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Sankara: basta rapinare l’Africa, col debito. E lo uccisero
Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici – anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”. Un termine che si usa ogni giorno, come se ci fossero degli uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più.Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall’imperialismo, è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee. In modo che ognuno di noi diventi schiavo finanziario, cioè schiavo tout court, di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’intelligenza, la furbizia, di investire da noi con l’obbligo di rimborso. Ci dicono di rimborsare il debito. Non è un problema morale. Rimborsare o non rimborsare non è un problema di onore. Abbiamo prima ascoltato e applaudito il primo ministro della Norvegia, intervenuta qui. Ha detto, lei che è un’europea, che il debito non può essere rimborsato tutto. Il debito non può essere rimborsato prima di tutto perché se noi non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno, siamone sicuri. Invece se paghiamo, saremo noi a morire, ne siamo ugualmente sicuri. Quelli che ci hanno condotti all’indebitamento hanno giocato come al casinò. Finché guadagnavano non c’era nessun problema; ora che perdono al gioco esigono il rimborso. E si parla di crisi. No, signor presidente. Hanno giocato, hanno perduto, è la regola del gioco. E la vita continua.Non possiamo rimborsare il debito perché non abbiamo di che pagare. Non possiamo rimborsare il debito perché non siamo responsabili del debito. Non possiamo pagare il debito perché, al contrario, gli altri ci devono ciò che le più grandi ricchezze non potranno mai ripagare: il debito del sangue. E’ il nostro sangue che è stato versato. Si parla del Piano Marshall che ha rifatto l’Europa economica. Ma non si parla mai del Piano africano che ha permesso all’Europa di far fronte alle orde hitleriane quando la sua economia e la sua stabilità erano minacciate. Chi ha salvato l’Europa? E’ stata l’Africa. Se ne parla molto poco. Così poco che noi non possiamo essere complici di questo silenzio ingrato. Se gli altri non possono cantare le nostre lodi, noi abbiamo almeno il dovere di dire che i nostri padri furono coraggiosi e che i nostri combattenti hanno salvato l’Europa e alla fine hanno permesso al mondo di sbarazzarsi del nazismo.Il debito è anche conseguenza degli scontri. Quando ci parlano di crisi economica, dimenticano di dirci che la crisi non è venuta all’improvviso. La crisi è sempre esistita e si aggraverà ogni volta che le masse popolari diventeranno più coscienti dei loro diritti di fronte allo sfruttatore. Oggi c’è crisi perché le masse rifiutano che le ricchezze siano concentrate nelle mani di pochi individi. C’è crisi perché pochi individui depositano nelle banche estere delle somme colossali che basterebbero a sviluppare l’Africa intera. C’è crisi perché di fronte a queste ricchezze individuali, che hanno nomi e cognomi, le masse popolari si rifiutano di vivere nei ghetti e nei bassifondi. C’è crisi perché i popoli rifiutano dappertutto di essere dentro una Soweto di fronte a Johannesburg. C’è quindi lotta, e l’esacerbazione di questa lotta preoccupa chi ha il potere finanziario.Ci si chiede oggi di essere complici della ricerca di un equilibrio. Equilibrio a favore di chi ha il potere finanziario. Equilibrio a scapito delle nostre masse popolari. No! Non possiamo essere complici. Non possiamo accompagnare quelli che succhiano il sangue dei nostri popoli e vivono del sudore dei nostri popoli nelle loro azioni assassine. Signor presidente, sentiamo parlare di club – Club di Roma, Club di Parigi, Club di dappertutto. Sentiamo parlare del Gruppo dei Cinque, dei Sette, del Gruppo dei Dieci, forse del Gruppo dei Cento o che so io. E’ normale allora che anche noi creiamo il nostro club e il nostro gruppo. Facciamo in modo che a partire da oggi anche Addis Abeba diventi la sede, il centro da cui partirà il vento nuovo del Club di Addis Abeba. Abbiamo il dovere di creare oggi il fronte unito di Addis Abeba contro il debito. E’ solo così che potremo dire, oggi, che rifiutando di pagare non abbiamo intenzioni bellicose ma, al contrario, intenzioni fraterne.Del resto, le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune. Quindi il club di Addis Abeba dovrà dire agli uni e agli altri che il debito non sarà pagato. Quando diciamo che il debito non sarà pagato non vuol dire che siamo contro la morale, la dignità, il rispetto della parola. Noi pensiamo di non avere la stessa morale degli altri. Tra il ricco e il povero non c’è la stessa morale. La Bibbia, il Corano, non possono servire nello stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato. C’è bisogno che ci siano due edizioni della Bibbia e due edizioni del Corano. Non possiamo accettare che ci parlino di dignità. Non possiamo accettare che ci parlino di merito per quelli che pagano, e perdita di fiducia per quelli che non dovessero pagare. Noi dobbiamo dire, al contrario, che oggi è normale si preferisca riconoscere come i più grandi ladri siano i più ricchi.Un povero, quando ruba, non commette che un peccatucolo per sopravvivere e per necessità. I ricchi sono quelli che rubano al fisco, alle dogane. Sono quelli che sfruttano il popolo. Signor presidente, non è quindi provocazione o spettacolo. Dico solo ciò che ognuno di noi pensa e vorrebbe. Chi non vorrebbe, qui, che il debito fosse semplicemente cancellato? Quelli che non lo vogliono possono subito uscire, prendere il loro aereo e andare dritti alla Banca Mondiale a pagare! Non vorrei poi che si prendesse la proposta del Burkina Faso come fatta da “giovani”, senza maturità ed esperienza. Non vorrei neanche che si pensasse che solo i rivoluzionari parlano in questo modo. Vorrei semplicemente che si ammettesse che è una cosa oggettiva, un fatto dovuto. E posso citare, tra quelli che dicono di non pagare il debito, dei rivoluzionari e non, dei giovani e degli anziani. Per esempio Fidel Castro ha già detto di non pagare. Non ha la mia età, anche se è un rivoluzionario. Ma posso citare anche François Mitterrand, che ha detto che i paesi africani non possono pagare, i paesi poveri non possono pagare. Posso citare la signora primo ministro di Norvegia. Non conosco la sua età e mi dispiacerebbe chiederglielo, è solo un esempio.Vorrei anche citare il presidente Félix Houphouët Boigny. Non ha la mia età, eppure ha dichiarato pubblicamente che, quanto al suo paese, la Costa d’Avorio, non può pagare. Ma la Costa d’Avorio è tra i paesi che stanno meglio in Africa, almeno nell’Africa francofona. E per questo, d’altronde, è normale che paghi un contributo maggiore, qui. Signor presidente, la mia non è quindi una provocazione. Vorrei che molto saggiamente lei ci offrisse delle soluzioni. Vorrei che la nostra conferenza adottasse la risoluzione di dire chiaramente che noi non possiamo pagare il debito. Non in uno spirito bellicoso, bellico. Questo per evitare di farci assassinare individualmente. Se il Burkina Faso da solo rifiuta di pagare il debito, io non sarò qui alla prossima conferenza! Invece, col sostegno di tutti, di cui ho molto bisogno, col sostegno di tutti potremo evitare di pagare. Ed evitando di pagare potremo consacrare le nostre magre risorse al nostro sviluppo.E vorrei terminare dicendo che ogni volta che un paese africano compra un’arma, è contro un africano. Non contro un europeo, non contro un asiatico. E’ contro un africano. Perciò dobbiamo, anche sulla scia della risoluzione sul problema del debito, trovare una soluzione al problema delle armi. Sono militare e porto un’arma. Ma, signor presidente, vorrei che ci disarmassimo. Perché io porto l’unica arma che possiedo. Altri hanno nascosto le armi che pure portano. Allora, cari fratelli, col sostegno di tutti, potremo fare la pace a casa nostra. Potremo anche usare le sue immense potenzialità per sviluppare l’Africa, perché il nostro suolo e il nostro sottosuolo sono ricchi. Abbiamo abbastanza braccia e un mercato immenso, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Abbiamo abbastanza capacità intellettuali per creare, o almeno prendere la tecnologia e la scienza in ogni luogo dove si trovano.Signor presidente, facciamo in modo di realizzare questo fronte unito di Addis Abeba contro il debito. Facciamo in modo che, a partire da Addis Abeba, decidiamo di limitare la corsa agli armamenti tra paesi deboli e poveri. I manganelli e i machete che compriamo sono inutili. Facciamo in modo che il mercato africano sia il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa, consumare in Africa. Produciamo quello di cui abbiamo bisogno e consumiamo quello che produciamo, invece di importarlo. Il Burkina Faso è venuto a mostrare qui la cotonella, prodotta in Burkina Faso, tessuta in Burkina Faso, cucita in Burkina Faso per vestire i burkinabé. La mia delegazione e io stesso siamo vestiti dai nostri tessitori, dai nostri contadini. Non c’è un solo filo che venga d’Europa o d’America. Non faccio una sfilata di moda, ma vorrei semplicemente dire che dobbiamo accettare di vivere africano. E’ il solo modo di vivere liberi e degni.(Thomas Sankara, estratto dal “discorso sul debito” pronunciato al vertice panafricano di Addis Abeba, Etiopia, il 29 luglio 1987. Un anno dopo, il 28 ottobre, Sankara verrà assassinato a Ouagadougu, capitale del Burkina Faso, che quattro anni prima aveva liberato, con la sua rivoluzione, dal colonialismo francese. Il presidente dell’Organizzazione per l’Unità Africana, cui Sankara si rivolge nel discorso, è il congolese Denis Sassou-Nguesso, mentre la citata premier norvegese è Gro Harlem Brundtland, progressista e ambientalista. Riletto oggi, il celebre discorso di Sankara – martire socialista della sovranità democratica dell’Africa – è particolarmente illuminante, di fronte alla tragedia quotidiana dell’esodo dei migranti africani).Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici – anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”. Un termine che si usa ogni giorno, come se ci fossero degli uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più.
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Twin Towers, esplosivi: le prove. Ma l’America non le vuole
Le torri del World Trade Center di New York non sarebbero state distrutte dall’impatto di due aerei di linea, ma da un’operazione di “demolizione controllata”, condotta con esplosivi militari a base di nano-termite. Un’accusa pesantissima, che costringe a rileggere sotto una nuova e drammatica luce l’attentato dell’11 Settembre 2001, confermando i sospetti iniziali sull’assoluta inattendibilità della versione ufficiale. A muoverla è l’associazione americana no-profit “Architects & Engineers for 9/11 Truth”, architetti & ingegneri per la verità sull’11 Settembre. E’ costituita dai 2.363 architetti e ingegneri statunitensi che nell’autunno 2016 hanno firmato una petizione indirizzata al Congresso Usa per riaprire una vera investigazione indipendente sulla distruzione del World Trade Center. Lo ricorda Rino Di Stefano in un’accurata ricostruzione, sul suo blog, del maxi-attentato di New York che ha innescato le guerre in Afghanistan e in Iraq, seguite dai conflitti a catena in Libia e Siria, in cui la sigla terroristica iniziale, Al-Qaeda, ha lasciato il posto alla sua filiazione diretta, Isis, in una spirale di violenza e orrore che, da allora, ha giustificato l’impiego sistematico di eserciti, impensabile prima dell’11 Settembre.Gli “Architects & Engineers for 9/11 Truth”, ricorda Di Stefano, hanno inviato un dettagliato report (“Oltre la disinformazione”) a oltre 20.000 americani: professionisti, professori, legislatori e giornalisti. L’autore del dossier è Ted Walter, alla guida di un team dal curriulum ragguardevole: tra i membri Sarah Chaplin, architetto (università londinese di Kingston), Mohibullah Durrani (docente di ingegneria e fisica al Montgomery College del Maryland), Richard Gage (fondatore dell’associazione per la verità sull’11 Settembre), Robert Korol e Graeme McQueen (Università McMaster dell’Ontario), più l’architetto Roberto McCoy e l’ingegnere Oswald Rendon-Herrero, docente dell’Università Statale del Mississippi. «Secondo la versione ufficiale rilasciata dal governo Bush – ricorda Di Stefano – le Torri Gemelle del World Trade Center di New York (entrambe di 110 piani per un’altezza di 415 metri) sono crollate a causa dell’impatto, e del conseguente incendio, provocato da due aerei di linea nel corso di un attentato portato a termine da un gruppo di terroristi mediorientali. Inoltre, anche la terza Torre, chiamata Wtc 7, un edificio di 47 piani alto 174 metri, sarebbe crollata simmetricamente su se stessa nel pomeriggio di quel giorno, in seguito all’incendio provocato dai detriti della Torre 1».Ebbene, questa soluzione non viene accettata, in quanto definita “non scientifica”, da buona parte degli architetti e degli ingegneri americani. «Questi esperti dell’edilizia dichiarano, infatti, che le tre torri siano state fatte crollare in seguito ad un’accurata operazione di demolizione controllata provocata dalla disposizione di esplosivi e altri dispositivi, fatti detonare al momento opportuno per far crollare le strutture nel modo desiderato». Non solo. «L’associazione degli Architetti & Ingegneri – continua Di Stefano – dice chiaramente che l’operazione sarebbe stata preparata prima dell’11 Settembre da specialisti della demolizione che hanno avuto libero accesso alle torri nei giorni precedenti l’attentato». L’analisi offerta è esclusivamente scientifica. La storia del crollo di edifici a completa struttura metallica (come le Torri Gemelle) è lunga almeno cento anni: durante questo periodo, non si è mai verificato che un edificio di quel genere fosse crollato a causa di un incendio. Tutti, infatti, sono stati abbattuti nel corso di operazioni di demolizione controllata. Nonostante questo dato di fatto, il Nist (National Institute of Standards and Technology), incaricato dal governo Bush di indagare sul disastroso attentato, nei risultati della sua indagine ufficiale ha scritto che ha trovato 22 casi di incendio che tra il 1970 e il 2002 hanno portato al crollo di altrettanti palazzi.Di questi 22 casi, 15 furono crolli parziali, dei quali cinque superavano i 20 piani di altezza. Analizzando invece ogni singolo caso, prosegue Di Stefano, lo studio accertò che soltanto in quattro casi si verificò un totale crollo dell’edificio interessato all’incendio, ma nessuno di questi aveva una struttura metallica, e il più alto era di appena 9 piani. «Vennero fatti anche diversi test presso il Building Research Establishment (Bre) Laboratories di Cardington, in Inghliterra, ma in nessun caso risultò che edifici con una struttura metallica potessero crollare completamente a causa di un incendio, per quanto devastante». La probabilità che un’evenienza di questo tipo potesse accadere, venne scritto, era “extremely low” (estremamente bassa). «Se poi si confrontano gli effetti di un crollo dovuto ad incendio rispetto ad un crollo da demolizione controllata, le differenze saltano agli occhi. Nel primo caso, infatti, il collasso dell’edificio è sempre parziale e si ferma ai piani inferiori. In una demolizione controllata, invece, il collasso è totale, avviene in pochi secondi e la caduta è libera, con una discesa simmetrica sul proprio asse».C’è poi il discorso delle esplosioni, sottolinea Di Stefano: mentre un crollo da incendio, se mai si dovesse verificare un’esplosione, avverrebbe là dove le fiamme si sono sviluppate, «nel crollo da demolizione controllata le esplosioni si vedono chiaramente piano per piano, all’esterno dell’edificio: ed è quello che è accaduto nelle Torri Gemelle». La probabilità di un incendio che possa aver causato il crollo totale di un edificio molto alto con una struttura metallica è estremamente basso, sostengono gli “Architetti & Ingegneri”. «Un evento di questo genere non è mai accaduto prima dell’11 Settembre 2001. D’altra parte, nella storia, ogni crollo totale di un edificio molto alto a struttura metallica, è stato causato da demolizione controllata». Secondo punto: un incendio che induce un cedimento delle strutture, di fatto, non mostra alcuna delle caratteristiche di una demolizione controllata. Inoltre, come può essere visto in ciò che è accaduto l’11 Settembre 2001, la distruzione di Wtc 1, Wtc 2 e Wtc 7 mostra «quasi tutte le caratteristiche della demolizione controllata e nessuna caratteristica del collasso provocato da un incendio». Aggiunge Edward Munyak, ingegnere specializzato in misure anti-incendio: «Un collasso globale progressivo potrebbe anche essere straordinario. Ma averne tre in un giorno va oltre ogni comprensione».Buio pesto dalle indagini ufficiali: «Per oltre un anno dal disastro, il governo Bush ha impedito qualunque investigazione su quanto accadde quel giorno», premette Di Stefano. Prima del Nist, le indagini ufficiali erano state condotte dalla Fema (Federal Emergency Management Agency). «Il primo a parlare di bombe situate all’interno delle Torri Gemelle fu l’ingegner Ronald Hamburger della Asce (American Society of Civil Engineers), che collaborava con la Fema». Tuttavia, Hamburger «si rimangiò i propri dubbi quando gli venne detto che nessuno aveva sentito esplosioni nei pressi delle Torri Gemelle». Non fu il solo a smentire la propria prima impressione: Van Romero, un esperto di esplosivi della New Mexico Tech, rilasciò un’intervista al quotidiano “Albuquerque Journal” sostenendo: «Il crollo dei palazzi è stato troppo ordinato per essere il risultato fortuito dell’impatto di aeroplani contro le strutture». E aggiunse: «La mia opinione, basata su quanto ho visto nei filmati, è che dopo che gli aerei hanno colpito il World Trade Center, ci siano stati dei congegni esplosivi dentro i palazzi che hanno causato il crollo delle torri».Il 21 settembre, dopo aver parlato con non meglio identificati “ingegneri strutturali”, Romero ritrattò tutto. Il fatto è che il fuoco dell’incendio doveva essere ufficialmente la causa del disastro, spiega Di Stefano. I dubbi, però, non mancavano. Il 29 novembre del 2001 William Baker, uno degli ingegneri della Fema, rilasciò al “New York Times” la seguente affermazione: «Noi sappiamo che cosa è accaduto alle Torri 1 e 2, ma perché la 7 è venuta giù?». Come scrissero i cronisti James Glanz ed Eric Lipton del “New York Times”, per mesi dopo l’11 Settembre gli investigatori non riuscirono a ottenere i progetti dettagliati degli edifici crollati, ad ascoltare i testimoni del disastro, a fare ispezioni a Ground Zero e ad ascoltare le voci registrate della gente che era rimasta intrappolata all’interno delle torri. Inoltre, la Fema «impedì che gli investigatori si rivolgessero al pubblico per ottenere fotografie e video che avrebbero potuto aiutarli nelle indagini».Un comportamento “incomprensibile”, da parte del governo. «Gli investigatori non riuscirono neppure a prelevare campioni dei detriti delle Torri in quanto, con una fretta sospetta, le migliaia di tonnellate di macerie vennero prelevate, caricate su alcune navi e inviate in Cina e in India per essere smaltite». Così, il 1° maggio 2002, la Fema presentò un dossier preliminare «nel quale non forniva una spiegazione definitiva per la distruzione di ogni singolo edificio», preferendo proporre la cosiddetta “teoria pancake”. Ovvero: le singole solette di cemento dei vari piani superiori, colpiti dall’aereo, sarebbero crollate sul piano inferiore determinando un effetto domino. «Il punto, però, è che il piano sottostante in condizioni normali avrebbe resistito all’impatto», obiettano i tecnici indipendenti. Se non è accaduto, «è perché è venuta meno la forza della sua resistenza». In altre parole, sintetizza Di Stefano, «quando un piano crollava su quello inferiore, alcune cariche esplosive distruggevano le colonne portanti di quella seconda soletta, innescando un effetto a catena».Il Nist si è fermato alla “teoria del pancake”, mentre per il terzo edificio, il Wtc 7, se l’è cavata sostenendo di non aver notato «alcuna prova» che il crollo dell’Edificio 7 sia stato «causato da bombe, missili o demolizione controllata». Ultimo verdetto nell’agosto 2008: edificio crollato anch’esso a causa del fuoco. A smentire il Nist è un libro firmato da due ricercatori, Frank Legge e Anthony Szamboti, il cui libro è intitolato, esplicitamente “9/11 and the Twin Towers: Sudden Collapse Initiation was Impossible”, cioè “Torri Gemelle, l’inizio del crollo repentino era impossibile”. Sostengono gli autori: «Un lento, prolungato e cedevole collasso non è stato osservato». Lo confermano i video: «La sezione più alta improvvisamente ha iniziato a cadere e a disintegrarsi». Un punto di vista tecnico largamente condiviso nel dossier degli “Architetti & Ingegneri”. Il governo sostiene che le colonne portanti delle torri si sarebbero deformate diversi minuti prima del crollo? I tecnici indipendenti smentiscono: non si sono visti affatto gli «inconfondibili segni d’avvertimento» e le «grandi deformazioni» che ci si aspetterebbe prima di un crollo.Se questo processo è avvenuto, scrivono i professionisti, allora è stato invisibile. Ed è avvenuto nel singolo istante in cui le strutture sono crollate. Secondo Kevin Ryan, un ex direttore della Underwriters Laboratories, «la diffusione dell’instabilità avrebbe richiesto molto più tempo e non risulterebbe nella caduta libera delle sezioni superiori sulle strutture inferiori». Il Nist, ricorda Di Stefano, afferma che il Wtc 1 è crollato in appena 11 secondi, mentre la Torre 2 in 9 secondi. Sempre il Nist afferma che la “caduta libera” delle Torri Gemelle è dimostrata dai video, in quanto «i piani inferiori al livello del crollo hanno offerto una minima resistenza alla tremenda energia rilasciata dalla massa dell’edificio che stava cadendo». Per gli scienziati indipendenti, autori di un primo esposto insieme a familiari delle vottime, le motivazioni del Nist «non erano scientificamente valide». L’autorità non avrebbe affatto spiegato le cause tecniche: che cosa è realmente accaduto, e perché. In altre parole, come poi lo stesso Nist fu costretto ad ammettere, gli esperti del governo «non erano in grado di fornire una spiegazione completa del crollo totale».Un’altra osservazione che mette in forte dubbio i risultati del Nist, continua Di Stefano nella sua ricostruzione, riguarda l’assoluta mancanza di decelerazione durante il crollo delle torri. «Una mancanza di decelerazione – riporta il dossier – indicherebbe con assoluta certezza che la struttura inferiore è stata distrutta da un’altra forza, prima che la parte superiore la raggiungesse». Il primo studio a mettere in dubbio i risultati ufficiali (“Il colpo mancante”) è stato firmato da Anthony Szamboti, ingegnere meccanico, e Richard Johns, professore di filosofia della scienza. La tesi: il Nist aveva calcolato male la resistenza delle colonne all’interno delle Torri Gemelle. Successivi studi hanno accertato che «la costante accelerazione e la mancanza di una osservabile decelerazione, per se stesse, costituiscono una irrefutabile evidenza che siano stati usati esplosivi per distruggere le Torri Gemelle». Inoltre, una delle caratteristiche più evidenti della distruzione delle Twin Towers è stata la quasi totale polverizzazione del cemento. L’allora governatore di New York, George Pataki, scrisse nella sua relazione sul disastro: «Non c’è cemento. C’è veramente poco cemento. Tutto quello che si vede è alluminio e acciaio. Il cemento è stato polverizzato».Oltre a questo, continua Di Stefano, le strutture d’acciaio delle torri erano quasi interamente smembrate. A parte alcuni muri esterni ancora in piedi alla base di ogni edificio, virtualmente tutti gli scheletri d’acciaio erano rotti in diversi pezzi, con la parte centrale separata dalle colonne esterne. «Che cosa potrebbe mai spiegare la quasi totale polverizzazione di circa 3 milioni di metri quadrati di solette di cemento e il quasi totale smembramento di 220 piani di struttura d’acciaio? Il Nist non fornisce alcuna spiegazione e la sola forza di gravità non appare plausibile. Anche perché, viene spiegato nel dossier, l’energia necessaria per polverizzare il cemento e smembrare le strutture d’acciaio è calcolabile in 1.255 gigajoule. Una misura decisamente lontana dagli stimati 508 gigajoule di potenziale energia gravitazionale contenuta negli edifici». L’enorme nuvola di cemento polverizzato che ha sommerso Manhattan «diventa ancora più incomprensibile se si pensa che il crollo è avvenuto “essenzialmente in caduta libera”». Secondo il dottor Steven Jones, ex professore di fisica presso la Brigham Young University, «il paradosso è facilmente risolvibile con l’ipotesi della demolizione esplosiva, là dove gli esplosivi facilmente rimuovono i materiali dei piani inferiori, incluse le colonne portanti, permettendo di fatto un crollo in caduta libera».Altro fattore “inspiegabile”, il lancio di materiali verso l’alto e lateralmente, piuttosto distanti dal perimetro degli edifici. Secondo la Fema, i materiali dei due edifici sono stati lanciati fino a oltre 150 metri dalla base di ogni torre. In video prodotto dal fisico David Chandler, si nota l’espulsione esplosiva di materiali dalla Torre 1, «continui e molto estesi», anche alla velocità di 170 chilometri orari. «Il palazzo – afferma – è stato progressivamente distrutto, a partire dalla cima, da ondate di esplosioni che hanno creato una spessa coltre di detriti». E aggiunge: «Insieme alla nuvola di polvere vi sono pesanti travi e intere sezioni di frammenti d’acciaio che sono stati lanciati fuori dal palazzo: alcuni sono finiti così lontano, come due campi di football dalla base della torre». A chi sostiene che l’espulsione “esplosiva” di quei frammenti sia stata un semplice prodotto del crollo, il professor Chandler risponde: «Non abbiamo visto isolate travi lanciate all’esterno. Noi abbiamo visto la maggior parte della massa dell’edificio ridotta in piccoli pezzi di pietrisco e polvere fina, espulsa esplosivamente in tutte le direzioni».Secondo lo scienziato Kevin Ryan, l’espulsione esplosiva dei materiali dalle Torri Gemelle è spiegabile soltanto come «scoppi ad alta velocità di detriti espulsi da precisi punti degli edifici». L’ipotesi della demolizione, afferma Ryan, «suggerisce che questi scoppi di detriti siano il risultato della detonazione di cariche esplosive piazzate in punti chiave della struttura, per facilitare la rimozione della resistenza». E specifica: «Ognuno di questi scoppi era costituito da un’improvvisa e secca emissione che appariva provenire da un preciso punto, espellendo approssimativamente tra i 15 e i 30 metri dal lato del palazzo, in una frazione di secondo». Dai fotogrammi estratti da un video, «possiamo stimare che uno di questi scoppi è durato complessivamente 0,45 secondi: questo ci fornisce una velocità media di circa 52 metri al secondo». Rileva Di Stefano: «E’ significativo che il Nist non abbia nemmeno parlato di questi scoppi nella sua relazione finale, mentre nelle sue “Faq” cita gli scoppi come “sbuffi di fumo”, sostenendo che “la massa crollante del palazzo aveva compresso l’aria sottostante – quasi come l’azione di un pistone – forzando il fumo e i detriti fuori dalle finestre mentre i piani inferiori crollavano sequenzialmente».Secondo Ryan, la spiegazione del Nist non è valida. «I piani delle torri – sostiene lo scienziato – non erano containers chiusi e altamente pressurizzati in grado di generare alte pressioni abbastanza forti da far scoppiare le finestre. La massa crollante avrebbe dovuto agire come un disco piatto che esercita una pressione uniforme su tutti i punti. Ma le sezioni superiori, esse stesse disintegrate come si vede nei video, non possono esercitare una pressione uniforme». Anche prendendo in considerazione un ipotetico perfetto container e una pressione uniforme, usando la “Legge del Gas Ideale” per calcolare il cambiamento della pressione, «possiamo determinare che la pressione dell’aria non potrebbe aumentare abbastanza per far scoppiare le finestre». Tanto più che «gli scoppi contenevano detriti polverizzati, non fumo e polvere». Inoltre, «i detriti del palazzo da 20 a 30 piani sotto la zona del crollo, non potevano essere polverizzati ed espulsi lateralmente dalla pressione dell’aria».Oltre al ricco materiale fotografico e televisivo riguardante la distruzione delle Torri Gemelle, continua Rino Di Stefano, bisogna considerare anche il numero delle testimonianze raccolte dai vigili del fuoco (Fdny, New York Fire Department) nella loro relazione, più di 10.000 pagine di dichiarazioni giurate di oltre 500 pompieri. In più, come documentato dal dottor Graeme McQueen, ben 156 testimoni oculari hanno parlato esplicitamente delle esplosioni che hanno visto e sentito durante il crollo delle torri. Tra questi, 121 sono pompieri e 14 sono agenti della polizia portuale (Port Authority Police Department). Altri 13 sono giornalisti presenti sul posto. In caso di normali incendi, si registrano quattro tipi di esplosioni: da vapore, da impianti elettrici, da fumo e da combustione. I vigili del fuoco di New York «sanno riconoscere questi fenomeni, anche perché sono irregolari e certamente non sincronizzati». Invece, nel caso delle Torri Gemelle, «i testimoni hanno parlato di esplosioni precise e distanziate di pochi secondi l’una dall’altra», tanto che alcuni si sono spinti ad affermare che «le Torri Gemelle sono state distrutte dalle esplosioni».«Si è arrivati al punto che è infuriata una discussione sulla percezione che abbiamo avuto circa il fatto che il palazzo sembrava fosse stato fatto saltare in aria con delle cariche», racconta Cristopher Fenyo in un’intervista rilasciata al “Wtc Task Force”. «In effetti, ho pensato che stava esplodendo», ricorda John Coyle, un altro testimone: «Questo è ciò che ho pensato in seguito per diverse ore. Penso che chiunque a quel punto pensasse che quei palazzi fossero esplosi». Nonostante il Nist si ostini ad ignorare le testimonianze, sostenendo invece che non ci siano prove di esplosioni nelle Torri Gemelle, il professor McQueen, riferendosi alla relazione dei vigili del fuoco di New York, afferma: «Abbiamo avuto 118 testimoni su 503 intervistati. Circa il 23% del gruppo sono testimoni delle esplosioni. A mio avviso, questa è un’alta percentuale di testimoni, specialmente considerando che a queste persone non sono state rivolte domande circa le esplosioni e, nella maggior parte dei casi, neanche sono state poste domande circa il crollo delle torri». In conclusione, il dossier sostiene che il Nist, decidendo di non indagare a fondo su quelle che sono state le vere cause del crollo delle Torri Gemelle, ha condotto una “piccola analisi” sul comportamento tenuto dalle strutture edilizie, ignorando volutamente qualunque prova ne potesse derivare. Di conseguenza, il Nist non è riuscito a fornire convincenti prove scientifiche.Poi c’è il “mistero” del crollo, quasi simmetrico dell’Edificio 7, a parecchia distanza dalle due torri colpite dagli aerei. La terza torre, ricorda Di Stefano, è crollata su se stessa intorno alle 17 dell’11 settembre 2001, senza essere stata colpita da nessun jet o comunque coinvolta nel crollo delle altre due torri principali. Per il Nist, l’evento è normale e rientra nella logica delle cose. L’incendio si sarebbe esteso anche al terzo edificio del complesso, indebolendone le strutture e facendolo crollare. «Oltre alla spiegazione verbale, il Nist non ha fornito alcuna motivazione strutturale o scientifica». Secondo David Chandler, docente di fisica, questa spiegazione non regge. «La caduta libera – afferma – non è compatibile con qualunque scenario naturale che abbia a che fare con la debolezza, la deformazione o la frantumazione delle strutture, in quanto in ognuno di questi scenari ci sarebbero grandi forze di interazione con le sottostanti strutture, che avrebbero fatto rallentare la caduta… Il crollo naturale risultante da caduta libera, semplicemente non è plausibile». Per Chandler, il crollo del Wtc 7 è la prova lampante della demolizione controllata. Il Nist obietta: non vi fu vera “caduta libera”, poiché 18 piani dell’edificio sono crollati in 5,4 secondi, cioè con un margine del 40% più lungo (circa 1,5 secondi) rispetto al tempo stimato della caduta libera. Ma Chandler taglia corto: «Il crollo non è avvenuto per il cedimento di una colonna, o di alcune colonne o di una sequenza di colonne. Tutte le 24 colonne interne e le 58 perimetrali sono state rimosse simultaneamente nell’arco di otto piani e in una frazione di secondo. In questo modo la metà superiore dell’edificio è rimasta intatta».Così come le Torri Gemelle, anche la struttura metallica dell’Edificio 7 è stata completamente smembrata. E i detriti hanno formato un compatto cumulo di rifiuti lungo il perimetro del palazzo. Anche in questo caso, sospetta Di Stefano, lo smembramento dell’edificio si può spiegare soltanto con la demolizione controllata. Lo spiegava già nel 1996 Stacey Loizeaux, della Controlled Demolition Inc., azienda specializzata: i demolitori agiscono da due a sei piani, a seconda dell’altezza del palazzo, per colpire le colonne portanti e far crollare l’edificio su se stesso, riducendo anche la grandezza degli eventuali detriti. Inoltre, più che di “esplosione” si dovrebbe parlare di “implosione”, in quanto il palazzo deve crollare senza uscire dal proprio perimetro. Come, appunto, è accaduto nel caso del Wtc 7. Altra omissione del Nist, le testimonianze: l’agenzia governativa sostiene che non esistano, ma è smentita da svariati video. «Improvvisamente ho guardato verso l’alto e ho visto che il palazzo crollava su se stesso», racconta Craig Bartmer, ex agente della polizia di New York. «Ho cominciato a correre e per tutto il tempo ho sentito “thum, thum, thum, thum, thum”. Credo di riconoscerla, un’esplosione, quando la sento».Conferma un volontario, Kevin McPadden: «Abbiamo sentito delle esplosioni, come ba-booom! Era un suono distinto, ba-boom. Si poteva sentire un rombo nel terreno, come se ci si volesse aggrappare a qualcosa». La reporter televisiva Ashleigh Banfield della “Msnbc” era sul posto. Nel servizio in diretta a un certo punto si sente una forte esplosione e lei dice: «Oh, mio Dio… Ci siamo». Circa 7 secondi dopo, il Wtc 7 è crollato. E appena un’ora dopo la distruzione delle Torri Gemelle, le autorità hanno cominciato a parlare del crollo dell’Edificio 7 con un alto grado di sicurezza e di precisione. «Le loro anticipazioni erano talmente certe – scrive Di Stefano – che alcuni giornali hanno scritto del crollo del Wtc 7 ancora prima che avvenisse». Una previsione azzeccata? Non esattamente: «Quando i filmati video furono esaminati con calma, ci si accorse che la notizia era basata su una precisa conoscenza dei fatti. Dal momento che gli ingegneri si definivano sbalorditi per quanto era accaduto al Wtc 7, come facevano le autorità a “predire” un evento che neanche gli ingegneri sapevano spiegarsi quattro anni e mezzo dopo?». Del resto, aggiunge Di Stefano, «ci sono prove inconfutabili di esplosioni avvenute nell’edificio: durante una ripresa televisiva, la “Cnn” ha registrato l’inconfondibile suono di un’esplosione proveniente dal Wtc 7 e l’urlo di un operaio che avvertiva come l’edificio “stava esplodendo”, pochi secondi prima del crollo. Nonostante tutto questo, il Nist si è rifiutato di prendere in considerazione qualunque prova».Secondo la Nfpa 921, cioè la guida ufficiale americana le cui norme devono essere seguite in caso di indagini inerenti eventuali incendi o esplosioni, è necessario valutare tutte le possibili fonti per accertare le cause dei disastri sui quali si indaga. Una di queste fonti, da prendere in considerazione nell’eventualità di fusione dell’acciaio, è la termite. Si tratta – spiega Di Stefano – di una miscela esplosiva altamente incendiaria, a base di polvere di alluminio e triossido di ferro, in grado di sciogliere istantaneamente l’acciaio. Normalmente, la termite viene usata per saldare i binari e per usi militari (all’interno delle granate). «Ebbene, per evitare di parlare della termite nel caso dell’11 Settembre, il Nist si è rifiutato di adottare la consueta procedura della Nfpa 921», secondo “Architetti e Ingegneri” «negando, ignorando o accampando spiegazioni di carattere speculativo, non basate su analisi di tipo scientifico». E questo, afferma il dossier, «in quanto non esiste alcuna plausibile e logica spiegazione della presenza di reazioni chimiche ad alta temperatura, se non quella di una demolizione controllata, usando meccanismi a base di termite».Secondo il Nist, i rivoli di metallo fuso che fuoriuscivano già dalla Torre 2 prima del crollo totale, erano di alluminio fuso. «C’è un problema, però. Come si vede distintamente dai video sul disastro di New York, i rivoli di metallo fuso che fuoriuscivano dalle Torri Gemelle erano di un giallo-fuoco brillante, mentre l’alluminio fuso è di colore argenteo». Come spiega il dottor Steven Jones nel suo “Why Indeed Did the Wtc Buildings Completely Collapse” (Perché davvero gli edifici del Wtc sono completamente crollati), «il color giallo implica un metallo fuso con una temperatura approssimativa di 1000 °C, evidentemente al di sopra di quella che l’incendio da idrocarburi avvenuto all’interno delle Torri avrebbe potuto produrre». Inoltre, «il fatto che il metallo liquido tendesse ad una sfumatura color arancio in prossimità del terreno esclude ulteriormente la presenza di alluminio». Non appena si è reso conto che la sua posizione era indifendibile, il Nist ha cercato di correre ai ripari sostenendo che «il color arancio era dovuto al fatto che l’alluminio liquido si era mescolato con solidi materiali organici, cambiando colore». Ma Jones smentisce categoricamente: «L’alluminio fuso non altera affatto il suo colore».A complicare la situazione, ci sono altre testimonianze. Leslie Robertson, uno dei progettisti delle Torri Gemelle, racconta: «Eravamo al livello B-1 e uno dei vigili del fuoco ha detto: “Credo che questo dovrebbe interessarvi”. E ci ha mostrato un grosso blocco di cemento sul quale scorreva un piccolo rivo di acciaio fuso». Ma non è l’unico testimone. Il capitano Philip Ruvolo ricorda la scena a cui assistette insieme ad altri vigili del fuoco: «Se guardavi sotto, vedevi acciaio fuso, acciaio fuso che scorreva giù, lungo i canali delle inferriate, come se fossimo stati in una fonderia, come lava». Secondo il Nist, il più alto grado di temperatura raggiunto nelle Torri in fiamme è stato di 1.100 gradi. Ma l’acciaio delle strutture non comincia a fondere con meno di 1.482 gradi. Come si spiega, dunque, la presenza del metallo fuso? «Il Nist semplicemente non risponde, ignorando il problema». Altro guaio: come riportato da James Glanz e Eric Lipton sul “New York Times” già nel febbraio del 2002, i detriti delle Torri Gemelle (analizzati dal Worcester Polytechnic Institute) hanno rivelato la presenza di residui di zolfo combinatosi con l’acciaio, «formando un composto che si scioglie a temperature più basse». Com’era potuto accadere? La risposta, per Steven Jones, sta proprio nella termite, l’esplosivo della demolizione controllata: quel composto infiammabile, dice, «viene prodotto quando lo zolfo è aggiunto alla termite, e questo fa in modo che l’acciaio fonda a una temperatura molto più bassa e più velocemente, grazie alla solforazione e all’ossidazione dell’acciaio attaccato».Ancora una volta, aggiunge Di Stefano, il Nist ha ignorato l’evidenza, rispondendo che di fatto non era più possibile analizzare rottami di acciaio provenienti dall’Edificio 7, in quanto tutti i detriti erano stati portati via da un pezzo, già all’inizio delle indagini. La situazione si aggrava ulteriormente, con vari studi tecnici: il primo, “The Rj Lee Report” (maggio 2004), rileva nella polvere «sfere di ferro e vescicole di particelle di silicio», prodotte a temperature altissime. Il microscopio elettronico ha individuato «sferette di ferro» nella polvere della Torre 2 (“The Usgs Report, prodotto nel 2005 dall’Us Geological Survey). Un terzo studio, del 2008, prodotto da otto scienziati, ha confermato la presenza di sfere di ferro, più silicati e sfere disciolte di molibdeno, materiale che fonde a 2.623 gradi. Ma le sorprese non sono finite, continua Di Stefano. Nell’aprile del 2009, un gruppo di scienziati guidati dal dottor Niels Harrit, un esperto di nano-chimica che ha insegnato per oltre 40 anni all’Università di Copenaghen, ha pubblicato sulla rivista internazionale “Open Chemical Physics Journal” un articolo che denuncia la presenza di “materiali termitici attivi” scoperti nella polvere della catastrofe dell’11 Settembre. «Questo studio ha rivelato la presenza di nano-termite (e cioè una specie di termite esplosiva progettata a livello di nano-particelle) nella polvere seguita al disastro».I campioni da analizzare furono prelevati in due riprese: il primo venti minuti dopo il crollo del Wtc 1, gli altri due nel giorno successivo. Lo studio giunse alla conclusione che i grattacieli di Mahnattan, le due Torri Gemelle più l’Edificio 7, «furono tutti distrutti da demolizione controllata e altri materiali incendiari». Inutile dire che, anche questa volta, le autorità hanno ignorato i ricercatori indipendenti. «In tutti i modi il Nist ha provato a ribattere alla pioggia di critiche di chi portava prove e fatti a dimostrazione che le tre Torri siano state intenzionalmente distrutte con esplosivi», conclude Di Stefano. «Il problema è che, in realtà, non ci sono prove a supporto della teoria che gli incendi abbiano fatto crollare edifici a struttura metallica come quelli». Il Nist ha anche fornito modelli digitali per dimostrare le proprie tesi, «ma sono sempre mancate le prove scientifiche per poter affermare senza possibilità di dubbio che, in effetti, siano proprio stati gli incendi ad abbattere quei giganti della moderna edilizia e ad uccidere quasi tremila persone». Servirebbe una nuova indagine, ma c’è un problema a monte. Enorme: «L’americano medio non può e non vuole accettare l’idea che il proprio governo sia implicato in un atto criminale di quelle proporzioni». L’unica certezza è che le 2.974 vittime degli attentati (2.999 se si calcolano anche quelle morte in seguito) restano ancora in attesa di giustizia: di fronte all’America, e all’umanità intera.Le torri del World Trade Center di New York non sarebbero state distrutte dall’impatto di due aerei di linea, ma da un’operazione di “demolizione controllata”, condotta con esplosivi militari a base di nano-termite. Un’accusa pesantissima, che costringe a rileggere sotto una nuova e drammatica luce l’attentato dell’11 Settembre 2001, confermando i sospetti iniziali sull’assoluta inattendibilità della versione ufficiale. A muoverla è l’associazione americana no-profit “Architects & Engineers for 9/11 Truth”, architetti & ingegneri per la verità sull’11 Settembre. E’ costituita dai 2.363 architetti e ingegneri statunitensi che nell’autunno 2016 hanno firmato una petizione indirizzata al Congresso Usa per riaprire una vera investigazione indipendente sulla distruzione del World Trade Center. Lo ricorda Rino Di Stefano in un’accurata ricostruzione, sul suo blog, del maxi-attentato di New York che ha innescato le guerre in Afghanistan e in Iraq, seguite dai conflitti a catena in Libia e Siria, in cui la sigla terroristica iniziale, Al-Qaeda, ha lasciato il posto alla sua filiazione diretta, Isis, in una spirale di violenza e orrore che, da allora, ha giustificato l’impiego sistematico di eserciti, impensabile prima dell’11 Settembre.
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Sono pazzi, dicono ancora che l’Ue si possa democratizzare
Mettetevelo in testa: l’Unione Europea è finita, non è riformabile. E’ la sintesi che fornisce Carlo Formenti su “Micromega”, commentando il numero di maggio-giugno della rivista “Il Ponte”, intitolato “Un’altra Europa”, con 10 mini-saggi firmati da autori come Ernesto Screpanti, Luciano Vasapollo, Giorgio Cremaschi nonché Marco Baldassari, Diego Melegari e Stefano Zai. Fine dell’illusione riformista, nessuna possibile «evoluzione democratica delle istituzioni comunitarie». Tesi scolpite nel marmo: la natura dell’Ue è «costitutivamente oligarchica». Peggio: «Principi e valori dell’ordoliberalismo tedesco ne ispirano il progetto». C’è ormai una «presa d’atto della natura neocoloniale della relazione fra Germania e paesi dell’area mediterranea e dell’Est europeo». Tutti concordi sulla «necessità di rompere con la Ue e di dare avvio a processi alternativi di aggregazione fra paesi periferici». Sbagliato, scrive Formenti, considerare “un errore” la politica economica europea «nel ritorno al dogma dello Stato minimo, tipico del liberismo classico». Sbagliato pensare «che tale errore sia correggibile attraverso il ritorno a politiche neokeynesiane». Con Brxelles la partita è persa, resta solo la fuga.Si insiste sul fatto che la visione ordoliberale, adottata fin dalle origini dalla Germania postbellica, nega la capacità del mercato di autoregolarsi e affida allo Stato – uno Stato forte, dunque – il ruolo di definire un quadro giuridico istituzionale, una vera e propria “costituzione economica”, nel quale i fattori economici possano esplicarsi correttamente (stabilità dei prezzi, protezione della concorrenza da sostegni pubblici e interventi “lobbistici” dei corpi intermedi come i sindacati). La politica non deve dunque compensare gli effetti del mercato (di qui l’obiettivo di smantellare il welfare) ma garantire il libero sviluppo di un’economia che – in quanto “economia sociale di mercato” – si presenta come un vera e propria utopia, una economia “morale” fondata su un mix di spirito imprenditoriale, valore comunitario e ordine sociale armonico. Questa funzione di governance, continua Formenti, non necessita di legittimazione, per cui le critiche alla scarsa democraticità delle istituzioni europee, o alla presunta incompletezza del processo di unificazione politica cadono letteralmente nel vuoto: «l’Unione non è uno stato federale “incompiuto”, bensì una superstruttura parastatale che ha il compito di gestire una governance multilivello». Una superstruttura «rispetto alla quale i trattati assumono valore costituzionale, funzionano come “una costituzione senza Stato e senza popolo”».Di fronte a questa realtà, «l’unico argomento che consente alle sinistre radicali di coltivare l’illusione riformista di poter democratizzare questa Europa è il dogma (fedele a una sorta di internazionalismo astratto che sconfina nel cosmopolitismo borghese) secondo cui il piano sovranazionale sarebbe l’unico sul quale è possibile rappresentare gli interessi delle classi subalterne», osserva Formenti. Altro argomento, la relazione semicoloniale fra la Germania e gli altri paesi, mediterranei e dell’Est, «imposta dai rapporti di forza fra grandi potenze in conflitto reciproco sul mercato globale». Il processo di globalizzazione è stato a lungo trainato «dalla sostanziale convergenza di interessi fra Stati Uniti e Cina: da un lato, la politica americana di espansione della domanda aggregata che alimentava la crescita di consumi, investimenti e importazioni gonfiando il debito pubblico e privato (e facendolo pagare agli altri paesi grazie all’egemonia del dollaro), dall’altro, il mercantislismo cinese che sfruttava la politica americana per alimentare i vertiginosi tassi di crescita del proprio surplus commerciale».La crisi, argomenta Screpanti, ha rotto questi equilibri, inducendo quasi tutti i paesi ad adottare forme di “mercantilismo difensivo” che tendono a rallentare lo sviluppo, nella misura in cui rallentano la domanda mondiale di importazioni. Secondo Screpanti, non è tuttavia corretto parlare di “fine della globalizzazione”, in quanto il processo di internazionalizzazione delle grandi imprese prosegue, anche se entra in contraddizione con il nazionalismo dei grandi Stati. In questo contesto la Germania, «il cui modello di sviluppo è stato fin dall’inizio basto sulle esportazioni», tende ad accentuare ulteriormente la pressione sugli altri paesi dell’Unione, imponendo – come afferma Vasapollo – una divisione del lavoro «che assegna ai paesi mediterranei il ruolo di importatori, mentre trasferisce all’Est il sistema industriale per ridurre ulteriormente il costo del lavoro». Del resto, «il mito della convergenza delle economie nazionali dell’area Ue è tramontato da tempo, di fronte alla forbice che vede un Nord che cresce rapidamente grazie ai surplus commerciali opposto un Sud che cresce lentamente, ha elevati tassi di disoccupazione, debiti pubblici in aumento, bilanci commerciali in deficit e subisce un processo di deindustrializzazione».Ormai, continua Formenti, è evidente che l’euro «è lo strumento che ha consentito alla Germania di imporre ai soci di finanziare i suoi squilibri di bilancio (soprattutto dopo l’unificazione con l’Est), di costruire un nuovo proletariato industriale per le sue multinazionali e di esercitare un inedito colonialismo interno al polo europeo per sostenere le proprie ambizioni di potenza emergente a livello globale». Di fronte a questo scenario, «che rende irrealistico qualsiasi progetto di riforma di questa Europa», tutti gli articoli sostengono l’inevitabilità, per quelle forze politiche che intendano realmente rappresentare gli interessi delle classi subalterne, di lavorare per la rottura della Ue anche prendendo in considerazione l’ipotesi di un’uscita unilaterale (Italexit) del nostro paese – uscita che, scrive Screpanti, mentre rappresenterebbe un processo dirompente per tutta l’Unione, non deve farci dimenticare che implicherebbe un prezzo elevato da pagare. Tema che Vasapollo affronta da un altro punto di vista, sviluppando la prospettiva della costruzione di un’Europa dei popoli mediterranei in analogia all’alleanza politico-economica messa in atto alle rivoluzioni bolivariane in America Latina.Di taglio più politico l’articolo di Cremaschi, che affronta la crisi della globalizzazione dal punto di vista della perdita di consenso delle masse popolari nei confronti delle élite che hanno governato il processo negli ultimi decenni. «A causa della crisi, gli avanzi della ricchezza accumulata non hanno più potuto essere ridistribuiti, aggravando ulteriormente gli effetti di una “guerra di classe dall’alto” che già aveva falcidiato occupazione, salari e welfare, per cui non è un caso se la rivolta è partita proprio in quei paesi – Stati Uniti e Inghilterra, dove quasi mezzo secolo fa è iniziata la controrivoluzione liberista». Che poi questa rivolta abbia assunto connotati di destra (senza dimenticare tuttavia il caso Sanders), sia stata cioè egemonizzata da forze che affidano ogni soluzione a un leader, si concentrano esclusivamente sulla lotta alle caste corrotte e dirottano la rabbia popolare sui migranti, non toglie nulla al fatto che questo dissenso politico di massa sia il punto da cui è necessario partire per produrre qualsiasi cambiamento reale. Le sinistre radicali? Continuano ad allearsi «alle socialdemocrazie in via di estinzione», quando non sono «pienamente convertite al liberismo», e quindi «si autocondannano alla ininfluenza più assoluta». Meglio invece «misurarsi con “l’onda populista”», perché il vero problema ormai «non è se, ma come, usciremo dalla globalizzazione».Mettetevelo in testa: l’Unione Europea è finita, non è riformabile. E’ la sintesi che fornisce Carlo Formenti su “Micromega”, commentando il numero di maggio-giugno della rivista “Il Ponte”, intitolato “Un’altra Europa”, con 10 mini-saggi firmati da autori come Ernesto Screpanti, Luciano Vasapollo, Giorgio Cremaschi nonché Marco Baldassari, Diego Melegari e Stefano Zai. Fine dell’illusione riformista, nessuna possibile «evoluzione democratica delle istituzioni comunitarie». Tesi scolpite nel marmo: la natura dell’Ue è «costitutivamente oligarchica». Peggio: «Principi e valori dell’ordoliberalismo tedesco ne ispirano il progetto». C’è ormai una «presa d’atto della natura neocoloniale della relazione fra Germania e paesi dell’area mediterranea e dell’Est europeo». Tutti concordi sulla «necessità di rompere con la Ue e di dare avvio a processi alternativi di aggregazione fra paesi periferici». Sbagliato, scrive Formenti, considerare “un errore” la politica economica europea «nel ritorno al dogma dello Stato minimo, tipico del liberismo classico». Sbagliato pensare «che tale errore sia correggibile attraverso il ritorno a politiche neokeynesiane». Con Bruxelles la partita è persa, resta solo la fuga.
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A salvare la Russia è stato Andropov: il Kgb, cioè oggi Putin
Quando sta per arrivare la “fine del mondo”, c’è sempre qualcuno che la vede in anticipo. E in silenzio, dietro le quinte, prepara il “dopo”. Prendiamo l’Urss, crollata nel 1991. Colpa di Gorbaciov? No: la perestrojka fu un tentativo generoso ma tardivo, fuori tempo massimo. Tutti, al Cremlino, sapevano perfettamente che l’Unione Sovitica era finita: come sistema sociale non poteva più reggere. Il primo a saperlo era l’uomo che allevò Gorbaciov: Yurij Andropov, ininterrottamente a capo del Kgb dal lontano 1967. Proprio il potente servizio segreto era il migliore osservatorio della situazione: prima ancora che andasse a sostituire Breznev nel 1982 alla guida del paese, Andropov già sapeva che solo il Kgb avrebbe potuto impedire la catastrofe definitiva, il tracollo della Russia. Lo sostiene il filosofo Igor Sibaldi, di origine russa per parte di madre, autore di besteller come “I maestri invisibili”. Tre le sue fonti confidenziali anche un amico d’infanzia, ufficiale del Kgb. Non a caso, lo stesso Gorbaciov veniva dall’intelligence, ne era stato il direttore amministrativo. E chi è Vladimir Putin? Un ex colonnello del Kgb. «Ancora oggi, Putin rappresenta un potente network, di cui è il portavoce: è ancora l’ex Kgb a reggere il paese, dopo averne evitato il crollo».Lo ammette anche Giulietto Chiesa, autore di libri come “Roulette russa” e “Russia addio”, scritti durante la disastrosa epoca Eltsin, con la colossale svendita del paese a vantaggio del grande capitale americano, con la mediazione degli “oligarchi” cresciuti attorno al Cremlino. «Il vero iniziatore della perestrojka fu Jurij Andropov, cioè il Kgb, che era la parte più “informata dei fatti”», scrive Chiesa in una riflessione su “Megachip”. «Gorbaciov arrivò quando ormai la situazione era intenibile. Fece degli errori gravi? Sicuramente. Si fidò dell’Occidente, che non conosceva abbastanza? Sicuramente. Ma il fatto incontestabile (se si vuole essere onesti nei confronti della realtà) è che l’Impero del Bene di reaganiana memoria aveva già conquistato le menti della grande maggioranza dei russi. E di quasi tutta l’intelligencija sovietica». L’alternativa concreta che si pose davanti a Gorbaciov, continua Chiesa, fu semplice e tragica: «Continuare così, fino al collasso (con il rischio che i cretini di ambo le parti tentassero la soluzione di forza, e sarebbe stata la fine del genere umano), oppure avviare i cambiamenti necessari». Non ha funzionato, come sappiamo. Ma incolpare solo Gorbaciov «significa oscurare del tutto il progetto di dominio mondiale che cominciò ad attuarsi in quegli anni e che oggi strangola tutti noi».In una conversazione registrata su YouTube, Sibaldi traccia un parallelo tra la crisi terminale dell’Unione Sovietica e l’attuale collasso del nostro sistema, fondato sul consumo di merci superflue: «Le crepe sono evidentissime, la situazione sta crollando. Non sappiamo più neppure chi siamo e cosa ci piace: sappiamo solo cosa dobbiamo dire che ci piace». Nei momenti difficili, aggiunge Sibaldi, conta l’individuo consapevole, che ha coscienza di sé e sente che sta cambiando l’aria, in modo irreversibile. «La domanda da porsi è: come ci si organizza, per il dopo? La Russia sovietica già negli anni ‘70 non aveva più futuro, ma i cittadini non lo volevano accettare: pensavano che l’Unione Sovietica sarebbe durata per sempre. A capire la situazione, con largo anticipo, fu il Kgb. Che, con Andropov, si organizzò per il “dopo” con larghissimo anticipo». Insiste Sibaldi: «Già negli anni ‘60, Andropov si era accorto che l’impero russo sarebbe crollato, inevitabilmente: non aveva speranza, un paese che diceva di essere comunista ma in realtà andava verso il nazismo, di mese in mese, con atrocità intollerabili». Era lucido, il capo del Kgb: «Ha pensato: lo Stato crolla, salvarlo è impossibile. E allora bisogna preparare un edificio a parte, che resista. E ha fatto quello che Isaac Asimov aveva scritto nei suoi romanzi di fantascienza: solo che, anziché su un altro pianeta, l’ha fatto in una struttura statale».Uno Stato nello Stato, in assoluta segretezza. «Poi il crollo è avvenuto, e l’unica cosa che è rimasta in piedi è stato proprio il Kgb, cioè quello che Andropov era riuscito a costruire. Non per niente, Putin è un colonnello del Kgb, non un generale: non è “il dittatore”, è l’espressione visiva di una struttura che è dietro di lui, e che è rimasta solidissima». Il fenomeno dei “nuovi ricchi” russi? E’ la dimostrazione di «processi sociali avviati in quel periodo, accuratamente progettati: la diffusione di un nuovo sistema di ricchezza, dall’alto, per “tener su” un popolo mentre lo Stato crolla». Una visione che coincide in parte con quella di Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni”, spesso molto critico di fronte agli entusiasmi dei “corifei” del nuovo Zar di Mosca. Magaldi rivela che Putin fu affiliato alla supermassoneria internazionale già nei primi anni ‘80, quando risiedeva in Germania Est: «Insieme ad Angela Merkel, che conosce personalmente da allora – ricorda Magaldi a “Colors Radio” – Putin fu accolto nella Ur-Lodge “Golden Eurasia”, non esattamente progressista». E’ al potere da troppo tempo e impedisce che la democrazia russia maturi pienamente? Vero. Ma, per contro – ammette Magaldi – Putin ha stabilizzato il paese, migliorando la vita dei russi. «E, altra cosa utile per l’equilibrio del mondo: è riuscito a riproporre la Russia come potenza». Nel segno del capostipite del network, il lungimirante Yurij Andropov.Quando sta per arrivare la “fine del mondo”, c’è sempre qualcuno che la vede in anticipo. E in silenzio, dietro le quinte, prepara il “dopo”. Prendiamo l’Urss, crollata nel 1991. Colpa di Gorbaciov? No: la perestrojka fu un tentativo generoso ma tardivo, fuori tempo massimo. Tutti, al Cremlino, sapevano perfettamente che l’Unione Sovitica era finita: come sistema sociale non poteva più reggere. Il primo a saperlo era l’uomo che allevò Gorbaciov: Yurij Andropov, ininterrottamente a capo del Kgb dal lontano 1967. Proprio il potente servizio segreto era il migliore osservatorio della situazione: prima ancora che andasse a sostituire Breznev nel 1982 alla guida del paese, Andropov già sapeva che solo il Kgb avrebbe potuto impedire la catastrofe definitiva, il tracollo della Russia. Lo sostiene il filosofo Igor Sibaldi, di origine russa per parte di madre, autore di besteller come “I maestri invisibili”. Tre le sue fonti confidenziali anche un amico d’infanzia, ufficiale del Kgb. Non a caso, lo stesso Gorbaciov veniva dall’intelligence, ne era stato il direttore amministrativo. E chi è Vladimir Putin? Un ex colonnello del Kgb. «Ancora oggi, Putin rappresenta un potente network, di cui è il portavoce: è ancora l’ex Kgb a reggere il paese, dopo averne evitato il crollo».
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Brancaccio: il liberismo razzia lo Stato e la sinistra applaude
Siamo giunti ad un sistema che alla luce del sole privatizza i profitti e socializza le perdite. I dati indicano che a livello mondiale, soprattutto in Occidente, dopo la recessione del 2008 si è registrata una quantità enorme di acquisti statali di partecipazioni azionarie in banche e imprese, per un valore addirittura superiore alle vendite di Stato che erano state realizzate nel decennio antecedente alla crisi. E’ un’inversione di tendenza che segna una cesura rispetto all’epoca delle privatizzazioni di massa. Siamo all’inizio di una nuova fase storica. Un tempo lo Stato acquisiva i mezzi di produzione per finalità strategiche di lungo periodo, talvolta anche in aperta competizione con il capitale privato. Oggi questo tipo di acquisizioni pure si verifica, ma è un fenomeno minoritario. La maggior parte degli interventi statali odierni rivela un livello senza precedenti di subalternità agli interessi privati dei principali operatori sul mercato azionario. Lo Stato infatti compra a prezzi più alti dei valori di mercato, assorbe le parti “malate” del capitale e poi rivende le parti “sane” prima di una nuova ascesa dei prezzi, in modo da sgravare i privati dalle perdite e predisporli a ulteriori guadagni.Potremmo dire che in questa fase, più che in passato, lo Stato è “ancella” del capitale privato, nel senso che asseconda i movimenti speculativi dei grandi proprietari, li soccorre quando necessario e ne assorbe le perdite. Questo ruolo dell’apparato pubblico è ormai apertamente riconosciuto ai massimi livelli del capitalismo mondiale, proprio per garantire la ripresa e la stabilizzazione dei profitti dopo la “grande recessione” del 2008. Nella grande maggioranza dei casi l’intervento dello Stato a favore dei capitali privati implica aumenti significativi del debito pubblico. In prospettiva si tratterà di capire se tali aumenti saranno fronteggiati tramite nuovi tagli al welfare oppure attraverso una stagione di “repressione finanziaria”, in cui il debito viene ridotto a colpi di controlli sui capitali e crescita dei redditi monetari e dell’inflazione rispetto ai tassi d’interesse. La scelta tra l’una e l’altra opzione sarà un bivio politico decisivo per i prossimi anni.Gli economisti liberisti continuano a sostenere che lo Stato rappresenta una zavorra, per il capitale privato? Poi però si affrettano a invocare il salvataggio pubblico quando qualche banca privata fallisce, e a ben guardare non si scandalizzano nemmeno quando lo Stato compra a prezzi alti e poi rivende a prezzi bassi qualche spezzone di capitale industriale. Il divario fra le loro teorie e le loro ricette si fa sempre più ampio. L’impresa pubblica può perseguire obiettivi di carattere sistemico, che sfuggono alla ristretta logica capitalistica del profitto. Inoltre, anche adottando criteri di valutazione puramente capitalistici, l’impresa pubblica si rivela più efficiente di quanto si immagini. Da una recente ricerca dell’Ocse effettuata sulle prime 2.000 aziende della classifica mondiale di “Forbes”, si evince che le imprese a partecipazione statale presentano un rapporto tra utili e ricavi significativamente maggiore rispetto alle imprese private e un rapporto tra profitti e capitale pressoché uguale. L’Italia non si discosta molto da queste medie internazionali.Bisognerebbe ricordare che al momento della privatizzazione dell’Iri, molti settori della holding pubblica segnavano ampi attivi, e che nel 1992 le perdite aggregate non si discostavano molto dalle perdite che all’epoca registrava la maggior parte dei gruppi privati italiani.Sono ancora molti i miti liberisti da sfatare, specialmente in Italia. Corbyn in Gran Bretagna e Mélenchon in Francia? Tra le macerie del vecchio socialismo filo-liberista qualcosa lentamente si muove. Ma la nuova concezione dell’intervento pubblico che queste forze emergenti propongono richiederebbe cambiamenti macroeconomici imponenti, tra cui una messa in discussione della centralità del mercato azionario e della connessa libertà dei movimenti di capitale. Mi sembrano propositi molto ambiziosi per movimenti politici ancora incerti, fragili, ai primissimi vagiti. Certo, sono trainati da una nuova generazione di elettori, costituita da giovani lavoratori e studenti. Questa è una delle novità più promettenti della fase attuale. I giovani elettori che istintivamente muovono verso sinistra non esprimono un mero voto d’opinione. La loro scelta sembra piuttosto la risultante di un profondo mutamento dei rapporti di produzione, fatto di deregolamentazioni e precarietà, che negli ultimi anni ha inasprito le disuguaglianze di classe.Questi giovani sperimentano presto lo sfruttamento, crescono già disillusi e sembrano quindi vaccinati contro le vecchie favole dell’individualismo liberista. Tuttavia, organizzare una tale massa di disincantati intorno a un progetto di progresso e di emancipazione sociale non è un’impresa facile. Nell’attuale deserto politico e culturale, la loro rabbia può sfociare facilmente a destra. Che fa la sinistra in Italia? Sembra immobile. Una estenuante, ipertrofica discussione sui contenitori politici che ripropone schemi di un ventennio fa, come se nulla fosse accaduto nel frattempo. E poi, quando provi ad aprire quelle scatole ti ritrovi in un limbo, un oscuro mondo in cui nulla è chiaro. Nel Pd ho sentito esponenti politici di vertice affrettarsi a dichiarare la loro appartenenza alla famiglia liberale e la loro distanza dalle “sirene neo-stataliste” provenienti dalla Gran Bretagna. Ne ho sentiti altri sostenere che le elezioni vanno il più possibile rinviate per evitare che i mercati si “innervosiscano” e lo spread aumenti di nuovo.Soprattutto, ho assistito a un maldestro balletto sui temi cruciali del diritto del lavoro, che dovrebbero situarsi al vertice di qualsiasi proposta politica di sinistra e intorno ai quali, invece, prevalgono la confusione e i miopi tatticismi. A sinistra del Pd noto ancora molta subalternità culturale ai vecchi slogan del liberismo, sebbene la realtà si rivolti da tempo contro di essi.(Emiliano Brancaccio, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Il capitalismo cambia, la sinistra è in ritardo”, pubblicata su “Micromega” il 3 luglio 2017).Siamo giunti ad un sistema che alla luce del sole privatizza i profitti e socializza le perdite. I dati indicano che a livello mondiale, soprattutto in Occidente, dopo la recessione del 2008 si è registrata una quantità enorme di acquisti statali di partecipazioni azionarie in banche e imprese, per un valore addirittura superiore alle vendite di Stato che erano state realizzate nel decennio antecedente alla crisi. E’ un’inversione di tendenza che segna una cesura rispetto all’epoca delle privatizzazioni di massa. Siamo all’inizio di una nuova fase storica. Un tempo lo Stato acquisiva i mezzi di produzione per finalità strategiche di lungo periodo, talvolta anche in aperta competizione con il capitale privato. Oggi questo tipo di acquisizioni pure si verifica, ma è un fenomeno minoritario. La maggior parte degli interventi statali odierni rivela un livello senza precedenti di subalternità agli interessi privati dei principali operatori sul mercato azionario. Lo Stato infatti compra a prezzi più alti dei valori di mercato, assorbe le parti “malate” del capitale e poi rivende le parti “sane” prima di una nuova ascesa dei prezzi, in modo da sgravare i privati dalle perdite e predisporli a ulteriori guadagni.
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Morte lenta, fine dell’Italia. Dopo i partiti arriverà Draghi?
Si sono svolte le elezioni in un centinaio di comuni italiani: l’esito delle urne ha spinto i commentatori a parlare di un “risveglio” del centrodestra, ma l’unico dato significativo è l’esplosione dell’astensionismo che, in costante crescita da anni, ha raggiunto il 54% del corpo elettorale. Parallelamente, la legge elettorale proporzionale è in attesa di riapprodare in Parlamento, archiviando così gli esperimenti maggioritari degli ultimi 20 anni. I due elementi si inseriscono nel più ampio disfacimento del parlamentarismo. L’Italia, guidata da una classe dirigente esautorata, piegata dalla depressione economica, sottoposta ad una molteplicità di crisi concomitanti, si dirige rapida verso l’anno zero: è tempo di chiedersi quali istituzioni rimpiazzeranno le attuali. Parlamento? Non sento più il polso. C’è scarsa o nulla volontà di analizzare la condizione in cui versa l’Italia, anche perché discuterne apertamente non farebbe altro che alimentare le spinte anti-sistema e rendere ancora più palese la Caporetto sociale-economica verso cui ci ha portato l’attuale classe dirigente.Eppure, il nostro paese sta attraversando la peggiore crisi dall’Unità: la vituperata epoca giolittiana fu un periodo roseo a confronto, la Grande Depressione inflisse meno danni al tessuto produttivo, il secondo dopoguerra fu meno traumatico grazie alla conservazione dell’apparato industriale pubblico e dei quadri dirigenziali formati durante il Ventennio fascista. Mai capitò che il nostro paese perdesse in tempo di pace il 10% del Pil, il 25% della base industriale e subisse il crollo demografico che stiamo sperimentando oggi. Per non parlare della crisi bancaria che sta corrodendo il nostro sistema finanziario (circa 200 miliardi di euro), della perdita delle poche grandi imprese operanti nei settori strategici (dalle auto alle telecomunicazioni, dal cemento all’alimentare, dal lusso alla banche) e della crisi migratoria che riversa su un paese già esausto ondate di 150.000-200.000 diseredati all’anno. L’Italia sta pagando a carissimo prezzo la sua “doppia perifericità” geopolitica: periferica rispetto al nocciolo dell’Unione Europea e collocata ai limiti meridionali della Nato, il nostro paese incassa i pesantissimi costi della prima e della seconda.Di fronte a questo foschissimo scenario, la politica ha perso ormai da anni qualsiasi iniziativa. Artefice e complice delle scelte che hanno portato l’Italia verso il baratro, la nostra classe dirigente si adopera da anni per allungare il più possibile lo status quo, conscia che uno stravolgimento degli assetti attuali comporterebbe anche la sua scomparsa. Nell’ordine abbiamo prima assistito alla meteora del “tecnico” Mario Monti (2011-2013), che ha somministrato all’Italia massicce (e letali) dosi di austerità e svalutazione interna; poi alla meteora di Matteo Renzi (2014-2016), “l’ultima speranza dell’élite italiana”, che avrebbe dovuto proseguire le “riforme strutturali” con un piglio dinamico e giovanile; nel frattempo si è consumato il boom ed il successivo sgonfiamento (2013-2017) del Movimento 5 Stelle, studiato per catalizzare e neutralizzare la montante protesta sociale, assolvendo così la funzione di “stampella del potere” dell’establishment.L’impotenza della nostra politica è perfettamente fotografata dal sistema elettorale. La Seconda Repubblica, sinonimo di moneta unica ed Unione Europea, nasce col maggioritario, il cui scopo è quello di garantire a formazioni politiche minoritarie nel paese (che siano di sinistra o di destra) di attuare quelle riforme utili ad “agganciarci” all’Europa ed a farci “restare” in Europa. Il culmine di questo processo si ha, non a caso, nella fase terminale dell’eurocrisi: è la riforma costituzionale di Matteo Renzi, riforma con cui un partito che riscuotesse il 25% dei consensi avrebbe ottenuto la maggioranza della Camera. Fallito il tentativo, stiamo assistendo ad un impetuoso reflusso in senso opposto: abbandonati i sistemi iper-maggioritari, si lavora per reintrodurre il vecchio proporzionale della Prima Repubblica. Per la politica italiana è l’implicita ammissione della sconfitta, quasi una resa incondizionata: i partiti neanche più pensano ad un’alternanza studiano soltanto come sopravvivere, compattandosi in Parlamento come i superstiti di una battaglia persa.Di fronte a questo osceno spettacolo offerto dalla politica, la reazione degli italiani, piegati da disoccupazione e povertà record (7 milioni di disoccupati ed inattivi1 e 4,5 milioni in povertà assoluta2) è essenzialmente una: repulsione. In un paese come l’Italia, dove la partecipazione alle elezioni è storicamente alta, l’astensione dilaga a ritmi sostenuti: 42% di astenuti alle europee del 2014, 48% alle regionali del 2015, 50% al secondo turno delle comunali del 2016, 54% al secondo turno delle recenti comunali. Constato l’immobilismo o la complicità della politica rispetto alle molteplici crisi che affliggono il paese, preso atto del bluff del Movimento 5 Stelle (si vedano le disastrose amministrazioni Raggi ed Appendino, ma soprattutto i voltafaccia sul tema Unione Europea), non rimane altro che rifugiarsi nel non voto. Tra i cittadini e gli organi rappresentativi si scava, anno dopo anno, un fossato profondo quanto l’astensionismo. Se la maggioranza degli elettori disertano le elezioni, significa che il 50% più uno ha espresso la propria fiducia verso le istituzioni “democratiche”.I media, in occasione delle ultime amministrative, hanno parlato di ritorno “alle vecchie coalizioni” ed hanno letto nell’affermazione del centrodestra il segnale di un imminente svolta a livello nazionale: il pendolo dell’alternanza, dopo cinque anni a sinistra, starebbe spostandosi a destra. In realtà l’unico dato utile è quello relativo all’affluenza, sintomo che l’interno meccanismo “democratico” è guasto. Proiettando i dati delle ultime comunali sulle prossime politiche e togliendo il “filtro” del doppio turno, si ottiene una buona rappresentazione del futuro Parlamento: un’istituzione delegittimata dall’astensionismo record, spappolata in un inconcludente tripartitismo, costretta, come nella Spagna di Rajoy, ad instabili governi di minoranza. Né il duo Renzi-Berlusconi avrebbe infatti i numeri per governare, né il M5S accetterebbe ormai di sorreggere una coalizioni di sinistra. L’unico obiettivo della prossima legislatura sarà, quasi certamente, il varo di una qualche legge elettorale che consenta a Mario Draghi di assumere la Presidenza del Consiglio allo scadere del mandato di governatore della Bce, nell’ottobre 2019.Nel frattempo, però, il quadro macroeconomico si sarà deteriorato col rialzo generalizzato dei tassi delle banche centrali mondiali: l’apparente quiete che regna oggi sui mercati finanziari sarà sostituita da uno tsunami che coglierà la nave-Italia senza timoniere, già provata da un decennio di crisi sociale ed economica, portando ai limiti la capacità di tenuta del nostro paese. In questo scenario, la democrazia parlamentare italiana non ha alcuna possibilità di sopravvivere: come nella Francia di De Gaulle o nella Russia di Putin, sarà inevitabile una concentrazione verticale del potere, per impedire che le forze centrifughe prendano il sopravvento e gettino il paese nel caos. Il parlamentarismo italiano, già agonizzante oggi, è destinato ad essere spazzato via dalla tempesta che si profila all’orizzonte. Un dibattito costruttivo non dovrebbe quindi focalizzarsi sulla tenuta o meno delle nostre istituzioni parlamentari, perché il loro tramonto è pressoché inevitabile, ma sulle forme con cui rimpiazzarle e sulle forze politiche che colmeranno il vuoto lasciato dagli attuali partiti prossimi alla scomparsa. L’anno zero per l’Italia (e l’intero Occidente) si avvicina rapidamente: l’incertezza sarà altissima ed i pericoli altrettanto grandi, ma le forze vive del paese avranno almeno l’occasione di riplasmare lo Stato a loro immagine e somiglianza.(Federico Dezzani, “L’Italia e l’irreversibile crisi del parlamentarismo”, dal blog di Dezzani del 29 giugno 2017).Si sono svolte le elezioni in un centinaio di comuni italiani: l’esito delle urne ha spinto i commentatori a parlare di un “risveglio” del centrodestra, ma l’unico dato significativo è l’esplosione dell’astensionismo che, in costante crescita da anni, ha raggiunto il 54% del corpo elettorale. Parallelamente, la legge elettorale proporzionale è in attesa di riapprodare in Parlamento, archiviando così gli esperimenti maggioritari degli ultimi 20 anni. I due elementi si inseriscono nel più ampio disfacimento del parlamentarismo. L’Italia, guidata da una classe dirigente esautorata, piegata dalla depressione economica, sottoposta ad una molteplicità di crisi concomitanti, si dirige rapida verso l’anno zero: è tempo di chiedersi quali istituzioni rimpiazzeranno le attuali. Parlamento? Non sento più il polso. C’è scarsa o nulla volontà di analizzare la condizione in cui versa l’Italia, anche perché discuterne apertamente non farebbe altro che alimentare le spinte anti-sistema e rendere ancora più palese la Caporetto sociale-economica verso cui ci ha portato l’attuale classe dirigente.
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Ma il Renzi francese finirà tra i fischi, come quello italiano
Durante la campagna elettorale francese e nelle ore successive alla vittoria di Emmanuel Macron, i media nostrani hanno tessuto paragoni, molto innocenti, tra il candidato di “En Marche!” e l’ex-premier Matteo Renzi. Utilizziamo l’aggettivo “innocente” perché, ovviamente, ci si è guardati dall’evidenziare le incredibili analogie tra le carriere di due 39enni che, con stucchevole celerità, hanno scalato (o addirittura fondato) un partito, per poi essere catapultati nella stanza dei bottoni saltando a piè pari il classico cursus honorum della politica. Entrambi sponsorizzati da una grande banca d’affari (la Rothschild per Macron e la Jp Morgan per Renzi), entrambi aiutati da scandali giudiziari (il Penelopegate che affossa Fillon e “l’affare stadio” che spiana la strada di Renzi verso il Comune di Firenze), entrambi benedetti da Washington e dal “luogotenente” Angela Merkel, entrambi incensati dal milieu intellettuale-mediatico, entrambi aiutati dalla “fortuna” nella loro conquista del potere (la scissione tra socialisti e “France Insoumise” nel caso Macron, la defenestrazione tutta extra-parlamentare di Enrico Letta nel caso di Renzi).No, non era interesse dei media soffermarsi su questi curiosi, ma scomodi, particolari: la loro volontà era piuttosto quella di evidenziare come entrambi incarnino il rinnovamento, la modernità, l’europeismo, l’apertura agli ideali liberali. Soprattutto, si è tentato in Italia di sfruttare la vittoria di Emmanuel Macron per rilanciare Renzi, quasi che l’ex-premier potesse ricevere in dono dal nuovo inquilino dell’Eliseo una seconda vita politica. “L’Espresso” di Carlo De Debenetti è arrivato addirittura a scrivere, lo scorso 5 aprile: «La nuova sfida di Renzi: diventare Macron. L’ex premier guarda al candidato centrista francese. Perché una sua vittoria avrebbe effetti anche in Italia. E gli lancerebbe la volata verso la riconquista di partito e governo». Viviamo, si sa, un’epoca in cui cadono le illusioni sulla democraticità delle nostre istituzioni, un’epoca di massiccia e costante guerra psicologica, un’epoca in cui la razionalità è una merce sempre più rara. Sono tempi in cui si potrebbe leggere sul giornale: “La nuova sfida della frittata: diventare uovo”.Già. Non c’è alcun dubbio che la narrazione dei media su Macron e Renzi sia deliberatamente invertita dal punto di vista cronologico. Non è l’ex-premier italiano che può diventare Macron (perché il momento magico che quest’ultimo ora vive, Renzi lo ebbe nella lontana primavera del 2014), quanto piuttosto è il nuovo presidente francese ad essere probabilmente ossessionato dal triste epilogo dell’ex-presidente del Consiglio. L’Italia, infatti, si colloca rispetto alla Francia un passo in avanti in termini di crisi economica/politica: l’esperienza del giovane “rottamatore” appartiene non al nostro presente, ma al nostro passato, ed è stata brutalmente archiviata il 4 dicembre scorso con la bocciatura del referendum costituzionale. Sono bastati mille giorni (Job Acts, privatizzazioni, inasprimenti fiscali, immigrazione incontrollata, disoccupazione a due cifre, stagnazione economica) perché l’indice di gradimento di Renzi scivolasse sotto il 30% e gli italiani decidessero di sbarazzarsi di lui, ricordando l’infausta promessa “se perdo il referendum, lascio la politica”.Constata l’identità tra l’agenda di Renzi e quella di Macron, è facile prevedere che lo stesso tempo sia sufficiente per annichilire politicamente l’ex-Rothschild: data la maggiore dose di “mercato” che Macron deve introdurre in Francia, l’assenza di un saldo partito di riferimento e la bellicosità della società francese, è addirittura ipotizzabile che l’enfant prodige della politica francese entri in crisi addirittura nel secondo anno di presidenza. Il “Financial Times” a suo tempo descrisse Renzi come “the last hope for the italian élite”: noi possiamo senza alcun indugio descrivere Macron come “l’ultima speranza dell’establishment francese”. Dopo il quinquennio dell’ex-Rothschild, non ci sarà più nessuna presidenza socialista, né centrista, né repubblicana: sarà l’ora delle forze anti-sistema, che si chiamino Front National o con un altro nome, che a guidarle sia ancora Marine Le Pen od un’altra figura. Il pendolo ha ripreso il suo viaggio verso la dissoluzione economica dell’Unione Europea e, in ordine cronologico, sono tre le prossime tappe salienti: il precipitare della situazione italiana, complice anche la prossima instabilità politica; una nuova recessione globale che cova sotto le ceneri; il rialzo dei tassi da parte dalla Fed e/o della Bce. Come direbbero in Francia: nous avons perdu une bataille, on gagnera la guerre!(Federico Dezzani, estratto dal post “La Francia ha scelto il suo Matteo Renzi, e già sappiamo che fine farà”, dal blog di Dezzani dell’8 maggio 2017).Durante la campagna elettorale francese e nelle ore successive alla vittoria di Emmanuel Macron, i media nostrani hanno tessuto paragoni, molto innocenti, tra il candidato di “En Marche!” e l’ex-premier Matteo Renzi. Utilizziamo l’aggettivo “innocente” perché, ovviamente, ci si è guardati dall’evidenziare le incredibili analogie tra le carriere di due 39enni che, con stucchevole celerità, hanno scalato (o addirittura fondato) un partito, per poi essere catapultati nella stanza dei bottoni saltando a piè pari il classico cursus honorum della politica. Entrambi sponsorizzati da una grande banca d’affari (la Rothschild per Macron e la Jp Morgan per Renzi), entrambi aiutati da scandali giudiziari (il Penelopegate che affossa Fillon e “l’affare stadio” che spiana la strada di Renzi verso il Comune di Firenze), entrambi benedetti da Washington e dal “luogotenente” Angela Merkel, entrambi incensati dal milieu intellettuale-mediatico, entrambi aiutati dalla “fortuna” nella loro conquista del potere (la scissione tra socialisti e “France Insoumise” nel caso Macron, la defenestrazione tutta extra-parlamentare di Enrico Letta nel caso di Renzi).
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Schiavi comprati e venduti nella Libia “liberata” dagli Usa
La Libia “liberata” dagli Usa è diventata un colossale mercato degli schiavi. Lo dimostra un report di Carey Wedler su “Zero Hedge”, che accusa l’Occidente: le stesse menti criminali, che hanno ridotto il territorio libico a disgustoso “business di carne umana”, stanno cercando di fare la stessa cosa in Siria. «È ben noto che l’intervento Nato a guida Usa del 2011 in Libia, con lo scopo di rovesciare Muhammar Gheddafi, ha portato ad un vuoto di potere che ha permesso a gruppi terroristici come l’Isis di prendere piede nel paese», premette Wedler. «Nonostante le conseguenze devastanti dell’invasione del 2011, l’Occidente è oggi lanciato sulla stessa traiettoria nei riguardi della Siria». Ieri Obama ha stroncato Gheddafi con la scusa di “proteggere il popolo libico”, e oggi – senza uno straccio di prova sulle responsabilità di Assad nell’attacco coi gas – Trump minaccia di abbattere il regime di Damasco. Ma, al netto della propaganda, «emergono sempre più chiaramente i pericoli connessi all’invasione di un paese straniero e alla rimozione dei suoi leader politici». Lo conferma il “Guardian”, con «nuove rivelazioni sugli effetti collaterali degli “interventi umanitari”: la crescita del mercato degli schiavi».Il quotidiano inglese scrive che sebbene «la violenza, l’estorsione e il lavoro in schiavitù» siano stati già in passato una realtà per le persone che transitavano attraverso la Libia, recentemente il commercio degli schiavi è aumentato». E oggi «la compravendita di esseri umani come schiavi viene fatta apertamente, alla luce del sole», scrive Wedler, in un post ripreso da “Voci dall’Estero”. «Gli ultimi report sul ‘mercato degli schiavi’ a cui sono sottoposti i migranti si possono aggiungere alla lunga lista di atrocità che avvengono in Libia», afferma Mohammed Abdiker, capo delle operazioni di emergenza dell’Iom, International Office of Migration, un’organizzazione intergovernativa che promuove “migrazioni ordinate e più umane a beneficio di tutti“, secondo il suo stesso sito web. «La situazione è tragica. Più l’Iom si impegna in Libia, più ci rendiamo conto come questo paese sia una valle di lacrime per troppi migranti». Il paese nordafricano viene usato spesso come punto di uscita per i rifugiati che arrivano da altre parti del continente. Ma da quando Gheddafi è stato rovesciato nel 2011, spiega Abdiker al “Guardian”, «il paese, che è ampio e poco densamente popolato, è piombato nel caos della violenza: e i migranti, che hanno poco denaro e di solito sono privi di documenti, sono particolarmente vulnerabili».Un sopravvissuto del Senegal, proveniente dal Niger, racconta che stava attraversando la Libia insieme a un gruppo di altri migranti, tutti in fuga dai paesi di origine. Avevano pagato un trafficante perché li trasportasse in autobus fino alla costa, dove avrebbero corso il rischio di imbarcarsi per l’Europa. Ma, anziché portarli sulla costa, il trafficante li ha condotti in un’area polverosa presso la cittadina libica di Sabha. Secondo quanto riportato da Livia Manente, la funzionaria dell’Iom che intervista i sopravvissuti, «il loro autista gli ha detto all’improvviso che gli intermediari non gli avevano passato i pagamenti dovuti e ha messo i passeggeri in vendita». Molti altri migranti hanno confermato questa storia, aggiunge la Manente: i profughi descrivono «i vari mercati degli schiavi, indipendenti l’uno dall’altro, e le diverse prigioni private che si trovano in tutta la Libia». Le stesse storie, aggiunge la funzionaria, sono confermate dai migranti che hanno trovato asilo nell’Italia del sud.Il sopravvissuto senegalese ha detto di essere stato portato in una prigione improvvisata che, come nota il “Guardian”, in Libia è cosa comune: «I detenuti all’interno sono costretti a lavorare senza paga, o in cambio di magre razioni di cibo, e i loro carcerieri telefonano regolarmente alle famiglie a casa chiedendo un riscatto. Il suo carceriere chiese 300.000 franchi Cfa (circa 450 euro), poi lo vendette a un’altra prigione più grossa dove la richiesta di riscatto raddoppiò senza spiegazioni». Quando i migranti sono detenuti troppo a lungo senza che il riscatto venga pagato, continua il “Guardian”, vengono portati via e uccisi. «Alcuni deperiscono per la scarsità delle razioni e le condizioni igieniche miserabili, muoiono di fame o di malattie, ma il loro numero complessivo non diminuisce mai», sottolinea il quotidiano britannico. «Se il numero di migranti scende perché qualcuno muore o viene riscattato, i rapitori vanno al mercato e ne comprano degli altri», dice ancora Livia Manente. Le fa eco Giuseppe Loprete, capo della missione Iom in Niger: «È assolutamente chiaro che loro si vedono trattati come schiavi», ha detto.Loprete ha gestito il rimpatrio di 1.500 migranti nei soli primi tre mesi dell’anno, e teme che molte altre storie e incidenti del genere emergeranno man mano che altri migranti torneranno dalle coste libiche: «Le condizioni stanno peggiorando, in Libia: penso che ci possiamo aspettare molti altri casi nei mesi a venire». Ora, conclude Wedler, mentre il governo degli Stati Uniti «sta insistendo nell’idea che un cambio di regime in Siria sia la soluzione giusta per risolvere le molte crisi di quel paese», è ormai sempre più evidente che la cacciata dei dittatori – per quanto detestabili possano essere – non è una soluzione efficace. «Rovesciare Saddam Hussein non ha portato solo alla morte di molti civili e alla radicalizzazione della società, ma anche all’ascesa dell’Isis», sottolinea l’analista. «Mentre la Libia, che un tempo era un modello di stabilità nella regione, continua a precipitare nel baratro in cui l’ha gettata “l’intervento umanitario” dell’Occidente». Un pozzo nero e senza fondo, nel quale «gli esseri umani vengono trascinati nel nuovo mercato della schiavitù, e gli stupri e i rapimenti affliggono la popolazione». Chi preme sulla guerra, conclude Wedler, deve sapere che non farà altro che produrre «ulteriori inimmaginabili sofferenze».La Libia “liberata” dagli Usa è diventata un colossale mercato degli schiavi. Lo dimostra un report di Carey Wedler su “Zero Hedge”, che accusa l’Occidente: le stesse menti criminali, che hanno ridotto il territorio libico a disgustoso “business di carne umana”, stanno cercando di fare la stessa cosa in Siria. «È ben noto che l’intervento Nato a guida Usa del 2011 in Libia, con lo scopo di rovesciare Muhammar Gheddafi, ha portato ad un vuoto di potere che ha permesso a gruppi terroristici come l’Isis di prendere piede nel paese», premette Wedler. «Nonostante le conseguenze devastanti dell’invasione del 2011, l’Occidente è oggi lanciato sulla stessa traiettoria nei riguardi della Siria». Ieri Obama ha stroncato Gheddafi con la scusa di “proteggere il popolo libico”, e oggi – senza uno straccio di prova sulle responsabilità di Assad nell’attacco coi gas – Trump minaccia di abbattere il regime di Damasco. Ma, al netto della propaganda, «emergono sempre più chiaramente i pericoli connessi all’invasione di un paese straniero e alla rimozione dei suoi leader politici». Lo conferma il “Guardian”, con «nuove rivelazioni sugli effetti collaterali degli “interventi umanitari”: la crescita del mercato degli schiavi».
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Armi silenziose per guerre tranquille, mentre noi dormiamo
Guardare una città dall’alto è come vedere un grande formicaio, migliaia di persone viaggiano freneticamente senza mai fermarsi a chiedersi perché corrono. Le scadenze, il lavoro e il tempo le tiene prigioniere mentre tutto intorno a loro sembra essere fermo e statico: ognuno di noi vive un mondo, quello ufficiale in cui vige la morale religiosa, la legge dei “buoni” e l’economia del business. In realtà noi siamo intrappolati in un altro mondo, quello ufficioso, in cui la democrazia non esiste più perché il potere lo hanno attribuito alle istituzioni sovranazionali, la libertà è un’illusione perché il controllo dei nostri istinti e dei nostri pensieri è già in atto, e la legge è quella del Governo Mondiale che mediante le sue sfere di controllo gestisce il sistema. La cibernetica è la nuova scienza sociale, è lo schema per controllare i sistemi complessi come quello nostro, in cui il biologico e l’economico si fondono. Un sistema cibernetico equilibrato crea una struttura a celle, in cui gli elementi interagiscono in modo da aumentare il valore della produzione, e ha la grande proprietà dell’autoregolamentazione. In altre parole, è fatto in modo che dopo ogni azione si attivi subito una contro-reazione, un evento che si dirige verso uno scenario crea automaticamente le condizioni per un evento con tendenza inversa che annulla il primo…È un ecosistema vero e proprio, un essere che vive, perché è in grado di far fronte da solo alle situazioni che mettono in discussione la sua esistenza. Sistemi del genere hanno una grande stabilità nel tempo, e possono funzionare bene solo se li guida un codice etico, un obiettivo che sia nell’interesse di tutti gli uomini. Questo tuttavia non sta accadendo, perché l’intero sistema lavora per soddisfare gli interessi di una classe ben più ristretta, degli Illuminati, degli dèi che non permetteranno mai che la scienza liberi il popolo. Ora utilizzano contro le popolazioni inermi delle armi biologiche, spingono gli uomini a non vivere ma a sopravvivere, invece di gettare proiettili mettono catene tramite i data base; invece di inviare soldati, innescano delle bombe tramite dei computer e sotto gli ordini dei vostri generali, che sono i banchieri. Certamente non fanno niente di evidente, perché non vediamo esplosioni oppure danni fisici, ma la nostra vita sociale viene distrutta ogni giorno dal finto progresso. Le masse e il pubblico non potranno mai capire quest’arma e dunque non potrà credere che non siamo realmente attaccati, se non avviene un fatto criminoso reale.Pensate a che fino ha fatto la democrazia: lei non esiste più ma nessuno lo dice. Il margine di azione degli Stati è sempre più ridotto dagli accordi economici internazionali sui quali non è stato chiesto l’opinione dei cittadini del mondo. Una sospensione proclamata della democrazia avrebbe provocato una rivoluzione, e se non è successo è perché è stato deciso di mantenere una democrazia di facciata: i cittadini continuano a votare, i programmi politici di “destra” e di “sinistra” sono gli stessi. Le elezioni, i telegiornali continuano di esistere, ma sono stati svuotati del loro contenuto. Un telegiornale contiene al massimo 2 a 3 minuti di cronaca sui fatti del giorno, mentre il resto sono argomenti di facciata, di reality-show sulla vita quotidiana. Le analisi dei giornalisti specializzati sono state eliminate, e l’informazione passa attraverso la censura, che consiste non nell’omettere le notizie ma nell’annegarle in un diluvio di notizie insignificanti diffuse da una moltitudine di mezzi con contenuto simile in modo che sembra esistere la pluralità e la democrazia.Tutta la finezza della censura moderna risiede nell’assenza di censori. Questi sono stati sostituiti efficacemente dalla “legge del mercato”, che fornisce i mezzi per finanziare il lavoro di inchiesta. Eventi importanti saranno lievemente accennati, e poi affiancati a notizie di inutili, mentre un attentato verrà trattato con reportage sulle strade e tra le persone per esagerare il dramma. Le informazioni vengono presentate con una tale confusione, affiancate tra di loro anche se di diversa importanza, e questo non permette la memorizzazione delle notizie, che rimangono della mente dello spettatore solo se presentate in modo strutturato e catalogato. Una peggiore memorizzazione colpisca la popolazione con l’amnesia, in modo da essere più semplice da manipolare… La manipolazione mediatica è solo uno degli elementi della strategia del “diversivo”, che consiste nel deviare l’attenzione dal pubblico dai problemi importanti, con una marea continua di distrazioni: tenere il pubblico occupato per creare armi silenziose per guerre tranquille. Questa strategia è indispensabile per impedire il pubblico di interessarsi alle conoscenze essenziali della scienza, dell’economia, della psicologia, della neurobiologia, e infine della cibernetica.Per rendere efficace quest’arma silenziosa occorre innanzitutto mantenere il pubblico ignorante dei principi di base della conoscenza. Per creare l’ignoranza, la creatività e le attività mentali sono stati sabotati fornendo dei programmi di educazione di bassa qualità in matematica, logica, di economia. Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella stupidità; fare in modo che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi utilizzati per il suo controllo e la sua schiavitù. La qualità dell’educazione data alle classi inferiori deve essere bassa in modo tale che l’ignoranza isoli le classi inferiori dalle classi superiori; le persone vengono incoraggiate in pubblico a cullarsi nella mediocrità, o nell’essere stupide, volgari e incolte. Alla fine l’individuo si convincerà che lui è il solo responsabile della sua disgrazia, a causa dell’insufficienza della sua intelligenza, delle sue capacità, o dei suoi sforzi. Così, invece, al posto di rivoltarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto-svaluta e si colpevolizza e generando in lui uno stato depressivo che inibisce ogni reazione, dunque nessuna rivoluzione.La regola generale è che c’è un profitto nella confusione; più la confusione è grande, più il profitto è grande: il migliore approccio è di creare dei problemi, e poi di offrire delle soluzioni, con uno schema “problema-reazione-soluzione”. Per fare accettare una misura inaccettabile, basta applicarla progressivamente, in maniera graduale, per una durata di 10 anni; avrebbe provocato una rivoluzione se fosse stata applicata brutalmente. In alternativa, una decisione impopolare per essere accettata deve essere presentata come “dolorosa ma necessaria”, ottenendo in consenso presente per un’applicazione nel futuro: è sempre più facile accettare un sacrificio futuro che non un sacrificio immediato, anche perché si spera sempre che “in futuro tutto andrà meglio”. Pensate all’euro, e riflettete su quello che è stato ieri, quello che è oggi, e vedrete anche cosa sarà domani. Per circuire l’analisi razionale e il senso critico degli individui è sufficiente far leva sul piano emozionale: le porte dell’inconscio degli individui si spalancheranno, e allora potranno essere immesse idee, desideri, paure.Questo, grazie al fatto che conoscono l’individuo meglio di quanto lui possa conoscere se stesso; grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il “sistema” è giunto ad una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia fisicamente che psicologicamente. Il sistema è arrivato a conoscere l’individuo medio meglio di quanto questo non si conosca da sé. Ciò significa che nella maggioranza dei casi, il sistema detiene un più grande controllo ed un più grande potere sugli individui, superiore al potere e al controllo che gli individui hanno su se stessi. Se siete in cerca di una prova, non cercate la risposta al di fuori di voi stessi ma dentro di voi. Chiedetevi come faranno a impiantare le pulci e i chip nel nostro corpo, o meglio, chiedetevi cosa oggi stanno facendo per realizzare l’impianto delle pulci. Stanno nascondendo i trapianti ad uso medico, per diminuire la diffidenza istintiva della gente sull’intrusione della macchina nel corpo, viene promossa la moda dei piercing, per abituare il la gente all’intrusione degli oggetti materiali nel corpo, viene reso obbligatorio il trapianto per l’identificazione degli animali domestici.Potrebbero anche organizzare, o lasciare organizzare, un attentato nucleare in una città occidentale per rendere obbligatori i trapianti di localizzazione e di identificazione per ogni individuo, in nome della “sicurezza” e della “lotta contro il terrorismo”… Pensateci bene, riflettete, non sarebbe tanto assurdo parlare di una città europea, che possiede il nucleare, e ha già subito minacce terroristiche, in un periodo di gravi scontri ideologici tra diverse culture religiose. Tutti nel profondo della loro coscienza sanno che qualcosa non va. Voi lo sapete ma non potete esprimervi, non potrete mai affrontare questo problema intelligentemente, perché è un’arma biologica, che non permetterà che gridiate e chiediate aiuto, perchè non sapete associarvi ad altri per difendervi. Questo veleno è iniettato lentamente fino ad indurre tutti ad adattarsi anche alla sua presenza, per cominciare a tollerare le sue ripercussioni fino a che la pressione psico-economica alienerà la vostra mentre, e quando noi resistere più lentamente vi abbandonerete al suicidio o asseconderete in sistema. Attacca le capacità, le opportunità degli individui della società, la loro mobilità, per manipolali; infetta le vostre fonti di energia sociali e naturali, le vostre forze deboli psichiche, mentali e emozionali. Guardate la vostra vita ed i vostri sacrifici, sarete tutti complottisti…(“Armi silenziose per guerre tranquille”, dal blog “Etelboro” del 20 settembre 2006).Guardare una città dall’alto è come vedere un grande formicaio, migliaia di persone viaggiano freneticamente senza mai fermarsi a chiedersi perché corrono. Le scadenze, il lavoro e il tempo le tiene prigioniere mentre tutto intorno a loro sembra essere fermo e statico: ognuno di noi vive un mondo, quello ufficiale in cui vige la morale religiosa, la legge dei “buoni” e l’economia del business. In realtà noi siamo intrappolati in un altro mondo, quello ufficioso, in cui la democrazia non esiste più perché il potere lo hanno attribuito alle istituzioni sovranazionali, la libertà è un’illusione perché il controllo dei nostri istinti e dei nostri pensieri è già in atto, e la legge è quella del Governo Mondiale che mediante le sue sfere di controllo gestisce il sistema. La cibernetica è la nuova scienza sociale, è lo schema per controllare i sistemi complessi come quello nostro, in cui il biologico e l’economico si fondono. Un sistema cibernetico equilibrato crea una struttura a celle, in cui gli elementi interagiscono in modo da aumentare il valore della produzione, e ha la grande proprietà dell’autoregolamentazione. In altre parole, è fatto in modo che dopo ogni azione si attivi subito una contro-reazione, un evento che si dirige verso uno scenario crea automaticamente le condizioni per un evento con tendenza inversa che annulla il primo…
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Berlino ha stravinto, ora può solo scegliere come perdere
L’euro sta per crollare, questo è certo: ma agli Usa conviene che l’Europa finisca ko? Secondo l’economista Alberto Bagnai, sarebbe meglio la seconda opzione: aiutare l’Europa a uscire dall’euro in modo non disastroso, dando comunque per scontato che la moneta unica europea è ormai al capolinea, visto che l’unione monetaria è stata «la peggiore strada possibile» per rimodellare l’unità europea oltre la Nato, caduto il Muro di Berlino. «Una cattiva economia non può generare una buona politica», afferma Bagnai: «Quello che avrebbe dovuto unire l’Europa oggi la sta lacerando». La Gran Bretagna ha già deciso di togliere il disturbo, mentre l’Europa continentale è di fronte a una scelta: alzare il livello dello scontro con Berlino o arrendersi all’egemonia della Germania. «Gli Stati Uniti, come qualsiasi altro attore a livello globale, devono porsi di fronte a questa realtà: l’euro ha dissepolto senza motivo la questione tedesca, provocando esattamente ciò che avrebbe dovuto prevenire». A Washington l’ardua sentenza: meglio un’Europa sul lastrico o un partner ancora in piedi, relativamente solido?«Se gli Stati Uniti decidono che a loro conviene avere a che fare con un’Europa politicamente divisa, economicamente a pezzi e socialmente instabile, allora sostenere l’euro è per loro la scelta migliore», quella del “divide et impera”. Ma siamo sicuri che convenga, a Washington? Se invece gli Stati Uniti ritengono che un’Europa in buona salute dal punto di vista politico ed economico possa essere un alleato più utile sullo scenario globale, allora – sempre secondo l’analisi di Bagnai, ripresa da “Voci dall’Estero” – dovrebbero «promuovere uno smantellamento controllato dell’euro». Attenzione: «Disfare l’euro non sarà privo di costi». In ogni caso, però, «saranno costi comunque inferiori a quelli che comporta l’alternativa», ovvero il protrarre questa paurosa stagnazione dell’economia europea e quindi mondiale, oltre al rischio crescente di una grave crisi finanziaria. Stagnazione che, peraltro, produce gravi conseguenze sull’economia globale, derivando anche da «regole europee sbagliate per gestire gli enormi squilibri creati da istituzioni europee viziate in partenza».L’integrazione economica europea, insiste Bagnai, ebbe un ruolo-chiave nel promuovere la prosperità della parte occidentale del continente, quando quella orientale era sotto il dominio dell’Urss. Poi, di colpo, la caduta la Cortina di Ferro «riportò sulla scena quella che era stata per secoli la causa principale di grandi sofferenze: la difficile relazione tra Francia e Germania». Il motivo del fallimento dell’euro, definito “sbrigativo matrimonio di convenienza” tra Parigi e Berlino? «E’ lo stesso che diede il colpo di grazia agli accordi di Bretton Woods», che stabilirano il dollaro come valuta internazionale: «Entrambe le due istituzioni promuovono la nascita di squilibri esterni, anche se per ragioni diverse». C’è sempre un peccato originale: quello del sistema di Bretton Woods «era stato l’adozione della valuta di uno Stato come valuta mondiale», mentre quello dell’euro «è stato l’adozione di una valuta senza Stato come valuta regionale». Il loro difetto comune? «La presenza di un tasso di cambio fisso, che impedisce l’aggiustamento della bilancia dei pagamenti».Il sistema di Bretton Woods è durato a lungo, ricorda Bagnai, grazie al carattere dei mercati finanziari, che allora erano regolamentati, e alla capacità di visione del paese leader, gli Stati Uniti. «Di entrambe le cose non c’è traccia in Eurozona, dove è promossa una libertà di movimento dei capitali senza restrizioni, in assenza di qualsivoglia autorità regionale di supervisione, e dove il leader regionale, la Germania, è con ogni evidenza ossessionato da una oltremodo miope smania di accrescere il più possibile il suo surplus esterno». L’estrema rigidità dell’euro «ha incentivato il mercantilismo», cioè «la tentazione di tesaurizzare i capitali internazionali invece di reinvestirli nell’economia mondiale», e la pulsione mercantilista orienta il commercio a vantaggio dei paesi del nucleo centrale, la cui valuta in termini reali è sottovalutata, preservando il valore delle loro attività nette sull’estero. «Ma il presunto vincitore nella gara dell’euro, la Germania, si ritrova ora in un vicolo cieco», continua Bagnai. «Se vuole mantenere in vita l’Eurozona, deve accettare le politiche monetarie estremamente espansive della Bce». Viceversa, «una politica monetaria più restrittiva darebbe sollievo ai creditori, ma esattamente per lo stesso motivo provocherebbe il crollo istantaneo dei paesi debitori, rendendo loro ben difficile sostenere il debito».Se invece crescessero i redditi, nei paesi debitori, questo «rilancerebbe il debito estero, tornando a incentivare gli squilibri che hanno provocato la crisi». Secondo il Tesoro Usa, la Germania è riuscita a stravincere «grazie a manipolazioni del Forex», il mercato globale decentralizzato, nel quale tutte le valute del mondo vengono scambiate in ogni momento ad un prezzo concordato. I tedeschi si sono serviti di un euro «fortemente svalutato» per sfruttare gli Usa e gli altri partner commerciali: questa l’accusa di Peter Navarro, capo del National Trade Council degli Stati Uniti, secondo cui «l’euro è un marco travestito». Ma ora, aggiunge Bagnai, Berlino può solo scegliere come perdere: tutto in un colpo (per il collasso dei suoi debitori) o a poco a poco (a causa di tassi di interesse nulli o negativi). L’Europa è in declino, conclude l’economista, ma è ancora troppo grande per crollare senza terremotare il resto del mondo. Secondo i massimi economisti Usa, l’euro ha le ore contate. «La causa più probabile sarà un collasso del sistema bancario italiano, che trascinerà con sé quello tedesco. È nell’interesse di qualsiasi potere politico, certamente dei vacillanti leader europei, ma probabilmente anche degli Stati Uniti, gestire – piuttosto che subire – questa conclusione».L’euro sta per crollare, questo è certo: ma agli Usa conviene che l’Europa finisca ko? Secondo l’economista Alberto Bagnai, sarebbe meglio la seconda opzione: aiutare l’Europa a uscire dall’euro in modo non disastroso, dando comunque per scontato che la moneta unica europea è ormai al capolinea, visto che l’unione monetaria è stata «la peggiore strada possibile» per rimodellare l’unità europea oltre la Nato, caduto il Muro di Berlino. «Una cattiva economia non può generare una buona politica», afferma Bagnai: «Quello che avrebbe dovuto unire l’Europa oggi la sta lacerando». La Gran Bretagna ha già deciso di togliere il disturbo, mentre l’Europa continentale è di fronte a una scelta: alzare il livello dello scontro con Berlino o arrendersi all’egemonia della Germania. «Gli Stati Uniti, come qualsiasi altro attore a livello globale, devono porsi di fronte a questa realtà: l’euro ha dissepolto senza motivo la questione tedesca, provocando esattamente ciò che avrebbe dovuto prevenire». A Washington l’ardua sentenza: meglio un’Europa sul lastrico o un partner ancora in piedi, relativamente solido?
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Praga si sgancia dall’euro, nuovo schiaffo all’Unione Europea
Addio euro. Dopo la Brexit, nuovo schiaffo all’Unione Europea, stavolta da Praga, all’indomani del deludente vertice Ue a Roma. Brutte notizie, per Bruxelles, mentre si avvicinano le elezioni francesi, col Front National di Marine Le Pen, sostenitore dell´uscita dalla moneta unica, forte nei sondaggi. La banca nazionale cèca ha deciso di sganciare la valuta nazionale, la corona, dall´euro. Il tasso di riferimento, praticamente fisso (27 corone cèche per euro, in vigore da tre anni) viene abbandonato, scrive Andrea Tarquini su “Repubblica”. Gli osservatori si chiedono allarmati se la Cèchia, paese piccolo ma altamente industrializzato e strettamente integrato con le maggiori economie dell´Eurozona, pensi anche di rinunciare al suo obiettivo finora dichiatato: entrare nella moneta unica. Area alla quale appartiene invece la Slovacchia, che insieme ai cèchi formò – dal primo dopoguerra alla scissione pacifica post-comunista – la Cecoslovacchia, cioè il paese che prima dell’invasione nazista del 1938 e della successiva comunistizzazione imposta dall’Urss dopo il 1945, era una delle maggiori economie mondiali, tra le più tecnologicamentre avanzate.Finora, scrive Tarquini, il cambio minimo era stato adottato per impedire che rimesse e investimenti dei cittadini cèchi all´estero divenissero troppo cari e che il tasso d´inflazione, attualmente attestato al 2,5% annuo (cioè ben oltre il tetto del 2% fissato come obiettivo dall’istituto d´emissione di Praga) aumentasse ancora. Adesso, la banca centrale cèca ha scelto come male minore lo sganciamento totale dall´euro. «La decisione ha un doppio sfondo», secondo “Repubblica”. «Primo, le elezioni del prossimo autunno, il cui esito si annuncia incerto, e a cui il premier socialdemocratico Bohuslav Sobotka vuole arrivare da posizioni della minor debolezza possibile. Secondo, negli ultimi tempi la corona cèca era nel mirino degli speculatori internazionali. I fondi hedge, in genere di carattere speculativo, hanno scommesso 65 miliardi di dollari su una rivalutazione della divisa cèca, costringendo la banca nazionale di Praga a interventi sui mercati. Turbolenze sul bilancio pubblico e sulle riserve in valuta cèche hanno spinto l’istituto alla misura estrema».La decisione, aggiunge Tarquini, ricorda agli operatori dei mercati la scelta fatta nel gennaio 2015 dalla Svizzera (non membro della Ue) di sganciare il franco dall´euro, «scelta che provocò un terremoto finanziario internazionale colpendo l´euro con il piú massiccio deprezzamento da quando esiste». Un ´Czexit´ limitato allo sgancio della corona dall’euro avrebbe conseguenze più limitate. «Al momento, l´euro si è deprezzato a fronte della divisa cèca, restando però stabile sul dollaro. Ma gli esperti si dividono sul grande interrogativo, se ciò potrà allontanare la piccola ma decisiva democrazia industriale centroeuropea dall’Unione in generale, a medio termine anche a livello politico». A fronte del recente apprezzamento della corona verso l´euro, e quindi della perdita di valore delle riserve cèche in valute forti, Praga non ha visto altra scelta. Uniche alternative? Massicce vendite delle riserve o un ingresso accelerato nell´euro. Ma la moneta unica europea, specie nel gruppo di Visegrad (Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria) appare sempre meno attraente. E a Praga come altrove, all´Est, «la stessa Ue è vista da non pochi politici ed elettori come una lontana e inefficiente entità burocratica che può costituire una minaccia potenziale alla sovranità nazionale», che Praga ha riconquistato dopo mezzo secolo di dominazione dell’Urss.Addio euro. Dopo la Brexit, nuovo schiaffo all’Unione Europea, stavolta da Praga, all’indomani del deludente vertice Ue a Roma. Brutte notizie, per Bruxelles, mentre si avvicinano le elezioni francesi, col Front National di Marine Le Pen, sostenitore dell´uscita dalla moneta unica, forte nei sondaggi. La banca nazionale cèca ha deciso di sganciare la valuta nazionale, la corona, dall´euro. Il tasso di riferimento, praticamente fisso (27 corone cèche per euro, in vigore da tre anni) viene abbandonato, scrive Andrea Tarquini su “Repubblica”. Gli osservatori si chiedono allarmati se la Cèchia, paese piccolo ma altamente industrializzato e strettamente integrato con le maggiori economie dell´Eurozona, pensi anche di rinunciare al suo obiettivo finora dichiatato: entrare nella moneta unica. Area alla quale appartiene invece la Slovacchia, che insieme ai cèchi formò – dal primo dopoguerra alla scissione pacifica post-comunista – la Cecoslovacchia, cioè il paese che prima dell’invasione nazista del 1938 e della successiva comunistizzazione imposta dall’Urss dopo il 1945, era una delle maggiori economie mondiali, tra le più tecnologicamentre avanzate.
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Craig Roberts: Trump si è arreso, il prossimo sarà Putin?
«Trump si è arreso. Il prossimo sarà Putin?». Se lo domanda Paul Craig Roberts, uno dei più autorevoli osservatori indipendenti della scena internazionale, all’indomani del raid missilistico sulla Siria ordinato dal capo della Casa Bianca senza prima acquisire prove sulle responsabilità di Assad nell’attacco a Idlib con il gas Sarin. «L’establishment di Washington ha ripreso il controllo», scrive sul suo blog l’ex viceministro di Ronald Reagan. «Prima Flynn e ora Bannon», via le “colombe” che avevano trainato la campagna elettorale di Trump, lasciando intravedere il disgelo col resto del mondo. «Tutto ciò che hanno lasciato nell’amministrazione Trump – afferma Roberts – sono i sionisti e i generali impazziti che vogliono la guerra con la Russia, la Cina, l’Iran, la Siria e la Corea del Nord. E non c’è nessuno, alla Casa Bianca, capace di fermarli». Questo è il «bacio d’addio alla normalizzazione delle relazioni con la Russia: il conflitto siriano è impostato per essere riaperto». Incidente gravissimo, strategico: data «l’assenza di qualsiasi prova» sulle responsabilità di Assad, «è del tutto evidente che l’attacco chimico è un evento orchestrato da Washington».Il segretario di Stato americano Rex Tillerson ha messo in guardia la Russia: è scattata l’operazione per rimuovere Assad, e purtroppo Trump è d’accordo, continua Craig Roberts. Conseguenza: «La rimozione di Assad permette a Washington di imporre un altro burattino americano su popoli musulmani». Obiettivo sostanziale:«Rimuovere un altro governo arabo con una politica indipendente da Washington, per eliminare un altro governo che si oppone al furto di Israele della Palestina». Per Tillerson, storico patron della Exxon, far cadere il governo siriano significa anche «tagliare il gas russo destinato all’Europa con un gasdotto controllato degli Stati Uniti, che dal Qatar raggiunga l’Europa attraverso la Siria». Brutte notizie per Mosca, che – combattendo seriamente contro l’Isis – sperava davvero, con Trump, di raggiungere una partnership con Washington attraverso uno sforzo comune contro il terrorismo. Speranze che Craig Roberts oggi definisce «del tutto irrealistiche». Un’idea addirittura «ridicola», visto che «il terrorismo è l’arma di Washington». Un’accusa frontale, dunque: sono gli Usa i mandanti diretti dell’Isis, accusa l’ex stratega di Reagan.Una volta messa fuori gioco la Russia, continua Craig Roberts, «il terrorismo verrà poi diretto contro l’Iran su larga scala». E quando l’Iran dovesse a sua volta cadere, sempre il terrorismo “amico” della Cia, quello che oggi è targato Isis, «inizierà a lavorare sulla Federazione Russa e con la provincia cinese che confina con il Kazakhstan». Possibile? Senz’altro: «Washington ha già dato alla Russia un assaggio del terrorismo sostenuto dagli Usa in Cecenia. E il più è deve ancora arrivare». Craig Roberts rimprovera ai russi una sorta di fatale ingenuità: speravano, davvero in Donald Trump. Per questo, sostiene, hanno evitato di stravincere, dopo aver conquistato il cruciale ovest della Siria, paese che oggi è invece, ancora, a rischio di spartizione, dopo la brutale defenestrazione di Assad. I russi, «ipnotizzati dal sogno di cooperare con Washington, hanno messo la Siria (e se stessi) in una posizione difficile». Avevano «sorpreso il mondo», accettando di difendere la Siria dall’Isis, e allora «Washington era impotente». In pochi mesi, l’intervento russo ha sbaragliato l’Isis. «Poi, all’improvviso, Putin si è fermato: ha annunciato il ritiro, affermando, come Bush sulla portaerei: missione compiuta».Ma la missione non era compiuta, sottolinea Craig Roberts: la Russia è stata costretta a tornare in campo, «nella vana convinzione che Washington si sarebbe messa finalmente a collaborare con la Russia per eliminare l’ultima roccaforte Isis». Al contrario, invece, «gli Stati Uniti hanno inviato forze militari per bloccare i progressi russi sulla scena siriana». Il ministro degli esteri Lavrov ha protestato, ma – ancora una volta – la Russia «non ha usato il suo potere superiore sulla scena per battere le forze americane e portare a termine il conflitto». Ora Washington dà “avvertimenti” a Mosca, a suon di missili: riuscirà il Cremlino a capire che può scordarsi ogni cooperazione e, semmai, prenotarsi per un ruolo di vassallo? Si avvicina una trappola pericolosa, continua Craig Roberts: «La Russia non permetterà a Washington di rimuovere Assad», ma a Mosca esiste una “quinta colonna” «che è alleata con l’Occidente». Per Putin e l’indipendenza della Russia come potenza sovrana, si tratta del pericolo più insidioso, tale da metter fine al ruolo di Mosca come attore euroasiatico capace di imporre stabilità geopolitica, a cavallo dei due continenti.Collaboratori infedeli: spesso si è accennato, in quei termini, al gruppo che fa capo all’ex presidente Dmitrij Medvedev. Questa “quinta colonna”, sostiene Craig Roberts, «insisterà dicendo che la Russia potrà finalmente ottenere la collaborazione di Washington solo se “sacrificherà” Assad». Sarebbe un suicidio: l’acquiescenza di Putin «distruggerebbe l’immagine del potere russo», e sarebbe utilizzata «per privare la Russia di valuta estera dalle vendite di gas naturale verso l’Europa». Putin ha detto che la Russia non può fidarsi di Washington? «Si tratta di una deduzione corretta dai fatti», conclude Craig Roberts. E quindi, perché mai la Russia dovrebbe cedere, in cambio del miraggio della mitica cooperazione con Washington, cioè con il potere che sostiene sottobanco i terroristi dell’Isis? «La cooperazione ha un solo significato: significa arrendersi a Washington». Per il grande analista americano, Putin ha “ripulito” la Russia solo in parte: «Il paese rimane pieno di agenti americani, ed è straordinario vedere quanto poco, i media russi, capiscono il pericolo nel quale la Russia si trova». E dunque: «Sarà Putin il prossimo a cadere vittima dell’establishment di Washington, come è appena accaduto a Trump?».«Trump si è arreso. Il prossimo sarà Putin?». Se lo domanda Paul Craig Roberts, uno dei più autorevoli osservatori indipendenti della scena internazionale, all’indomani del raid missilistico sulla Siria ordinato dal capo della Casa Bianca senza prima acquisire prove sulle responsabilità di Assad nell’attacco a Idlib con il gas Sarin. «L’establishment di Washington ha ripreso il controllo», scrive sul suo blog l’ex viceministro di Ronald Reagan. «Prima Flynn e ora Bannon», via le “colombe” che avevano trainato la campagna elettorale di Trump, lasciando intravedere il disgelo col resto del mondo. «Tutto ciò che hanno lasciato nell’amministrazione Trump – afferma Roberts – sono i sionisti e i generali impazziti che vogliono la guerra con la Russia, la Cina, l’Iran, la Siria e la Corea del Nord. E non c’è nessuno, alla Casa Bianca, capace di fermarli». Questo è il «bacio d’addio alla normalizzazione delle relazioni con la Russia: il conflitto siriano è impostato per essere riaperto». Incidente gravissimo, strategico: data «l’assenza di qualsiasi prova» sulle responsabilità di Assad, «è del tutto evidente che l’attacco chimico è un evento orchestrato da Washington».