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Comanda solo il business, ecco perché il mondo è nel caos
«Mentre la terza guerra mondiale non è stata formalmente dichiarata, i conflitti di tutto il mondo stanno raggiungendo livelli mai visti dal 1944», anche se per la grande maggioranza di persone in tutto il mondo «le notizie su questi conflitti sono solo parte della cronaca quotidiana». Per Roberto Savio, editore di “Other News” e fondatore dall’agenzia di stampa Ips, Inter Press Service, l’opinione pubblica ha semplicemente rinunciato a tentare di capire quello che sta succedendo, giorno per giorno. Perché il pianeta sta sprofondando in questo pericoloso caos? «La fine della Guerra Fredda ha scongelato il mondo, che era stato tenuto stabile dall’equilibrio tra le due superpotenze». Le alleanze oggi cedono, di fronte agli interessi nazionali: lo dimostra l’Austria, che ha firmato sottobanco con la Russia l’accordo per il gasdotto Southstream che aggirerebbe l’Ucraina, proprio mentre gli Usa pretendono che l’Europa isoli Mosca. «Un mondo multipolare è in divenire, ma resta da capire quanto stabile».Cina e Giappone stanno aumentando i loro investimenti militari, alla pari dei paesi circostanti, scrive Savio in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. E mentre i conflitti locali, come quelli in Siria, in Iraq e in Sudan, non stanno degenerando in un conflitto più allargato, questo rischio è invece molto più vicino in Asia. «In un mondo sempre più diviso da una recrudescenza degli interessi nazionali, l’idea stessa di una governance condivisa sta perdendo forza, e non solo in Europa», continua Savio. Le Nazioni Unite sono ormai diventate marginali come arena in cui raggiungere consenso e legittimità, mentre a dettare l’agenda sono «i due motori della globalizzazione – il commercio e la finanza». Sviluppo, pace, diritti umani, ambiente e istruzione? «Sebbene questi temi siano cruciali per un mondo vivibile, non sono visti come tali da chi è al potere. Conclusione: le Nazioni Unite stanno diventando irrilevanti», così come «valori e idee considerati universali», ad esempio «la cooperazione, l’aiuto reciproco, la giustizia sociale e la pace internazionale».Esempio: «Il presidente francese François Hollande incontra il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, non per discutere di come fermare il genocidio in Sudan o il sequestro di bambini in Nigeria, ma per chiedergli di intervenire con il suo ministro della giustizia per ridurre un’ammenda gigante comminata a una banca francese, la Bnp-Paribas, per attività fraudolente». Altro tema-fantasma, il futuro del pianeta: «L’incombente problema del controllo del clima era in gran parte assente nell’ultima riunione del G7, per non parlare del disarmo nucleare». Dopo il colonialismo, archiviati i regimi totalitari con la fine della Seconda Guerra Mondiale, la frase-chiave fu “l’attuazione della democrazia”. Ma al termine della Guerra Fredda, continua Savio, la democrazia fu data per scontata e ora «sta perdendo il suo fascino», perché il pragmatismo del business «ha portato alla perdita della visione a lungo termine, e la politica è diventata sempre più semplice amministrazione».I cittadini sono estranei ai partiti, e gli affari internazionali sono delegati ai poteri forti, che decidono senza più consultare il popolo. Accade ogni giorno: «Il modo in cui il piano di salvataggio di Cipro dalla crisi finanziaria di qualche anno fa è stato trattato in seno alla Commissione Europea è stato ampiamente riconosciuto come un esempio lampante di mancanza di trasparenza». Altro elemento-chiave per l’aumento del caos, la “nuova economia” prodotta dalla finanza: «Un’economia che contempla la disoccupazione permanente, la mancanza di investimenti sociali, una riduzione delle imposte per i grandi capitali, la marginalizzazione dei sindacati e una riduzione del ruolo dello Stato come regolatore e garante della giustizia sociale». Sicché, «le disuguaglianze stanno raggiungendo livelli senza precedenti», se è vero che «le 85 persone più ricche del mondo possiedono la stessa ricchezza di 2,5 miliardi di persone». Tutto ciò, conclude Savio, accade anche perché gli organizzatori del caos usano i media per manipolare la verità, oscurare le notizie e impedire all’opinione pubblica di “vedere” quello che sta davvero succedendo.«Mentre la terza guerra mondiale non è stata formalmente dichiarata, i conflitti di tutto il mondo stanno raggiungendo livelli mai visti dal 1944», anche se per la grande maggioranza di persone in tutto il mondo «le notizie su questi conflitti sono solo parte della cronaca quotidiana». Per Roberto Savio, editore di “Other News” e fondatore dall’agenzia di stampa Ips, Inter Press Service, l’opinione pubblica ha semplicemente rinunciato a tentare di capire quello che sta succedendo, giorno per giorno. Perché il pianeta sta sprofondando in questo pericoloso caos? «La fine della Guerra Fredda ha scongelato il mondo, che era stato tenuto stabile dall’equilibrio tra le due superpotenze». Le alleanze oggi cedono, di fronte agli interessi nazionali: lo dimostra l’Austria, che ha firmato sottobanco con la Russia l’accordo per il gasdotto Southstream che aggirerebbe l’Ucraina, proprio mentre gli Usa pretendono che l’Europa isoli Mosca. «Un mondo multipolare è in divenire, ma resta da capire quanto stabile».
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Ilan Pappe: Israele non fa più parte del mondo civile
Io non so ancora chi era il vostro congiunto. Potrebbe essere stata una bambina di pochi mesi, o un bambino di qualche anno, o un vostro nonno, o un vostro figlio o un vostro genitore. Ho saputo della morte del vostro congiunto da Chico Menashe, un commentatore politico di “Reshet Bet”, la più importante stazione radio israeliana. Chico ha detto che l’uccisione del vostro congiunto e il fatto di aver ridotto Gaza in macerie e di aver costretto 150.000 persone a lasciare le loro case, è parte di una strategia israeliana ben studiata: questa strage soffocherà l’impulso dei palestinesi di Gaza a resistere alle politiche israeliane. Ho sentito queste sue parole mentre leggevo, nell’edizione del 25 luglio deIla cosiddetta “rispettabile” testata “Haaretz”, le parole del non tanto rispettabile storico Benny Morris, secondo cui persino questo che sta accadendo ora non è abbastanza.Morris considera le attuali politiche di genocidio “refisut” – deboli di mente e di spirito; fa appello ad una futura maggiore opera di distruzione, poichè è questo il modo in cui si difende la propria “capanna nella giungla”, per citare la descrizione di Israele data dall’ex primo ministro israeliano Ehud Barak. Violenza disumana. VIOLENZA DISUMANA Sì, ho paura di dire che, a parte la flebile voce di una minoranza che scompare in mezzo a tanta violenza disumana, dietro a questo massacro ci sono tutti i media e tutte le maggiori personalità israeliane. Non vi scrivo per dirvi che provo vergogna – da tempo mi sono dissociato dall’ideologia di Stato e cerco di fare il possibile, come individuo, per contrastarla e sconfiggerla. Forse questo non basta; siamo spesso inibiti da momenti di vigliaccheria, egoismo e anche da un impulso naturale di prenderci cura principalmente delle nostre famiglie e di chi amiamo.Tuttavia, sento oggi il bisogno di assumermi un impegno solenne nei vostri confronti, un impegno che nessuno dei tedeschi che mio padre conobbe durante il regime nazista fu disposto ad assumersi, quando quei selvaggi massacrarono la sua famiglia. In questo giorno di vostro profondo dolore, questo mio impegno non sarà gran cosa, ma è la cosa migliore che io possa fare; e restare in silenzio non la considero un’opzione. E’ il 2014 – la distruzione di Gaza è ben documentata. Non è il 1948, quando i palestinesi dovettero lottare con ogni mezzo per poter raccontare la loro tragica storia di orrori subiti. Moltissimi dei crimini allora commessi dai sionisti rimasero nascosti e ancora oggi non sono venuti alla luce. Quindi, il mio unico e semplice impegno sarà quello di registrare, informare e insistere perché si conosca la verità dei fatti. La mia vecchia università, ad Haifa, ha reclutato i suoi studenti per diffondere via Internet un mare di bugie israeliane in tutto il mondo; ma oggi siamo nel 2014 e una propaganda di questo genere non funzionerà.IMPEGNO A BOICOTTARE Impegno a boicottare. Tuttavia, questo certamente non può bastare. Mi impegno quindi a continuare nello sforzo di boicottare uno Stato che commette crimini di questo genere. Solo quando l’Unione delle Federazioni Calcistiche Europee espellerà Israele, quando il mondo accademico si rifiuterà di avere rapporti istituzionali con Israele, quando le compagnie aeree eviteranno di volare sui cieli d’Israele e quando si capirà che perdere denaro nel breve termine per una presa di posizione etica significa guadagnare nel lungo termine moralmente e finanziariamente – solo allora potremo dire di aver onorato degnamente la vostra perdita. Il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds), ha conseguito diversi obbiettivi e continua nel suo instancabile lavoro. Ci sono ancora ostacoli, come la falsa accusa di antisemitismo e il cinismo dei politici. E’ così che è stata bloccata all’ultimo momento un’onorevole iniziativa di architetti britannici per indurre i loro colleghi in Israele a prendere una posizione morale, piuttosto che essere complici nella colonizzazione criminale di quelle terre. Altrove, in Europa e negli Stati Uniti, politici senza spina dorsale hanno sabotato simili iniziative. Ma il mio impegno è quello di essere sempre parte attiva nello sforzo di superare questi ostacoli. La memoria del vostro amato sarà la mia forza trainante, insieme al vivo ricordo delle sofferenze dei palestinesi nel 1948 e degli anni che seguirono.MATTATOIO Mattatoio. Faccio tutto questo egoisticamente. Prego e spero fortemente che in questo tragico momento della vostra vita, mentre i palestinesi di Shujaiya, Deir al-Balah e Gaza City assistono quotidianamente al massacro da parte di aerei, carri armati e artiglieria israeliani, non vi porti a smarrire per sempre la speranza nell’umanità. Questa umanità comprende anche degli israeliani che non hanno il coraggio di parlare, ma che esprimono il loro orrore in privato, come lo attesta la mia casella di posta elettronica zeppa di messaggi, e la mia pagina Facebook, come lo attesta quella piccola minoranza in Israele che manifesta pubblicamente contro il crescente genocidio di Gaza. Questa umanità comprende anche quelli che ancora non sono nati, che forse saranno in grado di sfuggire a una macchina di indottrinamento sionista che li plasma, dalla culla alla tomba, e li addestra a disumanizzare i palestinesi a tal punto che veder bruciare vivo un ragazzo palestinese di sedici anni non li smuove e non li fa barcollare nella loro fede nel governo, nell’esercito e nella religione.SCONFITTA Sconfitta. Per il loro bene, per il mio e per il vostro bene, mi auguro di poter continuare a sognare l’alba del giorno dopo – quando il sionismo sarà sconfitto insieme all’ideologia che governa le nostre vite tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo; e che tutti noi possiamo vivere la vita normale che desideriamo e meritiamo. Quindi, oggi mi impegno a non farmi distrarre da amici e dirigenti palestinesi che ancora ripongono le loro speranze nella “soluzione dei due Stati”. Se davvero uno sente l’impulso di lavorare per un cambiamento di regime in Palestina, l’unico obbiettivo deve essere quello di lottare per la parità dei diritti umani e civili e per il pieno ristabilimento e reintegro di tutti coloro che sono e sono stati vittime di sionismo, dentro e fuori l’amata terra di Palestina.Il vostro congiunto, chiunque sia stato, possa lui/lei riposare in pace, sapendo che la sua morte non è stata vana – e non perché sarà vendicata e rivendicata all’infinito. Non abbiamo bisogno di altri spargimenti di sangue. Credo ancora che ci sia un modo per porre fine alla malvagità e alla crudeltà con la forza dell’umanità e della moralità. Giustizia significa anche portare in tribunale gli assassini che hanno ucciso la vostra persona amata e tante altre persone, e portare i criminali di guerra d’Israele davanti ai tribunali internazionali. Lo so, è una via molto più lunga, anch’io avverto a volte l’impulso di far parte di una forza che utilizza la violenza per porre fine alla disumanità. Ma mi impegno a lavorare per la giustizia, la giustizia piena, la giustizia riparatoria. Questo è quello che posso promettere – lavorare per evitare che arrivi in Palestina una prossima fase di pulizia etnica e un nuovo genocidio a Gaza.(Ilan Pappe, “Alla famiglia della millesima vittima del genocidio ad opera degli israeliani a Gaza”, dal blog “The Electronic Intifada” del 27 luglio 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”. Il professor Pappe, di Haifa, è uno dei massimi storici israeliani contemporanei. Durissimo il suo saggio “La pulizia etnica della Palestina”, pubblicato da Fazi, che denuncia l’orrore del genocidio anti-palestinese per mano sionista avviato decenni prima della Seconda Guerra Mondiale. Oggi, Pappe insegna all’università di Exeter, in Gran Bretagna).Io non so ancora chi era il vostro congiunto. Potrebbe essere stata una bambina di pochi mesi, o un bambino di qualche anno, o un vostro nonno, o un vostro figlio o un vostro genitore. Ho saputo della morte del vostro congiunto da Chico Menashe, un commentatore politico di “Reshet Bet”, la più importante stazione radio israeliana. Chico ha detto che l’uccisione del vostro congiunto e il fatto di aver ridotto Gaza in macerie e di aver costretto 150.000 persone a lasciare le loro case, è parte di una strategia israeliana ben studiata: questa strage soffocherà l’impulso dei palestinesi di Gaza a resistere alle politiche israeliane. Ho sentito queste sue parole mentre leggevo, nell’edizione del 25 luglio deIla cosiddetta “rispettabile” testata “Haaretz”, le parole del non tanto rispettabile storico Benny Morris, secondo cui persino questo che sta accadendo ora non è abbastanza.
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Debito positivo, cioè consumi, per tornare sostenibili
Se la politica capisse cos’è veramente il debito pubblico, nessuno in Italia, così come in alcun paese europeo oggi, parlerebbe di crisi. Ma poiché la politica non sa (e in alcuni casi non vuole) capirlo, tocca a noi cittadini e imprenditori informarci, e salvarci di conseguenza. Sapete bene che il reale governo italiano risiede nelle istituzioni dell’Eurozona, che decidono tutto ciò che conta nelle nostre vite di cittadini e aziende. Costoro ci dicono da anni che il debito pubblico va sempre contenuto, perché è la causa di ogni possibile male economico. A tale scopo hanno imposto ai diciotto membri della zona euro le austerità, cioè tagli selvaggi a tutto ciò che è spesa dello Stato, il cosiddetto “risanamento” dei conti. Ma i risultati non ci sono, anzi: in nessuno dei diciotto si è vista una riduzione di debito, e peggio, le relative economie sono tutte in calo, includendo Belgio, Finlandia, Olanda e anche Germania, non solo noi “spendaccioni” del sud Europa, dati Eurostat alla mano. E allora ecco la domanda: cos’è che non funziona?E’ semplice. Primo punto: il debito pubblico non è pubblico. Quando uno Stato spende o emette un titolo, esso accredita conti correnti di cittadini e aziende (noi, il cosiddetto “pubblico”). Quella spesa è debito di Stato, ma è il credito di tutti gli altri, cioè noi, il “pubblico”. Non può essere contemporaneamente debito per tutti e due. Nessuno di noi dovrà ripagarlo. Nessuna impresa privata che lavora per lo Stato dovrà restituire quel fatturato, così come nessun risparmiatore dovrà ripagare i Bot che ha in portafoglio. Di nuovo: la spesa di Stato è debito del governo, ma credito per tutti noi. Secondo punto: il debito dello Stato può essere fruttuoso o, al contrario, dannoso per l’economia. Ed è qui l’errore catastrofico della politica di Bruxelles, cioè il condannare il debito di per sé, sempre, e sempre pretendere che esso venga ridotto. Innanzi tutto, ribadendo che il debito di Stato è il credito di cittadini e aziende, ridurlo significa automaticamente impoverirci. Poi, di nuovo, vanno distinti i due tipi di debito.Se lo Stato investe in un programma di piena occupazione, in infrastrutture e tecnologie per le imprese, in ricerca, se impone il costo del denaro a tasso quasi zero, o addirittura fa credito agevolato in settori vitali per le imprese e le famiglie, la ricchezza del paese cresce (il Pil), e parlo della ricchezza di cittadini e aziende. La crescita del Pil non solo rilancia i consumi e i fatturati, ma rientra sempre nelle “casse” dello Stato e finisce poi col mantenere il debito stabile. Questo è il debito positivo. Se, come invece pretendono le austerità di Bruxelles, viene impedito al governo di usare il debito in quel modo virtuoso, l’economia collassa, il Pil cala e in questo modo la proporzione del debito su Pil appare maggiorata.E peggio: il governo è poi costretto a spendere montagne di denaro per “tappare i buchi” causati proprio dalle austerità, come la cassa integrazione, come i salvataggi delle banche travolte dai prestiti emessi ma ora inesigibili, come l’aumento delle spese per la povertà sociale, e come le “punizioni” che i mercati c’infliggono alzandoci i tassi d’interesse proprio a causa della crisi innescata dalle austerità stesse. Questa è tutta spesa a debito negativo, perché non produce nulla, non aumenta né Pil né fatturati né redditi, e fa crescere precisamente il volume del debito. Un paradosso micidiale, che sta devastando le nostre vite, ma che la politica italiana, totalmente serva del potere europeo, non vuole capire, tanto meno rimediare. Esiste un debito di Stato non solo positivo, ma vitale per noi cittadini e aziende. Non possiamo farne senza, oggi.(Paolo Barnard, “Debito positivo e debito negativo, la differenza”, dal blog di Barnard del 17 luglio 2014).http://www.paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=889Se la politica capisse cos’è veramente il debito pubblico, nessuno in Italia, così come in alcun paese europeo oggi, parlerebbe di crisi. Ma poiché la politica non sa (e in alcuni casi non vuole) capirlo, tocca a noi cittadini e imprenditori informarci, e salvarci di conseguenza. Sapete bene che il reale governo italiano risiede nelle istituzioni dell’Eurozona, che decidono tutto ciò che conta nelle nostre vite di cittadini e aziende. Costoro ci dicono da anni che il debito pubblico va sempre contenuto, perché è la causa di ogni possibile male economico. A tale scopo hanno imposto ai diciotto membri della zona euro le austerità, cioè tagli selvaggi a tutto ciò che è spesa dello Stato, il cosiddetto “risanamento” dei conti. Ma i risultati non ci sono, anzi: in nessuno dei diciotto si è vista una riduzione di debito, e peggio, le relative economie sono tutte in calo, includendo Belgio, Finlandia, Olanda e anche Germania, non solo noi “spendaccioni” del sud Europa, dati Eurostat alla mano. E allora ecco la domanda: cos’è che non funziona?
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Missione compiuta, l’Italia muore: la catastrofe in cifre
Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica. L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. E’ quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi. L’Italia in rosso, che sta precipando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. Ognuno combatte, da solo, contro continui rovesci: non ci sono spiragli, non c’è alcuna “ripresa” nemmeno all’orizzonte. Ma nessuno racconta davvero l’assedio del panico, la paura sciorinata dai “crudi numeri”, che forse non fotograno «le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l’Italia», però «ci aiutano a comprenderlo».Secondo gli analisti di “Sollevazione”, la resa matematica dell’Italia rivelata dai conti – la lingua spietata del pallottoliere – permette anche di «capire come le politiche austeritarie per tenere in piedi l’euro, il sistema bancocratico e il capitalismo-casinò, abbiano affossato il nostro paese», il cui Pil ha perso 8,7 punti percentuali a partire dal 2007, inclusa la manipolazione dello spread che ha “armato” la gigantesca manomissione operata da Monti e Fornero, con la loro “spending review” e la riforma-suicidio delle pensioni. Un’agenda peraltro proseguita da Letta: tagliare la spesa, ben sapendo che il “risparmio” dello Stato manda in crisi il settore privato, facendo calare il gettito fiscale e quindi esplodere il debito pubblico. Matteo Renzi? Niente di nuovo: neoliberismo puro, a cominciare dal Jobs Act per precarizzare ulteriormente il lavoro. Aggravanti: la neutralizzazione delle ultime difese sociali garantite dalla Costituzione, come vuole l’élite finanziaria, e l’eliminazione fisica dell’opposizione attraverso una legge elettorale come l’Italicum, definita peggiore – per le sue restrizioni – di quella che permise a Mussolini di consolidare il neonato regime fascista.Tutto questo, mentre il paese soccombe ogni giorno: in sei anni, il Pil pro capite è calato di 9 punti (di 10, invece, il reddito reale disponibile per le famiglie). Stesse percentuali per la frana della ricchezza nazionale: -9% dal 2007 al 2013, pari a 843 miliardi di euro. C’era una volta l’Italia: nello stesso periodo, la produzione industriale è crollata addirittura del 25,5%. Sta andando in frantumi, grazie alla politica imposta da Berlino, il maggior competitore europeo della Germania. Tra il 2001 e in 2013, l’Italia ha perso 120.000 fabbriche. Sono cifre da scenario bellico, e non sono riguardano solo l’industria: ci sono anche le 75.000 imprese artigiane costrette a chiudere. Anno record per il fallimenti, l’infame 2013 delle “larghe intese”: qualcosa come 111.000 fallimenti, in appena dodici mesi. Contraccolpo catastrofico, la disoccupazione: dal 2001, con l’ingresso nell’Eurozona, l’industria italiana ha perso un milione e 160.000 posti di lavoro. Colpa anche dell’assenza di credito: nonostante ricevano denaro dalla Bce a tassi «prossimi allo zero», le banche continuano a finanziare le imprese con prestiti al 4,49%, mentre negli altri paesi dell’Eurozona l’interesse medio è al 3,8%.Anche così il lavoro si estingue alla velocità della luce. Dal 2007, la piaga della disoccupazione è più che raddoppiata: dal 6,1% al 12,7 attuale. «I disoccupati ufficiali sono 3 milioni e 300.000», rileva “Sollevazione”, ai quali vanno però aggiunti «altri 3 milioni di persone», che ormai non si rivolgono neppure più ai centri per l’impiego: i cosiddetti “sfiduciati” fanno salire a quasi 6 milioni e mezzo il totale dei disoccupati italiani, proprio mentre la Germania del super-export vede salire ai massimi storici la quota degli occupati. C’è anche il trucco, naturalmente: un tedesco su quattro accetta i mini-job da 450 euro al mese. E’ la strada aperta in Italia dal Jobs Act di Renzi, di fronte a una platea oceanica di giovani senza lavoro: il 43%, più del doppio dei ragazzi disoccupati nel 2007. Sta male, comunque, la stragrande maggioranza dei salari italiani: «Con uno stipendio netto di 21.374 dollari l’anno, l’Italia si colloca al 23esimo posto nella classifica Ocse: se la passano peggio solo i portoghesi e gli abitanti dei paesi dell’Europa orientale». A valanga, la mancanza di impiego si traduce in forte calo dei consumi familiari, tagliati di quasi il 10% solo negli ultimi due anni. A farne le spese è anche il risparmio, continuamente eroso per far fronte all’emergenza economica, mentre la super-tassazione disposta dall’Ue ha raggiunto per l’Italia il 44% del Pil.«Se si considera il periodo tra il 2011 e il 2012 – precisa “Sollevazione” – soltanto l’Ungheria, in Unione Europea, ha conosciuto un aumento delle tasse rispetto al Pil superiore a quello dell’Italia». E’ un circolo vizioso: imporre più tasse a chi già le paga, per tentare (inutilmente) di arginare il calo delle entrate, comunque – già oggi – superiori alla somma delle uscite: situazione che sarà ulteriormente aggravata dal Fiscal Compact e cronicizzata dall’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione. In pratica, la fine dello Stato sociale e delle garanzie sui servizi vitali – scuola e sanità in primis, peraltro minacciate di privatizzazione forzata dal Ttip e dal Tisa, i trattati segreti euro-atlantici imposti dagli Usa, che Renzi preme per approvare in fretta. Cartina di tornasole di questa autentica catastrofe, il debito pubblico: era pari al 103,3% del Pil nel 2007, ma ha raggiunto il 132,9% nel 2013. «L’ultimo rilevamento di Bankitalia ci dice che il debito pubblico ha toccato a maggio 2014 un nuovo record storico: quota 2.166,3 miliardi, con un aumento di 20 miliardi sul mese precedente».Va in rosso il conto delle famiglie, nel paese che prima dell’avvento dell’euro era il più risparmiatore d’Europa: rispetto al Pil, dal 1998 al 2012 il debito privato delle imprese è passato dall’85 al 120%, quello delle banche dal 40 al 110%, quello delle famiglie dal 30 al 50%. Paradossalmente, osserva “Sollevazione”, «in questo periodo quello che è cresciuto meno è stato proprio il debito pubblico», mentre il debito aggregato – pubblico e privato – è letteralmente esploso, dal 275% ad oltre il 400%. Spaventose pure le sofferenze bancarie, cresciute di 100 miliardi dal 2007 al 2013, per un totale di 147,3 miliardi di euro. Ed ecco l’ultimo gradino della tragedia: la povertà. Un fantasma che mette paura: l’esercito dei nuovi poveri e il timore che crescano furti e rapine ha aumentato del 5,7% i denari lasciati in custodia alle banche, oltre 1,2 miliardi di euro. Secondo Eurostat, gli «individui a rischio povertà o esclusione sociale» nel 2008 erano in Italia il 25,3%, e sono diventati il 29,9% nel 2012. L’ Istat è ancora più preciso: «Un italiano su dieci è in povertà assoluta».Tra il 2012 e il 2013, spiega l’istituto di statistica, l’incidenza della povertà assoluta è aumentata dal 6,8 al 7,9%, coinvolgendo oltre 300.000 famiglie e 1 milione 206.000 persone in più rispetto all’anno precedente. «E’ povera, o quasi povera, una famiglia su cinque». Poi c’è la “povertà relativa”, quelle delle famiglie (sono quasi 3 milioni e mezzo) il cui portafoglio mensile è inferiore alla spesa media nazionale, 972 euro al mese. Sono famiglie che cercano di sopravvivere con meno di 800 euro al mese, che si riducono a meno di 750 nel Mezzogiorno, dove più evidenti sono le diseguaglianze che la “crisi” ha fatto esplodere. Nel 1992, l’Italia era un paese relativamente equilibrato: non c’era un abisso tra ricchi e poveri e la classe media era in ottima salute. Oggi, praticamente, è in via di estinzione e teme di sprofondare giorno per giorno verso la povertà. Nel 2013, l’Italia è risultato «il paese più diseguale dell’Unione Europea, dopo la Gran Bretagna». Solo che il Regno Unito non è ingabbiato dall’euro. Infatti, a Londra, economia e occupazione stanno decisamente meglio rispetto alla media dell’atroce Eurozona, di cui l’Italia – dopo la Grecia – è la vittima principale.Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica. L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. E’ quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi. L’Italia in rosso, che sta precipando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. Ognuno combatte, da solo, contro continui rovesci: non ci sono spiragli, non c’è alcuna “ripresa” nemmeno all’orizzonte. Ma nessuno racconta davvero l’assedio del panico, la paura sciorinata dai “crudi numeri”, che forse non fotografano «le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l’Italia», però «ci aiutano a comprenderlo».
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Temo una rivolta, perché guadagno mille volte più di voi
«Probabilmente non mi conoscete, ma come voi sono uno degli 0,1%, un fiero capitalista. Ho fondato, co-fondato e finanziato più di 30 società di ogni genere, da cose piccole come il night club con cui ho cominciato a vent’anni, a giganti come Amazon.com di cui sono stato il primo investitore esterno. Poi ho fondato aQuantitative, una società di pubblicità su Internet che nel 2007 è stata venduta a Microsoft per 6,4 miliardi di dollari. In contanti. Insieme ad amici possediamo una nostra banca. Racconto tutto questo per dimostrarvi che per molti versi non sono molto diverso da voi. Come voi ho una visione ampia degli affari e del capitalismo. E come voi sono stato oscenamente ricompensato per il mio successo, con una vita che gli altri 99,9% di americani non possono nemmeno immaginare. Molteplici case, aereo personale, ecc». Comincia così una sorprendente lettera aperta, pubblicata qualche giorno fa dal sofisticato “Politico.com” e rilanciata da siti di economia & politica come “Business Insider” e “Zero Hedge”, ogni volta con un gran numero di lettori e apprezzamenti.Una lettera che è anche una analisi/denuncia del livello estremo raggiunto dalla disuguaglianza nell’odierno capitalismo. E un avviso: così non può continuare. Arriveranno i forconi, contro di noi. Nick Hanauer, 55 anni, nonni immigrati dalla Germania di Hitler, è un classico uomo d’affari americano, uno che si è fatto da sé. Americano anche nel piglio con cui si esprime. «Nel 1992 a Seattle vendevo cuscini fabbricati dall’impresa della mia famiglia a negozi in giro per il paese e Internet era una goffa novità alla quale ci si collegava a 300 baud. Ma già allora mi sono accorto abbastanza rapidamente che molti grandi magazzini miei clienti erano condannati. Ho capito che non appena Internet fosse diventata abbastanza veloce e affidabile – e quel tempo non era così lontano – tutti si sarebbero buttati a comprare on line come pazzi. Realizzare questo, vedere oltre l’orizzonte un po’ più in fretta di tanti altri, è stata la parte strategica del mio successo. La parte fortunata è stata invece l’avere un paio di amici, entrambi di grande talento, anche loro intrigati dalle potenzialità della rete. Uno è un tizio di cui non avrete certo sentito parlare, Jeff Tauber, l’altro era Jeff Bezos (il fondatore di Amazon ndr). Ero così eccitato dal potenziale del web che ho detto ai due Jeff che volevo investire in qualsiasi cosa avessero deciso di lanciare».«Il secondo Jeff – Bezos – mi chiamò per primo, e lo aiutai a sottoscrivere la sua piccola libreria start up. L’altro Jeff partì con un negozio on line chiamato Cybershop, ma quando la fiducia nelle vendite via Internet era ancora bassa; era troppo presto per la sua idea, la gente non era ancora pronta ad acquistare on line cose costose senza vederle di persona (a differenza di oggetti semplici come i libri, la cui qualità non cambia – questa è stata la carta vincente di Bezos). Cybershop non è andato lontano, è stato uno dei tanti fallimenti di imprese dot-com. Amazon è andato meglio. E io ora possiedo un maxi-yacht. Ma lasciatemi essere franco. Non sono la persona più intelligente che avete conosciuto, o quello capace di lavorare più sodo. Ero uno studente mediocre, non sono un tecnico – non so ho mai saputo scrivere una riga di software. Quel che mi è servito, credo, è una certa propensione al rischio e un’intuizione su quel che accadrà in futuro. Intuire dove le cose stanno andando è l’essenza dell’imprenditorialità. E cosa vedo oggi nel nostro futuro? Vedo dei forconi».«Mentre persone come voi e me prosperano oltre i sogni di ogni plutocrate nella storia, il resto del paese – il 99,9% – resta molto indietro e arretra. Il divario fra quelli che hanno e quelli che non hanno peggiora sempre di più. Nel 1980 l’1% in cima alla piramide controllava l’8% del reddito nazionale degli Stati Uniti. Il 50% più in basso si divideva il 18% delle ricchezze. Oggi l’1% più ricco si divide il 20%, e il 50% della popolazione solo il 12%. Ma il problema non è la disuguaglianza in sé, qualche misura è intrinseca a ogni economia capitalista che funzioni. Il problema è che la disuguaglianza è a livelli storicamente mai visti e peggiora di giorno in giorno. Il nostro paese sta diventando una società sempre meno capitalista e sempre più una società feudale. A meno che le nostre politiche non cambino drammaticamente, la classe media scomparirà, e torneremo indietro alla Francia del 18° secolo. Prima della Rivoluzione. Così ho un messaggio per i miei colleghi oscenamente ricchi, per tutti coloro che vivono nelle bolle dei nostri mondi circondati da cancellate: svegliatevi, gente. Non durerà. Se non si fa qualcosa per sanare le clamorose diseguaglianze in questa economia, i forconi ci saranno addosso».«Nessuna società può tollerare una tale disparità. Non ci sono esempi nella storia in cui si sia verificata una tale accumulazione di ricchezza e i forconi non siano arrivati. Dove c’è una società altamente disuguale o c’è uno Stato di polizia, o un’insurrezione. Non ci sono altre possibilità. Il punto non è se, ma quando. Molti di voi pensano che siamo speciali perché “questa è l’America”, pensiamo di essere immuni alla forze che hanno dato vita alla Primavera Araba o alle Rivoluzioni in Francia e in Russia. Molti fra i colleghi dello 0,1% sfuggono questo argomento, molti mi prendono per matto, altri vedono un ragazzino povero con un iPhone e pensano che l’ineguaglianza sia una finzione. Vivete nel mondo dei sogni, vi dico. Volete credere che se ci sarà qualche segnale di destabilizzazione, ci sarà tempo per reagire e organizzarsi. Ma non funziona così, come sa qualsiasi studente di storia. Le rivoluzioni, come le bancarotte, si manifestano per gradi e poi precipitano di colpo. Un giorno uno si dà fuoco e improvvisamente la gente è in strada, prima che ci si renda conto il paese brucia. E non c’è tempo per salire sul nostro Gulfstream e scappare in Nuova Zelanda. Succede così. E se l’ineguaglianza peggiorerà, succederà».Sembrano le parole dei ragazzi di “Occupy Wall Street”, movimento che pare scomparso nel nulla. Ma il nostro capitalista niente affatto pentito non parla così per paura quanto per interesse. Del paese, della società, ma anche degli stessi ultraricchi dello 0,1%, a quanto cerca di dimostrare nell’analisi che segue. La cui tesi si può riassumere nel titolo dato al post da “Business Insider” (foto di persone in fila negli anni ’30 della Grande Depressione): “Spiacenti, gente, ma i ricchi non creano occupazione”. Hanauer se la prende con il punto di vista “ortodosso” dell’economia politica, e ne smonta alcuni presupposti di fondo: «Sono i ricchi che creano occupazione? Falso. E’ come dire che il seme crea l’albero: magari ne è il presupposto, ma provate a piantare un seme su Marte o nel Sahara. Senza terra buona, acqua, nutrienti non spunterà nulla e il seme morirà. La retorica per cui l’America è grande per via di uomini come me e Steve Jobs è finzione. Se entrambi fossimo nati in Somalia o in Congo saremmo rimasti a vendere frutta all’angolo della strada».L’economia non è un’astrazione, ma un ecosistema complesso di persone reali fra loro interdipendenti. Se i lavoratori hanno più denaro, le imprese hanno più clienti e hanno bisogno di più impiegati. A creare posti di lavoro in ultima istanza sono i clienti, i consumatori, vale a dire la classe media. Non sono i ricchi, come vuole uno dei luoghi comuni dell’economia ortodossa, non sono gli imprenditori, che pure sono una parte importante del processo. La classe media è stata la causa, non la conseguenza, della prosperità goduta nel passato dagli Usa. Alzare il salario minimo costa posti di lavoro, per la legge della domanda e dell’offerta? Falso. Lo aveva ben capito Henry Ford che nel 1914 raddoppiò la paga ai suoi operai (a 5 dollari al giorno, equivalenti a 120 di oggi) affinché potessero permettersi di comprare le auto che producevano. Lo ha capito la città di Seattle, che ha alzato per legge il salario minimo a 15 dollari l’ora da 9 – che era già il 30% in più della media Usa. Risultato: Seattle è con San Francisco la città col tasso di occupazione più alto negli Usa, ed è in assoluto la città che cresce di più.Il problema con la nostra economia – chiosa “Business Insider” – è che quella che una volta era la nostra potente classe media è stata lasciata impoverire da decenni di tagli ai costi e salari stagnanti, e oggi porta a casa una quota molto minore di 30 anni fa, mentre gente come Hanauer e i suoi amici dell’1% si accaparravano fette sempre maggiori di ricchezza, anche dopo la crisi del 2008. Dal 2009 al 2012 il 95% dei guadagni è andato all’1% mentre il 99% è rimasto al palo. Negli ultimi tre decenni i compensi per i Ceo (amministratori delegati, direttori generali, alti dirigenti) sono cresciuti 127 volte più rapidamente di quelli di altre categorie. Dal 1950 il rapporto tra la paga di un Ceo e quella di un lavoratore è aumentato del 1.000%: i Ceo guadagnavano 30 volte il salario medio, oggi il loro stipendio vale 500 volte il secondo. E nessuno ha eliminato i propri alti dirigenti senior, li ha esternalizzati in Cina o ha automatizzato il loro lavoro. Al contrario, ce ne sono molti più di prima.Intanto la classe media veniva falcidiata da politiche fiscali favorevoli all’1%, dalla globalizzazione e da miglioramenti tecnologici senza controlli. Ma veniva strozzata anche dalla nostra ossessione per il profitto a breve termine, dall’ethos prevalente nel mondo degli affari per cui gli impiegati sono visti come “un costo” e le società tengono i loro salari più bassi possibile. E’ un bene per l’economia che i ricchi siano sempre più ricchi? Falso. Il punto è che la classe media spende quasi tutto quello che guadagna, e questa spesa diventa ricavo per società avviate, finanziate o possedute da persone come Hanauer. Ma oggi, con i salari bassi come mai grazie all’avidità e alle corte vedute dell’1%, la classe media non è più in grado di farlo, e ciò si ritorce contro l’economia reale e gli stessi imprenditori. In America infatti i più ricchi – imprenditori, investitori e società – oggi hanno così tanto denaro da non riuscire a spenderlo. Così, invece di ri-pomparlo nell’economia creando guadagni e salari, quel denaro resta in conti di investimento.«Io guadagno all’anno 1.000 volte l’americano medio, ma non compro mille volte più roba. La mia famiglia negli ultimi anni ha comprato tre automobili, non 3.000. Io ho acquistato qualche paio di pantaloni e qualche camicia all’anno, come molti altri americani. Ho comprato due paia dei migliori pantaloni di lana, quelli che il mio partner Mike chiama “pantaloni da manager”. Ma non avrei potuto acquistarne 1.000. Invece ho messo via il mio denaro extra là dove non fa molto bene al paese». Se i 9 milioni di dollari di Hanauer in più dei 10 milioni di guadagni annuali fossero andati a 9.000 famiglie invece che a lui, sarebbero stati pompati di nuovo nell’economia attraverso il consumo. E avrebbero creato più occupazione. Invece stanno nei conti bancari di Hanauer o investiti in società che non hanno abbastanza clienti potenziali a cui vendere. Hanauer stima che se la maggior parte delle famiglie americane portasse a casa la stessa quota di reddito nazionale di 30 anni fa, ogni famiglia avrebbe altri 10.000 dollari di reddito da spendere.Con famiglie più ricche, lo Stato potrebbe davvero diventare più snello, risparmiando su assistenza pubblica, cure mediche gratuite, buoni pasto (oggi fruiti da 44 milioni di cittadini). E anche i più ricchi se ne gioverebbero. Il messaggio finale: «Cari 1%, molti dei nostri compatrioti cominciano a credere che il problema sia il capitalismo in sé. Non sono d’accordo, e credo non lo siate neppure voi. Ma il capitalismo lasciato senza controlli tende alla concentrazione e al collasso. Ecco perché gli investimenti nella classe media funzionano, e i tagli delle tasse ai ricchi invece no. Bilanciare il potere dei lavoratori con quello dei miliardari alzando il salario minimo non è male per il capitalismo, è uno strumento indispensabile per rendere il capitalismo stabile e sostenibile», conclude Hanauer (all’inizio invero esortava a prendere esempio dalle riforme di Franklyn Delano Roosevelt, un po’ più ampie di così). «O possiamo star seduti, non fare nulla e goderci i nostri yacht. Aspettando i forconi».L’analisi di Hanauer riguarda anche l’Italia? Sì, per tre motivi. Perché le disuguaglianze ci sono anche da noi, sia pure meno accentuate che negli Usa; perché le tendenze in America si riflettono altrove, a cominciare dall’Europa; perché, al di là delle riforme indispensabili al nostro paese fermo da decenni, l’economia italiana fa parte del sistema economico globale. Un sistema che fra debiti enormi e disoccupazione vertiginosa non sta affatto bene, come oggi ricorda la Banca dei Regolamenti Internazionali, mentre un rapporto della Banca Mondiale invita esplicitamente a prepararsi per la prossima crisi. Hanauer parla sicuramente nell’interesse dell’economia reale, dei cittadini e delle imprese piccole e medie. Ma alle banche e alle grandi corporations i luoghi comuni dell’ortodossia vanno benissimo. Finanza e multinazionali, compresi i costruttori di armamenti, i colossi dell’high-tech, i giganti della farmaceutica o del web hanno clienti globali, si tratti dell’1% del pianeta (dove addirittura 85 iper-ricchi – non 8.500, né 850, proprio 85 – detengono tanta ricchezza quanta ne possiede la metà della popolazione della Terra) o della classe media che a livello planetario comunque emerge fra varie contraddizioni. E multinazionali e banche & finanza hanno anche le lobby più potenti capaci di “convincere” i politici a fare leggi e norme a loro più favorevoli. Non resta che attendere i forconi, allora, o aspettare la prossima crisi?(Maria Grazia Bruzzone, “Svegliatevi plutocrati, i forconi ci saranno addosso”, da “La Stampa” del 4 luglio 2014).«Probabilmente non mi conoscete, ma come voi sono uno degli 0,1%, un fiero capitalista. Ho fondato, co-fondato e finanziato più di 30 società di ogni genere, da cose piccole come il night club con cui ho cominciato a vent’anni, a giganti come Amazon.com di cui sono stato il primo investitore esterno. Poi ho fondato aQuantitative, una società di pubblicità su Internet che nel 2007 è stata venduta a Microsoft per 6,4 miliardi di dollari. In contanti. Insieme ad amici possediamo una nostra banca. Racconto tutto questo per dimostrarvi che per molti versi non sono molto diverso da voi. Come voi ho una visione ampia degli affari e del capitalismo. E come voi sono stato oscenamente ricompensato per il mio successo, con una vita che gli altri 99,9% di americani non possono nemmeno immaginare. Molteplici case, aereo personale, ecc». Comincia così una sorprendente lettera aperta, pubblicata qualche giorno fa dal sofisticato “Politico.com” e rilanciata da siti di economia & politica come “Business Insider” e “Zero Hedge”, ogni volta con un gran numero di lettori e apprezzamenti.
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Sos: il Tesoro accumula miliardi, teme il crac dell’euro?
Siamo venuti a sapere, da fonte interna e autorevole del ministero competente, che il Tesoro italiano sta accumulando una riserva di denaro liquido superiore al momento attuale ai 92 miliardi di euro – con l’obbiettivo di raggiungere i 150 entro fine anno – in vista del tracollo della valuta unica europea. Immagino non sia sfuggito ai più che Banca d’Italia abbia comunicato l’ammontare del debito pubblico, arrivato a 2.166,3 miliardi, e che il motivo dell’impennata sia anche da addebitare agli oltre 14 miliardi accantonati proprio dal Tesoro. Quasi quindici, per la precisione. Perchè? Perchè far crescere il debito per accantonare contanti? Che senso ha? Da notare che nel 2013 la scorta di liquidi di questa funzione centrale dello Stato era molto inferiore: 62,4 miliardi. Ebbene, in un anno è cresciuta del 50% dell’importo precedente. Non si tratta di aggiustamenti di cassa. Quelli, si contano con le virgole.Qua siamo di fronte a una strategia precisa: accantonare un vero “tesoro” nelle casse del Tesoro. E un tesoro in euro, proprio quando la macchina dello Stato ha un disperato bisogno di denaro, ha senso solo se lo si ritiene strategico, così importante da dover aumentare ancor di più il buco complessivo dello Stato. E’ evidente che l’Italia nel suo piccolo stia correndo ai ripari. Si sta cercando di accumulare contanti per provare a impedire l’insolvenza che s’innescherà non appena arriverà l’autunno. Le previsioni fatte dal governo Renzi sono completamente sbagliate. Non per niente, lo stesso Renzi ha concesso un’intervista al “Corriere della Sera” con la quale ha tenuto a “smentire” voci mai girate ufficialmente – e allora perchè smentirle? – di un possibile “commissariamento” dell’Italia da parte della Troika Ue. E le previsioni errate stanno creando una voragine nei conti pubblici, per ora tenuta nascosta.Alcuni quotidiani hanno scritto di 24 miliardi di buco nei conti. Altri giornali si sono spinti a parlare di “manovra autunnale”. La verità è un’altra. La recessione non sta dando tregua e i dati sono tutti convergenti: l’Europa dell’euro è avviata a un inasprimento della crisi, ora arrivata ad aggredire il cuore della macchina economica europea: la produzione industriale. E’ in forte calo ovunque sia in circolazione l’euro. E anche i fondamentali sono da brivido: quando i Btp italiani arrivano a rendere circa come i titoli di Stato degli Stati Uniti d’America, voi capite che sta accadendo qualcosa di folle. La follia consiste nel tenere artificialmente in equilibrio valori finanziari che sarebbero del tutto squilibrati, se affidati al mercato o, se si preferisce, se rispecchiassero davvero la realtà. Quindi, che accadrà questa estate? Rimarrà tutto com’è ora o s’inizierà a vedere all’orizzonte la tempesta? Francamente, ho la netta sensazione che questo agosto sarà molto, molto simile all’agosto del 2008. Poi, il 15 settembre arrivò il crac della Lehman Brothers. E il 15 settembre 2014 riapriranno le porte del Parlamento dopo la pausa estiva…(Max Parisi, “Il Tesoro italiano sta accumulando una montagna di soldi in previsione del crac dell’euro”, da “Il Nord” del 14 luglio 2014).Siamo venuti a sapere, da fonte interna e autorevole del ministero competente, che il Tesoro italiano sta accumulando una riserva di denaro liquido superiore al momento attuale ai 92 miliardi di euro – con l’obbiettivo di raggiungere i 150 entro fine anno – in vista del tracollo della valuta unica europea. Immagino non sia sfuggito ai più che Banca d’Italia abbia comunicato l’ammontare del debito pubblico, arrivato a 2.166,3 miliardi, e che il motivo dell’impennata sia anche da addebitare agli oltre 14 miliardi accantonati proprio dal Tesoro. Quasi quindici, per la precisione. Perchè? Perchè far crescere il debito per accantonare contanti? Che senso ha? Da notare che nel 2013 la scorta di liquidi di questa funzione centrale dello Stato era molto inferiore: 62,4 miliardi. Ebbene, in un anno è cresciuta del 50% dell’importo precedente. Non si tratta di aggiustamenti di cassa. Quelli, si contano con le virgole.
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Rwanda, in Italia i veri boia del genocidio: preti e suore
Diffidare dalle definizioni e dalle categorie rigide è d’obbligo, soprattutto quando si parla d’Africa e dei pluriennali conflitti sparsi un po’ su tutto il continente. Emblematico l’esempio del concetto di “guerra etnica”, utilizzato – tanto sul piano istituzionale (locale e internazionale) quanto su quello economico dei grandi colossi multinazionali – per una narrazione spesso molto distante dalla cruda realtà, fatta principalmente di spregevoli interessi economici e geostrategici. È il caso del Rwanda, piccolo fazzoletto di terra africana che nel 1994 ha consegnato all’immaginario collettivo planetario uno dei più abominevoli punti di non ritorno raggiunti dall’umanità. Un orrore inimmaginabile e inenarrabile, durato un centinaio di giorni tra aprile e luglio, di cui si è appena celebrato il ventesimo anniversario. Venti anni attraverso i quali il paese ha faticosamente ricominciato a camminare – nonostante la paura e il sospetto ancora impressi negli occhi di molti ruandesi – ma che non sono stati sufficienti a disvelare, una volta per tutte, implicazioni e responsabilità.Principalmente quelle della Chiesa cattolica, radicate nella storia coloniale e missionaria dell’ultimo secolo, che sono l’oggetto dell’ultima fatica di Vania Lucia Gaito, giornalista e psicologa già autrice del saggio sui preti pedofili “Viaggio nel silenzio” (Chiarelettere, 2008). Nel libro di recentissima pubblicazione “Il genocidio del Rwanda. Il ruolo della Chiesa cattolica” (L’asino d’Oro edizioni, 2014) l’autrice ripercorre approfonditamente le trasformazioni sociali e culturali del secolo precedente al genocidio, rintracciando in esse i prodromi dei cento giorni, per «comprendere i meccanismi che avevano portato a quella cieca volontà di distruzione», individuabili nel connubio tra potere, fede e fanatismo. «Mai come in Rwanda – chiarisce l’autrice nella premessa – la Chiesa cattolica ha fatto scempio della sua stessa dottrina, dei suoi princìpi fondamentali, del suo primo comandamento: ama il prossimo tuo».Ed è forse proprio questo il nodo più difficile da comprendere per chi ha sempre sentito parlare, ieri come oggi, di un conflitto “etnico” in Rwanda: chi accese la fiamma dell’odio, sottolinea Gaito, «non era un hutu, non era un tutsi, non era ruandese. Era bianco». E, si potrebbe aggiungere, europeo, imperialista, imbevuto delle ottocentesche teorie razziste, cattolico. Quando i tedeschi arrivarono a fine Ottocento nel “paese delle mille colline”, racconta l’autrice nella prima parte del libro dedicata alla ricostruzione storica, il concetto di razza era estraneo alla popolazione ruandese. «Lo esportammo così come oggi pretendiamo di esportare il concetto di democrazia. In nome di una presunta missione civilizzatrice, i colonizzatori europei portarono in Africa i propri preconcetti e li imposero a un intero popolo».Con la fine della Prima Guerra Mondiale e la Conferenza di Parigi (Trattato di Versailles, 28 giugno 1919), la Germania lasciava il posto al Belgio sul ponte di comando del piccolo paese africano. La Chiesa locale, guidata dal vicario apostolico monsignor Léon-Paul Classe e assecondata dall’amministrazione belga, avviò un processo di “conversione” della società locale, ottenendo per il cattolicesimo lo status di religione di Stato, stringendo alleanze con la leadership aristocratica tutsi e diffondendo – grazie alle pubblicazioni dei missionari e alla fitta rete di scuole, ospedali e parrocchie con cui i missionari si garantivano il pieno controllo sociale – una nuova dottrina razziale per la quale i tutsi (alti, ricchi e più chiari), rappresentavano l’etnia “superiore” su cui Chiesa e coloni avrebbero investito per il futuro del Rwanda. Quando poi i tutsi alzarono la testa contro i coloni belgi, il corso della storia del piccolo paese africano prese una direzione opposta, proprio perché il potere acquisito dalla Chiesa cattolica, braccio “cultural-spirituale” dell’occupante, cominciò a vacillare.Per continuare a garantirsi una base strategica nel cuore dell’Africa, da fine anni Cinquanta i missionari ribaltarono strategia, presero a denunciare la discriminazione degli hutu, a rivendicarne l’emancipazione e la parità di trattamento, radicalizzando ancor più l’etnicizzazione di un conflitto sociale che nasceva su ragioni di diseguaglianza economica. Protagonista di questo voltafaccia, monsignor André Perraudin, padre bianco svizzero, consapevole, scrive Gaito, «che occorreva rovesciare la monarchia, stabilire alleanze con chi, grato dell’appoggio ricevuto, avrebbe continuato a lasciare il potere, le scuole e gli ospedali nelle mani della Chiesa». E così, nel 1959, nacque il Partito nazionale ruandese, sostenuto dalla monarchia tutsi, che rivendicava l’indipendenza del Rwanda, una riforma agraria e amministrativa e la laicizzazione dell’istruzione.Per tutta risposta fu fondato il Parmehutu (Partito per l’emancipazione degli hutu) – guidato dal segretario di Perraudin e ispirato al Manifesto degli hutu scritto praticamente sotto dettatura del monsignore – che si caratterizzò da subito come partito aggressivo e profondamente razzista. Seguirono due anni di massacri noti come “piccolo genocidio”, una riscossa sociale degli hutu (con 300.000 tutsi uccisi e molti sfollati nei paesi limitrofi, tra cui l’attuale presidente Paul Kagame) per la quale i Padri Bianchi esultavano e gli autori della strage riservavano ai missionari grande riconoscenza. Nel 1961 cadde la monarchia e l’ex segretario del vescovo, Grégoire Kayibanda, guidò la neonata Repubblica fino al 1973, quando un colpo di Stato militare portò al potere il cugino Juvénal Habyarimana, amico della famiglia reale belga, fervente cattolico, che poteva vantare il sostegno di larga parte d’Europa, anche della Francia, che cominciava ad allungare le mani sul Rwanda. Seguì un periodo di soppressione delle libertà fondamentali e il conflitto etnico divenne feroce.Nel 1987 i profughi ruandesi scappati dal “piccolo genocidio” in Uganda fondarono il Fronte patriottico ruandese, con l’obiettivo di rovesciare la dittatura e rientrare in patria, che dette vita ad anni di guerra e di violenze sulle popolazioni hutu. L’odio razziale raggiungeva in quegli anni un punto di non ritorno, e invano furono siglati gli Accordi di Arusha del 1993 con cui doveva nascere un governo di transizione a guida hutu-tutsi. Il governò importò dalla Cina un’ingente quantità di machete che distribuì tra la popolazione. Invano tentarono anche i governi occidentali e le istituzioni internazionali di opporsi alla deriva, chiedendo l’applicazione dei trattati. Poi arrivò l’esplosione dell’aereo presidenziale a sancire che ormai era troppo tardi. Dell’attentato furono incolpati i miliziani del Fronte patriottico. L’intreccio tra odio e panico nella popolazione fece il resto. Furono compilate liste di proscrizione e i cento giorni di massacro ebbero inizio, in strada, nelle scuole, negli ospedali, nelle chiese. Lasciando sulla strada quasi un milione di persone trucidate, principalmente tutsi ma anche hutu “moderati”.La seconda parte del libro traccia il profilo di alcuni protagonisti ecclesiastici di quella vicenda. Una galleria degli orrori tale da far rabbrividire anche il più fantasioso regista di film horror. Ritratti di “uomini di Dio” riemersi, anche recentemente in occasione del ventennale, nell’ambito di interpretazioni del genocidio “non allineate” alle gerarchie cattoliche, ancora colpevolmente lontane dall’ammettere le proprie implicazioni e proclamare il doveroso mea culpa (tra le italiane, quella dell’Espresso e di Adista). Si tratta di preti e suore, amministratori di ospedali e istituzioni pubbliche, che hanno partecipato attivamente e con dedizione alla grande strage e che, una volta concluso il genocidio con la presa del potere da parte del Fronte, sono fuggiti in Europa per evitare la giustizia dei tribunali e vivono ora in parrocchie, impiegati nella catechesi dei bambini e in altre attività sociali, sotto la copertura di diocesi e Vaticano.Tra gli altri, padre Athanase Seromba, a lungo ospite della diocesi di Firenze, accusato di aver accolto duemila tutsi in cerca di protezione, di averli chiusi nella parrocchia e di aver chiamato i soldati che hanno poi abbattuto la chiesa e giustiziato i sopravvissuti al crollo. E padre Emmanuel Uwayezu (protetto dalla diocesi di Firenze e da quella di Empoli), direttore di un collegio ruandese, accusato di aver abbandonato i suoi studenti nelle mani delle milizie hutu. E padre Emmanuel Rukundo, ex cappellano militare, accusato di aver consegnato ai miliziani i tutsi ospitati nel suo seminario. Oppure il padre bianco Guy Theunis, direttore di uno dei principali organi di informazione che, già prima del genocidio, avevano lanciato una campagna di incitazione all’odio etnico. E ancora, per passare al “ramo femminile”, suor Gertrude Mukangango e la consorella Julienne Kizito (soprannominata “l’animale”), complici attive dei massacri; e suor Theophister Mukakibibi, condannata, tra l’altro, per aver gettato un bambino vivo in una latrina.Quello che c’è dopo – il cammino di un popolo che tenta timidamente di fare i conti con il proprio passato e guardare con speranza verso il futuro – è narrato dall’autrice con dovizia di particolari, attraverso interviste, testimonianze, citazioni di articoli di giornale. Il quadro, sul piano dell’assunzione di responsabilità della Chiesa cattolica, a molti anni dalla fine del genocidio, è tutt’altro che incoraggiante: ad ogni livello della scala gerarchica, la Chiesa continua a respingere al mittente le accuse di complicità e a ritenere missionari e vescovi di allora “uomini santi” votati esclusivamente all’edificazione del Regno di Dio. E, nella migliore delle ipotesi, a ignorare e denigrare l’importante operato di quanti, come Vania Lucia Gaito con quest’imprescindibile volume, lavorano incessantemente e faticosamente per portare alla luce una verità scomoda, oscurata dalla Chiesa e troppo spesso glissata anche nelle narrazioni dei grandi media mainstream.(Giampaolo Petrucci, “Le origini del male”, da “Micromega” del 30 giugno 2014. Il libro: Vania Lucia Gaito, “Il genocidio del Rwanda. Il ruolo della Chiesa cattolica”, L’asino d’Oro edizioni, XIII-157 pagine, 12 euro).Diffidare dalle definizioni e dalle categorie rigide è d’obbligo, soprattutto quando si parla d’Africa e dei pluriennali conflitti sparsi un po’ su tutto il continente. Emblematico l’esempio del concetto di “guerra etnica”, utilizzato – tanto sul piano istituzionale (locale e internazionale) quanto su quello economico dei grandi colossi multinazionali – per una narrazione spesso molto distante dalla cruda realtà, fatta principalmente di spregevoli interessi economici e geostrategici. È il caso del Rwanda, piccolo fazzoletto di terra africana che nel 1994 ha consegnato all’immaginario collettivo planetario uno dei più abominevoli punti di non ritorno raggiunti dall’umanità. Un orrore inimmaginabile e inenarrabile, durato un centinaio di giorni tra aprile e luglio, di cui si è appena celebrato il ventesimo anniversario. Venti anni attraverso i quali il paese ha faticosamente ricominciato a camminare – nonostante la paura e il sospetto ancora impressi negli occhi di molti ruandesi – ma che non sono stati sufficienti a disvelare, una volta per tutte, implicazioni e responsabilità.
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Granville: l’euro crollerà, ma il potere non lo ammette
Sono convinta che la zona euro finirà. Non conosco né l’ora né il momento, ma il rischio è che tale dissoluzione avvenga nel caos più totale, per colpa dell’accanimento ideologico della classe politica e del suo rifiuto di contemplare il fallimento politico costituito dal progetto euro. Con le elezioni europee del 25 maggio scorso, le popolazioni hanno inviato un messaggio chiaro a Bruxelles: gli europei non sono più disposti a rinunciare ulteriormente a quote della loro sovranità e vogliono rinegoziare le concessioni fatte in passato. La nuova Commissione e il nuovo Parlamento Europeo, però, non ascolteranno questa volontà di cambiamento. Il loro comportamento sarà tale da rendere inutile il voto dato agli anti-euro, che costruiranno una minoranza che sarà ignorata completamente. In funzione del mandato democratico, l’élite politica considera che nulla è cambiato e che, proprio per questo, ha tutto il diritto di continuare ad agire come se nulla fosse accaduto.Credo che il principale problema con i partiti politici europei sia il fatto che non corrispondono più alla realtà della nostra epoca. La maggior parte non ascolta la voce del popolo e il loro comportamento è più rappresentativo dell’epoca feudale che della modernità. Il modo in cui quell’élite politica viene formata e poi “eletta” non ha nulla di democratico se non il nome, poiché la scelta è circoscritta ad un’élite che conosce tutti gli ingranaggi della politica ma ignora le necessità economiche attuali. In Francia, ad esempio, molta della classe politica si è formata all’Ena, il cui scopo iniziale era di selezionare alti funzionari di Stato, ossia persone in grado di eseguire e di mettere in atto le azioni decise da politici eletti e rappresentativi dell’opinione pubblica. Oggi questi alti funzionari si sono impadroniti del potere.Questa burocrazia dominante, composta da tecnocrati e centralizzata all’estremo, soffoca le popolazioni. Questa burocrazia di Stato degna di Courteline, Kafka e Orwell è una macchina infernale nella quale funzionari di Stato, non eletti, come ad esempio all’interno della Commissione Europea o del Fmi, prendono decisioni senza che nessun abbia mai conferito loro un mandato. Non potendo essere sentito, il popolo si sente escluso e questa frustrazione lo spinge a votare per i partiti estremisti. Di fronte a questa situazione, l’élite politica ripete che bisogna “educare” i popoli, considerando essenzialmente le persone come degli imbecilli e ignorando sistematicamente il loro voto, come è avvenuto in occasione del “No” olandese e francese alla Costituzione europea nel 2005. La conseguenza dell’arroganza di questa élite politica europea è, da una parte, l’ascesa dei partiti nazionalisti come il Front National e, dall’altra, il desiderio d’indipendenza di città o di regioni come nel caso della Catalogna, del Veneto e quant’altro.La gente è stanca che siano partiti di centro a prendere tutte le decisioni, con delle politiche che non solo non hanno alcuna comprensione della vita quotidiana del cittadino medio, ma che volutamente ignorano la loro voce. Questa élite politica è convinta di essere l’unica detentrice di ogni soluzione e ci conduce ciecamente verso una nuova crisi, che sarà non solo economica ma anche politica. La politica di svalutazione interna – la riduzione dei salari come unico mezzo per i paesi del sud per mantenere la competitività all’interno dell’Eurozona – non fa altro che rafforzare e aggravare tale situazione. In questo contesto si arriverà a un’inevitabile ristrutturazione dei debiti all’interno della zona euro, vale a dire a una modificazione unilaterale dei contratti, e questo equivale a un default. La crisi dell’Eurozona non si risolverà attraverso la cooperazione franco-tedesca e presto Berlino scoprirà il bluff di Parigi.La Germania e la Francia hanno due priorità fondamentalmente opposte: da un lato, la Germania, non potendo svalutare l’euro, favorisce il rigore fiscale e la svalutazione interna, una riduzione degli stipendi e dei prezzi. Ed è su questa logica che basa la sua competitività e crescita. In altre parole, i costi della manodopera unitari relativamente più bassi rispetto agli altri paesi dell’Eurozona spiegano il successo tedesco. Questo successo è stato possibile grazie alle “riforme Hartz” del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, ed è questo modello che si vuole esportare agli altri paesi tra cui la Francia. Il problema di questa politica è che richiede un lungo periodo di tempo prima di vedere i suoi frutti e presuppone una situazione in cui la traiettoria debito-Pil non aumenti.Dall’altro lato, in Francia, il peso del debito è elevato e aumenterà ulteriormente a causa della bassa inflazione e della crescita zero, dovuta all’aumento delle tasse e all’incertezza creata dal governo di François Hollande per ridurre il deficit. Il tasso di disoccupazione è arrivato a circa l’11 %. Al governo serve una crescita economica per rilanciare la propria immagine, ma le tensioni sociali stanno crescendo e rischiano di aggravare la crisi economica: l’ascesa del Front National esprime alla perfezione lo sbandamento dei francesi e il loro sentimento sempre più diffuso di non essere ascoltati dal governo al potere. L’intransigenza della Germania e l’impossibilità della Francia di attuare le riforme richieste, dovuta ai vincoli politici e temporali, determinano una situazione tale per cui quelli che costituivano i due pilastri della costruzione europea non procedono più nella stessa direzione.In questo contesto, la Francia può solo effettuare riforme che sa di non potere ultimare. Come ogni altro paese dell’Eurozona, la Francia deve conformarsi alle esigenze del Fiscal Compact e rispettarle. Qui non c’è spazio per la scelta, la Francia ha preso impegni. Purtroppo, le misure da prendere per rispettare gli impegni sono dolorose e dunque costose a livello politico. François Hollande è già il presidente più impopolare della Quinta Repubblica, dunque in un certo senso non ha più niente da perdere; ma politicamente, vista la sua mancanza di credibilità, se le riforme saranno imposte ai francesi, il suo governo rischia di destabilizzare le istituzioni della V Repubblica.L’euro è stata creato per una volontà politica, essenzialmente di François Mitterrand, e non c’era alcuna logica economica. Nello stesso modo l’euro sarà dissolto da una volontà politica. Se si presenterà questa volontà politica, potrà anche venire da paesi come la Francia o l’Italia e sarà il riflesso dell’impazienza di popoli che considerano che il costo delle riforme e delle misure economiche richieste sia troppo alto, rispetto a risultati mediocri. Una grande fetta della popolazione colpita da queste riforme è giovane, il tasso di disoccupazione che tocca i meno di 25 anni è elevato; questi giovani non hanno lo stesso senso storico di “preservare l’euro ad ogni costo” dei loro padri. A livello economico, il cataclisma potrebbe ad un tratto arrivare dal peso del debito per paesi come l’Italia o la Francia, soprattutto se la politica monetaria degli Stati Uniti divenisse ancora più restrittiva e i tassi d’interesse aumentassero. I mercati potrebbero essere in allerta. Ma finché i mercati troveranno una sicurezza nelle azioni della Banca Centrale europea, non accadrà nulla.(Brigitte Granville, dichiarazioni rilasciate ad Alessandro Bianchi per l’intervista “L’élite che ci governa si rifiuta di ammettere il fallimento e ci condurrà al caos”, pubblicata da “L’antidiplomatico” su “Voci dall’estero” nel giugno 2014 e ripresa da “Vox Populi”. La Granville è un’economista internazionale dell’università Queen Mary di Londra ed è tra i firmatari del Manifesto per la solidarietà europea).Sono convinta che la zona euro finirà. Non conosco né l’ora né il momento, ma il rischio è che tale dissoluzione avvenga nel caos più totale, per colpa dell’accanimento ideologico della classe politica e del suo rifiuto di contemplare il fallimento politico costituito dal progetto euro. Con le elezioni europee del 25 maggio scorso, le popolazioni hanno inviato un messaggio chiaro a Bruxelles: gli europei non sono più disposti a rinunciare ulteriormente a quote della loro sovranità e vogliono rinegoziare le concessioni fatte in passato. La nuova Commissione e il nuovo Parlamento Europeo, però, non ascolteranno questa volontà di cambiamento. Il loro comportamento sarà tale da rendere inutile il voto dato agli anti-euro, che costruiranno una minoranza che sarà ignorata completamente. In funzione del mandato democratico, l’élite politica considera che nulla è cambiato e che, proprio per questo, ha tutto il diritto di continuare ad agire come se nulla fosse accaduto.
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Barnard: euro-criminali, verrà il giorno che la pagherete
Questo programma ha cercato in tutti i modi di impedirvi di scivolare: vi ha dato gli avvisi, gli strumenti, le soluzioni. Datemi un minuto e mezzo per raccontarvi quello che noi per primi (e unici, in Italia) via abbiamo raccontato di questa catastrofe che è l’Eurozona. Noi vi abbiamo raccontato il salvataggio delle banche, vi abbiamo detto come è successo che una ricapitalizzazione della Banca d’Italia in realtà si è trasformata in qualcosa di diverso da quello che ha detto quel giornale da… del “Sole 24 Ore”. In realtà la ricapitalizzazione di Bankitalia si è trasformata in una ricapitalizzazione continua e gratuita delle banche italiane che sono fallite, ma non hanno ricapitalizzato la tua pensione. Abbiamo raccontato che le banche italiane hanno 150 miliardi di prestiti inesigibili che stanno impacchettando e che venderanno a voi cittadini, pensionati. Vi abbiamo raccontato perché le banche italiane non prestano più alle piccole e medie imprese. Siamo stati gli unici in Italia a spiegare il meccanismo del perché oggi Draghi impone delle regole, per cui le banche dicono: ok, stiamo alle regole di Draghi ma non prestiamo più alle aziende italiane.Abbiamo raccontato che la disoccupazione in questo paese costa 300 miliardi di euro l’anno, 300 miliardi di produzione mancante (la casta costa 23 miliardi di euro). Abbiam detto: smettere di guardare ai ladri di polli, veniteci dietro e cercate di capire chi veramente rovinando, fottendo la vita di tuo figlio, della tua famiglia, la vita delle persone che ami, il lavoro che hai fatto per tutta la vita. Vi abbiamo raccontato che le austerità portano deflazione. Le austerità vogliono dire meno spesa dello Stato, vuol dire meno ricchezza nelle mani dei cittadini italiani che spendono di meno, vuol dire che le aziende non possono caricare i prezzi, i prezzi crollano, le aziende licenziano: è un cane che si morde la coda in modo drammatico. Siamo stati gli unici in Italia a raccontarvi queste cose, vi abbiamo detto che il discorso delle riforme e della competitività di cui parlano tutti questi politici del Pd italiano (ma anche gli europei) non vogliono dire niente. Vogliono dire semplicemente che tu prendi 100 cani e gli butti 70 ossi in un giardino: 30 cani torneranno indietro senza osso. Tu allora li prendi, gli fai tutto il training, li rendi competitivi, fai le riforme del lavoro… però nel giardino butti solo 70 ossi a 100 cani, quindi per i prossimi ventimila anni 30 cani torneranno senza osso.Vi abbiamo raccontato che cosa vuol dire questa balla che raccontano agli italiani per abbassargli gli stipendi e rovinare uno dei paesi più ricchi del mondo. Vi abbiamo raccontato che state pagando voi: è dal 1992 – e siamo l’unica trasmissione italiana che l’ha detto, che gli italiani pagano col proprio debito e coi propri risparmi per mandare avanti il paese. Perché è dal 1992 che sono arrivati i “tecnici” – quelli seri, con la faccia da primario – e avete pagato voi per l’andamento di questo paese: non dovevate pagare voi, doveva essere lo Stato che dava a voi (e voi che risparmiavate, per fare una vita decente). Abbiamo raccontato la chemio-tassazione, abbiamo detto che non è dovuta al fatto che bisogna rendere l’Italia più competitiva: è dovuta ak fatto che esiste una moneta sciagurata, ormai considerata sciagurata da tutti gli analisti del mondo, che si chiama euro.Abbiamo raccontato di Renzi, che è l’uomo delle lenticchie, l’uomo del gioco delle tre carte che prende 5 soldi di là e li sposta di qua: non risolverà più nulla, di questo paese, vista anche la posizione anatomica di questo signor Renzi rispetto al presidente del Consiglio italiano, che si chiama Angela Merkel. La cosa più grave che abbiamo denunciato in questo programma è che il sistema-Europa, i trattati europei – che nessuno di voi ha mai votato, né letto, né conosciuto – hanno sottratto all’Italia la sovranità dello Stato, del Parlamento e della Costituzione. Però c’è una cosa che voglio dire, su “La Gabbia”: Gianluigi Paragone può anche dire “ok, io ho fatto la mia carriera, ho fatto il mio mestiere, denuncio le cose che Floris non denuncia, che Santoro non denuncia”. No, non le denunciano. Massimo D’Alema, un porco della politica, va naturalmente dal porco dell’informazione – gente come Santoro, come Floris. Io voglio dire due cose, sui giornalisti della “Gabbia”: sapete che questi ragazzi, che hanno 28, 29, 30 anni, e che rincorrono Profumo, Ghizzoni, Draghi… be’, questa è gente che si suicida, professionalmente. Si suicida, perché questi ragazzi hanno trent’anni, e a lavorare non li prenderà più nessuno. E’ drammatico, perché lo fanno per voi che state a casa, lo fanno per la vostra salvezza, per raccontarvi esattamente cosa succede in questo paese – non pensano a se stessi. Ma voi dove siete? Dove siete andati?C’è stato un voto al Parlamento Europeo, e i polli – i polli europei – hanno fatto una rivolta, la rivolta dei polli. Cos’hanno fatto? Hanno preso le pennucce e hanno fatto brr-brr-brr, e il Parlamento Europeo ha fatto brr-brr-brr, ma la Commissione Europea, che non doveva mettere Juncker e invece lo metterà perché lo vuole la Merkel – se ne frega. Adesso gli daranno 5 chicchi di mais in più – 5 chicchi, non di più, perché i polli hanno fatto la rivolta, ok? E poi torneranno con la chemio-tassazione, con l’economicidio, e tanti auguri. Noi cittadini abbiamo perso, perché non sappiamo più capire, non sappiamo più ribellarci. Ci sono queste tre persone: una è Mario Draghi, l’altra è Angela Merkel e quell’altro è Jean-Claude Juncker. Questi sono i potenti d’Europa, quelli che decidono del destino di milioni di persone, della sofferenza di milioni di vostri figli – senza coscienza, senza rimorso. E poi ci sono i patetici, osceni servi di scena Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi. E questi ridono, perché sanno di aver vinto. Ma io dico: no, non avete vinto. Sentite bene quanto vi prometto: verrà un giorno…(Paolo Barnard, “Ve l’avevamo detto, ma voi avete votato per la rivolta dei polli”, testo dell’intervento alla trasmissione “La Gabbia” su La7 nel giugno 2014).Questo programma ha cercato in tutti i modi di impedirvi di scivolare: vi ha dato gli avvisi, gli strumenti, le soluzioni. Datemi un minuto e mezzo per raccontarvi quello che noi per primi (e unici, in Italia) via abbiamo raccontato di questa catastrofe che è l’Eurozona. Noi vi abbiamo raccontato il salvataggio delle banche, vi abbiamo detto come è successo che una ricapitalizzazione della Banca d’Italia in realtà si è trasformata in qualcosa di diverso da quello che ha detto quel giornale da… del “Sole 24 Ore”. In realtà la ricapitalizzazione di Bankitalia si è trasformata in una ricapitalizzazione continua e gratuita delle banche italiane che sono fallite, ma non hanno ricapitalizzato la tua pensione. Abbiamo raccontato che le banche italiane hanno 150 miliardi di prestiti inesigibili che stanno impacchettando e che venderanno a voi cittadini, pensionati. Vi abbiamo raccontato perché le banche italiane non prestano più alle piccole e medie imprese. Siamo stati gli unici in Italia a spiegare il meccanismo del perché oggi Draghi impone delle regole, per cui le banche dicono: ok, stiamo alle regole di Draghi ma non prestiamo più alle aziende italiane.
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Grillo: stop al racket dell’oscuro parassita chiamato Europa
Dobbiamo togliere di mezzo ogni ostacolo che impedisca ai cittadini di sapere cosa accade, chi prende le decisioni, chi ne fa le spese e chi governa senza essere mai stato eletto dal popolo, ma cambia la vita di chi resta senza lavoro, di chi non ha i soldi per comprarsi da mangiare, di chi è costretto a licenziare i suoi dipendenti o a dichiarare fallimento. Dobbiamo dire alla gente chi sono i nominati, da chi sono stati messi sulle loro poltrone e perché sanno solo ripetere che “serve più Europa”, “servono più soldi alle banche”, “serve più rigore”. L’austerity! Cioè tagli alla spesa pubblica, ma soprattutto ai salari, agli stipendi e alle pensioni. E quando qualcosa si taglia, qualcos’altro deve per forza aumentare: le tasse. Le tasse in Italia sono diventate così alte che ormai bisogna lavorare fino a ottobre non per guadagnare, ma solo per riuscire a pagarle. Ci hanno detto che la soluzione era l’austerity. Era una soluzione, certo, ma era quella sbagliata! In Irlanda e in Portogallo ha funzionato talmente bene che c’è stato un esodo quasi senza precedenti verso altri paesi.In Italia ha funzionato anche meglio: solo nel 2013, più di trecento aziende al giorno sono state costrette a chiudere. Il motivo è semplice: i grandi sacerdoti dell’austerity hanno basato la loro religione su dati parziali. Non serviva essere economisti per accorgersi che una compressione della spesa in un momento di crisi avrebbe portato a una stagnazione, la quale avrebbe peggiorato la crisi. Perfino al Fondo Monetario Internazionale, alla fine, se ne sono accorti: Blanchard ha ammesso l’errore, ma nessuno ha cambiato direzione. Ne ammazza di più la medicina della malattia, ma nessuno che pensi di interrompere il salasso: si continua a succhiare sangue alle aziende, alle imprese, ai lavoratori, ai pensionati, ai cittadini, ai quali si sottrae ogni giorno una fetta di sovranità, per conferirla nelle mani di un oscuro centro di potere governato da non eletti. Così, questa Europa si è trasformata in un gigantesco parassita, un parassita che vive sulle nostre spalle, un parassita che ci afferra per la gola e ci toglie ossigeno.Ci rassicurano che le cose vanno meglio, che la crisi sta passando, che si intravede la luce alla fine del tunnel, ma sono i fari del treno che ci sta per venire addosso! Il treno si chiama Fiscal Compact, il nuovo irrigidimento del Patto di Stabilità e di Crescita che negli anni è stato sforato dalla stragrande maggioranza degli Stati europei. Così, a un paziente già ammalato, hanno somministrato il colpo di grazia: il pareggio di bilancio. Che in Italia abbiamo inserito addirittura nella Costituzione. Significa che se non abbiamo soldi non possiamo neppure trovarne, privi come siamo di sovranità monetaria, senza indebitarci. Una genialata! In più, ci hanno chiesto di ridurre il rapporto debito pubblico-Pil al 60% in 20 anni. Significa prendere un tessuto economico già disastrato, un tessuto imprenditoriale disperato, un tessuto assistenziale ai limiti dell’inesistente, e applicarvi tagli a pioggia pari anche a 50 miliardi all’anno per vent’anni! E lo chiamano “grande sogno europeo”! Ci accorgeremo presto delle conseguenze del Fiscal Compact sui paesi già piegati dal rigore a tutti i costi. «E poi», come in un celebre romanzo di Agatha Christie, «non ne rimase nessuno».Non contenti, per salvare gli amici degli amici, cioè il mondo della tecno-finanza la cui sconsiderata ingordigia ha ridotto in povertà decine di milioni di persone, hanno istituito il Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, e l’hanno ratificato quatti quatti, zitti zitti, come piace a loro. Il Mes indebita interi popoli all’infinito, impegnandosi per centinaia di miliardi che possono essere rinnovati a piacere da un gruppo di oscuri oligarchi che si ritrovano in Lussemburgo, come una setta, senza che nessuno possa leggere le carte che si passano, senza che nessuno possa citarli in giudizio, senza che nessun governo nazionale, neppure futuro, possa rifiutarsi di pagare. E a fronte di questo salasso, che per l’Italia vale da subito 125 miliardi e poi chi lo sa, se un giorno dovessimo avere bisogno di essere salvati, il Mes ci presta i soldi. Ce li presta! E’ come se tu pagassi una kasko per l’assicurazione della tua auto e poi, quando qualcuno ti viene addosso, ti prestano i soldi per il carrozziere. Ce li prestano in cambio di “condizionalità”. Le chiamano “condizionalità”. Ma significano “cessioni di sovranità”. Si infilano nei Parlamenti nazionali e sottraggono ai cittadini ogni giorno un pezzetto dei loro diritti, per conferirli dentro a qualcosa che non c’è ancora. E’ a questo che è servita la crisi. Perché le guerre oggi non si fanno più con i carri armati. Si fanno con lo spread. Da un carrarmato ti puoi difendere: lo spread non lo vedi e non lo senti. E’ un assassino perfetto. Silenzioso ed ineffabile.Grazie allo spread puoi creare strumenti micidiali come l’Erf. Hanno sempre questi nomi biblici, quasi rassicuranti: il Fondo Europeo di Riscatto. Ti fanno credere che devi essere riscattato, perché sei un Piigs. Sei un Piigs anche se versi più soldi all’Europa di quanti alla fine l’Europa non te ne renda. E allora come ti riscattano? Se non ce la fai a rispettare il Fiscal Compact, vengono a suonare con l’esattore alla frontiera, e ti costringono a consegnare gli asset patrimoniali nazionali, le riserve valutarie, le riserve auree e parte del gettito fiscale fino ad ottenere garanzie per tutta la parte eccedente il rapporto del 60% del debito sul Pil. Un curatore fallimentare poi vende tutto. Una immensa Equitalia al cubo! E se consideriamo il gettito fiscale come lo stipendio di uno Stato, l’Europa si trasforma in un creditore che ti impone la cessione del quinto senza che tu possa avere più il controllo del tuo conto in banca.Cosa sarebbe tutto questo? Cosa stiamo diventando? E’ un’immensa Matrix, siamo governati da scienziati pazzi che fanno esperimenti di ingegneria tecnologico-finanziaria su interi popoli e se poi gli esperimenti falliscono e decine di milioni di persone muoiono, allora fa niente: siamo tutti sacrificabili. L’importante è che la casta mondiale, quel 10% degli abitanti della Terra che detiene il 90% delle ricchezze, sopravviva e continui a godere di ottima salute. In Grecia negli ultimi due anni si sono suicidate oltre 7.000 persone: gente che l’ha fatta finita non perché avesse perso il lavoro, ma perché non aveva più neppure da mangiare. Ci sono genitori che hanno deciso di abbandonare i propri figli negli orfanotrofi per garantirgli almeno un pasto al giorno e un letto caldo per l’inverno. In Italia, rispetto ai livelli pre-crisi, ci sono tre milioni di poveri in più (+93,9%), 3 milioni e 700.000 persone disoccupate in più (+122,3%), il Pil è crollato del 9%, la produzione industriale è precipitata del 23,6%, le costruzioni del 43,15%, i consumi delle famiglie si sono ridotti dell’8%, gli investimenti del 27,5%, c’è il -7,8% di occupazione e abbiamo perso quasi due milioni di posti di lavoro.E’ questo il grande successo dell’Europa? Una élite di mentitori di professione che cambia i metodi di calcolo alla bisogna, facendo così sparire in un attimo i dati che non devono essere mostrati? A noi in Italia raccontano spesso che servono più sacrifici, perché “ce lo chiede l’Europa”. Ma l’Europa che vogliamo noi non è quella che continua a drenare linfa dalla propria gente, che rovina i suoi imprenditori, i suoi lavoratori, che toglie lo Stato sociale ai deboli e tutela i ricchi e i forti. L’Europa che vogliamo noi non è quella che costringe le democrazie in crisi a versare centinaia di miliardi che finiscono su un conto in Lussemburgo a finanziare le democrazie che stanno bene, quelle della Tripla A, come la Germania. L’Europa che vogliamo noi non è quella oscura, un buco nero nel quale tutto entra e dal quale nulla esce, ma è l’Europa della democrazia diretta, dei referendum popolari, delle informazioni che circolano e della conoscenza condivisa. E’ l’Europa consapevole delle scelte ambientali che possono ancora cambiare le sorti del nostro pianeta. E’ l’Europa della libertà individuale, dei diritti, della sostenibilità. E’ l’Europa dei cittadini, non quella di Van Rompuy.(Beppe Grillo, estratti dal discorso “L’Europa che vogliamo”, pronunciato a Strasburgo il 1° luglio 2014).Dobbiamo togliere di mezzo ogni ostacolo che impedisca ai cittadini di sapere cosa accade, chi prende le decisioni, chi ne fa le spese e chi governa senza essere mai stato eletto dal popolo, ma cambia la vita di chi resta senza lavoro, di chi non ha i soldi per comprarsi da mangiare, di chi è costretto a licenziare i suoi dipendenti o a dichiarare fallimento. Dobbiamo dire alla gente chi sono i nominati, da chi sono stati messi sulle loro poltrone e perché sanno solo ripetere che “serve più Europa”, “servono più soldi alle banche”, “serve più rigore”. L’austerity! Cioè tagli alla spesa pubblica, ma soprattutto ai salari, agli stipendi e alle pensioni. E quando qualcosa si taglia, qualcos’altro deve per forza aumentare: le tasse. Le tasse in Italia sono diventate così alte che ormai bisogna lavorare fino a ottobre non per guadagnare, ma solo per riuscire a pagarle. Ci hanno detto che la soluzione era l’austerity. Era una soluzione, certo, ma era quella sbagliata! In Irlanda e in Portogallo ha funzionato talmente bene che c’è stato un esodo quasi senza precedenti verso altri paesi.
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Baranes: rassegnatevi, l’Italia chiude e regala pure l’Eni
Spezzeremo le reni allo Stato, e ci stiamo riuscendo. Come? Con le “riforme”, «qualunque esse siano», e con le privatizzazioni, «il nuovo mantra di media e politica», un mainstream allineato all’ideologia neoliberista del pensiero unico: i servizi pubblici sono un peso, l’unico attore abilitato è il mercato. Matteo Renzi è solo l’ultimo esponente di una lunga serie di persuasori occulti, e non importa se la strada che annuncia è fallimentare in partenza – per lo Stato, non per certo per i compratori, dai quali Palazzo Chigi spera di rastrellare 10-12 miliardi, cioè una goccia nel mare degli oltre 2.000 miliardi del debito pubblico anch’esso “privatizzato”, affidato alla lotteria della speculazione finanziaria, vulnerabile dall’epoca del divorzio tra Tesoro e Bankitalia gestito da Ciampi. Debito ora denominato in euro, moneta tecnicamente “straniera” cui il governo non può avere libero accesso. E oggi, avverte Andrea Baranes, la grande privatizzazione avviene in un momento in cui l’acquirente prenota pezzi di Italia a prezzi di realizzo, comprando solo i migliori asset: quindi «è chiaramente lo Stato», cioè i cittadini, «a perdere, non “valorizzando” ma svendendo le proprie partecipazioni».Persino in termini meramente finanziari l’operazione è difficile da capire, scrive Baranes in un post su “Comune.info”, pensando al boccone più grosso, quello dell’Eni, che «da anni, senza eccezioni, distribuisce un dividendo sulle azioni superiore al 5%». Visto che «l’Italia sul suo debito pubblico paga in media il 4% di interessi», è evidente che lo Stato «incasserebbe di più tenendosi azioni che danno più del 5% e continuando a pagare un debito al 4% invece di vendere azioni Eni per diminuire il debito». Tutto questo, peraltro, è poca cosa rispetto alla posta in gioco: «Uscire dalla crisi attuale necessita tra le altre cose di un piano industriale, energetico, occupazionale, una riconversione ecologica dell’economia». Quindi, è mai possibile che «per il governo l’unica “politica” industriale consista non solo nel non dare alcun indirizzo in economia ma addirittura nel vendere – o svendere – le proprie principali partecipazioni a soggetti interessati unicamente alla massimizzazione del proprio ritorno finanziario?».La storia si ripete identica, dopo Telecom, Ilva e Alitalia. Grazie a un certo Mario Draghi, «in pochi anni in Italia abbiamo privatizzato il 100% del sistema bancario – caso più unico che raro su scala globale – per ritrovarci i conti correnti tra i più cari d’Europa, enormi difficoltà di accesso al credito per le piccole imprese e crediti deteriorati o in sofferenza, che stanno strangolando lo stesso sistema bancario», scrive Baranes. «Per uscirne, come nel caso dell’Alitalia, la soluzione prospettata è una “bad bank”: dopo avere privatizzato i profitti, socializziamo le perdite e ripartiamo». Così, «non solo non si impara dagli errori del passato, ma non è nemmeno ipotizzabile un dibattito “laico” su pro e contro delle privatizzazioni: si va avanti a testa bassa, con una fede ideologica che rasenta il fanatismo, aprendo ulteriori spazi ai “mercati” e agli interessi privati». Nessuna sorpresa, comunque: Renzi è in contatto con Tony Blair, advisor strategico della Jp Morgan, la grande banca d’affari che pensa che l’Italia debba sbarazzarsi del suo patrimonio, a cominciare dalla Costituzione. E il ministro Padoan proviene dal Fmi e dall’Ocse, santuari della teologia neoliberista privatizzatrice.Il livello locale non fa eccezione: Roma pensa di cedere pure le sue azioni in Banca Etica e pensa a disfarsi del Teatro Valle «per restituirlo ai romani», dopo che il teatro – sostenuto dai 6.000 cittadini della fondazione “Teatro Valle Bene Comune” – in questi tre anni ha ospitato migliaia di spettatori. «Una gestione aperta, pubblica e partecipata diventa escludente dei cittadini», prende nota Baranes, pensando al sindaco Marino. «La privatizzazione è l’unica strada per aprire al pubblico». Le forze politiche sono tutte impegnate nel coro di condanna del deficit, interpretato come una sorta di malattia: nessuno ricorda che il debito è esattamente la “ragione sociale” dello Stato, lo strumento per assicurare servizi (compresi quelli culturali) senza i quali lo stesso settore privato dell’economia va in sofferenza e alla fine soccombe, dopo aver bruciato i risparmi, di fronte alla concorrenza. Oggi la concorrenza è globalizzata, straniera, tedesca e non solo: l’Italia in rottamazione saluta anche la gloriosa Indesit, emblema di un’epoca perduta – fatta anche di sprechi e veleni, ma soprattutto di benessere per tutto il sistema. Oggi, semplicemente, l’Italia chiude. Svendendo – con Renzi – anche i gioielli pubblici come l’Eni, tra gli applausi del mainstream e il silenzio degli elettori, metà dei quali hanno peraltro votato per il liquidatore di Firenze.Spezzeremo le reni allo Stato, e ci stiamo riuscendo. Come? Con le “riforme”, «qualunque esse siano», e con le privatizzazioni, «il nuovo mantra di media e politica», un mainstream allineato all’ideologia neoliberista del pensiero unico: i servizi pubblici sono un peso, l’unico attore abilitato è il mercato. Matteo Renzi è solo l’ultimo esponente di una lunga serie di persuasori occulti, e non importa se la strada che annuncia è fallimentare in partenza – per lo Stato, non per certo per i compratori, dai quali Palazzo Chigi spera di rastrellare 10-12 miliardi, cioè una goccia nel mare degli oltre 2.000 miliardi del debito pubblico anch’esso “privatizzato”, affidato alla lotteria della speculazione finanziaria, vulnerabile dall’epoca del divorzio tra Tesoro e Bankitalia gestito da Ciampi. Debito ora denominato in euro, moneta tecnicamente “straniera” cui il governo non può avere libero accesso. E oggi, avverte Andrea Baranes, la grande privatizzazione avviene in un momento in cui l’acquirente prenota pezzi di Italia a prezzi di realizzo, comprando solo i migliori asset: quindi «è chiaramente lo Stato», cioè i cittadini, «a perdere, non “valorizzando” ma svendendo le proprie partecipazioni».
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Odifreddi: contro la mafia, la vuota scomunica del Papa
Mi stupisco dell’eccitazione con cui le parole del Papa sui mafiosi sono state recepite dai media, al solito entusiasti per qualunque cosa esca dalla sua bocca. Anche la più retorica e ininfluente, com’è appunto una scomunica: la quale, giova ricordarlo, è un ostracismo dalla comunità ecclesiale e dai suoi riti, che pretende di rispecchiare su questa Terra un analogo ostracismo effettuato in Cielo da Dio. Detto altrimenti, chi è scomunicato non può entrare in Chiesa quaggiù, e non può entrare in Paradiso lassù. Anche senza andar oltre, noi membri del mondo civile dovremmo sorridere di questi deliri di potenza da parte di uomo che pretende di farsi interprete dei pensieri e delle decisioni di un Dio, invece di esaltarli come pronunciamenti epocali. Soprattutto quando, informandoci anche solo un minimo, scopriamo che esistono scomuniche latae sententiae, cioè comminate automaticamente per colpe gravissime quali, udite udite: aver effettuato o procurato un aborto, essere iscritti a un partito comunista o votarlo, appartenere a una loggia massonica, professare eresie in disaccordo con l’insegnamento dogmatico della Chiesa, e altre amenità del genere.Ora, la maggioranza della popolazione mondiale ricade sotto queste categorie! Siamo quasi tutti automaticamente scomunicati, e molti sono felicissimi di esserlo! Ad esempio, lo sono tutti coloro, come me, che meritano la scomunica automatica perché si rifiutano di credere alle amenità che la Chiesa vorrebbe loro propinare, a partire da questa assurda faccenda delle scomuniche. Ma soprattutto, la scomunica è risibile perché pretende di poter escludere dai riti una buona serie di persone che non sa neppure di aver escluso automaticamente. Se una donna abortisce nel segreto di un consultorio, o un uomo vota comunista nel segreto di un’urna, chi può impedir loro di entrare in Chiesa o di fare la comunione, se così desiderano, pur essendo ufficialmente scomunicati? La scomunica non è dunque altro che un vuoto pronunciamento, che lascia il tempo che trova nella maggior parte dei casi. E così lo lascerà anche nel caso dei camorristi o dei mafiosi che ora il Papa ha aggiunto alla lista, sapendo benissimo che le sue parole non avranno alcun effetto pratico, a parte uno: aumentare la popolarità gratuita sua personale e dell’istituzione sulla quale egli regna, anacronismo per anacronismo, da monarca assoluto.A meno che non si creda, come alcuni commentatori hanno provato a supporre, che la Chiesa finirà di sostituirsi allo Stato, dopo tutto il resto, anche nella determinazione di appartenenza alla camorra o alla mafia. Forse è questo che quei commentatori desiderano: che sia il prete della parrocchia a stabilire se qualcuno è un malavitoso, sulla base delle dicerie dei parrocchiani, e non il giudice del tribunale, sulla base dei testimoni dell’accusa. Forse dietro all’entusiasmo per le vuote parole del Papa c’è la credenza, questa sì da “scomunicare”, che esistano istanze di giustizia e di morale “superiori” alle leggi e ai tribunali degli uomini. Quando invece, come ben sappiamo nel caso dei camorristi e dei mafiosi, quelle supposte istanze “superiori” non sono altro che le stesse che essi stessi seguono, da bravi cristiani ma pessimi cittadini. E’ proprio perché camorristi e mafiosi fanno la comunione, che la Chiesa si preoccupa di scaricarli. Ma sono i concreti fatti laici, e non le vuote parole religiose, che servono per contrastare le azioni criminali che essi compiono nella società, indipendentemente dai riti che essi praticano in chiesa.(Piergiorgio Odifreddi, “Una vuota scomunica”, da “La Repubblica” del 23 giugno 2015, ripreso da “Micromega”).Mi stupisco dell’eccitazione con cui le parole del Papa sui mafiosi sono state recepite dai media, al solito entusiasti per qualunque cosa esca dalla sua bocca. Anche la più retorica e ininfluente, com’è appunto una scomunica: la quale, giova ricordarlo, è un ostracismo dalla comunità ecclesiale e dai suoi riti, che pretende di rispecchiare su questa Terra un analogo ostracismo effettuato in Cielo da Dio. Detto altrimenti, chi è scomunicato non può entrare in Chiesa quaggiù, e non può entrare in Paradiso lassù. Anche senza andar oltre, noi membri del mondo civile dovremmo sorridere di questi deliri di potenza da parte di uomo che pretende di farsi interprete dei pensieri e delle decisioni di un Dio, invece di esaltarli come pronunciamenti epocali. Soprattutto quando, informandoci anche solo un minimo, scopriamo che esistono scomuniche latae sententiae, cioè comminate automaticamente per colpe gravissime quali, udite udite: aver effettuato o procurato un aborto, essere iscritti a un partito comunista o votarlo, appartenere a una loggia massonica, professare eresie in disaccordo con l’insegnamento dogmatico della Chiesa, e altre amenità del genere.