Archivio del Tag ‘sottovalutazione’
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Jean: allarme Covid, Conte ha agito con due mesi di ritardo
È molto strano: se avevano un piano che contemplava potenzialmente 100mila morti, la prima cosa da fare era comprare mascherine, tamponi, preparare il sistema sanitario fin da gennaio. Non è stato fatto. Chi ha sottovalutato l’emergenza? Molto probabilmente quel piano non è stato letto dai decisori politici, altrimenti non si spiega l’inerzia che è seguita. «Già dal 20 gennaio avevamo pronto un piano, e quel piano abbiamo seguito” ha detto al “Corriere della Sera” Andrea Urbani, direttore generale della programmazione sanitaria del ministero della salute: «Con il senno di poi, sarebbe stato meglio un lockdown immediato». Invece venne ordinato dal governo solo il 9 marzo, dopo avere chiuso la Lombardia il giorno prima. L’emergenza è stata fronteggiata con due mesi di ritardo. Il piano è di gennaio. Roberto Burioni, per esempio, che molto probabilmente era a conoscenza o aveva sentito qualcosa del piano, l’8 gennaio lanciò l’allarme sui casi sospetti di polmonite in Cina. Le sue previsioni si sono avverate. Il presidente del Consiglio ha firmato la dichiarazione dello stato di emergenza il 31 gennaio: lo si è saputo solo un mese e mezzo dopo. Perché alla proclamazione dello stato di emergenza non sono seguite vere misure di emergenza?La responsabilità è delle massime cariche di governo. E poi di chi si è messo a giocare con aperitivi, ristoranti cinesi, magliette. Come può un simile piano di emergenza venire ignorato così? Dev’essersi trattato del lavoro fatto da qualche esperto che qualcuno ha sfogliato, ma che essendo così pauroso, ha ritenuto fosse una balla e che il suo posto fosse nel cassetto o nel cestino. Forse non è neppure arrivato in mano al ministro della salute. Dal “Corriere” sappiamo che lo scenario contenuto nel piano ha indotto Speranza a secretarlo e a mettere in campo una task force? È difficile gestire i guai quando si hanno come consulenti persone che twittano video con pupazzi di Trump presi a calci. Mi pare strano che una persona tutto sommato con i piedi per terra come il ministro Speranza possa avere sottovalutato un documento come quello. Quindi a mio avviso non lo ha visto per niente. Il governo ora dice di non avere divulgato il piano, ma di avere agito ugualmente. Ma agito come? Facendo un comitato, invece di fornire dispositivi di sicurezza e ventilatori?È fuori da ogni credibilità. In questa vicenda dell’epidemia intravedo altre smagliature nell’apparato del governo e dello Stato. Le smagliature sono dovute al fatto che esistono delle responsabilità concorrenti tra Stato e Regioni. Il governo, coerentemente con lo stato di emergenza, doveva assumere tutti i poteri, da esercitare consultando i presidenti delle Regioni e collaborando con esse. Invece, il presidente del Consiglio non ha fatto altro che lo scaricabarile. Non credo che sia per i buoni rapporti con la Cina che uno sottovaluta una cosa del genere. Può farlo Di Maio, ma Conte no. Conosceremo mai la storia vera del coronavirus? Ne dubito. C’è solo una possibilità: che gli Stati Uniti abbiano in mano la testimonianza di qualcuno che lavorava nel Wuhan Institute of Virology e che possa dire quello che è successo. Il resto è guerra di informazione.(Carlo Jean, dichiarazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Piano di emergenza pronto da gennaio, il problema è negli uffici di Speranza”, pubblicata dal “Sussidiario” il 22 aprile 2020. Esperto di strategia, docente e opinionista, il generale Jean è stato consigliere militare del presidente della Repubblica Francesco Cossiga e presidente della Sogin. Il 21 aprile, “Corriere” e “Repubblica” hanno rivelato che dal 20 gennaio il ministero della salute aveva pronto un “piano nazionale di emergenza” per far fronte al coronavirus. Non sarebbe stato divulgato perché lo scenario previsto era altamente drammatico. Nell’ipotesi peggiore – scrive “Repubblica” – si prevedeva il picco dopo un anno dal primo caso (quello ufficiale si sarebbe verificato a Codogno il 21 febbraio), con mille pazienti ricoverati dopo 5 mesi e il 75% delle terapie intensive occupate dopo 243 giorni. In due anni – così il piano – si sarebbe arrivati a 646.000 contagi, dei quali 133.000 avrebbero richiesto il ricovero in terapia intensiva. Previsioni, quelle relative ai contagi, ampiamente surclassate dalla realtà).È molto strano: se avevano un piano che contemplava potenzialmente 100mila morti, la prima cosa da fare era comprare mascherine, tamponi, preparare il sistema sanitario fin da gennaio. Non è stato fatto. Chi ha sottovalutato l’emergenza? Molto probabilmente quel piano non è stato letto dai decisori politici, altrimenti non si spiega l’inerzia che è seguita. «Già dal 20 gennaio avevamo pronto un piano, e quel piano abbiamo seguito», ha detto al “Corriere della Sera” Andrea Urbani, direttore generale della programmazione sanitaria del ministero della salute: «Con il senno di poi, sarebbe stato meglio un lockdown immediato». Invece venne ordinato dal governo solo il 9 marzo, dopo avere chiuso la Lombardia il giorno prima. L’emergenza è stata fronteggiata con due mesi di ritardo. Il piano è di gennaio. Roberto Burioni, per esempio, che molto probabilmente era a conoscenza o aveva sentito qualcosa del piano, l’8 gennaio lanciò l’allarme sui casi sospetti di polmonite in Cina. Le sue previsioni si sono avverate. Il presidente del Consiglio ha firmato la dichiarazione dello stato di emergenza il 31 gennaio: lo si è saputo solo un mese e mezzo dopo. Perché alla proclamazione dello stato di emergenza non sono seguite vere misure di emergenza?
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Gilet Gialloverdi, ora gli italiani si aspettano risposte vere
In campagna elettorale sembravano impazziti: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano? Ovvio, ma lo facevano anche gli altri. Loro di più? Infatti hanno vinto. O meglio: hanno vinto i 5 Stelle, col doppio dei voti di Salvini. Già l’indomani, però, Di Maio disorientava il pubblico votante, dichiarandosi disposto ad allearsi con chicchessia, dalla Lega al Pd, pur di andare al governo. D’accordo, ma per fare cosa? Poi è arrivato il Contratto, con dentro quasi tutto: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano ancora? Possibile, ma forse a fin di bene: sapevano che sarebbe stata dura, con Bruxelles, ma ne erano consapevoli e si preparavano a dare battaglia. Davvero? Non si direbbe, vista la mala parata di fronte ai cani da guardia della Commissione Europea, gli stessi che invece ora si preparano a condonare all’anti-italiano Macron persino il massimo sacrilegio possibile, nell’euro-santuario: la violazione del sacro vincolo del 3% nel rapporto deficit-Pil. Prima ancora che il “governo del cambiamento” nascesse, del resto, i gialloverdi avevano dovuto ingoiare un super-rospo: il “niet” del Quirinale su Paolo Savona all’economia. Di Maio ventilò l’impeachment per Mattarella, Salvini se ne guardò bene. Oggi Di Maio è in caduta libera, mentre Salvini si muove da padrone della scena. Un caso?Salvini è abile, si dice. Ha osato rompere il tabù dell’accoglienza obbligatoria a costo di fare la faccia feroce coi più deboli, anche per smascherare l’ipocrisia egoistica dell’Ue e quella di chi – sui migranti – ha costruito carriere milionarie. Poi però è arrivato il decreto sicurezza, con limitazioni allarmanti alle libertà personali, specie quelle di chi ha motivo di esprimere la propria sofferenza sociale e quindi potrebbe protestare: pesantissime sanzioni per il blocco stradale e l’occupazione di terreni. Poi Salvini ha difeso a oltranza il topo morto che sta marcendo nella pancia del Piemonte, cioè un progetto-vergogna come il Tav Torino-Lione, notoriamente utile solo a chi costruisse tunnel e ferrovia. Infine, dopo aver chiesto mandato “a 60 milioni di italiani” per trattare con l’Ue, ha proposto alla Germania “un asse Roma-Berlino” (alla Germania, cioè al paese che più di ogni altro ha danneggiato l’Italia da quando esiste l’Eurozona). Poco dopo s’è involato verso Israele per la più classica delle genuflessioni diplomatiche, sperando di ottenere l’agognato sdoganamento come leader credibilmente moderato. Solo che si è fatto fotografare “alla Salvini”, tra soldati sorridenti e Stelle di David. Una foto lo ritrae mentre, addirittura, impugna una mitragliatrice. Non pago, il neoleghista post-padano s’è sbilanciato sul terreno della politica estera, definendo “terrorista” il network libanese Hezbollah, impegnato in Siria contro i terroristi veri, quelli dell’Isis.Baravano fin dall’inizio, i gialloverdi? Hanno preso in giro gli elettori italiani fin dal primo giorno di vita del “governo del cambiamento” o si sono semplicemente accorti di aver catastroficamente sottovalutato l’avversario? La flessione ingloriosa di fronte ai ragionieri finto-europeisti della Commissione Europea è un ultimo tentativo (tattico) per prendere tempo in attesa di una prossima controffensiva pro-Italia o è solo il classico inizio della fine, con la sepoltura delle illusioni e la rassegnazione alla consueta chemio-economia del rigore ammazza-Stati? Domande sospese ma ormai ridondanti, vista la rapida evoluzione dello scenario: i francesi nelle strade fanno tremare l’ex onnipotente Macron costringendolo alla resa, mentre il governo italiano (“populismo” in carica, regolarmente insediato) anziché rilanciare sull’onda dei Gilet Gialli si lascia prendere a sberle dal primo Moscovici di passaggio. Era sbagliato sbilanciarsi in campagna elettorale per un’espansione del deficit? Niente affatto. Però poi bisognava tenere il punto, a tutti i costi, pena la perdita della propria reputazione pubblica, italiana e internazionale. Era così assurdo, dare credito ai gialloverdi? No, perché l’espansione del deficit è esattamente la direzione appropriata – necessariamente eretica – per sconfessare il pretestuoso economicismo delle oligarchie finanziarie che utilizzano per i loro scopi la tecnocrazia di Bruxelles.Chi sono, in realtà, i due politici che avrebbero dovuto condurre una storica vertenza “sindacale” a favore dell’Italia? Di Maio è sbucato quasi dal nulla, attraverso il videogame elettorale interno messo in piedi da Grillo e Casaleggio, e prima delle elezioni vagava tra gli Usa e Londra in cerca di endorsement nei palazzi del massimo potere, quello che ha organizzato la globalizzazione unilaterale che ha messo in ginocchio anche l’Italia. Fino ad allora, sull’euro e l’Europa, i 5 Stelle erano riusciti a dire tutto e il contrario di tutto, senza mai delineare né un’analisi chiara né una linea politica definita, fino alla clamorosa pagliacciata del trasloco (tentato, ma non riuscito) tra gli ultra-euristi dell’Alde al Parlamento Europeo. La nuova Lega salviniana, per converso, è partita da posizioni radicalmente euroscettiche, arrivando a portare in Parlamento un economista keynesiano come Bagnai, salvo poi cominciare progressivamente a cedere ai soliti diktat di Bruxelles – spettacolo triste, solo in parte occultato dal quotidiano agitarsi di Salvini, nel tentativo di distrarre l’opinione pubblica dai fallimenti governativi. Al di là dei limiti strutturali di un’alleanza debole – i grillini “anticasta” e i leghisti “anti-migranti” – restano oscuri i piani della sovragestione da parte del vero potere, vista la confusione che regna sovrana dalle parti dell’esecutivo.Ancora non è dato sapere quanto durerà la coabitazione gialloverde, e se per caso i suoi sponsor dietro le quinte non abbiano già mollato Di Maio per puntare sul solo Salvini, a patto che scenda a più miti consigli – cosa che ha tutta l’aria di fare, a giudicare dalle recenti sterzate verso l’elettorato più tradizionalmente cauto. C’è un disegno di più lungo respiro, non ancora visibile? L’unica vera certezza riguarda la crisi dell’assetto europeo: la Francia in panne, la Germania in affanno, la Gran Bretagna ancora alle prese con l’irrisolta Brexit, l’Est Europa che scalpita per ritagliarsi spazi di autonomia. Salvini e Di Maio avevano illuso moltissimi spettatori, lasciando credere che l’Italia potesse diventare il motore di un cambiamento capace di smontare i dogmi dell’Ue, che hanno rapidamente impoverito il continente. Se non altro, i due esponenti gialloverdi hanno costretto gli italiani (e gli europei) a prendere atto, almeno, della necessità di una diversa narrazione: non è più possibile continuare ad accettare passivamente le politiche di rigore, che l’élite finanziaria neoliberista somministra alle nazioni attraverso i tecnocrati dell’Unione. Il funesto “ce lo chiede l’Europa” non è più proponibile, anche grazie a Salvini e Di Maio. Troppo poco, certo.Persino il tormentato governo Conte, comunque, potrebbe rivelare a posteriori una sua effettiva utilità, se domani – dopo le europee – prendesse corpo un vasto movimento politico, trasversale, disposto a rivendicare per l’Europa il diritto alla sovranità democratica, cominciando da una Costituzione Europea che insedi finalmente a Bruxelles un vero governo federale, regolarmente votato dal Parlamento Europeo eletto dai cittadini. Sogni, speranze e grandi incognite, a cominciare dalla paventata grande recessione in arrivo, che potrebbe far precipitare tutte le crisi politiche in atto. E gli italiani come reagirebbero, se dovessero arrendersi all’evidenza di una vera e propria resa? Che fine farebbe Di Maio, se non riuscisse a varare neppure l’ombra dello sbandieratissimo reddito di cittadinanza? E dove finirebbero i tatticismi del disinvolto Salvini, di fronte alla porta che l’Ue pare stia per sbattere il faccia all’Italia? Da più parti si osserva come manchi, tuttora, una classe dirigente all’altezza della situazione politica. Grazie al governo gialloverde sono caduti alcuni tabù e un bel po’ di leggende, per esempio sull’intoccabilità dei deficit. Ma resta, a monte, il macigno di un’Europa non democratica, non alleata, non amica. Anche grazie alla Lega e ai 5 Stelle, oggi gli italiani il problema lo vedono benissimo. A farsi attendere, ancora, è la soluzione.(Giorgio Cattaneo, “Bravi i gialloverdi a denunciare il rigore Ue, ma ora gli italiani si aspettano i fatti”, dal blog del Movimento Roosevelt del 14 dicembre 2018).In campagna elettorale sembravano impazziti: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano? Ovvio, ma lo facevano anche gli altri. Loro di più? Infatti hanno vinto. O meglio: hanno vinto i 5 Stelle, col doppio dei voti di Salvini. Già l’indomani, però, Di Maio disorientava il pubblico votante, dichiarandosi disposto ad allearsi con chicchessia, dalla Lega al Pd, pur di andare al governo. D’accordo, ma per fare cosa? Poi è arrivato il Contratto, con dentro quasi tutto: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano ancora? Possibile, ma forse a fin di bene: sapevano che sarebbe stata dura, con Bruxelles, ma ne erano consapevoli e si preparavano a dare battaglia. Davvero? Non si direbbe, vista la mala parata di fronte ai cani da guardia della Commissione Europea, gli stessi che invece ora si preparano a condonare all’anti-italiano Macron persino il massimo sacrilegio possibile, nell’euro-santuario: la violazione del sacro vincolo del 3% nel rapporto deficit-Pil. Prima ancora che il “governo del cambiamento” nascesse, del resto, i gialloverdi avevano dovuto ingoiare un super-rospo: il “niet” del Quirinale su Paolo Savona all’economia. Di Maio ventilò l’impeachment per Mattarella, Salvini se ne guardò bene. Oggi Di Maio è in caduta libera, mentre Salvini si muove da padrone della scena. Un caso?
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Barnard: i buffoni che scoprono solo ora il bluff gialloverde
Italiani “buffoni”. Non quelli al governo, o quelli che l’esecutivo gialloverde l’hanno sempre e solo visto come un’epidemia di colera fascio-razzista in salsa populista. No, peggio: i veri buffoni, secondo Paolo Barnard, sono i connazionali che oggi – a fine 2018 – si stracciano le vesti, gridando al tradimento dei loro ex paladini. Lega e 5 Stelle: ieri bellicosi e polemici con la “dittatura” finto-europeista dell’Ue, e adesso già belanti e pronti a trattare, di fronte al muro di minacce e di ricatti innalzato da Bruxelles alle prime avvisaglie di deficit. E’ bastato poco: le provocazioni speculative dello spread, le intimidazioni di Moscovici e Juncker, la complicità mercenaria dell’eterno establishment italico “venduto allo straniero”. Fine del sogno irredentista: l’Italia si appresta a farsi rimettere in riga dai ragionieri dell’Unione Europea, tanto disonesti da accanirsi con noi – non tollerando neppure quel timido 2,4% di disavanzo – per poi affrettarsi a perdonare la Francia del “fratello” Macron, che per difendersi dalla rivolta dei Gilet Gialli annuncia che sforerà persino il mitologico 3% sancito da Maastricht sulla base di mere asserzioni “teologiche”, senza alcun rapporto con l’economia reale. O meglio: chi impose quel limite artificioso al deficit lo fece nella più clamorosa malafede, ben sapendo che tagliare le unghie agli Stati avrebbe terremotato i consumi e fatto sparire la classe media, deformando l’economia a esclusivo vantaggio dell’élite finanziaria.Il primo a raccontarlo, in Italia, fu proprio Paolo Barnard, solitario giornalista a tutto tondo (uno dei pochissimi in circolazione), capace di divorziare da “Report”, che aveva fondato insieme alla Gabanelli, per trasformarsi in un attivista d’avanguardia, impegnato a spiegare ai non-addetti le perverse alchimie della finanza e di una moneta, l’euro, fabbricata a scopo di dominazione, per confiscare la democrazia in Europa. Nel saggio “Il più grande crimine, uscito nel 2010, Barnard ricostruisce in termini addirittura criminologici la genesi dell’attuale Ue, imputandola all’azione (molto subdola) delle nuove oligarchie del denaro, vere e proprie eredi delle aristocrazie che furono. Missione: rimettere in piedi una sorta di Sacro Romano Impero governato da dogmi, da imporre agli ex-cittadini trasformati in neo-sudditi, cui infliggere crisi e disoccupazione, precarietà e insicurezza sociale, erosione dei risparmi, salari ridicoli e pensioni da fame. La scusa: non ci sono più soldi, il debito pubblico ci divora. La grande omissione: la moneta. Chi la controlla? Chi la detiene? Chi la emette? E’ lei, la moneta, la sola misura del debito. Un debito pubblico denominato in moneta sovrana non è un problema, in nessun caso. Usa, Cina e Russia non potranno fallire mai. Il Giappone ha il doppio del debito italiano, eppure non ne soffre. Solo in Europa – caso unico al mondo – mezzo miliardo di persone è in balia di macellai, come nel caso della Grecia, senza che nessuno si ribelli davvero.Potevano farlo Di Maio e Salvini? Dovevano farlo, stando alle rispettive campagne elettorali. In tanti li avevano presi sul serio: i loro avversari, Pd in testa, dichiaramente spaventati dal possibile nuovo corso, e poi ovviamente i loro sostenitori (almeno il 60% degli italiani, stando ai sondaggi), convinti di potersi fidare di questi due nuovissimi “salvatori della patria”. A storcere il naso fin dal principio, viaggiando come sempre “in direzione ostinata e contraria”, c’era lui: Paolo Barnard. Lo ricorda impietosamente, oggi, sul suo blog. Era il 31 maggio 2018 quando scriveva: «Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno inflitto agli elettori euroscettici italiani la più desolante umiliazione che chiunque potesse immaginare. Non male, per due “paladini” delle sovranità italiane. Ma molto peggio: hanno seppellito per sempre le speranze sovraniste italiane in un colpo solo». Nel senso: prima di sfidarlo, il nemico devi conoscerlo. E se è così potente, distruggendo te, scoraggerà chiunque altro vorrà provare a combatterlo. I gialloverdi? Pericolosamente velleitari, irresponsabili e cialtroni.«Esauriti i primi proclami di cosmesi, hanno già intrapreso il camino delle ceneri sul capo, verso le vie di Bruxelles e del Quirinale, precisamente come ogni altro fantoccio italiano dal 1993 in poi». Questo, aggiunge Barnard, accade «a tristissime spese dell’elettorato per l’impreparazione e la sprovvedutezza di Lega e 5 Stelle nell’aver grossolanamente sottovalutato l’avversario». Maggio 2018, e Barnard già scriveva: «Siamo infatti all’ennesima umiliazione nazionale, ora certa». Sei mesi dopo, qualche sassolino dalla scarpa se lo toglie, Barnard: «Chi fra i Socci, Fusaro, Becchi, e tutti ’sti delusi ragazzetti/e web che ora ragliano sui social “vi avevamo creduto! traditori!” condivise la mia previsione? Nessuno». E perché? «Perché ’sti personaggetti e i loro adoranti “ti metto 1 miliardo di like” tenevano i piedi in due staffe», scrive Barnard, che non perdona chi oggi – fuori tempo massimo – sta cambiando idea, giorno per giorno, di fronte al crollo della scommessa gialloverde. I supporter del “governo del cambiamento”? Piccoli opportunisti: «Sapete, non si sa mai: e se il carro dei vincitori vinceva? Comodo adesso saltar giù, buffoni».Italiani “buffoni”. Non quelli al governo, o quelli che l’esecutivo gialloverde l’hanno sempre e solo visto come un’epidemia di colera fascio-razzista in salsa populista. No, peggio: i veri buffoni, secondo Paolo Barnard, sono i connazionali che oggi – a fine 2018 – si stracciano le vesti, gridando al tradimento dei loro ex paladini. Lega e 5 Stelle: ieri bellicosi e polemici con la “dittatura” finto-europeista dell’Ue, e adesso già belanti e pronti a trattare, di fronte al muro di minacce e di ricatti innalzato da Bruxelles alle prime avvisaglie di deficit. E’ bastato poco: le provocazioni speculative dello spread, le intimidazioni di Moscovici e Juncker, la complicità mercenaria dell’eterno establishment italico “venduto allo straniero”. Fine del sogno irredentista: l’Italia si appresta a farsi rimettere in riga dai ragionieri dell’Unione Europea, tanto disonesti da accanirsi con noi – non tollerando neppure quel timido 2,4% di disavanzo – per poi affrettarsi a perdonare la Francia del “fratello” Macron, che per difendersi dalla rivolta dei Gilet Gialli annuncia che sforerà persino il mitologico 3% sancito da Maastricht sulla base di mere asserzioni “teologiche”, senza alcun rapporto con l’economia reale. O meglio: chi impose quel limite artificioso al deficit lo fece nella più clamorosa malafede, ben sapendo che tagliare le unghie agli Stati avrebbe terremotato i consumi e fatto sparire la classe media, deformando l’economia a esclusivo vantaggio dell’élite finanziaria.
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Ponte Morandi, il Nyt sa tutto. Il video? Ancora top secret
Invece di rincorrere teorie vertiginosamente fantasiose, sul web, inseguendo vaghi racconti di esplosioni e lampi, perché i tanti “leoni da tastiera” non si decidono, per una volta, a fare un atto di coraggio elementare? Sarebbe questo: pretendere, dal procuratore genovese Francesco Cozzi, che sia finalmente mostrato in pubblico il filmato integrale del crollo del viadotto Morandi, che la procura di Genova dichiara di possedere. Appello firmato da Massimo Mazzucco e rivolto ai blogger, ma anche alla stampa: «Abbiate il coraggio, per una volta, di fare i giornalisti. Pretendere di vedere quelle immagini, visto che ormai è trascorso un mese, dal disastro». In diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Mazzucco insiste: gli inquirenti avevano dichiarato di non voler diffondere le immagini per non condizionare i testimoni ancora da sentire. Ora però, a metà settembre, il problema dovrebbe essere superato. Tanto più che – come segnala lo stesso Mazzucco sul blog “Luogo Comune” – il “New York Times” ha dichiarato di averlo potuto visionare, quel video integrale – il “New York Times”, ma non la stampa italiana: perché?Anziché ostinarsi a cercare le tracce di improbabilissimi attentati, dice Mazzucco, è evidente che quelle immagini contengono l’unica verità davvero imbarazzante: il ponte di Genova era in condizioni miserevoli. Lo dimostra un reportage fotografico pubblicato da “Repubblica”, dove si vede benissimo che gli stralli, i tiranti d’acciaio che reggevano l’enorme infrastruttura collassata alla vigilia di ferragosto, necessitavano di manutenzione urgentissima. Lo scoprirono, gli addetti, praticando dei fori negli involucri di cemento che avvolgevano le funi di acciaio. «Questo probabilmente inchioda la società Autostrade alle sue responsabilità: anche non volendo spendere tutti quei soldi per sostituire il ponte con un nuovo viadotto, sembra evidente che i manutentori avessero chiara la situazione: bisognava sostituire urgentemente i vecchi tiranti con nuovi cavi d’acciaio, o comunque – alla peggio – bloccare il traffico, scongiurando in tal modo una tragedia costata oltre 40 vittime». Impossibile, poi, non notare la “stranezza” rappresentata dallo scoop del quotidiano newyorkese, cui è facile immaginare che i Benetton – e gli altri poteri presenti nell’azionariato internazionale di Atlantia – abbiano facile accesso.A quanto pare, scrive Mazzucco su “Luogo Comune”, i giornalisti del “New York Times” hanno avuto un accesso privilegiato a quello che nessuno italiano è ancora riuscito a vedere: il video integrale del crollo del ponte Morandi. «Basterebbe, da solo, a spegnere l’enorme ridda di voci fantasiose su fantomatici attentati». Nell’articolo, pubblicato l’11 settembre in versione italiana, il “New York Times” presenta una ricostruzione visiva del crollo del ponte, dichiarando di essersi basato «su un elemento cruciale per le indagini, i video registrati dalle telecamere di sicurezza». Nella versione inglese dell’articolo, fa notare Mazzucco, il giornale statunitense dice invece di aver «ricostruito quello che è successo utilizzando la descrizione degli inquirenti del principale elemento probante, le riprese video di una telecamera di sicurezza». Ma la differenza non è poi tanta: «Che i giornalisti abbiano visionato personalmente la ripresa, oppure che ne abbiano raccolto la descrizione da parte degli inquirenti, il risultato non cambia: loro sanno cosa è successo, e noi no».Secondo il “Nyt”, che fornisce una ricostruzione grafica, l’accaduto è riassumibile in 6 punti. Primo: il tratto colpito dal cedimento sovrastava il letto (asciutto) del torrente Polcevera – e i binari della ferrovia – a circa 50 metri di altezza. Punto 2: si spezzano i cavi degli stralli a sud, provocando il cedimento repentino degli stralli stessi. Parti dell’impalcato iniziano a ruotare verso sud. Tre: le sezioni dell’impalcato iniziano a cedere e il peso della strada poggia interamente sugli stralli a nord. Quattro: i cavi rimasti e gli stralli di cemento armato si spezzano. Punto 5: le due estremità degli stralli spezzati penzolano dalla pila, mentre parti dell’impalcato finiscono a terra, alcune girate sottosopra. E Infine, punto 6: anche la pila, alta più di 90 metri, crolla sulle sue stesse macerie. A quanto pare, conclude Mazzucco, sarebbe quindi stato il cedimento degli stralli a sud (quelli verso la foce del Polcevera) ad innescare la catena distruttiva che ha portato al crollo completo del ponte. «A questo punto si impone una domanda: perchè i giornalisti del “New York Times” arrivano prima di noi ad avere queste informazioni? Forse questo “leak” del giornale newyorkese fa parte di una strategia dei Benetton, per anticipare in qualche modo la tesi che a loro farebbe molto comodo, ovvero che il ponte sia crollato per un difetto nel design originale, e non per mancata manutenzione?».Nell’articolo, infatti, si legge che «i sostegni degli stralli a sud che sembrano aver ceduto per primi sono gli stessi su cui un professore di ingegneria strutturale del Politecnico di Milano, Carmelo Gentile, aveva notato preoccupanti segni di corrosione o altri possibili danni durante dei test effettuati lo scorso ottobre». Sempre il “New York Times” segnala che il professore avvisò il gestore del ponte, Autostrade per l’Italia, che però – secondo Gentile – «non fece mai seguito alla sua raccomandazione di eseguire un accurato modello matematico e attrezzare il ponte con sensori permanenti». Perché? «Probabilmente hanno sottovalutato l’importanza dell’informazione», ha detto il professor Gentile in un’intervista. La società Autostrade non ha mai negato le conclusioni del professore, ribadendo però che «nessuno aveva ravvisato elementi di urgenza». In un comunicato, la società ha precisato che i suggerimenti del professore erano stati inclusi nel progetto di “retrofitting” del viadotto approvato a giugno, e ha accusato il ministero delle infrastrutture di mesi di ritardo nell’autorizzazione dei lavori.E poi, naturalmente, sul “New York Times” spuntano i famosi “esperti” a dare sostegno alla tesi dell’ineluttabilità: «Secondo gli esperti di queste strutture, è molto difficile misurare l’esatto grado di deterioramento dell’acciaio annegato nel calcestruzzo, come era il caso del ponte Morandi», scrive il giornale. «Non c’è niente di più impreciso del provare a valutare le condizioni dei cavi interni», dice Gary J. Klein, membro dell’Accademia Nazionale di Ingegneria degli Stati Uniti, organo che studia i cedimenti strutturali, e vice presidente dello studio di ingegneria ed architettura Wiss, Janney, Elstner a Northbrook, in Illinois. «E’ una scienza assai imperfetta». Dato che la debolezza potrebbe trovarsi in qualsiasi punto della struttura, dice Klein, «devi essere nel punto giusto al momento giusto, e quindi sono molto scettico sull’accuratezza di stime simili». La tesi difensiva che si sta formando – rileva Mazzucco – sembra quindi la seguente: il problema era strutturale, e stava nella concezione stessa degli stralli, che impedivano di verificare tempestivamente, e in modo accurato, lo stato di corrosione dei tiranti in acciaio. Come dire: noi avevamo incluso il problema nel progetto di “retrofitting”, ma è colpa del ministero se i lavori sono stati ritardati…L’articolo inoltre aggiunge: «Finora i video delle telecamere di sicurezza, acquisiti dalla Guardia di Finanza di Genova comandata dal colonnello Filippo Ivan Bixio, non sono di pubblico dominio». Ma è possibile – insiste Mazzucco – che non ci sia un solo giornalista italiano che si ribelli al fatto che quelli del “New York Times” abbiano potuto vedere il video crollo, o comunque riceverne una descrizione dettagliata, mentre noi no? Anche per questo, Mazzucco si spazientisce con i “complottisti” che rincorrono le voci – vaghe, imprecise e ovviamente inutilizzabili, sotto qualsiasi profilo – che parlano di strani lampi e misteriosi boati che avrebbero preveduto il crollo del mastodonte genovese. Perché, dunque, nessuno pretende di visionare quel filmato, ancora misterioso per noi italiani ma non più per il “New York Times”? Possibile che il giornalismo italiano debba subire anche questa ennesima, incredibile umiliazione?Invece di rincorrere teorie vertiginosamente fantasiose, sul web, inseguendo vaghi racconti di esplosioni e lampi, perché i tanti “leoni da tastiera” non si decidono, per una volta, a fare un atto di coraggio elementare? Sarebbe questo: pretendere, dal procuratore genovese Francesco Cozzi, che sia finalmente mostrato in pubblico il filmato integrale del crollo del viadotto Morandi, che la procura di Genova dichiara di possedere. Appello firmato da Massimo Mazzucco e rivolto ai blogger, ma anche alla stampa: «Abbiate il coraggio, per una volta, di fare i giornalisti. Pretendere di vedere quelle immagini, visto che ormai è trascorso un mese, dal disastro». In diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Mazzucco insiste: gli inquirenti avevano dichiarato di non voler diffondere le immagini per non condizionare i testimoni ancora da sentire. Ora però, a metà settembre, il problema dovrebbe essere superato. Tanto più che – come segnala lo stesso Mazzucco sul blog “Luogo Comune” – il “New York Times” ha dichiarato di averlo potuto visionare, quel video integrale – il “New York Times”, ma non la stampa italiana: perché?