Archivio del Tag ‘superbia’
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Europeisti vampiri e populisti licantropi. Per loro, siamo cibo
L’attuale contrapposizione fra europeisti e populisti ci viene raccontata come una versione semplificata della saga di Underworld, con gli europeisti nel ruolo dei vampiri, e i populisti in quello dei lycan, i licantropi. La similitudine è calzante: i vampiri sono aristocratici crudeli e corrotti, i lycan, a lungo asserviti ai vampiri e sfruttati come cani da guardia, hanno ragione di ribellarsi, ma sono comunque lupi, belve, che pure nella loro forma umanoide continuano a seguire le brutali e ferine logiche del branco. Nella realtà però, e nella stessa saga di “Underworld”, le cose sono più complicate, ci sono ibridi vamp-lycan, doppiogiochisti e voltagabbana d’ogni specie. Inoltre, nel mondo reale il vero capobranco dei populisti mannari è indubbiamente un vampiro, Vladimir Putin, che li adopera come truppe di terra contro la rivale casata vampira di Aquisgrana, presieduta da Merkel e Macron, che però ha comunque vinto 4 a zero la partita delle nomine europee anche con la complicità del governo Grilloverde, che in cambio ha temporaneamente evitato la procedura d’infrazione. Perché i populisti mannari nostrani hanno tutto dei canidi, tranne la fedeltà.Rispetto alla saga, nel nostro mondo non ci sono nobili ribelli alla Selene, né tanto meno eroi messianici alla Lucian, ma i doppiogiochisti abbondano sempre più aggrovigliati negli inciuci come un Laocoonte, non di marmo, ma di merda. C’è però una verità semplice e lineare che la saga e la realtà condividono in pieno: per entrambe le specie di predatori bipedi, gli umani come noi sono soltanto cibo. Invece di dividersi nella scelta fra le due, una dicotomia falsa quanto la democrazia che sostiene, tutti gli umani dovrebbero organizzarsi per combatterli entrambi. Non sono certo invincibili come vogliono sembrare. I vampiri sono accecati dalla superbia, i licantropi dalla fame. Il vantaggio evolutivo della specie umana, anche sui predatori più feroci, è sempre stato l’intelligenza. Adoperiamola, prima che sia troppo tardi.(Alessandra Daniele, “Underworld”, da “Carmilla” del 7 luglio 2019. “Carmilla” è un supplemento di “Progetto Memoria”, diretto dallo scrittore Valerio Evangelisti. Sul blog “Schegge Taglienti”, l’autrice si presenta con queste parole: «Mi chiamo Alessandra Daniele, e dal 2006 sono fra i redattori di Carmilla, per la quale ho scritto più di 650 fra articoli, corsivi, recensioni, e racconti brevi. Ho collaborato a quattro antologie cartacee: due progetti collettivi Creative Commons che ho contribuito a ideare, “Sorci Verdi” (Alegre, 2011) “Scorrete lacrime, disse lo sceriffo” (Crash, 2008) l’antologia urban horror “Sinistre Presenze” (Bietti, 2013) e “Immaginari Alterati” (Mimesis, 2018)». Ha pubblicato due diverse raccolte dei suoi testi carmilliani: “Schegge Taglienti” (Agenzia X, 2014) e l’ebook gratuito “L’Era del Cazzaro” (Carmilla, 2016). C’è un suo racconto anche nella raccolta fotografica “Banditi dell’alta felicità”, edita dal movimento NoTav. Alessandra Daniele tiene a precisare di non essere presente né su Facebook né su Twitter).L’attuale contrapposizione fra europeisti e populisti ci viene raccontata come una versione semplificata della saga di Underworld, con gli europeisti nel ruolo dei vampiri, e i populisti in quello dei lycan, i licantropi. La similitudine è calzante: i vampiri sono aristocratici crudeli e corrotti, i lycan, a lungo asserviti ai vampiri e sfruttati come cani da guardia, hanno ragione di ribellarsi, ma sono comunque lupi, belve, che pure nella loro forma umanoide continuano a seguire le brutali e ferine logiche del branco. Nella realtà però, e nella stessa saga di “Underworld”, le cose sono più complicate, ci sono ibridi vamp-lycan, doppiogiochisti e voltagabbana d’ogni specie. Inoltre, nel mondo reale il vero capobranco dei populisti mannari è indubbiamente un vampiro, Vladimir Putin, che li adopera come truppe di terra contro la rivale casata vampira di Aquisgrana, presieduta da Merkel e Macron, che però ha comunque vinto 4 a zero la partita delle nomine europee anche con la complicità del governo Grilloverde, che in cambio ha temporaneamente evitato la procedura d’infrazione. Perché i populisti mannari nostrani hanno tutto dei canidi, tranne la fedeltà.
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I cent’anni di Andreotti, super-democristiano avanti Cristo
Oggi Giulio Andreotti avrebbe compiuto cent’anni, ma lui fu democristiano avanti Cristo. Aveva quattro giorni quando nacque il Partito Popolare che era il nome da signorina della Democrazia Cristiana. Ma non è escluso che quel 18 gennaio del 1919, alla destra del padre, don Luigi Sturzo, ci fosse già il piccolo Giulio con la gobbina e il doppiopetto in fasce, a suggerire cosa fare e soprattutto come. De Gasperi fu statista prima di essere democristiano, e austriaco prima di essere italiano, Moro o Fanfani furono professori, teorici catto-fascisti prima di diventare democristiani. Andreotti no, fu la Dc. Andreotti non fu mai presidente della Repubblica né segretario della Dc, non fu mai presidente del Senato o della Camera, non fu mai sindaco o vescovo di Roma, semplicemente perché lui fu l’anima, la ragnatela e l’icona della Repubblica italiana, della Dc, dei governi, della Curia, delle due Camere riunite in un solo emiciclo, volgarmente denominato gobba; fu il simbolo vivente della Roma di potere e sacrestia, figlio di Santa Romanesca Chiesa, come diceva il cardinal Ottaviani.Andreotti fece la comunione senza mai passare per la confessione. Ebbe sette vite, come i gatti e i sette colli di Roma, e guidò sette governi brevi; rappresentò l’immortalità al potere, inquietante ma rassicurante. Disse che il potere logora chi non ce l’ha, e fu di parola. Quando non ebbe più potere, si logorò, volse la gobba a levante e si costituì dopo lunga contumacia al Titolare. Non fu statista ma statico, inamovibile. Andreotti ebbe più senso del potere che dello Stato, della curia più che della nazione, della sacrestia più che del pulpito. Fu minimalista, antieroico e antidecisionista, rappresentò l’italianissima trinità Dio, pasta e famiglia, sostituendo la patria con la pajata e sognando un dio che patteggia col diavolo. Il suo ideologo fu Alberto Sordi, il precursore Aldo Fabrizi. Guidò l’Italia con passo felpato nelle vacanze dalla storia. Fu vicino ai suoi elettori, attento alle loro richieste, alle cresime e alle nozze. E’ mitico l’armadio nel suo studio di piazza Dan Lorenzo in Lucina, gestito dalla segretaria Enea, coi vassoi d’argento da mandare ai matrimoni, pare divisi in tre fasce.Per secoli fu ritenuto l’Incarnazione del Male, la Medusa che pietrifica e a volte cementifica. Ai tempi di Mani Pulite, nella sua Ciociaria, il fascista galantuomo Romano Misserville organizzò un processo-spettacolo ad Andreotti; calò il gelo nei suoi confronti di tanti suoi galoppini del passato che pure gli dovevano molto. Andreotti non lasciò riforme dello Stato e grandi opere, ma un metodo, uno stile, un modo di vedere, intravisto dalle fessure dei suoi occhi, anche per non lasciare prove compromettenti sulla retina. Primato assoluto della sopravvivenza, personale e popolare, alle intemperie della storia. Fu moderato fino all’estremo e devoto ma remoto da paradisi e santità. In politica estera fece arabeschi, fu filo-mediterraneo, non filo-atlantico e filo-israeliano, come del resto anche Moro e Craxi. Accusato d’essere il Capo della Cupola non fu poi condannato perché l’accusa inverosimile rimosse anche ogni colpa verosimile. Volevano infliggergli l’ergastolo ma alla fine fu lui a infliggere l’ergastolo all’Italia, diventando senatore a vita. Ma tra tanti imbucati, lui meritava il laticlavio.Sopravvisse alla Dc e ai suoi capi storici, ai suoi stessi bracci destri (aveva infatti molte chele), sopravvisse ai suoi nemici e perfino a Oreste Lionello che fece di lui una caricatura complice. Arguto quand’era in vena, come si usa dire degli spiritosi e dei vampiri (e lui fu ambedue), Andreotti non fu solo l’anima della Dc e della Prima Repubblica ma anche il top model dello Stivale. Somatizzò l’Italia. Le mani giunte e intrecciate per l’indole cattolica, il corpo rispecchiava un paese invertebrato, disossato e militesente, esonerato dalla ginnastica e incapace di mostrare muscoli (neanche nel sorriso Andreotti ha mai mostrato i denti, ma solo un fil di labbra; a tavola beveva brodini per non addentare). Tutti lo immaginavano bassino, ma lo era per tattica e umiltà; in realtà era alto, e sarebbe stato più alto se avessero srotolato il nastro della sua curva pericolosa. L’assenza del collo fugava ogni indizio di mobilità e superbia, la voce sibilante e romanesca, confidenziale e domestica era emessa da una fessura; sussurrava come dietro le grate di un confessionale. E le spalle curve per custodire la sua compromettente scatola nera nella gobba (lo scrissi nel ’93 e fu poi ripreso da tanti, tra cui Beppe Grillo).Figurò l’italiano-tipo piegato su se stesso a tutelare il suo particulare. Il suo volto di sfinge, l’assenza di colorito, impenetrabile al sole per non modificare la cera, la testa piantata direttamente sulle spalle come l’aracnide cefalotoracica e le orecchie estroverse per captare ogni minimo fruscìo; gli occhi pechinesi, salvo illusioni ottiche che a volte li ingrandivano, grazie alle lenti bifocali; il passo circospetto e l’obliqua figura, il fideismo ironico e la ferocia minuziosa, la devozione curiale e la visione nichilista sulle sorti dell’umanità. Non fu arcitaliano ma casto e asessuato, non rappresentò l’indole pomiciona e fanfarona degli italiani. Ma la sua figura, metà bigotta e metà malandrina, ironica e pregante, rappresentava l’ambiguità d’un paese devoto e peccatore, che adora Gesù ma tresca con Belzebù. Brillante nelle conversazioni, reticente nei diari; sapeva fior di retroscena, ma preferì l’omertà. Nei libri raccontava come non erano andati i fatti. Visse a lungo, per godersi pure la nostalgia di quando c’era lui al potere. Andreotti restò un punto interrogativo, come la sua sagoma curva. Non fece la storia ma la consuetudine; nutrì l’aneddotica, il thriller e la leggenda. Come sua madre, cucì all’Italia un abito su misura per i suoi difetti.(Marcello Veneziani, “Andreotti democristiano avanti Cristo”, da “La Verità” del 13 gennaio 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Oggi Giulio Andreotti avrebbe compiuto cent’anni, ma lui fu democristiano avanti Cristo. Aveva quattro giorni quando nacque il Partito Popolare che era il nome da signorina della Democrazia Cristiana. Ma non è escluso che quel 18 gennaio del 1919, alla destra del padre, don Luigi Sturzo, ci fosse già il piccolo Giulio con la gobbina e il doppiopetto in fasce, a suggerire cosa fare e soprattutto come. De Gasperi fu statista prima di essere democristiano, e austriaco prima di essere italiano, Moro o Fanfani furono professori, teorici catto-fascisti prima di diventare democristiani. Andreotti no, fu la Dc. Andreotti non fu mai presidente della Repubblica né segretario della Dc, non fu mai presidente del Senato o della Camera, non fu mai sindaco o vescovo di Roma, semplicemente perché lui fu l’anima, la ragnatela e l’icona della Repubblica italiana, della Dc, dei governi, della Curia, delle due Camere riunite in un solo emiciclo, volgarmente denominato gobba; fu il simbolo vivente della Roma di potere e sacrestia, figlio di Santa Romanesca Chiesa, come diceva il cardinal Ottaviani.
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Pessoa: ma la vita è un mistero, non illudetevi di capirla
Quanti si ostinano ancora a segnalare siti ed articoli che finalmente svelano la “verità ultima” o individuano la risoluzione di ogni problema! Com’è facile immaginare, sono portali “quantici” o cose simili. Riflettiamo: è poi così importante conoscere la “verità ultima”? Inoltre è possibile conoscerla? Pessoa ritiene che non sia possibile. Scrive il celebre autore portoghese: “Non esiste altro problema, se non quello della realtà e questo problema è insolubile e vivo”. Ancora: “Nessun problema ha risoluzione. Nessuno di noi scioglie il nodo gordiano; tutti noi desistiamo o lo tagliamo. Per conseguire la verità, ci mancano dati sufficienti e processi intellettuali che chiariscano l’interpretazione di quei dati”. Quanti si ostinano a segnalare libri risolutivi! Si continuano a pubblicare testi presentati come la summa del sapere, come la rivelazione finale, ma, nel migliore dei casi, possono solo rischiarare per un istante l’oscurità in cui è avviluppato l’universo.Si può lumeggiare una sfaccettatura di un tema, chiarire un significato o definire un’etimologia, rispolverare un’intuizione dimenticata, ma non ci risulta che alcunché possa essere radicalmente cambiato, dopo aver letto qualche saggio… Tralasciamo tutte quelle segnalazioni attinenti alla cronaca di questi tempi ferrigni: è sufficiente un briciolo di discernimento per comprendere la piega (sinistra) che hanno preso gli eventi e la direzione verso cui ci stiamo incamminando. Non abbiamo quindi bisogno di scavare fosse già scavate. Nel campo delle domande fondamentali, le indicazioni che si ricevono sono di deprimente banalità e sempre le stesse da tempo immemorabile. E’ cambiato un po’ il linguaggio, ma la sostanza è la medesima. Annota sempre Pessoa: «La vita è un gomitolo che qualcuno ha aggrovigliato». E’ così: è impossibile trovare il bandolo della matassa, anzi, più ci incaponiamo nel tentare di districarla, più i fili si ingarbugliano.Di fronte all’«infinita complessità delle cose» siamo più inetti di bimbi che cercano di camminare, dopo che per molto tempo si sono mossi solo carponi. Meglio: siamo viandanti costretti a scalare una ripida parete rocciosa, senza corde, senza chiodi, senza alcuna esperienza. Non solo si creano illusioni, squadernando sentenze che sono balbettii, ogni volta in cui si additano sbocchi che sono vicoli ciechi, ma si dimostra superbia e persino un atteggiamento blasfemo rispetto all’imperscrutabile mistero della vita. Perché viviamo? Qual è il nostro destino oltre il fragile interludio terreno? Perché questa prolissità del cosmo, la ridondanza dell’essere, il vuoto incommensurabile del non-senso? Le risposte non soffiano nel vento, ma sono pietrificate nel più granitico silenzio.(“Segnalazioni”, dal blog “La Crepa nel Muro” del 31 maggio 2017. Le citazioni di Pessoa sono tutte desunte dal monumentale “Libro dell’inquietudine”, a cura di Maria José de Lancastre, con prefazione di Antonio Tabucchi, nel quale il grande scrittore portoghese scrive: «La metafisica mi è sempre sembrata una forma comune di pazzia latente. Se conoscessimo la verità la vedremmo; tutto il resto è sistema e periferia. Ci basta, se riflettiamo, l’incomprensibilità dell’universo; volerlo capire è essere meno che uomini, perché essere uomo è sapere che non si capisce»).Quanti si ostinano ancora a segnalare siti ed articoli che finalmente svelano la “verità ultima” o individuano la risoluzione di ogni problema! Com’è facile immaginare, sono portali “quantici” o cose simili. Riflettiamo: è poi così importante conoscere la “verità ultima”? Inoltre è possibile conoscerla? Pessoa ritiene che non sia possibile. Scrive il celebre autore portoghese: “Non esiste altro problema, se non quello della realtà e questo problema è insolubile e vivo”. Ancora: “Nessun problema ha risoluzione. Nessuno di noi scioglie il nodo gordiano; tutti noi desistiamo o lo tagliamo. Per conseguire la verità, ci mancano dati sufficienti e processi intellettuali che chiariscano l’interpretazione di quei dati”. Quanti si ostinano a segnalare libri risolutivi! Si continuano a pubblicare testi presentati come la summa del sapere, come la rivelazione finale, ma, nel migliore dei casi, possono solo rischiarare per un istante l’oscurità in cui è avviluppato l’universo.
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Foa: il tedesco chiagne e fotte (e intanto si pappa la Grecia)
La notizia della vendita di 14 aeroporti greci a una società tedesca, la Fraport, sta suscitando indignazione; eppure non dovrebbe stupire. Noi siamo abituati a mitizzare i tedeschi, a farci intimidire dal loro rigore morale e – da quando il senso di colpa per l’Olocausto è evaporato – anche dal loro senso di superiorità. In realtà sbagliamo e dovremmo cominciare a giudicare le élites tedesche – perché il popolo, come sempre, c’entra poco – per quello che sono. E soprattutto per i loro difetti. Il primo è la superbia: quando il tedesco di successo (e di potere) troppo spesso diventa sprezzante e non sa darsi il senso della misura. L’empatia, il senso delle proporzioni e dell’equilibrio, quel buon senso che induce gli uomini di successo più avveduti a non esagerare, riflettendo i principi di Sun Tzu, scompare. Il tedesco non si accontenta di vincere, deve stravincere e possibilmente schiacciare l’avversario; non concepisce alcuna attenuante né comprensione umana ma soltanto il raggiungimento dei propri obiettivi, in sintonia con la propria concezione morale, che naturalmente coincide con i propri interessi e non contempla né gli interessi né le spiegazioni degli altri, per quanto possano essere fondati.La relatività morale delle élite tedesche è una costante storica, e tra l’altro spiega molti crimini dei tedeschi ai tempi dei nazisti. Ma non solo. Se analizziamo la storia recente ci accorgiamo che questo atteggiamento è ricorrente. Nel suo splendido saggio “Anschluss – L’annessione”, Vladimiro Giacché dimostra come l’unificazione tedesca non abbia condotto al salvataggio della ex Ddr da parte della Repubblica federale tedesca, bensì a una spoliazione del tessuto industriale ed economico della Germania dell’est da parte delle aziende dell’Ovest in sintonia con il sistema bancario e la classe politica, secondo modalità che definire immorali è persino riduttivo. Allora andò in scena un grande furto collettivo, roba da Casta all’ennesima potenza (altro che Italia!), che di fatto trasformò in un insuccesso economico e sociale quello che avrebbe dovuto essere un processo di integrazione economica. La grande ruberia, naturalmente, non fu denunciata dalla stampa e non fu oggetto di commissioni di inchiesta.Il costo sociale fu scaricato sui länder dell’est, che da allora non si sono più ripresi, e quello economico sui conti dello Stato e, indirettamente su tutta l’Europa, che a causa di quella pessima gestione sprofondò, all’inizio degli anni Novanta, in una lunga recessione. Le élites tedesche non hanno mai pagato alla Grecia i debiti di guerra, sostenendo per oltre 50 anni che “non era il momento”. I tedeschi che con tanta irruenza hanno giudicato la Grecia di oggi, dipingendola come corrotta, inaffidabile, indolente, sono gli stessi che le hanno venduto armamenti per miliardi e che coprono, per legge, la corruzione delle proprie aziende all’estero, inclusa Atene (vedi lo scandalo Siemens); sono coloro che un paio di anni fa hanno permesso alle proprie banche di liberarsi del debito pubblico greco, scaricandolo sui contribuenti europei, con un’operazione che ancora una volta fu presentata come un salvataggio naturalmente del popolo greco.I tedeschi non hanno mai messo la Grecia nelle condizioni di risollevarsi veramente ma, d’accordo con la Troika, l’hanno caricata di tasse, balzelli, “riforme” che hanno avuto come unico effetto quello di far crollare del 25% il Pil greco. Le hanno cavato un paio di litri di sangue e poi le hanno detto: non sei abbastanza in forma, devi correre più veloce. Non ti dai abbastanza da fare, devi dare altro sangue. Naturalmente avanzando pretese morali e continuando a incolpare il popolo greco nel suo insieme. A Napoli direbbero che la Germania “chiagne e fotte”. Il fottuto oggi è la Grecia. Oggi. E domani?(Marcello Foa, “Il tedesco chiagne e fotte, e intanto si compra la Grecia”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 19 agosto 2015).La notizia della vendita di 14 aeroporti greci a una società tedesca, la Fraport, sta suscitando indignazione; eppure non dovrebbe stupire. Noi siamo abituati a mitizzare i tedeschi, a farci intimidire dal loro rigore morale e – da quando il senso di colpa per l’Olocausto è evaporato – anche dal loro senso di superiorità. In realtà sbagliamo e dovremmo cominciare a giudicare le élites tedesche – perché il popolo, come sempre, c’entra poco – per quello che sono. E soprattutto per i loro difetti. Il primo è la superbia: quando il tedesco di successo (e di potere) troppo spesso diventa sprezzante e non sa darsi il senso della misura. L’empatia, il senso delle proporzioni e dell’equilibrio, quel buon senso che induce gli uomini di successo più avveduti a non esagerare, riflettendo i principi di Sun Tzu, scompare. Il tedesco non si accontenta di vincere, deve stravincere e possibilmente schiacciare l’avversario; non concepisce alcuna attenuante né comprensione umana ma soltanto il raggiungimento dei propri obiettivi, in sintonia con la propria concezione morale, che naturalmente coincide con i propri interessi e non contempla né gli interessi né le spiegazioni degli altri, per quanto possano essere fondati.
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Torneremo sudditi: il piano del demonio, padrone d’Europa
Tagli al welfare. Si persegue quella che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa. Afferma un celebre adagio che nella pervicacia si annida il demonio. Se è vero, le leadership europee sono prigioniere di potenze infere. Da sette anni infliggono ai propri paesi e alle loro economie una terapia nel segno dell’austerity che dovrebbe debellare la crisi e rimettere in moto la crescita. Non solo questa cura non ha prodotto nessuno dei risultati attesi. Tutte le evidenze depongono in senso contrario, al punto che sempre più numerosi economisti mainstream si pronunciano a favore di politiche espansive. Ciò nonostante la musica non cambia, nemmeno ora che l’Istituto statistico nazionale della Germania federale ha reso noti i dati sul secondo semestre di quest’anno. Anzi, il mantra delle “riforme strutturali” imperversa più forte che mai. Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere.Sta di fatto che a suon di “riforme” l’Europa si sta suicidando, come già avvenne nel secolo scorso dopo il crollo di Wall Street, nonostante il buon esempio degli Stati Uniti rooseveltiani, che pure di capitalismo ne capivano. Questa è una lettura possibile. I capi di Stato e di governo e i grandi banchieri starebbero sbagliando i conti. Per superbia e presunzione, forse per incapacità, come pare suggerire il ministro Padoan parlando di previsioni errate. Ma c’è un’altra ipotesi altrettanto plausibile. Anzi, a questo punto ben più verosimile. Che non si tratti di errori ma del pesante tributo imposto dal massimo potere oggi regnante. Nonché (di ciò troppo di rado si discute) del perseguimento di un lucido progetto. E di un calcolo costi benefici forse spericolato ma coerente, in base al quale la recessione, con i suoi devastanti effetti collaterali (deflazione, disoccupazione, deindustrializzazione), appare un prezzo conveniente a fronte del fine che ci si prefigge: la messa in sicurezza di un determinato modello sociale nei paesi dell’Eurozona.Quale modello è facile a dirsi, se leggiamo in chiave politica le “riforme strutturali” di cui si chiede a gran voce l’adozione. Costringere gli Stati a “far quadrare i conti” significa nei fatti imporre loro, spesso congiuntamente, tre cose. La prima: vendere (svendere) il proprio patrimonio industriale e demaniale. La seconda: accrescere la pressione fiscale sul lavoro dipendente (posto che ci si guarda bene – soprattutto ma non solo in Italia – dal colpire rendite, patrimoni e grandi evasori). La terza: tagliare la spesa sociale destinata al welfare (vedi le ultime esternazioni del ministro Poletti in tema di pensioni), al sistema scolastico pubblico e all’occupazione nel pubblico impiego (dato che altre voci del bilancio non sono mai in discussione). Non è difficile capire che tutto ciò significa affamare il lavoro e spostare enormi masse di ricchezza verso il capitale privato. Nel frattempo, accanto a questi provvedimenti, ci si impegna a modificare le cosiddette relazioni industriali. Così si varano “riforme del lavoro” che hanno tutte un denominatore comune: l’attacco ai diritti dei lavoratori (“rigidità”) al fine di fare della forza lavoro una variabile totalmente subordinata (“flessibile”) al cosiddetto “datore”, che deve poter decidere in libertà se, quanto e a quali condizioni utilizzarla.Ne emerge un progetto nitido, che rovescia di sana pianta non solo il sogno sovversivo degli anni della sommossa operaia ma anche quello dei nostri costituenti. Si vuole fare finalmente della vecchia Europa quello che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa, cioè sul potere pressoché assoluto del capitale privato. Dopodiché potrà forse spiacere che dilaghino disoccupazione e povertà mentre enormi ricchezze si concentrano nelle mani di pochi. Pazienza. La “libertà” è un bene sommo intangibile, al quale è senz’altro opportuno sacrificare un feticcio d’altri tempi come la giustizia sociale. A chi obiettasse che questa è una lettura tendenziosa, sarebbe facile replicare con un rapido cenno alla teoria economica. L’enfasi sulla disciplina di bilancio suppone il ruolo chiave del capitale finanziario nel processo di produzione, secondo quanto stabilito dalla teoria neoclassica. Nel nome della “democrazia” questa teoria affida la dinamica economica alle decisioni del capitale privato. Il processo produttivo si innesca soltanto se esso prevede di trarne un profitto, il che significa concepirlo non soltanto come dominus naturale della produzione ma anche come il sovrano sul terreno sociale e politico.Vi sono naturalmente altre teorie. Marx, per esempio (ma anche Keynes) vede nella produzione una funzione sociale determinata principalmente da due fattori: la domanda (i bisogni sociali, compresi quelli relativi a beni o servizi “fuori mercato”) e la forza lavoro disponibile a soddisfarli. In questa prospettiva la funzione del capitale (soprattutto di quello finanziario, il denaro) è solo quella di mettere in comunicazione la domanda col lavoro. Per questo non gli è riconosciuto alcun potere di veto, meno che meno la sovranità. Anzi: la disponibilità di capitale è interamente subordinata alla decisione politica, per quanto concerne sia la leva fiscale, sia la massa monetaria. Inutile dire che queste teorie sono tuttavia reiette, bollate come stravaganti e antimoderne. Si pensa alle teorie come cose astratte, ma, come si vede, esse in filigrana parlano di soggetti in carne e ossa e di concretissimi conflitti. Il che spiega in abbondanza la povertà logica delle resistenze alle critiche keynesiane e marxiste. Spiega il vergognoso servilismo dei media, fatto di ignoranza e opportunismo. E spiega soprattutto perché, per l’establishment europeo, le “riforme strutturali” propugnate nel nome della teoria neoclassica siano un valore in sé, benché non servano affatto a risolvere la crisi, anzi la stiano aggravando oltremisura.La questione, insomma, è solo in apparenza economica e in realtà squisitamente politica. Del resto, nella sovranità assoluta del capitale e nella totale subordinazione della classe lavoratrice risiede la sostanza dei trattati europei che in questi vent’anni hanno modificato i rapporti di forza tra Stati e istituzioni comunitarie, tra assemblee elettive e poteri tecnocratici. È questo il punto di caduta di provvedimenti in apparenza dettati dalla ragion pura economica come il famigerato Fiscal Compact; questa la ratio della sciagurata decisione, al tempo del “governo del presidente”, di inserire il pareggio di bilancio in Costituzione. Non ve n’era bisogno, essendoci già Maastricht. Ma si sa, si prova un brivido particolare nel prosternarsi dinanzi ai primi della classe, nell’eccedere in espressioni servili. In altri tempi si sarebbe parlato di collaborazionismo.Un solo dubbio resta, nonostante tutto. È chiaro che alle leadership europee non interessa granché dell’equità sociale, né fa problema, ai loro occhi, l’instaurarsi di un’oligarchia. Ma a un certo momento (ormai prossimo) non sarà più tecnicamente possibile drenare risorse verso il capitale. Già oggi l’impoverimento di massa genera disfunzioni gravi, come dimostra l’imperiosa esigenza di “riformare” le Costituzioni per affrancare i governi dall’onere del consenso. Insomma, è sempre più evidente che il modello neoliberista urta contro limiti sociali e politici non facili a varcarsi. È vero che in un certo senso il capitale non conosce patria (è di casa ovunque riesca a valorizzarsi). Ma, a parte il fatto che gli equilibri geopolitici risentono del grado di forza interna delle compagini sociali (per cui l’Occidente rischia grosso nel confronto con l’«altro mondo», in vertiginosa crescita, ricco di capitali e di risorse umane), davvero è pensabile tenere a bada società già avvezze alla democrazia sociale (in questo l’Europa si distingue dagli Stati Uniti) a dispetto di una regressione ad assetti neofeudali? Abbiamo detto che non si capisce la discussione economica se non la si legge in chiave politica. Ma è proprio un problema politico quello che le leadership neoliberiste sembrano non porsi. Confermando tutta la distanza che corre tra gli statisti e i politicanti.(Alberto Burgio, “L’inchino europeo al capitale privato”, da “Il Manifesto” del 20 agosto 2014).Tagli al welfare. Si persegue quella che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa. Afferma un celebre adagio che nella pervicacia si annida il demonio. Se è vero, le leadership europee sono prigioniere di potenze infere. Da sette anni infliggono ai propri paesi e alle loro economie una terapia nel segno dell’austerity che dovrebbe debellare la crisi e rimettere in moto la crescita. Non solo questa cura non ha prodotto nessuno dei risultati attesi. Tutte le evidenze depongono in senso contrario, al punto che sempre più numerosi economisti mainstream si pronunciano a favore di politiche espansive. Ciò nonostante la musica non cambia, nemmeno ora che l’Istituto statistico nazionale della Germania federale ha reso noti i dati sul secondo semestre di quest’anno. Anzi, il mantra delle “riforme strutturali” imperversa più forte che mai. Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere.