quello che vuole, ma tu non puoi venire a casa mia a impormi quello che pensi, magari dopo aver forzato la porta: io ho tutto il diritto di cacciarti e denunciarti».Se da un lato le associazioni come quella comasca svolgono una funzione encomiabile di volontariato, dall’altra gli avvoltoi del “politically correct” ci speculano prontamente, fingendo di non sapere perché milioni di persone scappano dall’Africa e dal Medio Oriente: paesi rapinati e devastati dal colonialismo, affidati a corrotte dittature filo-occidentali e, all’occorrenza, bombardati e invasi, senza mai ripristinare condizioni di vita accettabili per i superstiti. Si ribella, Carpeoro, all’idea che sia considerato “normale” affrontare il Mediterraneo a bordo di barconi-colaborodo. «Al contrario – insiste – dovrebbe essere normale poter vivere dignitosamente a casa propria, innanzitutto: non è per niente normale essere costretti a fuggire». Ovviamente, sorvolare sul “movente” (la causa dell’esodo) rende invisibile il “colpevole”: i nostri governi, le nostre multinazionali. «Cosa devono pensare, di noi, gli africani? Sono morti come mosche per il virus Ebola, fino a quando non si è ammalato un occidentale: allora, magicamente, la cura si è trovata». Altra assurdità, la distinzione (un po’ nazista) tra tipologie di migranti: «Non capisco perché uno che muore di fame dovrebbe essere diverso da uno che muore a causa della guerra, o delle malattie». Molto più comodo, in fondo, rifugiarsi nel derby: migranti sì, migranti no. Lasciando indisturbato, come sempre, il sistema che provoca il terremoto al quale stiamo assistendo.«Già la Bibbia ci rivela la nostra natura errante, a cominciare da Abramo», diceva qualche anno fa Moni Ovadia, di fronte all’agitarsi bellicoso ed elettoralistico dei più inquietanti “respingitori”, alcuni dei quali pronti – a parole – persino a sparare sui barconi dei naufraghi, carichi di donne e bambini. Che farci? «L’uomo è migrante per natura», ripete – anni dopo, in televisione – un altro esponente di prestigio della cultura italiana come Gabriele Lavia, di fronte al dilagare dell’esodo, oggi aggravato dalle ultime guerre. Solo in Grecia, languono 40.000 profughi da Siria, Iraq e Afghanistan, paesi dove i migranti li abbiamo “aiutati a casa loro” (a scappare a gambe levate). «Per carità, non voglio mettere la palla al piede a Marco Polo», premette Gianfranco Carpeoro: è sacrosanto che chiunque possa sempre decidere di cambiare aria, reinventandosi la vita dall’altra parte del mondo, «ma a patto che lo faccia per sua scelta, non per disperazione, inseguito dalla guerra e dalla fame». Perché altrimenti il buonismo è ipocrita: «Non scordiamoci che siamo stati noi a rendere impossibile vivere, nei paesi dai quali ora si scappa: per questo, quell’immigrazione è innanzitutto un vergogna, un’ingiustizia». Ma non se ne ricorda nessuno. Anzi: «La cosa più assurda è che ci abbiano ormai abituato all’idea che l’immigrazione sia un fatto perfettamente naturale, pacifico, fisiologico».
-
Caracciolo: perché i russi sono ben lieti di tenersi Putin
La Russia non può essere una democrazia perché se lo fosse non esisterebbe. Un impero multietnico grande quasi sessanta volte l’Italia con una popolazione pari appena alla somma di italiani e tedeschi, concentrata per i tre quarti nelle province europee, con l’immensa Siberia quasi disabitata a ridosso dell’iperpopolato colosso cinese, può esistere solo se retto dal centro con mano di ferro. Applicarvi un sistema liberaldemocratico di matrice occidentale significherebbe scatenarvi dispute geopolitiche e secessioni armate a catena, all’ombra di diecimila bombe atomiche. Questo è almeno il verdetto della storia russa. Soprattutto, è la legge bronzea che le élite russe, dalla monarchia al bolscevismo al putinismo, succhiano con il latte materno. Oltre che la prevalente inclinazione di un popolo che tende a seguire il suo Cesare o semplicemente diffida della politica e dei politici d’ogni colore. Per chi dubitasse, valga un recente sondaggio dell’Istituto Levada, per cui solo il 13% dei russi considera che una democrazia in stile occidentale servirebbe i loro interessi, mentre il 16% preferisce una “democrazia” sovietica e il 55% pensa che l’unico governo democratico accettabile è quello che corrisponde alle “specifiche tradizioni nazionali russe”. In parole povere, il regime vigente.Certo, alcuni coraggiosi sfidano la storia e Putin, confidando nell’avvento finale della democrazia in Russia. Tre anni fa costoro riuscirono per qualche settimana a suscitare manifestazioni di massa anti-regime a Mosca e in altre città. Oggi si sono riaffacciati sulla scena pubblica, in occasione dei funerali di Boris Nemtsov, l’oppositore misteriosamente freddato alle porte del Cremlino. Ma nuotano controcorrente. Nel clima di mobilitazione patriottica eccitato dalla guerra in Ucraina, quattro russi su cinque dichiarano di apprezzare il presidente. Lo scambio proposto da Putin al suo popolo – io vi garantisco sicurezza, stabilità e relativo benessere, voi lasciate la politica a me – sembra ancora reggere. Malgrado le sanzioni, o grazie ad esse. E nonostante il crollo del rublo. Per quanto tempo, nessuno può stabilire. Nel profondo dello spirito imperiale russo, la democrazia è percepita come il cavallo di Troia dell’Occidente per spaccare la patria e rigettarla in una nuova età dei torbidi. Con i cinesi a Khabarovsk, la Nato a Kaliningrad, gli islamisti padroni del Caucaso e dilaganti nel Tatarstan, gli skinheads a scorrazzare per San Pietroburgo, come nel fosco video di propaganda diffuso dai sostenitori di Putin alla vigilia delle elezioni del 2012.Che cos’è allora questo putinismo che da quindici anni regge la Federazione Russa? I politologi potrebbero ricorrere forse al termine democratura, crasi di democrazia e dittatura, con cui l’ingegnoso saggista Predrag Matvejevic descriveva i regimi formalmente costituzionali ma di fatto oligarchici. Eppure il caso russo fa storia a sé. Sotto il profilo geopolitico l’impero di Mosca ama offrirsi, oggi più che mai, come un polo autonomo e sovrano del “mondo cristiano”. Agli esordi, la Russia di Putin anelava ad essere riconosciuta come soggetto indipendente dell’insieme occidentale – leggi: anti-cinese e anti-islamico. Dal 2007 però, offeso dal rifiuto americano a considerarlo un partner paritario, il leader ha portato la Russia a contrapporsi all’Occidente. La guerra in Ucraina, nella quale i russi si percepiscono aggrediti da americani ed europei, lo ha spinto infine verso un’intesa tattica con la Cina e con due potenze islamiche come Turchia e Iran: i nemici storici di ieri sono gli (infidi) alleati di oggi. Quanto al regime politico: in Russia si vota, certo, ma le elezioni sono “gestite”, ossia più o meno moderatamente manipolate.Al centro del sistema partitico sta “Russia Unita”, braccio politico del presidente. Il quale incarna il cuore del meccanismo decisionale, secondo il principio della “verticale del potere”. I comandi partono dal Cremlino e si diramano giù fino all’ultimo dei poteri locali. Governo e Parlamento hanno ruoli non paragonabili al rango formale. Putin preferisce infatti decidere radunando piccoli comitati informali. Appena giunto al potere ha stabilito che il lunedì avrebbe radunato al Cremlino alcuni ministri, mentre le questioni serie le avrebbe discusse il sabato in dacia, con i consiglieri fidati e gli esponenti dei “dicasteri della forza” – militari e capi dell’intelligence. L’ukaz che determinava l’annessione della Crimea, ad esempio, il presidente l’ha varato dopo aver consultato solo il segretario del Consiglio di sicurezza, Nikolaj Patrushev, già direttore dell’intelligence, e il ministro della difesa, Sergej Shojgu. Putin era e resta uomo dei servizi segreti, nei quali entrò nel lontano 1976. «Un agente del Kgb non è mai ex», ripete. La sua visione del mondo è quella visceralmente securitaria che segna ogni uomo di intelligence. I suoi pochi confidenti vengono quasi tutti dal medesimo ambiente. Ma il presidente non è un dittatore assoluto. È l’amministratore delegato scelto dalle élite russe – in specie dagli apparati della forza ma anche da una pattuglia di oligarchi fidati – per proteggere il sistema. Ad esse risponde.Putin è un capo certo potentissimo, ma revocabile, se al sistema servisse un uomo nuovo. Con la guerra alle porte e la recessione che incupisce le prospettive dell’economia nazionale, non ci stupiremmo se un giorno non troppo lontano qualcuno dei mandatari – magari un generale – lo invitasse a dichiararsi malato per il supremo bene della patria. Uno degli uomini che lo aiutarono a insediarsi come amministratore delegato della Federazione Russa per salvarla dalla disintegrazione, Gleb Pavlovsky, ha osservato: «È impossibile dire quando questo sistema cadrà, ma quando cadrà, cadrà in un giorno. E quello che gli succederà sarà la copia di questo». E i russi di buona volontà, altrettanto patriottici di Putin, ma che aspirano alla libertà e allo Stato di diritto? Visti dal Cremlino, per loro vale sempre il motto del vecchio ministro zarista delle Finanze, Sergej Witte: «I nostri intellettuali lamentano che non abbiamo un governo come in Inghilterra. Farebbero meglio a ringraziare Iddio che non abbiamo un governo come quello della Cina».(Lucio Caracciolo, “Democratura: democrazia e populismo, la terza via di Putin”, da “La Repubblica” del 7 marzo 2013, ripreso da “Come Don Chisciotte”).La Russia non può essere una democrazia perché se lo fosse non esisterebbe. Un impero multietnico grande quasi sessanta volte l’Italia con una popolazione pari appena alla somma di italiani e tedeschi, concentrata per i tre quarti nelle province europee, con l’immensa Siberia quasi disabitata a ridosso dell’iperpopolato colosso cinese, può esistere solo se retto dal centro con mano di ferro. Applicarvi un sistema liberaldemocratico di matrice occidentale significherebbe scatenarvi dispute geopolitiche e secessioni armate a catena, all’ombra di diecimila bombe atomiche. Questo è almeno il verdetto della storia russa. Soprattutto, è la legge bronzea che le élite russe, dalla monarchia al bolscevismo al putinismo, succhiano con il latte materno. Oltre che la prevalente inclinazione di un popolo che tende a seguire il suo Cesare o semplicemente diffida della politica e dei politici d’ogni colore. Per chi dubitasse, valga un recente sondaggio dell’Istituto Levada, per cui solo il 13% dei russi considera che una democrazia in stile occidentale servirebbe i loro interessi, mentre il 16% preferisce una “democrazia” sovietica e il 55% pensa che l’unico governo democratico accettabile è quello che corrisponde alle “specifiche tradizioni nazionali russe”. In parole povere, il regime vigente.
-
Torino: G8-rettori blindato, la polizia carica gli studenti
E’ finita con una denuncia per resistenza e lesioni la giornata di uno dei tre ragazzi dell’Onda studentesca fermati il 18 maggio dalla polizia a Torino durante gli scontri per il G8 University Summit. Il giovane, 28 anni, che secondo la Digos appartiene all’area antagonista milanese, è tornato in libertà ma porta a casa una denuncia per resistenza e lesioni. Meglio è andata agli altri due, uno studente di 23 anni e una studentessa di 25, entrambi greci, che sono stati rilasciati senza conseguenze. Gli scontri sono iniziati presto, quando gli studenti sono andati ad assediare la ‘zona rossa’ intorno al Castello del Valentino, dove si svolge il summit.
-
Russia, cresce il razzismo xenofobo: 23 morti
Allarme xenobofia in Russia: almeno 23 persone sono state assassinate in pochi mesi, dall’inizio del 2009, per via della propria origine etnica o razziale. Lo afferma “Peacereporter”, attraverso l’agenzia moscovita Interfax che cita l’istituto Sova, impegnato nel monitoraggio del fenomeno. «Dall’inizio dell’anno – scrive “Peacereporter” - 23 persone sono state uccise a causa di aggressioni razziste, mentre altre 98 sono state aggredite, secondo quanto denunciano alcuni attivisti per i diritti umani». Cresce quindi il rischio del razzismo in Russia, dove il tasso di xenofobia ha raggiunto l’allarme rosso.