Archivio del Tag ‘statuto speciale’
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Bolzano regala 15.000 euro a chi apre negozi in montagna
Fino a 15.000 euro in regalo a chi apre un negozio in un paesino, assicurando generi di prima necessità. Succede in Alto Adige, dove la giunta provinciale di Bolzano ha stanziato fondi per un piano speciale di investimenti. Obiettivi: combattere, in modo concreto, lo spopolamento della montagna. Altro che reddito di cittadinanza: fioccano contributi per chi sceglie di tenere vive le Alpi, garantendo alle famiglie residenti i principali servizi di prossimità. E senza scordare i negozi che hanno finora resistito, nelle valli: un cospicuo assegno (da 9 a 11.000 euro) è l’incoraggiamento destinato a chi, in questi anni, ha tenuto duro, mantenendo la presenza di un punto vendita a portata di mano, raggiungibile a piedi. «L’obiettivo è quello di favorire il commercio interno ai paesini, sia tutelando i negozi già presenti sia incentivando l’apertura di nuovi esercizi», scrive Eleonora Angeloni su “GreenMe”. «Il commercio di vicinato rappresenta un vantaggio non solo per i commercianti locali, ma anche per i residenti, che non si trovano costretti a dover percorrere lunghe distanze per avere accesso ai prodotti necessari nella quotidianità».Stando al provvedimento, Bolzano potrà dunque assegnare contributi fino a 15.000 euro per l’apertura di negozietti nelle località che ne sono prive. Per “esercizi di vicinato” si intendono negozi che lavorano in paesi con almeno 150 abitanti e che vendono generi alimentari di prima necessità al dettaglio. «Le attività che possono usufruire di questo contributo devono svolgere uno dei seguenti servizi: vendita di prodotti locali, consegna a domicilio, vendita di giornali o servizio postale». Tra gli altri requisiti: piccolo giro d’affari, ridotta superficie di vendita, massimo tre addetti a tempo pieno. E poi gli orari: il negozio deve restare aperto per sei giorni la settimana, per almeno tre ore. In pratica: un forte incentivo a tenere viva l’economia locale, evitando – oltretutto – l’abbandono del territorio alpino (che, com’è noto, genera costi esponenziali in termini di sicurezza idrogeologica). Calcolando che il territorio dell’intera Penisola è in gran parte montano e collinare, con migliaia di borghi disseminati lungo alture boscose, va da sé che una simile misura socio-economica – se adeguatamente supportata, a livello centrale – avrebbe la capacità di rivitalizzare le aree periferiche di intere Regioni, dal Piemonte alla Sicilia.Ovviamente, i piccoli numeri e il particolare regime amministrativo dell’Alto Adige (statuto speciale) rendono possibile questo “miracolo” in miniatura, destinato anche a supportare indirettamente l’economia turistica. Se a Bolzano si fa di necessità virtù, di fronte all’esodo che sta svuotando le valli e facendo emigrare i consumatori verso gli ipermercati, dietro al progetto altoatesino si può leggere anche una visione “svizzera” del futuro, legata essenzialmente alle risorse del territorio, alle filiere corte, ai prodotti a chilometri zero. Una prospettiva “glocal”, che – senza disconnettersi dalla grande rete planetaria delle informazioni e delle merci – punta sul territorio per alimentare innanzitutto la domanda interna, che (a livello macroeconomico) in Italia è entrata in crisi in decenni di austerity progressiva, fino a crollare poi con il governo Monti. Può sembrare paradossale, la mini-rivoluzione di Bolzano, in un’Ue che sovrasta i governi nazionali imponendo scelte dall’alto. Nel terzo millennio cinese (e tedesco) del super-export, il lavoro si precarizza o sparisce, delocalizzato. E dopo aver eliminato la rappresentanza politica nelle Province, ora si vorrebbe tagliare anche i parlamentari, penalizzando ancora una volta le periferie. Bolzano risponde alla sua maniera, come può, e in modo keynesiano: soldi pubblici, per sostenere l’economia reale (privata) là dove è essenziale che non muoia. Una piccola, grande lezione.Fino a 15.000 euro in regalo a chi apre un negozio in un paesino, assicurando generi di prima necessità. Succede in Alto Adige, dove la giunta provinciale di Bolzano ha stanziato fondi per un piano speciale di investimenti. Obiettivo: combattere, in modo concreto, lo spopolamento della montagna. Altro che reddito di cittadinanza: fioccano contributi per chi sceglie di tenere vive le Alpi, garantendo alle famiglie residenti i principali servizi di prossimità. E senza scordare i negozi che hanno finora resistito, nelle valli: un cospicuo assegno (da 9 a 11.000 euro) è l’incoraggiamento destinato a chi, in questi anni, ha tenuto duro, mantenendo la presenza di un punto vendita a portata di mano, raggiungibile a piedi. «L’obiettivo è quello di favorire il commercio interno ai paesini, sia tutelando i negozi già presenti sia incentivando l’apertura di nuovi esercizi», scrive Eleonora Angeloni su “GreenMe“. «Il commercio di vicinato rappresenta un vantaggio non solo per i commercianti locali, ma anche per i residenti, che non si trovano costretti a dover percorrere lunghe distanze per avere accesso ai prodotti necessari nella quotidianità».
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Il cinismo della disperazione: Di Maio svuota la democrazia
Lo scellerato auto-affondamento del Parlamento, voluto da un Di Maio ridotto alla disperazione, produrrà danni incalcolabili al sistema democratico italiano. Prossimo colpo, magari: il divieto di cambiare casacca, riducendo il parlamentare a burattino. La primogenitura dell’attacco alla rappresentanza popolare «va molto più in là del governo gialloverde». Secondo Federico Ferraù «arriva fino ai “politici ladri” degli anni di Tangentopoli, passando per la “casta”, indimenticata bandiera antipolitica che tanto senso comune ha prodotto negli anni novanta e duemila». Gioele Magaldi va ancora più indietro: evoca il Piano di Rinascita Democratica della P2 e, prima ancora, il “dimagrimento” delle Camere voluto da Mussolini. «Ovvio: se i parlamentari sono pochi, il potere oligarchico nemico della democrazia li controlla più facilmente». Secondo il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano, è penoso lo spettacolo dei parlamentari che corrono a decurtare le proprie file: «Siamo al cinismo della disperazione», all’autoliquidazione di chi non è più classe politica e pertanto non ha più ragione di esistere. Perché mantenerlo in vita, un Parlamento, se è solo un peso?Ci rimette anche la Lega, rimasta «imbottigliata per una anno e mezzo sullo scambio tra autonomia differenziata e riduzione del numero dei parlamentari». Già, l’autonomia per il Nord-Est: «Per mesi è stata avvolta da una nebbia fittissima», e oggi «non se ne vede nemmeno l’ombra». Innanzitutto, osserva Mangia nella sua analisi offerta a Ferraù sul “Sussidiario”, si dovrebbe aver capito che il taglio dei parlamentari «è un modo per bloccare il funzionamento del sistema elettorale, rendere impossibili elezioni a breve e creare le premesse per un dialogo infinito sulla legge elettorale prossima ventura». Che dovrà essere infinito, «perché altrimenti questa situazione di democrazia sospesa, che permette di evitare le elezioni, finisce». E se Lega e Pd assecondano il populismo di Di Maio, a “vincere” è il Movimento 5 Stelle: «Il dato veramente incredibile è che i 5 Stelle siano riusciti, in momenti diversi, e per una serie di casi fortunati, a portare prima la Lega e poi il Pd su un progetto tanto inutile e pretestuoso rispetto agli obiettivi dichiarati». Di Maio parla di un risparmio di 100 milioni all’anno. «Appunto: roba che uno Stato con un bilancio di 800 miliardi nemmeno se ne accorge», sottolinea Mangia. L’Osservatorio di Cottarelli, poi, parla di un risparmio reale di appena 57 milioni all’anno, cioè la metà di quanto propagandato.Ma il vero pericolo è più serio: «Se il parlamentare oggi si concepisce come uno schiacciabottoni, tanto da dirlo apertamente – osserva il professore – significa che il problema non è il taglio dei parlamentari, ma l’involuzione della classe politica nel suo complesso, tanto da arrivare per prima a concepirsi come inutile. Tanto da credere di potersi rigenerare attraverso un’automutilazione». È un atteggiamento che ricorda da vicino la riforma delle immunità del 1993 votata in piena Tangentopoli, sotto la pressione di Mani Pulite. «Anche allora si pensava che spogliando il parlamentare dell’immunità, e denudandolo di fronte alla magistratura, la classe politica si sarebbe rigenerata». E invece, «quell’automutilazione non solo ha cambiato gli equilibri tra i poteri dello Stato, ma ha spianato la strada alla dissoluzione di una classe politica, dopo la quale non ce ne è mai stata un’altra». Ma a quel punto, allora, «perché non risolvere tutto in un vertice tra segretari di partito, dove ciascuno pesa in ragione del pacchetto di azioni che rappresenta, come in un’assemblea degli azionisti?».Qualcuno potrebbe dire: sapete quanti soldi continuano a costare 400 deputati e 200 senatori? «Se si sfonda una linea, trovare poi un limite davanti al quale fermarsi diventa difficile», avverte Mangia. «Tant’è vero che da allora, e cioè da Tangentopoli, si è sempre andati avanti nella stessa direzione in un gioco di delegittimazioni reciproche». Una classe politica «ha coscienza di sé e del suo ruolo, e la coscienza del ruolo ha un implicito effetto di legittimazione». Non a caso, in altri tempi, «i re non tagliavano la testa agli altri re, perché se no passava l’idea che ai re si poteva tagliare la testa e il sistema crollava». Se manca la consapevolezza di un ruolo – dice il costituzionalista – alla fine di quel ruolo manca anche la percezione tra chi lo deve rispettare. Dunque: parlamentari tagliati «non perché siano troppi, ma perché, tutti assieme, non fanno una classe politica». Fermare lo scempio con un referendum? Il professor Mangia è scettico: «Dopo 25 anni di delegittimazione della classe politica, chi andrebbe oggi a dire ai cittadini che lasciare il Parlamento così com’è non sarebbe affatto un male? Ci si esporrebbe alla solita obiezione del voler salvare le poltrone».Secondo il professore «si congelerà la situazione per un po’ e ci si sposterà sulla legge elettorale». Su quella non c’è accordo, perché i leader «si sono accorti che il proporzionale enfatizzerebbe a dismisura quanto sta accadendo: l’imperversare di Renzi e forse, un domani, dell’amico-nemico Di Maio». Cosa fare? «Non lo sa nessuno. Qualcuno vuole un proporzionale puro; altri lo vogliono con lo sbarramento “alto” per mettere in difficoltà Renzi; altri lo sbarramento alto con la sfiducia costruttiva; qualcuno parla di doppio turno da vent’anni e continua a farlo oggi». Per prendere tempo «si allargherà il campo e si giocherà sull’abbassamento dell’età per votare, sulla base regionale per l’elezione del Senato, sui regolamenti parlamentari». Secondo Mangia, «è il solito armamentario delle riforme che gira da vent’anni senza però riuscire a cambiare granché, se non in peggio». Perché quell’armamentario «è il figlio dell’illusione che basti cambiare le regole per cambiare la politica: un’illusione che ha guidato la fase dello sperimentalismo costituzionale». Adesso è solo «materiale per una tattica parlamentare che usa spregiudicatamente la Costituzione per comprare tempo. È il cinismo della disperazione», sintetizza il professore.Alessandro Mangia inquadra con precisione il disegno politico dei 5 Stelle: «Ridurre il peso politico del Parlamento, spostare quel peso sulle consultazioni dirette – e cioè Twitter, referendum e Rousseau: tanto nella loro ottica è tutto uguale». In questo modo, si finisce per cambiare il funzionamento delle istituzioni. «Non a caso le due riforme, taglio dei parlamentari e riforma del referendum, sono sempre andate di pari passo». Tant’è vero che ora se n’è ricominciato a parlare: «Sarà la prossima frontiera». Altra mina, i cambi di casacca: il vincolo di mandato. Limitazioni che i 5 Stelle erano già riusciti a inserire nel “contratto di governo” con la Lega, e che hanno cercato di introdurre con le sanzioni ai dissidenti che abbandonano il gruppo. Il tribunale di Roma le ha già dichiarate nulle, «come è nullo ogni contratto contrario a norme imperative». Ma il rischio è dietro l’angolo: «Credete che sarebbe difficile, volendo, far partire una campagna contro i parlamentari voltagabbana che si staccano e fanno un loro gruppo o che passano da una maggioranza all’altra? È la stessa tecnica usata per il taglio ai parlamentari». Fatto quello, a che serviranno deputati e senatori? «Più a nulla. Nemmeno a schiacciare il bottone. Basterà il palmare o il telecomando». Del resto, chiosa Mangia, se è vero che se “uno vale uno”, allora “uno vale l’altro”, a prescindere dalla volontà degli elettori.Lo scellerato auto-affondamento del Parlamento, voluto da un Di Maio ridotto alla disperazione, produrrà danni incalcolabili al sistema democratico italiano. Prossimo colpo, magari: il divieto di cambiare casacca, riducendo il parlamentare a burattino. La primogenitura dell’attacco alla rappresentanza popolare «va molto più in là del governo gialloverde». Secondo Federico Ferraù «arriva fino ai “politici ladri” degli anni di Tangentopoli, passando per la “casta”, indimenticata bandiera antipolitica che tanto senso comune ha prodotto negli anni novanta e duemila». Gioele Magaldi va ancora più indietro: evoca il Piano di Rinascita Democratica della P2 e, prima ancora, il “dimagrimento” delle Camere voluto da Mussolini. «Ovvio: se i parlamentari sono pochi, il potere oligarchico nemico della democrazia li controlla più facilmente». Secondo il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano, è penoso lo spettacolo dei parlamentari che corrono a decurtare le proprie file: «Siamo al cinismo della disperazione», all’autoliquidazione di chi non è più classe politica e pertanto non ha più ragione di esistere. Perché mantenerlo in vita, un Parlamento, se è solo un peso?
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Sechi: il governo è finito, ma durerà. Mancano alternative
«Non stiamo facendo una bella figura», ha detto Salvini al Movimento 5 Stelle che sta bloccando il riconoscimento di Guaidó come presidente del Venezuela. Il ministro dell’interno non ha perso l’occasione per replicare all’alleato di governo dopo che Di Maio ha sonoramente bocciato le aperture sulla Tav del collega vicepremier. «Che si tratti di Venezuela, di Torino-Lione o di caso Diciotti – scrive Federico Ferraù sul “Sussidiario” – tra M5S e Lega sembra si sia toccato un punto di non ritorno». Ma secondo Mario Sechi, direttore di “List”, è la mancanza di alternative a consolidare, almeno per ora, la coabitazione a Palazzo Chigi. Con tre variabili: la crisi, l’autonomia differenziata e i voti al Sud. Davvero non c’è tregua: «C’è tanto rumore: per nulla, aggiungerei», dice Sechi, intervistato da Ferraù. «In un sistema normale i governi vanno in crisi, ma qui di normale c’è ben poco». Ovvero: «Siamo in una situazione eccezionale, con un governo di necessità». Realismo: «Questo esecutivo è l’unico “format” disponibile, non ci sono alternative».Dunque Di Maio e Salvini non possono aprire una crisi? «Per andare dove e con chi? Il governo – sostiene Sechi – dal punto di vista della coesione delle forze che lo compongono, è finito. Questo non significa che sia morto». Coabitazione forzata: «Una coabitazione necessaria», secondo Sechi. «In questo quadro, M5S e Lega possono litigare su cose molto serie, ma sapendo che alla fine conviene ad entrambi trovare un accordo». Eppure, sottolinea Ferraù, sul progetto Tav Torino-Lione la tensione è alta. «Se la Lega non porta a casa la Tav è un problema. Per il M5S invece è un problema se la Tav si fa. Però sarebbe un problema ancora maggiore, per entrambi, aprire una crisi di governo». Stallo completo, dunque. Eppure, si domanda Ferraù, perché i sondaggi continuano a premiare l’esecutivo? «La gente non è soddisfatta della politica economica di M5S e Lega, ma li voterebbe ancora – secondo Sechi – perché hanno mantenuto intatta la capacità di alimentare la speranza di cambiamento. Le due cose non sono in contraddizione».Che rischio corrono i pentastellati? «Che il reddito di cittadinanza non funzioni e che alla fine siano assunti soltanto i “navigator”». E la Lega? Il pericolo, per Sechi, è che salti l’autonomia: «La “constituency” del M5S sono gli italiani in cerca di reddito e protezione, quella della Lega sono le imprese del Nord. Autonomia, nei fatti, significa secessione dolce». Lombardia e Veneto, dopo un referendum dirompente che tutti hanno sottovalutato, secondo Sechi vogliono l’autonomia differenziata per avere il controllo delle risorse. «Questo fa ancora parte dell’immaginario del Nord ed è anche il patto fondativo della prima Lega di Bossi con il suo elettorato di riferimento. Salvini lo sa e deve fare presto». Ma quella Lega non s’era pensato che non esistesse più? «Al Nord esiste, eccome. Alle imprese di Lombardia e Veneto non importa nulla o molto poco del partito nazionale che ha in mente Salvini». La nuova Lega sembra importare a Salvini, «ma per altre ragioni, che non interessano i ceti produttivi». E cioè: «Salvini prende i voti del Sud sulla sicurezza e sull’idea di una leadership forte. Per il Nord l’autonomia differenziata è un’assicurazione sulla vita in tempo di recessione, una salvaguardia contro lo spreco di soldi al Sud».L’eventuale statuto autonomo del Nord-Est spaccherebbe l’Italia? «Ma l’Italia è già spaccata», risponde Sechi: «Basta scendere sotto Firenze per vedere un altro paese. Anzi, la vera riuscita del governo gialloverde sarebbe proprio quella di tenere insieme il Sud in cerca di occupazione e il Nord produttivo. La novità, semmai, è un’altra ed è lo scontro generato dalla gestione condominiale». Dovuto a che cosa? «A un imprevisto che ha cambiato i piani iniziali: i voti di Salvini sono destinati a crescere anche al Sud». E sono cifre importanti, sottolinea Sechi. «Ma siccome il voto ravvicinato Salvini non lo avrà, e forse segretamente nemmeno lo vuole perché è troppo rischioso, si tratterà di vedere se e come il suo consenso al Sud si consolida nel tempo». E poi, ricorda Ferraù, per andare al voto occorre un capo dello Stato disposto a sciogliere le Camere. Infatti: «Senza il sì del Quirinale è da pazzi lanciarsi in una crisi al buio». Quindi, conclude Sechi, in queste condizioni «a Salvini resta solo una cosa da fare, perdere tempo per prendere tempo. Il tempo che gli serve per dare l’autonomia al Nord».E con le europee, si domanda Ferraù, cosa potrà cambiare? Il voto di maggio, dice Sechi, «può essere lo spartiacque se le cose vanno molto male ai 5 Stelle, anche se – aggiunge – non credo che accadrà». I grillini potrebbero avere una flessione, «ma non eccessiva, perché tutto il Sud sta aspettando il reddito». Altra mina, l’autorizzazione a procedere contro Salvini per lo sbarco ritardato dei migranti della Diciotti. «Mi auguro che venga respinta», dichiara Sechi, perché «per i pentastellati, votarla sarebbe un suicidio politico». Però, aggiunge, «è vero che sono capaci di tutto». E la Tav valsusina? Alla fine si farà o resterà nel congelatore? Dipende, ragiona Sechi: «I grillini avevano detto che avrebbero chiuso l’Ilva e l’Ilva è aperta; il Tap non si doveva fare e si fa». Insomma, «non mi sorprenderei se anche sulla Tav si trovasse un compromesso». Da parte sua, «Salvini ci starebbe». E con la Francia si può sempre trattare. «Il tema vero – insiste Sechi – è cosa succede nella base a 5 Stelle con il sì alla Tav e nel voto pro-Lega al Nord con il no all’opera. Il rischio del cortocircuito è molto grande, ma torniamo all’inizio: nessuno apre una crisi se non è certo di poterla condurre».«Non stiamo facendo una bella figura», ha detto Salvini al Movimento 5 Stelle che sta bloccando il riconoscimento di Guaidó come presidente del Venezuela. Il ministro dell’interno non ha perso l’occasione per replicare all’alleato di governo dopo che Di Maio ha sonoramente bocciato le aperture sulla Tav del collega vicepremier. «Che si tratti di Venezuela, di Torino-Lione o di caso Diciotti – scrive Federico Ferraù sul “Sussidiario” – tra M5S e Lega sembra si sia toccato un punto di non ritorno». Ma secondo Mario Sechi, direttore di “List”, è la mancanza di alternative a consolidare, almeno per ora, la coabitazione a Palazzo Chigi. Con tre variabili: la crisi, l’autonomia differenziata e i voti al Sud. Davvero non c’è tregua: «C’è tanto rumore: per nulla, aggiungerei», dice Sechi, intervistato da Ferraù. «In un sistema normale i governi vanno in crisi, ma qui di normale c’è ben poco». Ovvero: «Siamo in una situazione eccezionale, con un governo di necessità». Realismo: «Questo esecutivo è l’unico “format” disponibile, non ci sono alternative».