Archivio del Tag ‘soldati’
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Perché l’Iran: Usa e Israele stan perdendo il Medio Oriente
Spirano venti di guerra nel Golfo Persico, dove all’inasprimento delle sanzioni economiche contro l’Iran si aggiunge un numero crescente di provocazioni militari: la speranza di Washington è che il regime iraniano imploda sotto il peso delle molteplici pressioni ma, data la solidità di quest’ultimo, non è neppure escludibile un attacco militare diretto, di qui al 2020. Meglio sarebbe, ovviamente, se Teheran cadesse nella trappola di attaccare per primo. Alla base della strategia angloamericana c’è sicuramente la volontà di mantenere la superiorità regionale di Israele, destabilizzando il principale avversario; c’è, però, anche la volontà di scardinare una potenza terrestre che, a fianco di Russia e Cina, sta “organizzando” il Medio Oriente con importanti infrastrutture. Nella nostra analisi geopolitica per il 2019, “Dal golfo di Biscaglia al Mar cinese”, non ci eravamo ovviamente scordati di menzionare l’Iran che, sin dall’inverno 2017/2018, era stato preso di mira dall’amministrazione Trump. Ai soliti tentativi di rivoluzione colorata, si è aggiunto, nel corso del 2018, un ritorno alle sanzioni, sospese durante l’era Obama: la presidenza democratica, già impegnata nella destabilizzazione della Siria (e nel tentativo di scatenare una guerra turco-iraniana), aveva infatti allentato la morsa sull’Iran, per impedire che questo si gettasse nelle braccia della Russia.“Persa la guerra” in Siria, per gli Usa è tornata prioritaria la caduta del regime iraniano, caduta che si spera di facilitare strangolando la sua economia e impedendo l’esportazione di idrocarburi. Inizialmente, gli Usa avevano concesso una “esenzione” di 180 giorni ai principali acquirenti di greggio iraniano, poi non rinnovata nell’aprile scorso: chi avesse continuato a fare affari con Teheran, sarebbe incappato nelle contromisure americane. L’ennesimo round di sanzioni (che, in sostanza, affliggono l’Iran dal 1979), colpisce duro soprattutto i paesi industrializzati o in via di industrializzazione dell’Asia: Turchia, India, Cina, Giappone e Sud Corea. Tokyo, quarta consumatrice mondiale di greggio e decisa a non appiattirsi completamente alla strategia angloamericana, si è fatta protagonista di una singolare iniziativa: benché il suo governo si sia impegnato a tagliare gli acquisti di greggio iraniano, Shinzo Abe è volato a Teheran (la prima visita di un premier giapponese nella Repubblica Islamica!) per stemperare le tensioni e, ovviamente, mettere in sicurezza gli approvvigionamenti energetici del Giappone, che sarebbe duramente colpito da uno choc petrolifero.“L’insubordinazione” giapponese, proprio mentre gli angloamericani erano impegnati a fare terra bruciata attorno all’Iran, è stata punita col classico attacco piratesco delle potenze marittime: mentre Shinzo Abe ed il presidente Hassan Rouhani erano a colloquio, due petroliere, di cui una giapponese (la Kokuka Courageous) sono state colpite il 13 giugno nello stretto di Hormuz, davanti alle coste iraniane. Inizialmente si è parlato di siluri, ma i danni sopra la linea di galleggiamento fanno propendere per l’impiego di missili: con un’incredibile sfacciataggine, il segretario di Stato Mike Pompeo ha prontamente accusato l’Iran. Il crescendo di tensioni e provocazioni (tra cui l’invio aggiuntivo di 1.000 soldati in Medio Oriente) è culminato con l’abbattimento, il 21 giugno, di un drone americano sopra i cieli iraniani. Il mondo, ora, aspetta col fiato sospeso gli sviluppi della vicenda: un attacco all’Iran, afferma il presidente russo Vladimir Putin, sarebbe «catastrofico». Il sogno angloamericano sarebbe, ovviamente, che il regime iraniano implodesse sotto il peso delle sanzioni o, perlomeno, attaccasse per primo: è, tuttavia, uno scenario irrealistico, vuoi per la comprovata resilienza del regime alle sanzioni, vuoi per la rinomata prudenza iraniana.Un attacco militare angloamericano, magari innescato da qualche “incidente di frontiera”, resta quindi una realistica opzione, di qui al 2020. L’Iran, intanto, ha dichiarato di voler procedere con l’arricchimento dell’uranio dopo il naugrafio degli accordi dell’era Obama. In questa sede, però, ci interessa soprattutto inquadrare lo scontro in un’ottica geopolitica, cioè nel più ampio scontro tra Terra e Mare. È indubbio che l’amministrazione Trump sia sensibilissima alle esigenze di sicurezza di Israele: abbattuto l’Iraq bahatista, fallito il tentativo di impiantare un “Sunnistan” tra Siria e Iran, Teheran è ormai in grado di proiettarsi sino al ridosso di Israele. La distruzione del regime iraniano è una priorità israeliana e, quindi, americana. Tuttavia, non bisogna mai scordare che Israele assolve anche a un’importante funzione per le potenze marittime: quella cioè di mantenere in costante instabilità il Medio Oriente ed impedire che qualche potenza continentale “organizzi” la regione.Turchia e Iran, due potenze dell’Heartland in termini mackinderiani, sono gli storici “organizzatori” del Levante e della Mesopotamia: un elemento che sicuramente ha contribuito alla decisione angloamericana di aumentare la pressione sull’Iran è stato, in parallelo al suo rafforzamento militare in Siria, la sua volontà, annunciata lo scorso aprile, di costruire una ferrovia transnazionale dall’altopiano iranico sino al Mediterraneo. Poco importa se su questa ferrovia dovessero viaggiare solo merci o turisti, in ogni caso l’Iran espanderebbe la sua influenza sino al mare, attirando nelle propria orbita i vicini, e, presto o tardi, renderebbe irrilevante Israele (e gli angloamericani). La natura geopolitica dello scontro in atto (dove per “geopolitico” si intende specificatamente la dialettica Terra-Mare) spiega anche la convergenza in atto dell’Iran verso le altre due potenze dell’Heartland per eccellenza, Russia e Cina. Mosca, impegnata nelle operazioni militari in Siria, ha sinora cercato di mantenere un certo equilibrio tra Israele e Iran: tuttavia, non c’è alcun dubbio che, qualora quest’ultimo fosse attaccato, la Russia fornirebbe assistenza militare attraverso il Mar Caspio per sostenere l’urto angloamericano.Il fronte meridionale della Russia è ora relativamente “in sicurezza”; lo sarebbe molto meno se il regime iraniano dovesse cadere. Un discorso analogo vale per la Cina: non solo l’Iran è una preziosa fonte di approvvigionamento di petrolio per Pechino, ma è anche un tassello chiave del corridoio centrale della Via della Seta, che dovrebbe portare i treni cinesi fino a Istanbul passando proprio per Teheran. Un attacco all’Iran, con il suo immediato contagio di caos e violenza a tutto il Medio Oriente, rischierebbe di ritardare per anni il corridoio centrale; un’implosione del regime per decenni. Ecco perché anche Pechino ha interesse a sostenere l’Iran in questo difficilissimo momento. Zbigniew Brzezinski aveva già previsto nel 1997, nel suo The Grand Chessbord, la possibile nascita di un’alleanza “anti-egemonica” (ossia anti-angloamericana) tra Russia, Cina e Iran. «Theresult could, at least theoretically, bring together the world’s lead-ing Slavic power, the world’s most militant Islamic power, and theworld’s most populated and powerful Asian power, thereby creating a potent coalition». Quest’alleanza è in nuce, e gli Usa stanno facendo di tutto per spingere verso la guerra il membro più debole del “blocco continentale”: se guerra sarà, Cina e Russia non staranno sicuramente a guardare.(Federico Dezzani, “Perché l’Iran”, dal blog di Dezzani del 21 giugno 2019. La traduzione del passo di Brzezinski: «Almeno teoricamente, potrebbero unirsi il principale potere slavo del mondo, la potenza islamica più militante del mondo e il potere asiatico più popoloso e potente del mondo, creando così una potente coalizione»).Spirano venti di guerra nel Golfo Persico, dove all’inasprimento delle sanzioni economiche contro l’Iran si aggiunge un numero crescente di provocazioni militari: la speranza di Washington è che il regime iraniano imploda sotto il peso delle molteplici pressioni ma, data la solidità di quest’ultimo, non è neppure escludibile un attacco militare diretto, di qui al 2020. Meglio sarebbe, ovviamente, se Teheran cadesse nella trappola di attaccare per primo. Alla base della strategia angloamericana c’è sicuramente la volontà di mantenere la superiorità regionale di Israele, destabilizzando il principale avversario; c’è, però, anche la volontà di scardinare una potenza terrestre che, a fianco di Russia e Cina, sta “organizzando” il Medio Oriente con importanti infrastrutture. Nella nostra analisi geopolitica per il 2019, “Dal golfo di Biscaglia al Mar cinese”, non ci eravamo ovviamente scordati di menzionare l’Iran che, sin dall’inverno 2017/2018, era stato preso di mira dall’amministrazione Trump. Ai soliti tentativi di rivoluzione colorata, si è aggiunto, nel corso del 2018, un ritorno alle sanzioni, sospese durante l’era Obama: la presidenza democratica, già impegnata nella destabilizzazione della Siria (e nel tentativo di scatenare una guerra turco-iraniana), aveva infatti allentato la morsa sull’Iran, per impedire che questo si gettasse nelle braccia della Russia.
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Tav Torino-Lione, la bancarotta italiana dei politici falliti
Specialità: dire una cosa e farne un’altra. Escatologia mistica, pronto uso: salvare il mondo (l’Italia, in questo caso). Promesse impossibili, bilancio imbarazzante. Trattasi di bancarotta politica. La si tenta di occultare in ogni modo, ma con risultati discutibili: Salvini, oggi presentato come trionfatore, alle europee non è stato votato neppure da due italiani su dieci. Ha vinto le elezioni, certo (ma correva da solo, contro nessuno). Non si può dire altrettanto del governo Conte, che avrebbe dovuto spaccare l’Europa dei tecnocrati e ora è ridotto a mendicare clemenza da Bruxelles, dopo aver rinunciato a proteggere l’Italia. Un capolavoro di ipocrisia, il cui campione assoluto – Luigi Di Maio – ora finge di godersi il consenso domestico rimediato col televoto sulla piattaforma Rousseau-Casaleggio, in realtà preteso a gran voce da Beppe Grillo. Fa così comodo, un leader debolissimo come Di Maio? Le ipotetiche alternative, peraltro, si chiamarebbero Alessandro Di Battista e Roberto Fico. A chi giova, dunque, un soggetto politico così inconsistente, incapace di autonomia decisionale, privo di democrazia interna? Nel 2013 servì ad arginare la rabbia sociale esplosa dopo il governo Monti sostenuto da Berlusconi e Bersani. Al potere dal 2018, il Movimento 5 Stelle è costretto a svelarsi: una caserma di soldatini, ricattati con la minaccia dell’espulsione e lo spettro delle sanzioni pecuniarie nel caso cambiassero casacca, in Parlamento.Stato confusionale: agli italiani avevano raccontato che la morale fa a pugni con la politica. E in nome di una pretesa moralità (la loro) hanno rottamato la politica (sempre la loro, quella che avevano lasciato intravedere nella vaga tuttologia dei loro non-programmi). Nebbiogeni su ogni cosa, i 5 Stelle: armamenti, vaccini, Europa, economia, grandi opere. Laddove sono stati costretti a esprimersi in modo chiaro – il Tap, gli F-35, l’obbligo vaccinale – si sono rimangiati la parola nel modo più plateale. Salvo ricorrere alla farsa nel caso del loro ultimo cavallo di battaglia, il reddito di cittadinanza, ridotto a caricatura stracciona di qualcosa che un tempo si sarebbe definito welfare. L’ultimo passo verso il baratro attende i 5 Stelle in valle di Susa, dove lo stesso Grillo – dal 2005 in poi – ha coltivato personalmemte, con grande impegno, il seme del Partito degli Onesti, schierandosi contro la maxi-opera più inutile d’Europa. Il ministro Toninelli è stato letteralmente fatto a pezzi – sui media – per aver osato compiere l’azione più sensata possibile: affidare il verdetto sulla fattibilità a una autorevole commissione di tecnici. Una scelta che sarebbe normale, in mondo normale. Un atto eroico, invece, nel caso italiano. Scontato, peraltro, l’esito dell’analisi costi-benefici: la Torino-Lione (costosissima e devastante per l’ambiente) sarebbe una ferrovia completamente inutile.E’ diventato un totem, il progetto Tav Torino-Lione. Se ne parla da più di vent’anni, ma del tunnel Italia-Francia non è stato finora scavato neppure un metro. Sull’ipotetica infrastruttura per le merci (perfetto doppione della linea Torino-Lione già esistente, deserta per assenza di merci da trasportare) si sono versati fiumi di parole bugiarde: la più colossale operazione di disinformazione attuata in Italia negli ultimi anni. Lo confermano le recenti elezioni regionali piemontesi, dove proprio il fantasma del Tav valsusino è stato elevato – da tutti i principali attori, centrodestra e centrosinistra, Chiamparino e Zingaretti, Salvini e Meloni – al rango di entità salvifica, pressoché metafisica, nemmeno fosse una sorta di Piano Marshall per il Piemonte. Poche centinaia di addetti, per la sola durata dei cantieri. Un suicidio economico, tranne che per la ristretta filiera degli appalti. Verità a tutti nota, stra-dimostrata da studi autorevolissimi, eppure risolutamente negata. Il maxi-obbrobrio servirebbe solo ad arricchire i suoi costruttori: è stato calcolato che ogni singolo operaio costerebbe un milione di euro, data l’enormità della spesa e l’esiguità del profilo occupazionale. Ma peggio: in vent’anni, i governi a favore dell’opera – di qualsiasi colore – si sono sempre rifiutati di spiegarne l’eventuale utilità. Un silenzio assordante, che non si è interrotto neppure quando la valle di Susa è diventata un problema di ordine pubblico. Nessuna spiegazione, mai, sul perché aprire quei cantieri. Solo slogan, depistaggi, insulti.Insifignicante sul piano strategico ma doloroso sotto l’aspetto finanziario, il progetto Tav Torino-Lione è diventato l’emblema del fallimento italiano: sovranità democratica confiscata con la forza della menzogna. Modelli economici falliti, partiti falliti, politici falliti: al Piemonte (4,3 milioni di abitanti) si continua a raccontare che, senza quella linea ferroviaria – destinata a restare deserta in eterno – la regione precipiterà nella miseria. L’unica forza politica capace di opporsi a questa menzogna orwelliana è stato il Movimento 5 Stelle, che ora però gli elettori piemontesi hanno punito, relegandolo nel recinto umiliante del 13% dei consensi. In pratica – ha concluso Salvini – è stato un referendum sulla Torino-Lione. Si preparano dunque ad avviarla, finalmente, l’inutile follia. Chi resta, a guardia della ragione? Luigi Di Maio, solo lui. Un mini-leader dimezzato, rintronato dalla disfatta, cannibalizzato dall’alleato di governo. In altre parole, inerme. Ma telecomandato, come sempre, da Grillo e Casaleggio. Vista l’attitudine al voltafaccia su qualsiasi impegno, è facile attendersi che i 5 Stelle capitoleranno, infine, anche sul Tav valsusino, imposto dall’oligarchia europea che ha piegato il paese. Il fallimento dell’Italia, a quel punto, raggiungerà la perfezione anche sul piano simbolico. Non ci sono alternative, diceva la Thatcher. Non ce ne sono davvero, se manca un pensiero politico capace di progettare il futuro partendo dalla giustizia sociale.Specialità: dire una cosa e farne un’altra. Escatologia mistica, pronto uso: salvare il mondo (l’Italia, in questo caso). Promesse impossibili, bilancio imbarazzante. Trattasi di bancarotta politica. La si tenta di occultare in ogni modo, ma con risultati discutibili: Salvini, oggi presentato come trionfatore, alle europee non è stato votato neppure da due italiani su dieci. Ha vinto le elezioni, certo (ma correva da solo, contro nessuno). E il governo Conte, che avrebbe dovuto spaccare l’Europa dei tecnocrati, ora è ridotto a mendicare clemenza a Bruxelles, dopo aver rinunciato a proteggere l’Italia. Un capolavoro di ipocrisia, il cui campione assoluto – Luigi Di Maio – ora finge di godersi il consenso domestico rimediato col televoto sulla piattaforma Rousseau-Casaleggio, in realtà preteso a gran voce da Beppe Grillo. Fa così comodo, un leader debolissimo come Di Maio? Le ipotetiche alternative, peraltro, si chiamerebbero Alessandro Di Battista e Roberto Fico. A chi giova, dunque, un soggetto politico così inconsistente, incapace di autonomia decisionale, privo di democrazia interna? Nel 2013 servì ad arginare la rabbia sociale esplosa dopo il governo Monti sostenuto da Berlusconi e Bersani. Al potere dal 2018, il Movimento 5 Stelle è costretto a svelarsi: una caserma di soldatini, ricattati con la minaccia dell’espulsione e lo spettro delle sanzioni pecuniarie nel caso cambiassero casacca, in Parlamento.
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Bernays e il golpe mentale che ci ha trasformati in pecore
«L’individuo opera le sue scelte mosso da impulsi irrazionali e incontrollati. E’ compito di una minoranza di persone elette guidarlo “come un gregge di pecore va guidato”». Annoverato dall’autorevole rivista americana “Life” tra i 100 uomini più potenti del XX secolo, acclamato unanimemente come il creatore dell’ingegneria del consenso, Edward Louis Bernays è un nome poco familiare al pubblico europeo. Conosciuto forse a qualche curioso per la sua parentela con il padre della psicoanalisi, lo zio Freud, il giovane Louis assimila velocemente e rielabora brillantemente la teoria della rivoluzionaria conoscenza dell’inconscio. Di estrazione ebraica e borghese, si trasferisce giovanissimo nella New York dei primi del Novecento dove, abbandonata la strada prestabilita della prosecuzione dell’attività paterna, muove i primi passi nel mondo del giornalismo, per affermarsi in una veste di comunicatore del tutto inedita per i tempi. Dopo i fasti registrati dall’industria manifatturiera a servizio della produzione bellica della Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare il più spaventoso degli spettri del mercato: il rischio di sovrapproduzione.Il “brain storming” di illustri banchieri e influenti imprenditori porta a centrare la soluzione in modo deciso e inequivocabile: occorre traghettare il cittadino americano dalla cultura dei bisogni a quella dei desideri, rendendo le persone bramose di soddisfare necessità sempre nuove, gravose come impellenti bisogni. La logica economica, dopo aver asservito l’industria bellica per accrescere la propria produzione, si avvicina così alla neonata scienza della psicoanalisi. Ma come fare a convincere i cittadini a consumare nuovi prodotti non avendo esaurito i vecchi acquistati? Per Bernays, la risposta è semplice: basta «inquadrare l’opinione pubblica così come un esercito inquadra i suoi soldati». Lo zio Sigmund aveva dato luce alla parte oscura che muove il desiderio spinto dall’inconscio: attraverso il meccanismo di compensazione dei desideri, l’individuo sposta l’orizzonte del suo desiderio represso e non ammissibile verso la sfera esterna della materialità per poterlo soddisfare.Appresa la lezione, Bernays offre la sua preziosa consulenza nella campagna della American Tobacco Company per abbattere il tabù dell’America del primo dopoguerra verso la pratica del fumo da parte delle donne. Nel 1929 inscena la parata delle “fiaccole della libertà”: ingaggia una decina di suffragette che, nel pieno di una manifestazione pasquale, accendono in modo teatrale l’oggetto del desiderio manifesto allora proibito, le sigarette, che nell’inconscio femminile rappresentavano il pene. La notizia fa il giro del mondo, veicolata come gesto di libertà e emancipazione femminile, intaccando fortemente il tabù puritano. L’individuo, dunque, è disposto ad assumere comportamenti irrazionali, orientati al consumo di prodotti non solo inutili per la sua vita, ma addirittura dannosi, pur di sentir soddisfatti alcuni sui aneliti inconfessabili e inappagati, pur di veicolare all’esterno un’immagine che lo gratifichi e lo faccia sentire apprezzato dagli altri.E proprio perché in preda a forze inconsce gli essere umani vanno controllati, “come un gregge di pecore va guidato”. Alle minoranze più intelligenti (élite) spetta il compito di fare proselitismo e indirizzare le masse indisciplinate e irrazionali. Una sorta di compito morale degli eletti: «Solo così si può coniugare l’interesse individuale con quello collettivo per favorire lo sviluppo e il benessere dell’America» (“Propaganda”, 1928). L’elenco dei clienti di Bernays è un pullulare di nomi del gotha economico e politico americano: Procter & Gamble, l’American General Electric, la General Motors e il presidente Usa Eisenhower sono solo alcuni dei nomi presenti nello sterminato portfolio di Bernays, capace di camuffare da colpo di stato il golpe guatemalteco del 1953 per favorire, al fianco della Cia, gli interessi della United Fruit Company. La sua fama arriverà oltreoceano, conquistando con le sue teorie il Ministro della Propaganda nazista Goebbels, suo dichiarato fan. E’ a lui che devono la paternità tutte le attuali figure “professionali”, come gli spin doctor, che hanno fatto della propaganda l’arma del consenso sociale.(Ilaria Bifarini, “Il padre della propaganda: Edward Bernays”, dal blog della Bifarini del 29 aprile 2019).«L’individuo opera le sue scelte mosso da impulsi irrazionali e incontrollati. E’ compito di una minoranza di persone elette guidarlo “come un gregge di pecore va guidato”». Annoverato dall’autorevole rivista americana “Life” tra i 100 uomini più potenti del XX secolo, acclamato unanimemente come il creatore dell’ingegneria del consenso, Edward Louis Bernays è un nome poco familiare al pubblico europeo. Conosciuto forse a qualche curioso per la sua parentela con il padre della psicoanalisi, lo zio Freud, il giovane Louis assimila velocemente e rielabora brillantemente la teoria della rivoluzionaria conoscenza dell’inconscio. Di estrazione ebraica e borghese, si trasferisce giovanissimo nella New York dei primi del Novecento dove, abbandonata la strada prestabilita della prosecuzione dell’attività paterna, muove i primi passi nel mondo del giornalismo, per affermarsi in una veste di comunicatore del tutto inedita per i tempi. Dopo i fasti registrati dall’industria manifatturiera a servizio della produzione bellica della Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare il più spaventoso degli spettri del mercato: il rischio di sovrapproduzione.
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Prove di guerra: sventato dalla Russia il golpe in Venezuela
La spallata finale di Juan Guaidó non c’è stata, la rivolta non è andata oltre qualche immagine sui social. Nicólas Maduro è ancora al potere, appoggiato dalla gran parte delle forze armate. A poche ore dall’annuncio della sua liberazione dai domiciliari, scrive Rocco Cotroneo sul “Corriere della Sera”, il leader oppositore Leopoldo López è dovuto correre a rinchiudersi nuovamente, stavolta nell’ambasciata spagnola con moglie e figlia, per evitare la quasi certa vendetta del chavismo. Intanto a Caracas si sono verificati nuovi scontri tra manifestanti e la Guardia Nazionale Bolivariana, mentre sono in corso le marce contrarie di sostenitori di Maduro e oppositori. Anche per Guaidó non sono ore tranquille, aggiunge il “Corriere”: l’autoproclamato presidente ad interim potrebbe essere arrestato in qualsiasi momento, e vive in una sorta di semiclandestinità. Ma perché la giornata della rivolta finale (o del golpe, secondo il regime) si è afflosciata nel giro di poche ore? Chi ha sbagliato? O meglio: come ha fatto Maduro a liquidare la questione senza nemmeno aver bisogno di una forte repressione? Se fossero vere le parole di John Bolton, il consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa, ci troveremmo di fronte ad una vera e propria stangata ai danni di Guaidó. «C’era un accordo dietro le quinte», ha detto Bolton: «Alcuni uomini chiave del regime avrebbero dovuto disertare, spianando la strada alla caduta di Maduro».Parole rafforzate dalla ricostruzione dei fatti (anch’essa da prendere con le pinze) del segretario di Stato Mike Pompeo: «Maduro era pronto a salire su un aereo, per scappare a Cuba. Poi è stato fermato dai russi». Secondo Cotroneo siamo di fronte «a uno scenario da post guerra fredda, in grado di far impallidire quella vera, con tutto il contorno dei film di spionaggio». Se così fosse, prosegue il giornalista del “Corriere”, gli Usa avrebbero erroneamente dato il via libera all’operazione finale di Guaidó e López, fornendo loro però informazioni fasulle: non esisteva uno scenario di deposizione di Maduro all’interno del regime stesso. E alla “fregatura” avrebbero partecipato attivamente uomini di Mosca. I militari venezuelani infatti non si sono spaccati, tranne poche diserzioni di soldati semplici. «Il quadro del fallimento era già chiaro nel primo pomeriggio ora di Caracas, a otto ore dall’inizio dell’operazione. A quel punto – e Maduro non era nemmeno apparso in pubblico – López aveva già deciso di chiedere aiuto diplomatico (prima al Cile, infine alla Spagna) e una ventina di militari ribelli avevano fatto lo stesso con il Brasile».Non secondaria, infine, la mancata risposta della piazza, osserva il “Corriere”: «C’erano poche migliaia di manifestanti nelle strade, i venezuelani sono esausti. Fine della sfida». Non per questo, però, gli Usa molleranno la presa sul Venezuela: la decisione dell’amministrazione Trump di non desistere dalla partita venezuelana resta chiara. «Pur preferendo una transizione democratica, l’opzione militare resta in piedi», ha insistito Pompeo. È stato un fallimento o una prova generale? Se lo domanda, sul suo blog, un analista geopolitico come Gennaro Carotenuto: «Intorno all’autoproclamato Juan Guaidó – scrive – è come se si svolgessero da mesi dei ripetuti “stress test”, dove quello che non si vede è ben maggiore di quello che è visibile in superficie. Se così non fosse, a cento giorni di distanza dalla giocata, vorrebbe dire che davvero l’opposizione non abbia la forza né politica né militare per rovesciare il governo di Nicolás Maduro». Quello di martedì 30 aprile «è stato uno stress test sull’esercito per vedere, come già a Cúcuta a fine febbraio, se c’è un punto d’inflessione oltre il quale un numero decisivo di esponenti degli stati maggiori possano rivoltarsi, giocando con una guerra civile dietro l’angolo».Secondo Carotenuto, è stato uno stress test anche per la società civile, che è servito – come per i blackout di marzo – a misurare chi scende in piazza, e chi tra i leader dell’opposizione è coerente e accetta l’attuale leadership, che ora sembra «tornata ufficialmente a Leopoldo López, al quale Guaidó scaldava il posto». Aggiunge Carotenuto: il “golpetto” di fine aprile è piaciuto «alla parte destra dell’opposizione», pronta alla violenza. Ma gli scontri sono spenti velocemente, come già nel 2014 e nel 2017: «Ancora una volta – per fortuna – la società civile, chavista e anti-chavista, polarizzata quanto si vuole, si è tenuta lontana dalla violenza». Ogni attore ha la sua agenda, scrive Carotenuto. Ma di agende, in Venezuela, sembrano essercene troppe, in queste ore: da una parte gli Usa, la Colombia e il Brasile, dall’altra Cuba, la Russia e la Cina. L’Europa? Pressoché assente. «L’unica soluzione non drammatica e non violenta, in Venezuela, l’aveva sfiorata Zapatero col tavolo fatto inopinatamente saltare ad accordo fatto, prima delle presidenziali di maggio 2018. Tanto c’è Maduro, al quale si possono dare tutte le colpe».Il mondo, riassume Carotenuto, ha guardato per 24 ore al Venezuela per la diserzione di una trentina di soldati di grado medio, con alla testa un solo generale di peso, Manuel Ricardo Figueroa, subito rimosso. E tutto soltanto per liberare Leopoldo López dai domiciliari? Troppo poco per essere vero: «Il senatore Marco Rubio, già protagonista del disastro di febbraio a Cúcuta, per giorni ha chiamato le Forze Armate Nazionali Bolivariane, Fanb, al golpe. Lo ha fatto con un discorso a metà strada tra l’invito, la minaccia e la promessa. Invito a restaurare la democrazia, minaccia di far passare l’esercito a essere parte del problema in caso di intervento esterno, promessa di prebende infinite e amnistia tombale in caso di golpe». Il problema, aggiunge Carotenuto, è che minacce e promesse non possono ripetersi all’infinito: «A Cúcuta, le poche decine di militari che disertarono, lamentarono che Marco Rubio in persona avesse promesso loro 20.000 dollari a testa. Ovviamente mai visti». La realtà è che gli Usa non sono affatto onnipotenti, come spesso vengono rappresentati (da amici e nemici). Cose simili a quelle di Rubio le ha dette il “miles gloriosus” Mike Pompeo, «sempre con la mano alla pistola», e così John Bolton e lo stesso Elliott Abrams, «il più sinistro dei personaggi coinvolti, conclamato terrorista di Stato, massacratore delle guerre in Centroamerica, che ha sostenuto che i presunti militari golpisti avrebbero a un certo punto spento i cellulari».Certamente a Pompeo, Bolton e Abrams «di certo la soluzione militare piace», ma – di fronte alla fallito golpe – non sanno più cosa tentare, sostiene Carotenuto, secondo cui si sta ripetendo la stessa situazione di Cúcuta, «altro stress test», quando si scomodò il vice del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, il generale Hamilton Mourão, per chiarire oltre ogni ragionevole dubbio che il Brasile non accetta interventi esterni. Non saranno né statunitensi né colombiani a intervenire in quello che Brasilia considera il proprio spazio strategico amazzonico. «Diverso è solo il caso dei 5.000 mercenari che Blackwater avrebbe reclutato, pagati da prominenti multimilionari venezuelani, sui quali molto ha scritto la “Reuters”». I mercenari «potrebbero infiltrarsi in mille modi e commettere le più odiose delle azioni terroristiche, sabotaggi, assassinii». Aggiunge Carotenuto: «Se c’è qualche liberaldemocratico che, pur di liberarsi di Chávez, fa il tifo perfino per i tagliagole che già agirono in Iraq, alzo le mani». E’ grave che ora i disertori avessero alla loro testa Manuel Ricardo Figueroa, il capo del Sebin (i servizi venezuelani). Doveva essere un’azione suicida, oppure la partita è davvero sul terreno militare come in Cile nel 1973? Altra domanda: la liberazione di Leopoldo López è servita più che altro a tamponare il declino dell’insignificante leadership di Guaidó?Carotenuto ricorda che, durante il fallito colpo di Stato del 2002, proprio López condusse l’assalto all’ambasciata di Cuba. «Da allora dosa il ruolo di oppositore tra violenza e politica, contando sulla connivenza dei media che continuano a rappresentarlo come una specie di John Kennedy caraibico e di perseguitato politico. Pensa di essere più utile dall’estero che ai domiciliari?». E Guaidó? Adesso chiama a uno sciopero generale, ma scaglionato: «Tutt’altro che la spallata finale a un regime descritto nuovamente sul predellino dell’aereo che deve portarlo in esilio». Può Maduro fare ancora finta di niente o si caricherà del costo politico di arrestarlo, con la grande stampa internazionale pronta a considerare Guaidó un martire? «In vent’anni di rivoluzione bolivariana, con una buona dozzina di crisi maggiori, abbiamo visto che sul breve termine l’opposizione ha grande capacità di convocazione, ma col passare delle settimane sono i chavisti quelli che restano in piazza a difendere quello che continuano a considerare il governo popolare e il mandato di quello che è stato il più popolare e amato leader latinoamericano degli ultimi decenni». Anche stvolta i chavisti stanno dimostrando compattezza, scendendo in piazza in numeri almeno comparabili a quelli dell’opposizione. «Il golpetto di Caracas lascia più domande che risposte – conclude Carotenuto – ma che i chavisti esistano e continuino e continueranno a resistere è una delle poche certezze che questi tre mesi ci hanno donato».La spallata finale di Juan Guaidó non c’è stata, la rivolta non è andata oltre qualche immagine sui social. Nicólas Maduro è ancora al potere, appoggiato dalla gran parte delle forze armate. A poche ore dall’annuncio della sua liberazione dai domiciliari, scrive Rocco Cotroneo sul “Corriere della Sera”, il leader oppositore Leopoldo López è dovuto correre a rinchiudersi nuovamente, stavolta nell’ambasciata spagnola con moglie e figlia, per evitare la quasi certa vendetta del chavismo. Intanto a Caracas si sono verificati nuovi scontri tra manifestanti e la Guardia Nazionale Bolivariana, mentre sono in corso le marce contrarie di sostenitori di Maduro e oppositori. Anche per Guaidó non sono ore tranquille, aggiunge il “Corriere”: l’autoproclamato presidente ad interim potrebbe essere arrestato in qualsiasi momento, e vive in una sorta di semiclandestinità. Ma perché la giornata della rivolta finale (o del golpe, secondo il regime) si è afflosciata nel giro di poche ore? Chi ha sbagliato? O meglio: come ha fatto Maduro a liquidare la questione senza nemmeno aver bisogno di una forte repressione? Se fossero vere le parole di John Bolton, il consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa, ci troveremmo di fronte ad una vera e propria stangata ai danni di Guaidó. «C’era un accordo dietro le quinte», ha detto Bolton: «Alcuni uomini chiave del regime avrebbero dovuto disertare, spianando la strada alla caduta di Maduro».
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Chi ha coperto Assange, e perché ha smesso di proteggerlo?
Quella di Julian Assange, fondatore di Wikileaks, è una vicenda interamente circondata di ambiguità: non credo che l’unica fonte di Assange sia stato quel povero soldatino che poi si è assunte tutte le responsabilità (Bradley Manning, oggi Chelsea Manning dopo il cambio di sesso: soldato che rivelò ad Assange le atrocità commesse dall’esercito Usa in Iraq, ndr). Non credo che Assange abbia potuto avere copertura per tutti questi anni solo perché era simpatico al leader dell’Ecuador, Rafael Correa. E’ tutto molto opaco, per cui: dare una medaglia o denigrare Assange è impossibile. Ci sono troppe cose non chiare, che non conosciamo. Assange ha avuto coperture importanti, quindi ha svolto collaborazioni importanti. Queste coperture sono venute meno, e non sappiamo né come le ha avute, né da chi, né perché sono venute meno. Per questo motivo, chiunque esprima un giudizio in questa situazione, secondo me, è una persona avventata.Diffondere notizie riservate e potenzialmente lesive della sicurezza nazionale in America è un reato, e anche in Italia. Non è vero che si possa pubblicare tutto. Poi le notizie, quando se ne entra in possesso in modo illecito, non possono essere pubblicate: se entro in possesso di notizie – anche vere – ma in modo illecito, e le pubblico, vado in galera. Esempio: è un reato se do una notizia che i terroristi possono utilizzare, o se scrivo che è stato creato un centro speciale e segreto presso il ministero della difesa. Se poi intercetti illegalmente Berlusconi e quindi pubblichi quello che hai registrato a casa sua, vai in galera anche per quello che hai pubblicato. Non me la sento di difendere Assange come un eroe dell’informazione. Assange ha acquisito notizie corrompendo un militare, perché di questo si tratta, e già lì siamo su un terreno minato. Per questo merita l’arresto? Ha corrotto un militare: e la corruzione è un reato, anche se il militare ha detto di avergli passato liberamente quelle notizie.Senza di lui, tante cose non le avremmo sapute? Ma non è che, per sapere delle cose, io devo per forza smontare lo Stato. E se vanno in galera anche persone comuni, non capisco perché non ci possano andare anche i giornalisti, se commettono reati. Per me Assange ha corrotto un militare, il che è molto grave. Massimo Mazzucco trova strano che Julian Assange, nonostante le sue vastissime fonti, non abbia mai detto niente a proposito dell’11 Settembre? E’ anomalo, dice Mazzucco, che da Wikileaks non sia mai uscita un’indiscrezione sull’attentato alle Torri Gemelle? Come dicevo, infatti, tutta la vicenda di Assange – umana, personale, professionale e quindi anche giudiziaria – è completamente nelle nebbie: per questo, ripeto, non me la sento di fare affermazioni nette.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube, il 13 aprile 2019. Analista e saggista con alle spalle decenni di attività come avvocato, Carpeoro – massone di alto grado, fuoriuscito dalla massoneria – è un esperto di analisi geopolitica: nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016 per i tipi di Revoluzione, accusa la componente massonica deviata dell’intelligence occidentale di aver “firmato” gli attentati degli anni scorsi, affidati in Europa a manovalanza jihadista targata Isis).Quella di Julian Assange, fondatore di Wikileaks, è una vicenda interamente circondata di ambiguità: non credo che l’unica fonte di Assange sia stato quel povero soldatino che poi si è assunte tutte le responsabilità (Bradley Manning, oggi Chelsea Manning dopo il cambio di sesso: soldato che rivelò ad Assange le atrocità commesse dall’esercito Usa in Iraq, ndr). Non credo che Assange abbia potuto avere copertura per tutti questi anni solo perché era simpatico al leader dell’Ecuador, Rafael Correa. E’ tutto molto opaco, per cui: dare una medaglia o denigrare Assange è impossibile. Ci sono troppe cose non chiare, che non conosciamo. Assange ha avuto coperture importanti, quindi ha svolto collaborazioni importanti. Queste coperture sono venute meno, e non sappiamo né come le ha avute, né da chi, né perché sono venute meno. Per questo motivo, chiunque esprima un giudizio in questa situazione, secondo me, è una persona avventata.
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Ormai siamo superflui, la plutocrazia cospira contro di noi
Sono in corso precise e profonde trasformazioni strutturali dell’ordinamento sociale, su scala mondiale, che la comunicazione politica per le masse non menziona o menziona solo velatamente, senza mai parlare di come esse hanno ridotto il ruolo della politica. Ne cito qui alcune particolarmente chiare e rilevanti, per poi descrivere i principali fattori che ostacolano il loro pubblico riconoscimento. In compenso, recenti vicende legate alla crisi economica e alla globalizzazione hanno fatto capire all’opinione pubblica che le nazioni sono governate da una oligarchia e non dalle istituzioni ufficiali, sì che non esiste la democrazia e vi è un essenziale conflitto di classe tra governanti e governati, indipendente dalla ideologia adottata dai primi. La prima e più nota, delle trasformazioni globali in corso, è sul piano ‘orizzontale’: è la globalizzazione-centralizzazione dei mercati e del potere anche politico e giudiziario, con il conseguente svuotamento-soppiantamento degli Stati nazionali e delle rappresentanze e realtà nazionali. La seconda è sul piano ‘verticale’: è il trasferimento del potere effettivo da soggetti pubblici, visibili e in qualche modo responsabili (politicamente, giudiziariamente), a soggetti privati, non esposti, non responsabili (non eletti, non sindacabili giudiziariamente), che studiano e prendono dietro porte chiuse le grandi decisioni e dirigono i governi da sopra di essi – l’Unione Europea è un ottimo esempio di ciò.La terza è che i popoli diventano superflui e ininfluenti perché l’economia finanziarizzata non ha più bisogno, per produrre ricchezza e mantenere il potere costituito, di produrre e vendere grandi quantità di beni reali, né di eserciti di massa; quindi i cittadini, come lavoratori-consumatori-combattenti hanno perso utilità per il sistema, e con essa rilevanza politica; da qui il diffondersi della povertà e la perdita di diritti dei lavoratori. La quarta è la capacità tecnologica, che i manovratori del potere stanno sempre più acquisendo, di monitorare e influenzare anche biologicamente i singoli e la società, e persino le condizioni metereologiche, con mezzi praticamente irresistibili. Veniamo ora ai paraocchi, cioè ai principali fattori che impediscono all’opinione pubblica di capire come funzionano e come si stanno evolvendo la società e l’ordinamento giuridico, e che così li rendono psicologicamente accettabili alla massa. Infatti la gente non sopporta di sentirsi impotente entro un sistema ingiusto, illegittimo e sopraffattore, quindi accetta ogni aiuto per costruirsi l’illusione di vivere in un sistema complessivamente legittimo, visibile e ben intenzionato. In primo luogo si tende tuttora a pensare che i processi decisionali e le intenzioni dei soggetti istituzionali, politici ed economici, siano quelli dichiarati anziché altri, nascosti e dissimulati – anche se da Machiavelli in poi la politologia insegna che le cose stanno proprio così.In secondo luogo, si tende a pensare che l’uomo e la collettività e il loro bene siano il fine dell’azione dello Stato, mentre al contrario i detentori del potere ‘tengono’ la collettività come un loro strumento, similmente a come l’allevatore tiene il bestiame; e gli Stati, al loro interno e nei rapporti internazionali, agiscono non secondo i principi legali ed etici con cui si legittimano, bensì cercando sopraffazione e sfruttamento. In terzo luogo si tende a pensare che il potere reale coincida col potere ufficialmente visibile e pubblico, istituzionale, controllabile politicamente e giudiziariamente, anziché essere detenuto da soggetti autoreferenziali, non responsabili e scarsamente visibili. In quarto luogo si tende a pensare che la legalità sia complessivamente osservata soprattutto dai poteri pubblici e delle istituzioni, e difesa dalla giustizia – mentre non è affatto così, anzi prevalgono le pratiche e le decisioni illegali, e il potere giudiziario strutturalmente si occupa non di difendere la legalità ma di mascherare, legittimare, preservare i rapporti di forza, privilegio e interesse reali, indipendentemente dalla loro illegalità, mantenendo una apparenza di legittimità agli occhi della massa. Bisognerebbe sempre tenere a mente che rispettare le regole, per chi detiene il potere, è un costo.In quinto luogo, si tende a credere, in conformità al catechismo neoliberale dei mass media e delle istituzioni, che il mercato libero esista, che sia efficiente, e che tenda alla crescita economica, mentre al contrario il mercato non è libero ma controllato da cartelli; non è efficiente, perché non tende ad aumentare la produzione di beni della vita né a prevenire o curare le crisi, ma a produrne in continuazione, per speculare e condizionare i governi grazie ad esse; ed essendo un mercato dominato dalla finanza, non tende a produrre più ricchezza reale. In sesto luogo, nella recessione-stagnazione economica si tende a non vedere che esse sono tali solo per la popolazione generale, mentre per l’élite dominante, per i manovratori, esse comportano un grande incremento di ricchezza e potere rispetto alla società complessiva. I detentori apicali del potere, i pianificatori-manovratori di lungo termine, da qualche decennio si stanno servendo delle dinamiche del capitalismo finanziario (che distrugge insieme le sicurezze private e le strutture pubbliche rappresentative dei popoli), nonché della sua capacità di condizionare i comportamenti collettivi e individuali, allo scopo di preparare e attivare gli strumenti per la riduzione della popolazione, dei consumi e delle emissioni: riduzione che pare indispensabile per salvare il pianeta.In queste ottiche, lo sviluppo economico è stato fermato e avviato alla sua inversione dal cartello mondiale privato della moneta e del credito attraverso la creazione orchestrata di una carestia monetaria, giustificata con false teorie economiche, e che moltiplica le ricchezze della classe globale dominante diffondendo la povertà nella popolazione generale. Analogamente, la dinamica (“animal spirits”) del profitto capitalistico e monopolistico viene sfruttata per creare, attraverso la privatizzazione della produzione e del commercio delle risorse alimentari (terreni, sementi, chimica) nelle mani di un cartello globale, i presupposti per una carenza alimentare generale nel terzo mondo. Questa condizione orchestrata di carestia alimentare globale, combinata con la carestia monetaria, in una prima fase opera una progressiva estrazione di ricchezza e reddito dalle nazioni (cittadini, imprese, settore pubblico), e in una seconda fase prepara la soluzione del problema eco-demografico, appoggiata da farmaci contaminati e contaminanti alimentari nonché ambientali che abbassano le difese immunitarie e la fertilità, minano il sistema nervoso, e innalzano la morbilità soprattutto degenerativa nella popolazione generale. Il nemico della biosfera, dell’ambiente, ultimamente sono i sette miliardi di sovrappopolazione, coi loro consumi e le loro emissioni – e quella sopra sembra essere la cura che è stata pianificata. Vorrei ricordare quanto sopra a coloro che credono ancora che si possa rilanciare la natalità e lo sviluppo economico.(Marco Della Luna, “Evoluzione e paraocchi”, dal blog di Della Luna del 29 marzo 2019).Sono in corso precise e profonde trasformazioni strutturali dell’ordinamento sociale, su scala mondiale, che la comunicazione politica per le masse non menziona o menziona solo velatamente, senza mai parlare di come esse hanno ridotto il ruolo della politica. Ne cito qui alcune particolarmente chiare e rilevanti, per poi descrivere i principali fattori che ostacolano il loro pubblico riconoscimento. In compenso, recenti vicende legate alla crisi economica e alla globalizzazione hanno fatto capire all’opinione pubblica che le nazioni sono governate da una oligarchia e non dalle istituzioni ufficiali, sì che non esiste la democrazia e vi è un essenziale conflitto di classe tra governanti e governati, indipendente dalla ideologia adottata dai primi. La prima e più nota, delle trasformazioni globali in corso, è sul piano ‘orizzontale’: è la globalizzazione-centralizzazione dei mercati e del potere anche politico e giudiziario, con il conseguente svuotamento-soppiantamento degli Stati nazionali e delle rappresentanze e realtà nazionali. La seconda è sul piano ‘verticale’: è il trasferimento del potere effettivo da soggetti pubblici, visibili e in qualche modo responsabili (politicamente, giudiziariamente), a soggetti privati, non esposti, non responsabili (non eletti, non sindacabili giudiziariamente), che studiano e prendono dietro porte chiuse le grandi decisioni e dirigono i governi da sopra di essi – l’Unione Europea è un ottimo esempio di ciò.
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La fantasia al potere, per davvero: cent’anni fa, a Fiume
Vi propongo la trama di un film per celebrare un fantasioso centenario. Un poeta rimasto orbo, reduce da imprese eroiche e spettacolari come la trasvolata su Vienna o la Beffa di Buccari, marcia su Fiume con poeti, letterati, musicisti, donne e soldati. Il mondo lo osserva curioso. Lui progetta la marcia su Fiume dalla casetta rossa di Venezia, dove riceve donne e ufficiali, e poi arriva in Istria nel settembre del 1919 con un’auto scoperta, il monocolo e i legionari al seguito. La compagnia che lo segue è di personaggi straordinari. Giovani letterati come Giovanni Comisso, Henri Furst, Raffaele Carrieri, ufficiali come l’ebreo russo polacco Leòn Kochnitsky, di nascita belga, nordico affascinato dalla solarità mediterranea, musicista e letterato; o un ufficiale che ha compiuto imprese folli come Guido Keller che lanciò in una trasvolata un pitale su Montecitorio e fiori sul Vaticano e per la regina sul Quirinale; vive nudo e sfrenato a Fiume, defeca da un albero, ha una dieta assurda, fa amore di gruppo. A Fiume nasce lo Yoga, associazione trasgressiva di spiriti liberi, tra ladri, prostitute, tossicomani. Ha come simbolo la svastica ma nel verso tradizionale, opposta a quella che sarà poi del nazismo. E progetta il castello d’Amore, dove simulare feste medievali con donne e soldati.Il rituale politico-cameratesco annuncia il fascismo ma Mussolini è freddo e scettico sull’impresa fiumana perché la considera velleitaria; e il poeta lo attacca sul suo stesso “Popolo d’Italia”, lo accusa d’avere paura e di tradire la Vittoria. A Fiume arrivano un po’ tutti, Guglielmo Marconi a bordo del suo bianco yacht Elettra, e poi torna per divorziare, consigliato da Mussolini, perché a Fiume è facile separarsi: Toscanini con la sua orchestra fa concerti devolvendo gli incassi ai poveri; Filippo Tommaso Marinetti, accolto trionfalmente, si produce in vari discorsi show; arrivano ufficiali giapponesi, belgi e ungheresi che diventano legionari fiumani. Difende Fiume anche Gramsci da chi lo presenta come «un luogo di bestialità, prepotenza, possesso di donne»; anche Lenin è affascinato da Fiume. Per la prima volta partecipano all’impresa alcune donne, come Fiammetta, pseudonimo di una nobildonna milanese, Margherita Besozzi; o donna Ninetta, splendida moglie dell’aviatore Casagrande, bionda ed elegante contessa; ragazze in grigioverde e qualche prostituta. A Fiume si svolgono convegni suggestivi notturni al chiarore delle fiaccole, baccanali in spiaggia, feste dionisiache con vino, donne, sesso e cocaina, “la polvere folle” del Poeta.Battaglie simulate, orge in costume, soldati inghirlandati, che danzano e vestono in modo stravagante, si fanno crescere barba e capelli o se li rasano a zero, e fondano la Congregazione del Pelo. Lui guerrafondaio inventa lo slogan pacifista “mettete dei fiori nei vostri cannoni”, infilando un fiore nel moschetto e parlando di fiori e libero amore. Ci sono gli animalisti, un ufficiale gira con una volpe al guinzaglio, Keller vive con un’aquila e si presenta alla mensa con un pappagallo sul petto; una volta carica sul velivolo un asino… Spopola a Fiume un romanzo futurista, “L’isola dei baci”, ambientato a Capri, di Corra e Marinetti, dove si immagina il primo gay pride, un congresso di omosessuali il cui motto è “raffinati di tutto il mondo unitevi”. Importanti sono i diari fiumani, come quello di Comisso che descrive Fiume come «una città in amore», in cui «tutti si diedero a un godimento irruente». Il Comandante rimprovera gli eccessi sessuali dei legionari, ma ha varie avventure erotiche a Fiume (si auto-definì “porco con le ali”, antesignano di Lidia Ravera).Da una porticina segreta faceva entrare una canzonettista chiamata Lilì di Montresor, che poi ripartiva con ben 500 lire in borsetta; o una donna sensuale e selvaggia chiamata Barbarella nei suoi Taccuini, una quindicenne per lui 53enne, “Bianca, la piccola”, “Gr, Bruna e molle”, una maestrina di Merano. Nella sala del comando, racconta Nino d’Aroma, passarono «molte donne di tutta Europa, vecchi amori, spente fiamme e nuove conquiste». Leggendaria la nascita del profilattico a Fiume battezzato Habemus Tutorem, poi noto come Hatù (ma un’altra versione attribuisce il nome nientemeno che al cardinal Nasalli Rocca). Arrivano a Ronchi pure i frati modernisti, che disobbediscono alla chiesa per seguire il patriottismo del Comandante, espongono alla finestra del monastero il motto dannunziano “Hic manebimus optime” e alla fine sette cappuccini abbandonano il saio. L’amministratore apostolico di Fiume, don Celso Costantini, accusa il poeta di paganesimo. La reggenza del Carnaro, col sindacalista Alceste de Ambris, dura sedici mesi, da settembre al Natale dell’anno dopo. Poi sarà cannoneggiata.Provano prima con le trattative e le promesse – c’è anche Badoglio, mandato dal presidente del consiglio Nitti, detto dal Poeta il “Cagoja” – poi sarà Giolitti a far bombardare Fiume e costringere alla resa. L’ultimo discorso del Comandante a Fiume si conclude con un Viva l’Amore. Quasi un promo del ’68, degli hippy e un riassunto delle rivoluzioni, da quella fascista a quella sovietica, che allora il Vate ammirava (sognava un comunismo senza dittatura, libertario, aristocratico, anarchico e nazionalista). Insomma un microcosmo-manicomio di utopisti, sognatori e velleitari. Un film d’immaginazione, ma la storia è vera, come il mitico Comandante-Poeta. Cent’anni fa la fantasia andò davvero al potere, ma non vi restò molto. Ps: il poeta in questione, l’avrete capito, è Gabriele d’Annunzio, su cui ieri si è aperta una mostra al Vittoriale. Sulla sua impresa fiumana uscirà tra un paio di settimane un’opera ponderosa di Giordano Bruno Guerri. Anni fa Tinto Brass e Pasquale Squitieri mi proposero di scrivere la sceneggiatura di un film dedicato a D’Annunzio a Fiume. Eccone l’abbozzo postumo…(Marcello Veneziani, “La fantasia al potere, cent’anni fa”, da “La Verità” del 10 marzo 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani. Nell’appendice storiografica del romanzo “Il volo del pellicano”, pubblicato da Melchisedek nel 2016, Gianfranco Carpeoro svela la profonda motivazione dell’impegno civile di D’Annunzio, grande poeta e fine letterato: è stato il terz’ultimo “Ormùs” – gran maestro – dei Rosa+Croce, leggendaria confraternita sapienziale di natura iniziatica; i successori di D’Annunzio sarebbero stati l’artista francese Jean Cocteau e poi il genio surrealista spagnolo Salvador Dalì; poi i Rosa+Croce si sarebbero eclissati, in realtà per effetto di una decisione programmata già dai tempi della conferenza di Yalta, dove emersero i germi della futura guerra fredda e del conflitto israelo-palestinese, concepito per colonizzare militarmente il Medio Oriente petrolifero. L’ispirazione “rosacrociana” è evidente nella Carta del Carnaro, in vigore nell’effimera reggenza dannunziana di Fiume: a detta degli storici resta la Costituzione più avanzata – la più moderna, democratica e rivoluzionariamente libertaria che sia mai stata varata, nel mondo. Non è strano, sottolinea Carpeoro: i Rosa+Croce sono i progenitori culturali del socialismo, avendo “firmato” già nel ‘600 opere come “Christianopolis” di Johann Valentin Andreae, “Utopia” di Tommaso Moro e “La Città del Sole” di Tommaso Campanella, tutte ispirate dal sogno di un mondo più giusto).Vi propongo la trama di un film per celebrare un fantasioso centenario. Un poeta rimasto orbo, reduce da imprese eroiche e spettacolari come la trasvolata su Vienna o la Beffa di Buccari, marcia su Fiume con poeti, letterati, musicisti, donne e soldati. Il mondo lo osserva curioso. Lui progetta la marcia su Fiume dalla casetta rossa di Venezia, dove riceve donne e ufficiali, e poi arriva in Istria nel settembre del 1919 con un’auto scoperta, il monocolo e i legionari al seguito. La compagnia che lo segue è di personaggi straordinari. Giovani letterati come Giovanni Comisso, Henri Furst, Raffaele Carrieri, ufficiali come l’ebreo russo polacco Leòn Kochnitsky, di nascita belga, nordico affascinato dalla solarità mediterranea, musicista e letterato; o un ufficiale che ha compiuto imprese folli come Guido Keller che lanciò in una trasvolata un pitale su Montecitorio e fiori sul Vaticano e per la regina sul Quirinale; vive nudo e sfrenato a Fiume, defeca da un albero, ha una dieta assurda, fa amore di gruppo. A Fiume nasce lo Yoga, associazione trasgressiva di spiriti liberi, tra ladri, prostitute, tossicomani. Ha come simbolo la svastica ma nel verso tradizionale, opposta a quella che sarà poi del nazismo. E progetta il castello d’Amore, dove simulare feste medievali con donne e soldati.
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Manson: mi condannate a morte, ma siete più morti di me
Ho passato la mia vita in carcere. Ho sempre visto la gente del mondo libero come i buoni e la gente nelle prigioni come i cattivi. Sono sempre stato in galera e sono rimasto stupido, osservando il vostro mondo crescere, senza riuscire a capirlo, senza capire le cose che voi fate. Ho fatto del mio meglio per tirare avanti nel vostro mondo. Ho fatto tutto ciò che ho potuto per andare d’accordo con voi, e non ho ordinato a nessuno di voi di fare nulla di più di quello che voleva fare. Quello che voglio è essere in pace, qualunque cosa comporti. Ma questo non me lo permettete. Perché il vostro mondo è fatto di immondizia ai lati della strada, e io sono una delle vostre immondizie. Ora volete uccidermi. Ma io sono già morto, lo sono stato per tutta la mia vita. Io vivo nel mio mondo, e sono il re del mio mondo, anche se è un immondezzaio, se è nel deserto o da qualunque altra parte. Voi potete uccidere il corpo, ma non potete uccidere l’anima. L’anima è sempre là, all’inizio e alla fine: non potete fermarla, è più grande di me. Nella mia mente io vivrò per sempre, e nella mia mente io ho sempre vissuto. Sono solo quello che avete costruito. Vi aspettate di spezzarmi? Impossibile, mi avete spezzato anni fa. Stavo seduto in cella quando il tipo mi apriva la porta e diceva: vuoi uscire? Io lo guardavo e dicevo: e tu, vuoi uscire? Tu sei in prigione, tutti voi siete in prigione. La legge che è in voi è peggiore della legge che è in me.Voi avete reso i vostri bambini quello che sono. Questi bambini che vengono da voi con i coltelli sono i vostri bambini, glielo avete insegnato voi. Dite quanto sono cattivi e assassini i vostri bambini, ma glielo avete insegnato voi. Voi avete reso i vostri bambini quello che sono. Ai bambini spiegate che cosa non devono fare nella speranza che escano e lo facciano, cosicché voi possiate giocare il vostro gioco con loro. Ai soldati insegnate ad uccidere, e loro vanno e uccidono; poi li processate e li mettete in prigione perché hanno ucciso. Se un soldato va sul campo di battaglia ci va rischiando la sua vita, ma questo gli dà il permesso di prenderne una? Non ho niente contro nessuno di voi. Non posso giudicare nessuno di voi. Ma penso che sia il momento buono perché voi tutti cominciate a guardarvi, e giudichiate le bugie nelle quali vivete. Voi non siete voi, siete solo dei riflessi; siete riflessi di tutto ciò che credete di sapere, di tutto quello che vi è stato insegnato. I vostri genitori vi hanno detto che cosa siete, vi hanno costruito prima che voi aveste sei anni, e quando eravate a scuola e vi facevate il segno della croce e giuravate fedeltà alla bandiera, loro in realtà vi intrappolavano, perché a quell’età voi non conoscevate nessuna menzogna finché quella menzogna non fu riflessa su di voi.E’ sbagliato non avere denaro, è sbagliato pagare in ritardo le rate della macchina, è sbagliato rompere la Tv, è sbagliato, è sbagliato… voi continuate, lo ammucchiate nella vostra mente, voi siete bastonati da tutto ciò e dalla vostra confusione. Ognuno di voi è solo un riflesso degli altri. Voi non mi sembrate veri. Mi sembrate il composto di ciò che qualcuno vi ha detto che siete. Voi vivete per le opinioni degli altri: non siete sicuri di come siete, e vi chiedete se sembrate a posto. Prendete un’altra alka seltzer e un’altra aspirina, e sperate di non dover pensare alla verità. Perché? Perché? Perché? I vostri perché vengono da vostra madre, vostra madre vi insegna i perché. Voi continuate a chiedere, e lei continua a dirvi i suoi perché. E vi riempite il vostro piccolo cervello di perché. Voi proiettate paura, e cercate qualcosa su cui proiettarla. Quando siete piccoli tenete la bocca chiusa, e quando qualcuno vi dice “seduto” voi vi sedete, finché non capite che lo potete colpire. E se lo capite vi alzate, lo colpite e dite a lui di sedersi. L’ira che riflettete su di me è l’ira che avete nei vostri confronti. Io sono voi. Voi siete il mio sangue. Voi siete mio fratello: è per questo che non posso combattervi.Non mi interessa come vi sembro, non mi interessa cosa pensate di me. E non mi interessa sapere cosa farete di me. Non avete alcuna idea di quello che state facendo, e voi state facendo ciò che fate solo per denaro. Non passerà molto tempo prima che vi uccidiate tutti da soli, perché siete tutti pazzi. Siete tutti assassini: uccidete cose migliori di voi. L’essere umano non esisterà ancora per molto tempo. Dio vi chiederà di prendervi le vostre responsabilità. Dovreste tutti guardarvi attorno, affrontare i vostri bambini e cominciare a seguirli e ascoltarli. Ma siete troppo sordi, muti e ciechi, per fermare ciò che state facendo. Ma va bene. Va tutto bene. Non fa davvero nessuna differenza, perché comunque stiamo andando tutti nello stesso posto. Tutto è perfetto. Voi avete portato sul banco dei testimoni il tizio che è contrario ad uccidere. E gli state chiedendo di uccidervi, di giudicarvi: perché voi tutti sapete, e io so che voi sapete, e voi sapete che io so che voi sapete. Quindi, chiudiamo il cerchio.(Charles Manson, discorso pronunciato in tribunale poco prima della condanna a morte, il 29 marzo 1971, poi commutata in ergasolo).Manson era accusato della strage di Cielo Drive, a Los Angeles, quando – il 9 agosto 1969 – in una villa furono assassinati Sharon Tate e quattro suoi amici. A carico di Manson, per la legge americana, anche il doppio omicidio di Leno LaBianca e sua moglie. Nato a Cincinnati il 12 novembre 1934, Manson è morto il 19 novembre 1917 dopo aver trascorso 46 anni dietro le sbarre. Nel blog “Petali di Loto”, Paolo Franceschetti ricorda che non gli fu permesso di pronunciare davanti alla corte, ma solo di fronte al giudice, il suo celebre discorso di commiato – l’ultimo atto del processo, prima della sentenza. Aver negato all’imputato la possibilità di rivolgersi alla corte (forse nel timore che cambiasse idea sulla sua colpevolezza), secondo l’avvocato Franceschetti costituì un’irregolarità formale, nella procedura giudiziaria. La condanna di Manson è tuttora controversa, e le prove della sua colpevolezza sono tutt’altro che granitiche.Il saggista Gianfranco Carpeoro mette in relazione Manson, allora aspirante rocker, con l’ex produttore discografico dei Beatles, il geniale Phil Spector, amico del regista Roman Polanski. Al regista, sostiene Carpeoro, Spector raccontò la storia della sua vita: i suoi genitori, satanisti, lo avevano “consacrato al diavolo”. Polanski avrebbe ripreso la vicenda nel film “Rosemary’s baby”, facendo infuriare Spector: fino al punto da spingerlo a far assassinare la moglie di Polanski, Sharon Tate? Sempre secondo Carpeoro, lo stesso Spector (ora in carcere per un altro omicidio) sarebbe legato sia all’assassinio di John Lennon che a quello di Michael Jackson. Lennon, ucciso dal giovane Mark David Chapman (che dirà che fu “il demonio” a spingerlo a sparare), si era rifiutato di cedere a Spector i diritti delle canzoni dei Beatles. Più tardi, Spector chiese di avere quei diritti da Michael Jackson, che nel frattempo li aveva acquistati. Jackson morì per l’iniezione letale praticatagli dal dottor Conrad Murray (condannato per l’omicidio). «Era stato proprio Spector – sostiene ancora Carpeoro – a fare in modo che Murray diventasse il medico di Michael Jackson».Secondo la ricostruzione di Carpeoro, è possibile che qualcun altro – non Manson – abbia commesso la strage di Cielo Drive nel ‘69. Ed è probabile che il mandante abbia chiesto a Manson e alla sua banda di inoltrarsi nella villa (lasciando impronte digitali ovunque) dopo che gli omicidi erano stati compiuti. E’ noto che Spector conosceva Manson, e che gli aveva promesso di aiutarlo a emergere, come musicista. Una volta in carcere, Manson non ha mai ammesso di aver compiuto la mattanza di Los Angeles, dando però la sensazione di non dire tutto quello che forse sapeva, al riguardo. Negli ultimi anni, dal carcere, ha chiesto di incontrare Spector – che però si è rifiutato di vederlo. Nel 2014, il legale di Spector ha annunciato che l’ex produttore musicale, ormai quasi ottantenne, ha perso definitivamente l’uso della parola.Ho passato la mia vita in carcere. Ho sempre visto la gente del mondo libero come i buoni e la gente nelle prigioni come i cattivi. Sono sempre stato in galera e sono rimasto stupido, osservando il vostro mondo crescere, senza riuscire a capirlo, senza capire le cose che voi fate. Ho fatto del mio meglio per tirare avanti nel vostro mondo. Ho fatto tutto ciò che ho potuto per andare d’accordo con voi, e non ho ordinato a nessuno di voi di fare nulla di più di quello che voleva fare. Quello che voglio è essere in pace, qualunque cosa comporti. Ma questo non me lo permettete. Perché il vostro mondo è fatto di immondizia ai lati della strada, e io sono una delle vostre immondizie. Ora volete uccidermi. Ma io sono già morto, lo sono stato per tutta la mia vita. Io vivo nel mio mondo, e sono il re del mio mondo, anche se è un immondezzaio, se è nel deserto o da qualunque altra parte. Voi potete uccidere il corpo, ma non potete uccidere l’anima. L’anima è sempre là, all’inizio e alla fine: non potete fermarla, è più grande di me. Nella mia mente io vivrò per sempre, e nella mia mente io ho sempre vissuto. Sono solo quello che avete costruito. Vi aspettate di spezzarmi? Impossibile, mi avete spezzato anni fa. Stavo seduto in cella quando il tipo mi apriva la porta e diceva: vuoi uscire? Io lo guardavo e dicevo: e tu, vuoi uscire? Tu sei in prigione, tutti voi siete in prigione. La legge che è in voi è peggiore della legge che è in me.
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Tav, la strana guerra contro i palestinesi della val di Susa
Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.Nemmeno l’umorismo iperbolico di Paolo Villaggio, forse, sarebbe riuscito a dipingere il carattere lunare, gaglioffo e cialtrone del fantasma ferroviario che insidia da più di vent’anni l’estremo nord-ovest italiano: un ipotetico super-treno pensato negli anni ’80 del secolo scorso per i passeggeri, surclassato in capo a un decennio dall’avvento dei voli low-cost e infine umiliato anche dal traffico merci, defunto pure quello. La globalizzazione “cinese” sbarca a Genova e punta verso Rotterdam, snobbando il Piemonte e le Alpi del Rodano. Dalla Fortezza Bastiani del Tav, a lungo presidiata dall’ineffabile Pd con la collaborazione del centrodestra (leghisti compresi), ormai si guarda con malinconia ai dati, impietosi, sciorinati ufficialmente anche a Palazzo Chigi: il flusso di merci è crollato, e la ferrovia internazionale che già collega Torino a Lione attraversando l’infelice valle di Susa (via Modane, traforo del Fréjus) potrebbe tranquillamente reggere un incremento di traffico del 900%, se solo ci fossero merci da trasportare. Bel guaio: cosa bisognerà inventare, ancora, per spillare soldi euro-italiani da spalmare su appalti e subappalti? Avverte il giallista Massimo Carlotto, vicino ai NoTav: le grandi opere sono perfette per riciclare denaro, nell’immensa “lavanderia a cielo aperto” chiamata Europa. Business is business: non è che si possa smontare così, su due piedi, un grande affare destinato a pompare milioni (miliardi) in una filiera che include industria e indotto cantieristico, studi e consulenze, progettisti, banche e partiti.Se sento ancora parlare di Tav Torino-Lione, scrisse Giorgio Bocca nel 2005, vado a ripescare il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato alla fine della guerra partigiana. Si era documentato, l’ultimo grande vecchio del giornalismo italiano: aveva capito che i palestinesi inermi le avevano buscate in modo selvaggio, riempiti di botte – uomini e donne, ragazzi e anziani – dai robocop venuti da lontano, in piena notte, per sgomberare il prato di Venaus occupato dalle famiglie impegnate in una sorta di sit-in permanente. Ne seguì una sommossa popolare a carattere insurrezionale: qualcosa che in Italia s’era visto soltanto nei moti di Reggio Calabria del 1970. Un popolo sulle barricate, armato solo di indignazione. Scudi umani, i sindaci in fascia tricolore (e le loro auto, quelle dei vigili urbani, spedite a sbarrare le strade, coi lampeggianti accesi). Due giorni di follia collettiva, dopo il pestaggio notturno, fino alla paralisi della tangenziale di Torino e alla capitolazione del governo: progetto sospeso, ritirato, archiviato. Clamorosa vittoria dei palestinesi, che da quel momento cominciarono a credersi invincibili. O meglio: ritennero invincibile la forza della ragione, la sovranità democratica del cittadino, la legittimità della protesta di una comunità coesa e fasciata di tricolore.Durò anni, l’illusione. Una speranza radicata: il governo centrale si sarebbe deciso a cestinare il dossier – poi bocciato anche da 360 tecnici universitari – per concludere che sì, avevano ragione i palestinesi della valle di Susa: quella ferrovia andava dimenticata, gettata nella spazzatura della storia. Ma le trivelle tornarono, dopo un quinquennio di silenzio. Era il 2010. La tensione emotiva era scemata, molti sindaci erano spariti – non rieletti, o semplicemente rimasti a casa, non più disposti a fare da caschi blu. Fu allora che cominciò l’accerchiamento, lento e inesorabile. Senza più i sindaci in prima fila, i NoTav erano nudi. “Siete finiti”, li avvertì cordialmente il sindaco di Torino, Chiamparino. Risposero in quarantamila, con una marcia sotto la neve. I piani di Roma, intanto, erano cambiati: il cantiere per la prima galleria esplorativa, inizialmente programmato nel prato poi “espugnato” a Venaus nel 2005, sarebbe stato reimpiantato a Chiomonte, sopra le gole della Dora Riparia, in posizione militarmente difendibile. I NoTav risposero asserragliandosi proprio lì, tra le loro Termopili. Nacque la Libera Repubblica della Maddalena, il villaggio di Asterix attrezzato – con barricate – per tentare di resistere all’esercito imperiale. I reparti antisommossa, duemila uomini, si presentarono puntuali all’alba del 27 giugno 2011. Agirono con calma, minimizzando la loro forza d’urto. In cabina di regia il ministro Maroni e il capo della polizia Manganelli. Niente più cariche, solo lacrimogeni.Ci rimasero malissimo, i palestinesi: avevano sperato di ripetere il “miracolo” del 2005, quand’erano riusciti – sciamando in 80.000 attraverso i boschi – a sfrattare la polizia da Venaus. Una settimana dopo lo sgombero della “Libera Repubblica”, il 3 luglio 2011 tentarono di riprendersi Chiomonte. Erano in centomila: un corteo lungo chilometri. Pullman da tutta Italia, decine di migliaia di valsusini. E anche giovani dei centri sociali: quelli che poi, nel pomeriggio, avrebbero contribuito a trasformare la protesta in guerriglia. “Volevano il morto”, dichiarò Maroni. Bilancio ufficiale: 200 feriti per parte. E fine di una lunga, gloriosa anomalia: la lotta popolare esclusivamente nonviolenta, nata e cresciuta in mezzo ai monti, che tanto aveva spaventato la politica. Inammissibile che una comunità di sessantamila valligiani riuscisse a fermare le ruspe. Intollerabile, che lo facesse in modo pacifico. Inaccettabile, che imponesse al governo di lasciarsi ascoltare, e lo costringesse a prender nota del fatto che, secondo tutti gli esperti, la linea Tav Torino-Lione era (ed è) una pazzia completamente inutile, destinata a pesare per decine di miliardi sul debito pubblico dopo aver reso invivibile il territorio, cioè i 50 chilometri che separano Torino dalla Francia. Rocce piene di amianto, montagne dove l’Agip scavò decine di gallerie per estrarre l’uranio al tempo del nucleare italiano. Falde acquifere a rischio, salute in pericolo e addio agricoltura. Dissesto idrogeologico irrimediabile, apocalisse urbanistica, catastrofe idrica incombente sulla stessa area metropolitana torinese. Ma perché, di grazia? A beneficio di chi?“Diteci almeno a cosa servirebbe, tutto questo”. Domanda rimasta sempre inevasa. Lo vuole l’Europa, c’è un impegno con la Francia. Davvero? Sì e no. L’Europa ha cambiato idea: ha archiviato l’originaria, fantascientifica direttrice Kiev-Lisbona, di cui la Torino-Lione sarebbe stata il passante alpino. Quanto alla Francia, varie istituzioni parigine hanno via via intiepidito la loro posizione. Analoga retromarcia tattica dal governo Renzi: è vero, la nuova linea costa troppo; meglio limitarsi al solo traforo, facendo poi passare i treni sull’attuale linea (perfettamente idonea, dunque – percorsa, già oggi, dal Tgv francese). Nel frattempo, sui NoTav si è scatenata una campagna di demonizzazione parossistica, da parte della politica istituzionale e dei grandi media. E il movimento valsusino, senza più la tutela diretta dei sindaci, ha fatto miracoli per arginare il pericolo di infiltrazioni da parte delle frange virtualmente violente (un conto è gestire un corteo, un altro controllare manifestanti in ordine sparso, nei boschi). Anni durissimi, rischiosi, in bilico, ma durante i quali – nonostante tutto – la resistenza dei palestinesi ha conquistato piena cittadinanza in larghi strati del paese, anche grazie al generoso impegno di opinion leader di prima grandezza, scrittori e artisti, cantanti, giuristi, intellettuali. Senza con questo riuscire minimamente a scalfire il muro di omertoso silenzio che ancora protegge, misteriosamente, il progetto della grande opera: un dogma marmoreo, quasi mistico, che sembra imposto da una religione sconosciuta, alla quale gli stessi politici (ministri, premier) appaiono sottomessi.C’è altro, poi, che i valsusini sanno e gli altri italiani per lo più ignorano. E’ una storia complicata, tra loro e il governo. Una storia tormentata e opaca, per molti aspetti, che risale addirittura alla Liberazione, quando molti partigiani – in maggioranza comunisti – rifiutarono di consegnare le armi agli alleati, per poi tirarle fuori, occupando fabbriche, in risposta all’attentato a Togliatti. Ha radici antiche, il ribellismo della valle di Susa, industriale e operaia già alla fine dell’800. Dopo il Sessantotto, mentre i padri issavano bandiere rosse sui cotonifici, decine di figli cedettero alla tentazione della lotta armata. La valle di Susa è stata l’unica area non metropolitana, in tutta Italia, ad allevare una colonna di terroristi, arruolati tra le file di Prima Linea. Poi vennero gli anni ’80, con l’autostrada del Fréjus che la valle non voleva. Le solite mazzette e, a seguire, la relativa Tangentopoli, con arresti eccellenti, mentre la commissione parlamentare antimafia denunciava il radicamento della ‘ndrangheta nell’alta valle, il paradiso sciistico che a Sestriere avrebbe ospitato i Mondiali di sci e poi le Olimpiadi Invernali. Quello di Bardonecchia è stato il primo Consiglio comunale italiano, a nord del Po, a essere disciolto per mafia.L’onorata società tornò a occupare la cronaca della valle di Susa poco dopo gli attentati siciliani costati la vita a Falcone e Borsellino, quando la magistratura di Torino scoprì che erano finite a una cosca calabrese le pistole uscite illegalmente, a centinaia, da un’armeria di Susa. Chi avrebbe dovuto vigilare non l’aveva fatto: emerse l’ombra dei servizi segreti. Gli inquirenti avevano scoperto il traffico di armi grazie a un pentito della ‘ndrangheta, che smise di parlare (di colpo) dopo che gli fu ucciso il fratello, proprio in valle di Susa, da un ex agente del Sismi, reo confesso. Uno stillicidio di notizie inquietanti, che il valsusino medio – non ancora palestinese – apprendeva con sgomento, a metà degli anni ’90. A seguire, cominciarono a esplodere bombe: una dozzina di attentati dinamitardi, notturni e devastanti ma tutti incruenti, colpirono le prime trivelle del futuro Tav ma anche centraline Enel, tralicci telefonici, ripetitori televisivi. I giornali, in coro, parlarono di eco-terrorismo anarco-insurrezionalista. Comparve una sigla, “Lupi Grigi”, con rivendicazioni deliranti contro le grandi opere. Finirono in manette tre giovani anarchici, due dei quali (“Sole e Baleno”) poi trovati morti in stato di detenzione, impiccati. L’accusa: banda armata e associazione sovversiva. Lui, Edoardo Massari, un anarchico piemontese. Lei, Maria Soledad Rosas, argentina, giovanissima, venuta in Europa in vacanza premio, dopo il liceo, e poi rimasta in Italia perché innamoratasi del suo “Edo”. Il pm annunciò di avere “prove granitiche”, contro di loro. Salvo poi ammettere il tragico errore, fuori tempo massimo. Scagionati post mortem, alla fine del processo: non erano stati quei ragazzi, a far saltare in aria mezza valle di Susa. Chi, allora?Aveva in testa anche questi pensieri, il valsusino medio (mediamente colto e informato, mediamente scettico) quando cominciò a diventare un po’ palestinese, trascinando la famiglia nei prati di Venaus dove, nel 2005, si era accampata la polizia, spedita lassù da un governo che sosteneva fosse fondamentale far passare proprio di lì, spianando l’intera vallata, la famosa super-ferrovia miliardaria destinata a collegare il Portogallo all’Ucraina. Non può essere, si dicevano i valligiani: avranno capito male, a Roma. E così studiarono, si documentarono, mobilitarono i migliori specialisti. Non sta né in cielo né in terra, conclusero: è un’opera faraonica e devastante, tragicamente inutile. Ne parlavano anche coi poliziotti infreddoliti, inviati a Venaus a presidiare il prato prescelto per accogliere il primo cantiere. Dai NoTav, una protesta formato famiglia: bambini, polenta, bicchieri di tè caldo offerti agli stessi agenti – non quelli che li avrebbero sgomberati (per l’operazione, il reparto presidiario fu avvicendato). Gli incursori notturni colpirono alla cieca, travolgendo tende e sacchi a pelo. Una gradine di manganellate, al buio. Le ambulanze, le urla, i feriti. L’inizio della saga, già l’indomani: i valsusini, a migliaia, nelle strade. La circolazione paralizzata, i treni fermi. Il ministro dell’interno, Pisanu, scomparso dai radar. Imbarazzo, fra i palazzi romani. I palestinesi in rivolta ospitati per la prima volta in televisione, da Gad Lerner, per poi ricevere i primi rumorosi endorsement a reti unificate: Beppe Grillo, Dario Fo. E quei benedetti sindaci, avvolti nel tricolore, a ripetere che la legalità comincia dal rispetto del cittadino, democraticamente sovrano e tutelato da diritti costituzionali.Era solo il 2005, ma sembrano passati cent’anni. Le famiglie di allora avevano una luce particolare, negli occhi. La crisi era ancora lontana. C’era lavoro per tutti, i negozi non avevano ancora cominciato a chiudere, uffici e fabbriche funzionavano. All’ora dell’aperitivo i bar tracimavano di giovani – tutti palestinesi, naturalmente, tra svolazzi di bandiere NoTav. Un clima festoso, di fiducia. “Capiranno, a Roma. Si decideranno a ragionare”. I valsusini: riscopertisi comunità, proprio grazie allo scampato pericolo. Idee politiche forse rudimentali, antiche: la destra, la sinistra. A dire il vero, nella valle ribelle non s’era visto nessuno dei big: tutti spariti, i grandi partiti. La parte del cattivo era toccata a Berlusconi, ma poi Prodi (frenato dai ministri filo-valsusini Paolo Ferrero e Alfonso Pecoraro Scanio) non aveva comunque mai mostrato entusiasmo, per il fervore democratico dei palestinesi garibaldini, alle prese con quello strano risorgimento alpino, montanaro, periferico ma non provinciale. E’ come se si fosse laureato honoris causa, il valsusino medio, in questi anni grami: si è probabilmente conquistato il suo diploma di cittadino di prima classe, quanto a consapevolezza, mentre buona parte dell’Italia dormiva ancora sugli allori, prima di essere svegliata nel peggiore dei modi dal professor Monti, dalla professoressa Fornero.Si racconta che dal massiccio dell’Ambin, nel quale si è andato scavando il dannato tunnel esplorativo, sia disceso Annibale coi suoi elefanti. In direzione opposta avanzò Giulio Cesare alla conquista delle Gallie, facendo base a Susa, dove poi l’imperatore Costantino assediò Massenzio. Poco più a valle, Carlomagno sbaragliò i Longobardi manzoniani di Adelchi e Desiderio per poter fondare il Sacro Romano Impero, il cui erede Barbarossa mise a soqquadro Susa. Napoleone aprì la strada del Moncenisio, Cavour fece scavare il traforo del Fréjus. Quasi ogni sasso, in valle di Susa, ha molti secoli da raccontare, all’ombra dell’imponente Sacra di San Michele, monumento simbolo del Piemonte, eretto prima dell’anno Mille. Sul versante opposto, da una roccia emerge il Giove Dolicheno, scolpito dai soldati mediorientali arruolati da Roma nella Legione Siriana, di stanza nella valle conquistata dai Cesari. I valsusini amano le loro montagne, le frequentano con devozione. Le guardano diventare rosse, e poi viola, quando il tramonto illanguidisce nel crepuscolo lungo la cordigliera transalpina, dalla piramide del Rocciamelone alla mole nevosa del Niblè. Prima di altri, a loro spese, hanno imparato che il nuovo impero ha un’unica legge davvero sacra, quella dei soldi. A loro modo, da palestinesi, sono stati tra gli ultimi difensori di una repubblica di cui tutti gli italiani, oggi, hanno nostalgia.(Giorgio Cattaneo, “Tav, la strana guerra contro i palestinesi della valle di Susa”, dal blog “Petali di Loto” dell’11 dicembre 2018).Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.
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Gilet Gialloverdi, ora gli italiani si aspettano risposte vere
In campagna elettorale sembravano impazziti: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano? Ovvio, ma lo facevano anche gli altri. Loro di più? Infatti hanno vinto. O meglio: hanno vinto i 5 Stelle, col doppio dei voti di Salvini. Già l’indomani, però, Di Maio disorientava il pubblico votante, dichiarandosi disposto ad allearsi con chicchessia, dalla Lega al Pd, pur di andare al governo. D’accordo, ma per fare cosa? Poi è arrivato il Contratto, con dentro quasi tutto: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano ancora? Possibile, ma forse a fin di bene: sapevano che sarebbe stata dura, con Bruxelles, ma ne erano consapevoli e si preparavano a dare battaglia. Davvero? Non si direbbe, vista la mala parata di fronte ai cani da guardia della Commissione Europea, gli stessi che invece ora si preparano a condonare all’anti-italiano Macron persino il massimo sacrilegio possibile, nell’euro-santuario: la violazione del sacro vincolo del 3% nel rapporto deficit-Pil. Prima ancora che il “governo del cambiamento” nascesse, del resto, i gialloverdi avevano dovuto ingoiare un super-rospo: il “niet” del Quirinale su Paolo Savona all’economia. Di Maio ventilò l’impeachment per Mattarella, Salvini se ne guardò bene. Oggi Di Maio è in caduta libera, mentre Salvini si muove da padrone della scena. Un caso?Salvini è abile, si dice. Ha osato rompere il tabù dell’accoglienza obbligatoria a costo di fare la faccia feroce coi più deboli, anche per smascherare l’ipocrisia egoistica dell’Ue e quella di chi – sui migranti – ha costruito carriere milionarie. Poi però è arrivato il decreto sicurezza, con limitazioni allarmanti alle libertà personali, specie quelle di chi ha motivo di esprimere la propria sofferenza sociale e quindi potrebbe protestare: pesantissime sanzioni per il blocco stradale e l’occupazione di terreni. Poi Salvini ha difeso a oltranza il topo morto che sta marcendo nella pancia del Piemonte, cioè un progetto-vergogna come il Tav Torino-Lione, notoriamente utile solo a chi costruisse tunnel e ferrovia. Infine, dopo aver chiesto mandato “a 60 milioni di italiani” per trattare con l’Ue, ha proposto alla Germania “un asse Roma-Berlino” (alla Germania, cioè al paese che più di ogni altro ha danneggiato l’Italia da quando esiste l’Eurozona). Poco dopo s’è involato verso Israele per la più classica delle genuflessioni diplomatiche, sperando di ottenere l’agognato sdoganamento come leader credibilmente moderato. Solo che si è fatto fotografare “alla Salvini”, tra soldati sorridenti e Stelle di David. Una foto lo ritrae mentre, addirittura, impugna una mitragliatrice. Non pago, il neoleghista post-padano s’è sbilanciato sul terreno della politica estera, definendo “terrorista” il network libanese Hezbollah, impegnato in Siria contro i terroristi veri, quelli dell’Isis.Baravano fin dall’inizio, i gialloverdi? Hanno preso in giro gli elettori italiani fin dal primo giorno di vita del “governo del cambiamento” o si sono semplicemente accorti di aver catastroficamente sottovalutato l’avversario? La flessione ingloriosa di fronte ai ragionieri finto-europeisti della Commissione Europea è un ultimo tentativo (tattico) per prendere tempo in attesa di una prossima controffensiva pro-Italia o è solo il classico inizio della fine, con la sepoltura delle illusioni e la rassegnazione alla consueta chemio-economia del rigore ammazza-Stati? Domande sospese ma ormai ridondanti, vista la rapida evoluzione dello scenario: i francesi nelle strade fanno tremare l’ex onnipotente Macron costringendolo alla resa, mentre il governo italiano (“populismo” in carica, regolarmente insediato) anziché rilanciare sull’onda dei Gilet Gialli si lascia prendere a sberle dal primo Moscovici di passaggio. Era sbagliato sbilanciarsi in campagna elettorale per un’espansione del deficit? Niente affatto. Però poi bisognava tenere il punto, a tutti i costi, pena la perdita della propria reputazione pubblica, italiana e internazionale. Era così assurdo, dare credito ai gialloverdi? No, perché l’espansione del deficit è esattamente la direzione appropriata – necessariamente eretica – per sconfessare il pretestuoso economicismo delle oligarchie finanziarie che utilizzano per i loro scopi la tecnocrazia di Bruxelles.Chi sono, in realtà, i due politici che avrebbero dovuto condurre una storica vertenza “sindacale” a favore dell’Italia? Di Maio è sbucato quasi dal nulla, attraverso il videogame elettorale interno messo in piedi da Grillo e Casaleggio, e prima delle elezioni vagava tra gli Usa e Londra in cerca di endorsement nei palazzi del massimo potere, quello che ha organizzato la globalizzazione unilaterale che ha messo in ginocchio anche l’Italia. Fino ad allora, sull’euro e l’Europa, i 5 Stelle erano riusciti a dire tutto e il contrario di tutto, senza mai delineare né un’analisi chiara né una linea politica definita, fino alla clamorosa pagliacciata del trasloco (tentato, ma non riuscito) tra gli ultra-euristi dell’Alde al Parlamento Europeo. La nuova Lega salviniana, per converso, è partita da posizioni radicalmente euroscettiche, arrivando a portare in Parlamento un economista keynesiano come Bagnai, salvo poi cominciare progressivamente a cedere ai soliti diktat di Bruxelles – spettacolo triste, solo in parte occultato dal quotidiano agitarsi di Salvini, nel tentativo di distrarre l’opinione pubblica dai fallimenti governativi. Al di là dei limiti strutturali di un’alleanza debole – i grillini “anticasta” e i leghisti “anti-migranti” – restano oscuri i piani della sovragestione da parte del vero potere, vista la confusione che regna sovrana dalle parti dell’esecutivo.Ancora non è dato sapere quanto durerà la coabitazione gialloverde, e se per caso i suoi sponsor dietro le quinte non abbiano già mollato Di Maio per puntare sul solo Salvini, a patto che scenda a più miti consigli – cosa che ha tutta l’aria di fare, a giudicare dalle recenti sterzate verso l’elettorato più tradizionalmente cauto. C’è un disegno di più lungo respiro, non ancora visibile? L’unica vera certezza riguarda la crisi dell’assetto europeo: la Francia in panne, la Germania in affanno, la Gran Bretagna ancora alle prese con l’irrisolta Brexit, l’Est Europa che scalpita per ritagliarsi spazi di autonomia. Salvini e Di Maio avevano illuso moltissimi spettatori, lasciando credere che l’Italia potesse diventare il motore di un cambiamento capace di smontare i dogmi dell’Ue, che hanno rapidamente impoverito il continente. Se non altro, i due esponenti gialloverdi hanno costretto gli italiani (e gli europei) a prendere atto, almeno, della necessità di una diversa narrazione: non è più possibile continuare ad accettare passivamente le politiche di rigore, che l’élite finanziaria neoliberista somministra alle nazioni attraverso i tecnocrati dell’Unione. Il funesto “ce lo chiede l’Europa” non è più proponibile, anche grazie a Salvini e Di Maio. Troppo poco, certo.Persino il tormentato governo Conte, comunque, potrebbe rivelare a posteriori una sua effettiva utilità, se domani – dopo le europee – prendesse corpo un vasto movimento politico, trasversale, disposto a rivendicare per l’Europa il diritto alla sovranità democratica, cominciando da una Costituzione Europea che insedi finalmente a Bruxelles un vero governo federale, regolarmente votato dal Parlamento Europeo eletto dai cittadini. Sogni, speranze e grandi incognite, a cominciare dalla paventata grande recessione in arrivo, che potrebbe far precipitare tutte le crisi politiche in atto. E gli italiani come reagirebbero, se dovessero arrendersi all’evidenza di una vera e propria resa? Che fine farebbe Di Maio, se non riuscisse a varare neppure l’ombra dello sbandieratissimo reddito di cittadinanza? E dove finirebbero i tatticismi del disinvolto Salvini, di fronte alla porta che l’Ue pare stia per sbattere il faccia all’Italia? Da più parti si osserva come manchi, tuttora, una classe dirigente all’altezza della situazione politica. Grazie al governo gialloverde sono caduti alcuni tabù e un bel po’ di leggende, per esempio sull’intoccabilità dei deficit. Ma resta, a monte, il macigno di un’Europa non democratica, non alleata, non amica. Anche grazie alla Lega e ai 5 Stelle, oggi gli italiani il problema lo vedono benissimo. A farsi attendere, ancora, è la soluzione.(Giorgio Cattaneo, “Bravi i gialloverdi a denunciare il rigore Ue, ma ora gli italiani si aspettano i fatti”, dal blog del Movimento Roosevelt del 14 dicembre 2018).In campagna elettorale sembravano impazziti: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano? Ovvio, ma lo facevano anche gli altri. Loro di più? Infatti hanno vinto. O meglio: hanno vinto i 5 Stelle, col doppio dei voti di Salvini. Già l’indomani, però, Di Maio disorientava il pubblico votante, dichiarandosi disposto ad allearsi con chicchessia, dalla Lega al Pd, pur di andare al governo. D’accordo, ma per fare cosa? Poi è arrivato il Contratto, con dentro quasi tutto: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano ancora? Possibile, ma forse a fin di bene: sapevano che sarebbe stata dura, con Bruxelles, ma ne erano consapevoli e si preparavano a dare battaglia. Davvero? Non si direbbe, vista la mala parata di fronte ai cani da guardia della Commissione Europea, gli stessi che invece ora si preparano a condonare all’anti-italiano Macron persino il massimo sacrilegio possibile, nell’euro-santuario: la violazione del sacro vincolo del 3% nel rapporto deficit-Pil. Prima ancora che il “governo del cambiamento” nascesse, del resto, i gialloverdi avevano dovuto ingoiare un super-rospo: il “niet” del Quirinale su Paolo Savona all’economia. Di Maio ventilò l’impeachment per Mattarella, Salvini se ne guardò bene. Oggi Di Maio è in caduta libera, mentre Salvini si muove da padrone della scena. Un caso?
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Magaldi: noi massoni coi Gilet Gialli, mentre Roma dorme
La rivolta dei Gilet Gialli? Un clamoroso “assist” destinato proprio al governo italiano, l’unico che abbia finora contestato il rigore europeo da un’aula istituzionale. Chi si è opposto frontalmente ai gialloverdi, fin da subito? Lui, Emmanuel Macron. E proprio ora che il presidente francese barcolla, travolto dalla marea della protesta, l’Italia che fa? «Abbassa le orecchie, e accetta di farsi amputare il deficit che aveva orgogliosamente rivendicato, illudendo mezza Europa che proprio da Roma fosse cominciato il grande disgelo, la fine dello strapotere della tecnocrazia Ue». Ma se qualcuno pensa che i Gilet Gialli siano un fenomeno esclusivamente spontaneo, non sorretto da una precisa regia, si illude come chi pensa che l’attentato di Strasburgo non sia stato cinicamente pianificato, per aiutare Macron, da settori deviati dei servizi segreti francesi. «Secondo i loro piani doveva finire 1-1, con l’attentato destinato a sedare la protesta, pareggiando i conti. E invece è finita 2-0, la partita, perché tutti – tranne i media mainstream – hanno mangiato la foglia: una strage smaccatamente tempestiva, attuata all’indomani della “resa” di Macron ai Gilet Gialli e condotta nel solito modo, con il misterioso attentatore sbucato dal nulla e poi immancabilmente ucciso, prima che potesse essere interrogato».Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt ed esponente del circuito massonico progressista internazionale, rilancia le accuse anticipate da Gianfranco Carpeoro in web-streaming su YouTube” con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Vero, la strage dell’11 dicembre a Strasburgo è stata condotta da manovalanza pseudo-jihadista. Ma Cherif Chekatt, collegato alle brigate Al-Nusra asserragliate a Idlib in Siria sotto protezione francese, era solo l’ennesima, sciagurata pedina della famigerata “sovragestione” del peggior potere: quella che ha insanguinato l’Europa negli ultimi anni, con attentati “a orologeria” affidati a killer dell’Isis, filiazione diretta del network terroristico prima noto come Al-Qaeda ma sempre controllato da settori dell’intelligence Nato. Si tratta di servizi infiltrati dalla stessa supermassoneria neo-oligarchica che ha sfigurato il mondo, a partire dall’11 Settembre. Una guerra sporca, sotto falsa bandiera e nutrita di “fake news” governative: gli attentati “false flag” (che attaccano la folla inerme, mai i centri di potere) sono perfettamente simmetrici rispetto al marmoreo autoritarismo neo-feudale di Bruxelles, che ha confiscato democrazia e sovranità in Europa sulla base di dogmi ideologici come il rigore di bilancio imposto agli Stati.Contro questo diktat si era levato il governo gialloverde. E proprio per sostenere l’esecutivo italiano contro il suo maggiore nemico – afferma Magaldi – in Francia “qualcuno” ha promosso la sollevazione dei Gilet Gialli. Ma a Roma, anziché approfittarne, si sono lasciati spaventare dalla Commissione Europea. Sono esplosive, le dichiarazioni che Magaldi rilascia a Frabetti, nel colloquio online trasmesso su YouTube il 17 dicembre: ebbene sì, il circuito massonico progressista agisce dietro le quinte della protesta francese dei Gilet Gialli. «E’ vero», ammette Magaldi, «dovrei fare nomi e cognomi: sigle, associazioni». Ma, assicura, «non mancherò di metterli per iscritto, i nomi dei massoni sostenitori della rivolta francese». Per ora, il presidente del Movimento Roosevelt fa appello «alla sottigliezza di tutti». Come dire: aprite gli occhi, signori. Pensare che un paese come la Francia possa esser messo ko da una protesta di massa esclusivamente spontanea è davvero ingenuo, almeno quanto il credere che un giovane malavitoso, pluri-pregiudicato e sospettato di radicalismo islamista, possa davvero andarsene a spasso (armato) per il centro ultra-presidiato di Strasburgo, a due passi dal Parlamento Europeo, per poi fare comodamente una strage – 4 morti e 16 feriti – e quindi tornarsene a casa indisturbato, in taxi, senza che nessuno abbia vigilato sulla sua ignobile impresa.«Stavolta – dice Magaldi – il teatro mostra quello che c’è dietro il palcoscenico, nei camerini: il Re è sempre più nudo». Peccato che l’ultimo ad accorgersene sembra sia il governo italiano: non toccava proprio ai gialloverdi salire per primi sulle barricate francesi per rilanciare in Europa la sfida della democrazia contro l’oligarchia? E se qualcuno pensa che Magaldi vaneggi, quando intesta alla massoneria progressista un ruolo determinante, dietro le quinte dello scenario europeo in rivolta, si sbaglia di grosso. Magaldi non è solo l’autore del bestseller “Massoni”, che svela il ruolo occulto delle superlogge neo-oligarchiche nella globalizzazione neoliberista, fino alle estreme conseguenze del terrorismo “false flag”. Il presidente del Movimento Roosevelt è organico al circuito massonico progressista che a livello internazionale si oppone al dominio neo-feudale dell’élite finanziaria. E il primo a saperlo è proprio il governo italiano. Non a caso, racconta sempre Magaldi nello streaming su YouTube con Frabetti, alcuni esponenti della Lega lo hanno avvicinato, nei giorni scorsi, per chiedergli una sorta di intercessione: intervenire, a livello europeo, per aiutare l’Italia nella drammatica trattativa con Bruxelles. La risposta: ma non vedete quello che sta succedendo in Francia? Di cos’altro avete bisogno, per mandare a stendere gli spaventapasseri della Commissione Europea?Magaldi cita il rammarico di un amico come Aldo Storti, «uno degli animatori della scuola politica della Lega, che è forse lo strumento migliore grazie a cui la Lega è maturata negli ultimi anni». Scontenti, i leghisti, delle pesanti critiche mosse da Magaldi all’eccessiva timidezza della manovra gialloverde: «Nonostante i proclami altisonanti e le dichiarazioni virili, muscolari e sprezzanti – ribadisce il presidente del Movimento Roosevelt – alla fine il governo italiano ha abbassato le orecchie e adesso sta col fiato sospeso per paura che la manovra non venga approvata dall’Ue, cui ha purtroppo riconosciuto l’ultima parola». Di fatto quella del governo Conte «è una manovrina, nonostante tutti ripetano che contiene le misure innovative e rivoluzionarie annunciate: in realtà contiene poche cose, alcune anche interessanti, ma non la sfida ai paradigmi europei che gli elettori si aspettavano». Esponenti della maggioranza gialloverde chiedono più impegno, da parte della massoneria progressista, nel sostenere il governo Conte in sede politica europea e magari anche sul piano finanziario, contribuendo a spuntare l’arma di ricatto dello spread? Un po’ di franchezza a questo punto non guasterebbe: perché non essere trasparenti?Sarebbe stato meglio, sottolinea Magaldi, se questa richiesta di aiuto fosse stata formulata in modo esplicito. Invece il governo, in modo ipocrita, ha messo addirittura nel suo “contratto” l’incompatibilità tra massoneria e cariche istituzionali, senza neppure distinguere tra massoni neoaristocratici e massoni progressisti, salvo poi reclutare alcuni grembiulini (non dichiarati) in vari ministeri, come quello di Giovanni Tria. In realtà, ribadisce Magaldi, quell’aiuto c’è stato, eccome, anche se «di segno diverso, più intonato a questo modo di comportarsi alquanto sibillino, da parte di tutti – anche di quelli che chiedono aiuti ma non sono disposti a offrire una narrazione sincera, sul rapporto con la massoneria». Un soccorso pesantissimo, dunque, proprio dalla Francia: «Un aiuto tanto importante, ancorché raffinato, sottile e benignamente machiavellico, al punto da creare qualche difficoltà ai negoziatori europei». E l’Italia? Se c’era, dormiva. Lega e 5 Stelle non bastano? Anche per questo, probabilmente, Magaldi pensa – tra le altre cose – al progetto del “partito che serve all’Italia”, i cui promotori si incontreranno il 22 dicembre a Roma per mettere insieme un’agenda che, dal 2019, possa ispirare la costruzione di un progetto politico non disponibile a cedere alle mediazioni con l’Ue alle quali si è rassegnato il governo Conte.Se non altro, dal fronte francese arrivano soltanto ottime notizie: la “sovragestione” è in affanno, Macron alza bandiera bianca di fronte ai Gilet Gialli (annunciando che sforerà il 3% del deficit per alzare i salari) e le solite “manine” specializzate nella strategia della tensione non vanno oltre il sanguinoso autogoal di Strasburgo, dove tutti hanno capito che chi vigilava sulla sicurezza non poteva non sapere cosa stesse accadendo. «Non nascondiamoci dietro ai veli», insiste Magaldi: «Abbiamo rivisto il solito copione dell’attentatore misteriosamente sfuggito alle maglie della polizia e dei servizi, per poi allontanarsi in taxi e venire immancabilmente ucciso, ad evitare la possibilità di interrogatori». Aggiunge: «Questo bisogna dirlo, perché ormai il teatro è tragicamente farsesco». Ovvero: «Si immagina che si cerchi di prenderlo vivo, un killer dai contorni come al solito irrisolti. E infatti ci sono molti modi in cui le forze di sicurezza (polizia, antiterrorismo, servizi) possono braccare un uomo solo, metterlo in condizioni di non nuocere, arrestarlo e interrogarlo». Invece la sceneggiatura è ancora una volta la seguente: compare dal nulla «un lupo solitario, che poi naturalmente viene rivendicato come “soldato” dell’Isis, ma poi viene fatto fuori. E così la questione viene chiusa».Certo, magari «i complottisti le sparano grosse, perché non sanno bene di cosa parlano: vedono il complotto, ma non capiscono di che complotto si tratti». Però, aggiunge Magaldi, l’evento di Strasburgo «è riuscito male, stavolta è stato davvero grossolano – così come la tempistica, troppo smaccata – e quindi non avrà affetti su quello che sta accadendo in Francia e nel resto d’Europa». I servizi francesi? Pagine ingloriose: gli organi di sicurezza transalpini «hanno dato dimostrazione della loro efficienza anche sotto Hollande, con gli attentati di Parigi a due passi dal presidente stesso». Magaldi allude a «segmenti deviati, asserviti a interessi non istituzionali». Uno spettacolo increscioso: «Nessuno, sano di mente (se non il coro mediatico mainstream) avrebbe potuto ritenere “normale”, a suo tempo, quello che è stato fatto dai terroristi. E nessuno, sano di mente, penserebbe che un tizio come l’attentatore di Strasburgo possa davvero agire indisturbato, senza aiuti da parte di precisi settori delle forze di sicurezza». Ma stavolta, insiste ancora Magaldi, ai gestori dell’auto-terrorismo è andata male: otto francesi su dieci continuano a sostenere i Gilet Gialli, e non credono affatto che Cherif Chekat, a Strasburgo, abbia fatto tutto da solo. Meglio ancora: non credono neppure alle ultime promesse di Macron, e infatti continuano a protestare.Credevano che la rivolta finisse, in Europa, rimettendo in riga il ribelle governo gialloverde? Errore: il focolaio della protesta anti-establishment si è trasferito proprio nel paese il cui governo si era maggiormente distinto nel bacchettare l’Italia. E non è che l’inizio, dice Magaldi. A maggior ragione, c’è da mangiarsi le mani per la pavidità dell’esecutivo Conte: ha sbagliato un goal a porta vuota, sempre per restare nella metafora calcistica. Proprio così: il “governo del cambiamento” «si è messo nella condizione di non poter sfruttare (come andava sfruttato) quello che sta accadendo in Francia», accontentandosi di ricevere pacche sulle spalle dagli oligarchi Ue. «I signori dell’Europa ora dicono: va bene, vi concediamo questo 2,04% di deficit; fatevi pure le vostre cosine, tanto avete abbassato le penne e vi siete rimessi in riga, e questo è più importante di qualunque numero decimale, al di là delle dichiarazioni fokloristiche di Salvini». Il leader leghista giura che i numeri non gli interessano? Strano: «Proprio di numeri, invece, è andato a parlare il premier a Bruxelles. Si preoccupano tutti, dei numeri: tant’è che adesso l’Italia – da nazione che sembrava in procinto di sfidare il vigente paradigma tecnocratico dell’austerity – è una nazione che non osa nemmeno fare le cose che Macron è ora costretto a fare, sull’onda della protesta».Per Magaldi, la rivolta dei Gilet Gialli è «molto proficua, anche sul piano dell’immaginario collettivo – più ancora che su quello dei risultati che potrà ottenere, e più della confusione che regna tra chi mette in atto la protesta stessa». Quello che conta, riassume il presidente del Movimento Roosevelt, è che la contestazione francese «è animata anche da un’intenzione più profonda: ed è a questa che mi riferisco – precisa – quando parlo dei massoni democratici e progressisti». Circuiti che, sempre secondo Magaldi, «stanno dimostrando – in Europa – di agire nel back-office nella giusta direzione, che è quella che deve mettere in discussione il paradigma esistente e far tremare le poltrone di quelli che pensavano di poter guidare impunemente il carretto nella direzione da loro auspicata». Loro, i sovragestori dell’Unione: «Da parte di alcuni c’è una incapacità di gestire lo “strumento Macron”, e c’è anche l’incapacità di gestire questi attentati, nel tentativo di arginare il valore anzitutto simbolico, evocativo e ideologico della protesta dei Gilet Gialli». Come dire: governo gialloverde o meno, quelli che Magaldi chiama “fratelli progressisti” starebbero di fatto «riguadagnando terreno». Una previsione: «Giocheranno questa grande partita a scacchi con sapienza e lungimiranza». L’altra buona notizia? «Sul fronte opposto vedo molta confusione, molta ansia, molti errori». Qualcosa sta cambiando, insomma, in modo radicale. Ne prendano nota, i mancati “rivoluzionari” gialloverdi.La rivolta dei Gilet Gialli? Un clamoroso “assist” destinato proprio al governo italiano, l’unico che abbia finora contestato il rigore europeo da un’aula istituzionale. Chi si è opposto frontalmente ai gialloverdi, fin da subito? Lui, Emmanuel Macron. E proprio ora che il presidente francese barcolla, travolto dalla marea della protesta, l’Italia che fa? «Abbassa le orecchie, e accetta di farsi amputare il deficit che aveva orgogliosamente rivendicato, illudendo mezza Europa che proprio da Roma fosse cominciato il grande disgelo, la fine dello strapotere della tecnocrazia Ue». Ma se qualcuno pensa che i Gilet Gialli siano un fenomeno esclusivamente spontaneo, non sorretto da una precisa regia, si illude come chi pensa che l’attentato di Strasburgo non sia stato cinicamente pianificato, per aiutare Macron, da settori deviati dei servizi segreti francesi. «Secondo i loro piani doveva finire 1-1, con l’attentato destinato a sedare la protesta, pareggiando i conti. E invece è finita 2-0, la partita, perché tutti – tranne i media mainstream – hanno mangiato la foglia: una strage smaccatamente tempestiva, attuata all’indomani della “resa” di Macron ai Gilet Gialli e condotta nel solito modo, con il misterioso attentatore sbucato dal nulla e poi immancabilmente ucciso, prima che potesse essere interrogato».
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La lotteria dell’universo e i numeri sbagliati del pianeta
La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.Il messia. Alla mia destra, aveva detto, e alla mia sinistra. Sedevano a tavola, semplicemente. Avevano sprecato un sacco di tempo in chiacchiere inconcludenti, e lo sapevano. Con colpevole ritardo, dopo inenarrabili vicissitudini dai risvolti turpemente malavitosi, si erano infine rimessi al nuovo sire, l’inviato dall’alto. Familiarmente, tra loro, lo chiamavano messia, essendo certi che avrebbe fatto miracoli e rimesso le cose al loro posto, ma non osavano consentirsi confidenze di sorta: ne avevano un timoroso rispetto. Quell’uomo incuteva soggezione, designato com’era dal massimo potere superiore. Non restava che ascoltarlo, in composto silenzio, assecondandolo in tutto e sopportandone la postura da tartufo. La sua grottesca affettazione si trasformava inevitabilmente, per i servi, in squisita eleganza. Gareggiavano, i sudditi, in arte adulatoria. Stili retorici differenti, a tratti, permettevano ancora di distinguere i servitori seduti a destra da quelli accomodati a sinistra.Tungsteno. L’isoletta era prospera e felice, o almeno così piaceva ripetere al governatore, sempre un po’ duro d’orecchi con chi osava avanzare pretese impudenti, specie in materia di politica economica, magari predicando la necessità di sani investimenti in campo agricolo. Il popolo si sentì magnificare le virtù del nuovo super-caccia al tungsteno, ideale per la difesa aerea. Ma noi non abbiamo nemici, protestarono. Errore: potremmo sempre scoprirne. Il dibattito si trascinò per mesi. I contadini volevano reti irrigue, agronomi, serre sperimentali, esperti universitari in grado di rimediare alle periodiche siccità. Una mattina il cielo si annuvolò e i coloni esultarono. Pioverà, concluse il governatore, firmando un pezzo di carta che indebitava l’isola per trent’anni, giusto il prezzo di un’intera squadriglia di super-caccia al tungsteno.Stiamo pensando. Stiamo pensando alla situazione nella sua inevitabile complessità, alle sue cause, alle incidenze coincidenti ma nient’affatto scontate. Stiamo pensando a come affrontare una volta per tutte la grana del famosissimo debito pubblico, voi capite, il debito pubblico che è come la mafia, la camorra, l’evasione fiscale, l’Ebola, gli striscioni razzisti negli stadi, la rissa sui dividendi della grande fabbrica scappata oltremare, l’abrogazione di tutto l’abrogabile. Perché abbiamo perso? Stiamo pensando a come non perdere sempre, a come non farvi perdere sempre. Stiamo pensando, compagni. E, in confidenza, di tutte queste problematiche così immense, così universali, così globalmente complicate, be’, diciamocelo: non ne veniamo mai a capo. Il fatto è che non capiamo, compagni. Non capiamo mai niente. Ma, questa è la novità, ci siamo finalmente ragionando su. Stiamo pensando. Una friggitoria di meningi – non lo sentite, l’odore?Unni. Scrosciarono elezioni, ma il personale di controllo era scadente e il grande mago cominciò a preoccuparsi, dato che i replicanti selezionati non erano esattamente del modello previsto. Lo confermavano a reti unificate gli strilli dei telegiornali, allarmati anche loro dall’invasione degli Unni. Non si capiva quanto fossero sinceri i loro slogan, quanto pericolosi. Provò il dominus ad armeggiare con i soliti tasti, deformando gli indici borsistici, ma non era più nemmeno certo che il trucco funzionasse per l’eternità. Vide un codazzo di Bentley avvicinarsi alla reggia e si sentì come Stalin accerchiato dai suoi fidi, nei giorni in cui i carri di Hitler minacciavano Mosca. Ripensò ai tempi d’oro, quando gli asini volavano e persino gli arcangeli facevano la fila, senza protestare, per l’ultimissimo iPhone.(Estratto da “La lotteria dell’universo”, di Giorgio Cattaneo. “Siamo in guerra, anche se non si sentono spari. Nessuno sa più quello che sta succedendo, ma tutti credono ancora di saperlo: e vivono come in tempo di pace, limitandosi a scavalcare macerie. Fotogrammi: 144 pillole narrative descrivono quello che ha l’aria di essere l’inesorabile disfacimento di una civiltà”. Il libro: Giorgio Cattaneo, “La lotteria dell’universo”, Youcanprint, 148 pagine, 12 euro).La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.