Archivio del Tag ‘talento’
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Nuovo Mondo, il talento dell’arcangelo: dare il meglio di sé
Il mio maestro, in India, mi diceva: «Non ti preoccupare, al massimo muori: mica succede niente di grave». Ma te lo diceva con un sorriso tale, per cui quella verità la sentivi, perché lui era già lì. Vi assicuro che è stata dura, tornare a lavorare come fotografo nelle serate di moda dopo aver imparato a fare pratica di meditazione, in India. Così, con lo sguardo al cielo, un giorno ho chiesto un lavoro che fosse sulle mie corde: e subito è apparsa la Sacra di San Michele, che mi ha commissionato un libro. Da lì mi si è aperto un mondo, e ogni volta che salivo alla Sacra – l’ho fatto per due anni, anche dormendovi – mi si accendeva dentro un piccolo fuoco, che mi faceva stare bene. Da allora sono rimasto connesso, con quel luogo speciale. E nei giorni del primo lockdown, in testa mi risuonava una frase: bisogna portare luce.D’un tratto mi chiama una persona che non conoscevo: il marketing manager della Spacecannon, l’azienda che ha creato l’installazione luminosa al posto delle Torri Gemelle, a Ground Zero. E scopro, con mia grande sorpresa, che questa persona – che aveva fatto quella cosa così importante, a New York – abita vicino a me, proprio sotto la Sacra. Pensavo mi proponesse qualche lavoro, invece ci limitavamo a prendere il caffè insieme; però c’era risonanza, restava la sensazione di dover fare qualcosa insieme. Al terzo caffè, guardando la Sacra, gli dico: e se creassimo un fascio di luce che rappresenta la Spada di Michele? Al che, sondo lo scrittore Michele Peyrani, autore di libri sull’arcangelo Michele. Giorni dopo, Peyrani mi risponde: sì, l’idea è voluta dall’alto; però dovete muovere più energie. Così, la mattina dopo, contattiamo amici giornalisti. E il pomeriggio stesso arriva inatteso il via libera della Sacra: ok, la cosa si fa.Da lì è esplosa questa avventura, la Spada dell’Arcangelo, accesa il 29 settembre 2021, giorno di San Michele. Poi, attraverso il web, mi hanno contattato moltissime persone: mi dicevano “grazie”, da tutto il mondo. Il fascio di luce saliva nel cielo per 15 chilometri; praticamente si vedeva anche da Torino, nelle serate terse. E in quel momento ho sentito questo: non l’ho fatta io, quella roba; se c’è, è perché “è arrivata” qui. Sì, ha attraversato me: ma semplicemente perché ero quello più vicino alla Sacra, tra quelli che potevano recepire il messaggio. Davvero, ho sentito una forza, in quella cosa: è vero, simboleggiava la Spada dell’Arcangelo, ma ha portato davvero luce in mezzo a tanto buio. Gli arcangeli? Credo siano energie, a disposizione di chi le chiama.Sincronicità: proprio mentre accendevamo il faro per la prima volta, sotto di noi – in valle di Susa – pare transitasse la Porta dell’Inferno, l’opera di Auguste Rodin diretta a Roma. In quei giorni erano migliaia, le persone che salivano alla Sacra a vedere la Spada da vicino, la strada che sale all’abbazia era letteralmente intasata di auto. Ora, al di là delle singole appartenenze religiose, io percepisco un’energia che riguarda proprio tutti, e che davvero ci può contattare. E tutto è nato da intuizioni istantanee, non da ragionamenti. E’ qualcosa che arriva, semplicemente, nel momento in cui “fai spazio” e ti metti a disposizione, anche in modo umile. Nessuno di noi ha intascato un euro, da questa operazione: credevamo che la cosa potesse portare luce, tutto qui. O forse, questa cosa ci ha essenzialmente attraversato: ed è stato davvero emozionante. Non avevo mai visto una folla simile, lassù. La sera che ci siamo radunati a recitare l’Om al Sepolcro dei Monaci, io piangevo.Col tempo, ho imparato a distinguere quando a parlare è la mia testa, o quando è un’intuizione che arriva da un’altra parte. Quando riconosci questa differenza, dentro di te senti affiorare un coraggio, nell’andare avanti. E penso che proprio nell’estrema durezza del momento storico che stiamo vivendo vi sia un’opportunità ancora maggiore di contattare l’Altrove, di seguire un percorso e di tirare fuori – ciascuno di noi – il proprio talento. Siamo piccole gocce: ma ognuno di noi è fondamentale, per dare vita a questo Nuovo Mondo che siamo chiamati a creare. Non credo ci si debba scontrare, col Vecchio Mondo. Il nostro compito è portare una nuova energia: creare qualcosa di nuovo. E anche incoraggiare gli altri. Pensiamoci: oggi, il Vecchio Mondo ha semplicemente paura. Chi ha fatto certe scelte lo ha fatto per paura, o perché obbligato. Fa parte del gioco. E quando capisci che è un gioco, mi dico: almeno, scegliamoci il personaggio che più ci si addice, in questo gioco.(Franco Borrelli, dichiarazioni rilasciate il 27 dicembre 2021 nella diretta “The World United Italia II”, sul canale YouTube di Luca Nali. Apprezzato fotografo torinese residente in valle di Susa, Borrelli ha ideato – con Riccardo Croce, della Spacecannon – l’installazione luminosa della Spada di Michele, lo scorso autunno, in collaborazione con i Padri Rosminiani che gestiscono la millenaria abbazia. Ammette: «Mi piacerebbe ripetere l’esperimento anche in altri santuari lungo la Linea di Michele, come Monte Sant’Angelo in Puglia e Mont-Saint-Michel in Normandia». Sul momento presente, Borrelli è esplicito: «Come fotografo perderò diversi lavori, avendo scelto di rinunciare al Green Pass: ma esperienze come quella della Spada di Michele non possono che incoraggiare me e tutti quelli come noi»).Il mio maestro, in India, mi diceva: «Non ti preoccupare, al massimo muori: mica succede niente di grave». Ma te lo diceva con un sorriso tale, per cui quella verità la sentivi, perché lui era già lì. Vi assicuro che è stata dura, tornare a lavorare come fotografo nelle serate di moda dopo aver imparato a fare pratica di meditazione, in India. Così, con lo sguardo al cielo, un giorno ho chiesto un lavoro che fosse sulle mie corde: e subito è apparsa la Sacra di San Michele, che mi ha commissionato un libro. Da lì mi si è aperto un mondo, e ogni volta che salivo alla Sacra – l’ho fatto per due anni, anche dormendovi – mi si accendeva dentro un piccolo fuoco, che mi faceva stare bene. Da allora sono rimasto connesso, con quel luogo speciale. E nei giorni del primo lockdown, in testa mi risuonava una frase: bisogna portare luce.
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Sangue sul Chianti: anatomia di un’Italia in emergenza
“Scarabeo”, “La loggia degli innocenti”, “Le rose nere di Firenze”: quello che non ha potuto dire apertamente, come investigatore, il commissario Michele Giuttari lo ha scritto – usando nomi di fantasia – nei suoi fortunatissimi romanzi polizieschi. Lo afferma l’avvocato Paolo Franceschetti, indagatore dell’ombra: quella da cui nascono alcuni fra i più atroci incubi italiani, tra cui i cosiddetti omicidi rituali. Spaventosi gialli in parte ancora irrisolti, come quelli attribuiti alla banda chiamata Mostro di Firenze. A un passo dalla svolta definitiva arrivò proprio lui, Giuttari, insieme al procuratore perugino Giuliano Mignini, quando i Compagni di Merende allusero al “dottore di Perugia” come possibile mandante: le acque del Lago Trasimeno restituirono un corpo, frettolosamente attribuito a quel giovane medico. Non annegato, si seppe poi, ma strangolato. Una volta riesumato e messo a confronto con le foto del cadavere ripescato, si scoprì che si trattava di due persone diverse. Il morto del lago (mai scoperto chi fosse) doveva solo servire a convincere tutti che il povero medico fosse davvero caduto in acqua, trovandovi la morte.Il colpo di genio? Far rilevare le impronte digitali alla salma, nel dubbio che fosse stato proprio lui – il dottore – a sfidare il pool di Firenze, spedendo ai magistrati alcuni macabri frammenti dei cadaveri straziati delle coppiette uccise. Bingo: quando il super-detective corse a frugare nell’archivio super-blindato dei reperti, scoprì che era stato appena saccheggiato. Le lettere-chiave, sparite. Altro avvertimento: nel cortile della questura, le gomme dell’auto del commissario erano state tagliate. Poco dopo, Michele Giuttari lasciò la polizia. E insieme al magistrato di Perugia, fu perseguitato con accuse giudiziarie pretestuose (poi sgonfiatesi, ma solo dopo aver allontanato lui e il giudice dal vero Mostro di Firenze). Oggi, Michele Giuttari è un autore di bestseller tradotti e venduti in tutto il mondo, in oltre cento paesi diversi. Un prodigioso macinatore di trame mozzafiato e di parole asciutte, esatte, precise come le indagini che ne avevano fatto un campione della polizia italiana.Un implacabile cacciatore di mafiosi, Giuttari. Criminali di primo livello, come i killer di Cosa Nostra che avevano fatto scoppiare le bombe stragistiche di Milano, Firenze e Roma, all’inzio degli anni ‘90, quando l’Italia – caduto il Muro di Berlino – “doveva” finire in pasto ai poteri finanziari che controllano l’Ue, e andare incontro alla buia morsa dell’austerity. Poteri che utilizzarono largamente tutto il marcio su cui aveva galleggiato la mitica Prima Repubblica, prospera e corrotta. Analisti e politologi, negli ultimi anni, hanno ricostruito il quadro: la demolizione dei vecchi partiti, ormai inutili e spesso impresentabili, non sarebbe mai potuta avvenire se la magistratura di Milano non si fosse “accorta”, di colpo, del dilagare del pubblico malaffare. Gli inafferrabili mafiosi? I capi storici sarebbero stati arrestati, anche quelli, ma solo dopo aver “sistemato” Falcone e Borsellino, che si erano spinti oltre, seguendo la pista dei soldi che probabilmente collegava Brooklyn e Bruxelles, magari passando anche per il vecchio Ior e gli affari di Calvi e Sindona, altri due personaggi (di taglia ben diversa) messi a tacere a tempo debito.Oggi è di moda parlare di Deep State: il punto di saldatura tra super-tecnocrati “collaborazionisti”, colletti bianchi della nuova mafia e mercenari dell’establishment al soldo di un potere apolide, quello del denaro, insieme a precisi segmenti dell’apparato statale, le “barbe finte”, gli 007 senza bandiera incaricati delle operazioni più inconfessabili. Un sottobosco che, pian piano, emerge anche dalle pagine di “Sangue sul Chianti”, ultima fatica letteraria di Michele Giuttari, che opera sul campo attraverso il suo alter ego cartaceo, il commissario Ferrara. Non un giallo politico, beninteso: trattasi di noir puro, composto – con un’orchestrazione perfetta, cronometrica e implacabile – per la gioia degli amanti di questo genere narrativo che, secondo la francese Fred Vargas, viene ormai utilizzato sempre più spesso, dagli scrittori, per “rifugiarsi” nel pretesto di una trama poliziesca. Un luogo protetto, da cui dire la loro su come va il mondo, per davvero, anche portando allo scoperto i fili invisibili che legano un assassino ai suoi insospettabili, illustri mandanti.E così, anche “Sangue sul Chianti” – un libro che letteralmente si lascia divorare, alla velocità della luce – mette in scena un teatro d’ombre in cui finiscono per muoversi affaristi di provincia e piccoli drogati, brutali spacciatori stranieri ma anche clan mafiosi con libero accesso a paradisi fiscali. Tutti retroscena perfettamente noti ai soliti apparati, quelli d’intelligence, che – lungi dall’intervenire – sfruttano la situazione: e se proprio si mette male, se cioè spunta qualche “sbirro” troppo sveglio, sono anche pronti a far scorrere il sangue, sul Chianti e non solo, magari per occultare tracce che renderebbero evidente la reale natura del gioco, non presentabile al cittadino comune che si ciba di cronaca, magari nera. Ed è quella, infatti, a dominare il libro, che sa offrire benissimo la percezione della crescente insicurezza sociale, nella Firenze del 2005, mentre l’Italia sta scivolando giorno per giorno verso l’inesorabile crisi economica che, di lì a non molto, la porterà a genuflettersi davanti alle nuove, o forse antiche divinità bancarie dell’Unione Europea.Nel fondamentale memoir “Confesso che ho indagato”, titolo che rifà il verso alla strepitosa autobiografia di Pablo Neruda, Giuttari insiste su un punto cardine: guai a delegare alla sola tecnologia il compito di risolvere le indagini, perché niente potrà mai sostituire il lampo dell’intelligenza (non artificiale) che nasce dalla sensibilità – umanissima – del poliziotto che scava nel buio, nel dolore dei parenti delle vittime e tra le pieghe della scena del crimine, attingendo anche al talento naturale da cui nascono le migliori intuizioni. Certo, occorre essere maestri nell’arte dell’interrogatorio, prima che intervenga – in modo magari maldestro e ingombrante – il protagonismo della magistratura inquirente (non altrettanto dotata, nella specialità in cui eccellono gli “sbirri” purosangue, che sanno fiutare la preda). Così, anche stavolta, gli appassionati del legal thriller e del poliziesco classico troveranno pane per i loro denti, osservando in azione gli uomini del commissario Ferrara: riconosceranno il piglio inconfondibile di indagini condotte a misura d’uomo, inclusi gli inevitabili errori, lontanissimo dagli effetti speciali di tante, recenti polizie televisive.Puntare l’uomo, marcarlo stretto, indovinargli l’anima: sapendo che la possibile cantonata è sempre dietro l’angolo, e che l’assassino potrebbe anche essere la persona di cui, da sempre, ti fidi di più. “Sangue sul Chianti” mostra, in modo esemplare, di che pasta erano fatti gli investigatori italiani della vecchia guardia, come i segugi che – in Sicilia – finirono spesso nel tragico cimitero dell’antimafia, durissima trincea dalla quale proveniva lo stesso Giuttari, messinese d’origine. Il suo ultimo noir punta in alto: lo sporco si annida proprio lassù, nel vertice della piramide, in tutte le sue declinazioni (pubbliche e private). Brillano diamanti e sfavilla il lusso, nel paradiso dorato del “Chiantishire”, che d’un tratto può colorarsi di rosso come il Sangiovese. Ma il male ha sempre bisogno di collaborazione, anche da parte della gente minuta: le debolezze umane sono in agguato ovunque, a poco prezzo. E fanno parte, anche loro, di una trama formidabile, che tiene insieme cacciatori e lepri, vivi e morti, guardie e ladri. Il piccolo delinquente, l’uomo comune che cede alla tentazione solo per una volta, nella vita. E il più pericoloso criminale tuttora a piede libero: il potere.Sbaglierebbe, chi vedesse nell’autore Michele Giuttari una specie di anarchico travestito da ex poliziotto: la severità del suo sguardo politico è la stessa di chi ha creduto, in modo incrollabile, nelle istituzioni di un’Italia risorta dalle macerie dell’ultima guerra mondiale. In tutt’altra maniera, ne dà prova anche uno scrittore come Giuseppe Genna nel thriller “Nel nome di Ishmael”, che lambisce il dramma della sparizione dei bambini: lo fa in una pagina memorabile, dedicata al “sacrificio” di Enrico Mattei come eroico edificatore civile dell’Italia democratica del dopoguerra. Se oggi – 2021, anno secondo dell’Era Covid – il paese è diventato letteralmente irriconoscibile, in fondo anche le pagine di “Sangue sul Chianti” sembrano suggerire che forse non tutto è perduto, se a far tardi la notte (anche rischiando la pelle) ci sono uomini come quelli della Squadra Mobile del commissario Ferrara.(Il libro: Michele Giuttari, “Sangue sul Chianti”, Fratelli Frilli Editore, 467 pagine, euro 18,90).“Scarabeo”, “La loggia degli innocenti”, “Le rose nere di Firenze”: quello che non ha potuto dire apertamente, come investigatore, il commissario Michele Giuttari lo ha scritto – usando nomi di fantasia – nei suoi fortunatissimi romanzi polizieschi. Lo afferma l’avvocato Paolo Franceschetti, indagatore dell’ombra: quella da cui nascono alcuni fra i più atroci incubi italiani, tra cui i cosiddetti omicidi rituali. Spaventosi gialli in parte ancora irrisolti, come quelli attribuiti alla banda chiamata Mostro di Firenze. A un passo dalla svolta definitiva arrivò proprio lui, Giuttari, insieme al procuratore perugino Giuliano Mignini, quando i Compagni di Merende allusero al “dottore di Perugia” come possibile mandante: le acque del Lago Trasimeno restituirono un corpo, frettolosamente attribuito a quel giovane medico. Non annegato, si seppe poi, ma strangolato. Una volta riesumato e messo a confronto con le foto del cadavere ripescato, si scoprì che si trattava di due persone diverse. Il morto del lago (mai scoperto chi fosse) doveva solo servire a convincere tutti che il povero medico fosse davvero caduto in acqua, trovandovi la morte.
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Giovagnoli: e voi cantanti (spariti) avete tradito i giovani
I giovani sono stati ricattati mettendo sul piatto proprio le cose che sono più belle, a quell’età: i luoghi d’incontro, le palestre, le università. Quella dei giovani è una frequenza particolare: una luce fresca, al servizio della verità. Dall’altra parte, invece, troviamo quelli che sono stati gli idoli dei giovani: questi cantanti, questi artisti, che a un certo punto sono totalmente spariti. Tutti lì, anzi, a inneggiare a questo processo di omologazione, questa lobotomia costante, questo dover accettare, “perché quella è la normalità”. Prendo le distanze da tutti quegli artisti che sono diventati famosi prendendo sotto braccio l’arte, e poi dimenticandosi di che cos’è, l’arte. Prima di tutto, l’arte è libertà. E quindi, un cantante che ha inneggiato alla libertà e oggi invece si schiera con chi vuole farci dimenticare che potenza può esserci, dentro la parola libertà, è un individuo che innanzitutto ha tradito l’arte, poi ha tradito se stesso, e poi ha tradito tutti quei giovani che lo avevano seguito perché, sicuramente, in lui sentivano una forza.Quando si accumula una forza, bisogna prendersene la responsabilità. E a tutti questi artisti, che sono spariti nel nulla – non se ne sente uno, in un momento così critico, delicato, importante, dove bisogna dare veramente corpo a certe parole (prima fra tutte, la parola libertà) – mando il più profondo invito affinché l’arte stessa porti giustizia. Un po’ come in tutte quelle forme di potenza che sono state sposate in funzione egoica, e poi si sono rivolte contro chi aveva compiuto quel gesto: la famosa ruota che poi schiaccia chi l’aveva adottata, perché ha voluto sfidare una salita troppo alta. Verso di voi, artisti assenti, va anche tutto il mio profondo disprezzo. Come ci ha insegnato un grande fratello, Nietzsche: nei confronti delle masse, di tutti quelli che seguono una corrente senza chiedersi perché, tutte quelle persone che non vogliono più farsi domande, che vogliono essere nutrite anche nel pensiero, ecco, nei loro confronti bisogna essere superiori “per disprezzo”, perché quel disprezzo è l’ombra dell’amor proprio che, invece, l’osservatore dirige su di sé.(Michele Giovagnoli, dichiarazione estratta dal video della tappa milanese del tour “Agorà d’Amore”, trasmesso in diretta su Facebook il 9 luglio 2021 da piazza Duomo. Scrittore e alchimista, Giovagnoli è autore di libri come “Alchimia selvatica”, “La messa è finita”, “Impara a parlare con gli alberi”. Conduce stage nei boschi in tutta Italia, stimolando i partecipanti a intraprendere percorsi di tipo alchemico, in piena sinergia con gli alberi. Nel 2020, esplosa la crisi Covid, ha fondato la community “Essere Solare”, che aggrega migliaia di individualità, decise a “rispondere” all’emergenza sviluppando talenti umani, messi in rete. Proprio il network “Essere Solare” affolla le tappe del tour “Agorà d’Amore”, pensato anche per stringere alleanze interpersonali in grado di mobilitare risorse interiori, rompere l’isolamento sociale e sviluppare capacità empatiche, lungo un orizzonte che tende a disegnare una nuova umanità, libera da ogni ricatto e refrattaria a qualsiasi restrizione imposta).I giovani sono stati ricattati mettendo sul piatto proprio le cose che sono più belle, a quell’età: i luoghi d’incontro, le palestre, le università. Quella dei giovani è una frequenza particolare: una luce fresca, al servizio della verità. Dall’altra parte, invece, troviamo quelli che sono stati gli idoli dei giovani: questi cantanti, questi artisti, che a un certo punto sono totalmente spariti. Tutti lì, anzi, a inneggiare a questo processo di omologazione, questa lobotomia costante, questo dover accettare, “perché quella è la normalità”. Prendo le distanze da tutti quegli artisti che sono diventati famosi prendendo sotto braccio l’arte, e poi dimenticandosi di che cos’è, l’arte. Prima di tutto, l’arte è libertà. E quindi, un cantante che ha inneggiato alla libertà e oggi invece si schiera con chi vuole farci dimenticare che potenza può esserci, dentro la parola libertà, è un individuo che innanzitutto ha tradito l’arte, poi ha tradito se stesso, e poi ha tradito tutti quei giovani che lo avevano seguito perché, sicuramente, in lui sentivano una forza.
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Poteri oscuri, dietro le comparse della fiction nazionale
Poteri oscuri: ogni tanto emergono maschere, dalla poltiglia nera in cui annaspa l’Italia a partire dalla caduta del Muro di Berlino. Il detonatore fu l’operazione-Tangentopoli, orchestrata con l’aiuto di settori dell’intelligence Usa per affondare tutti i partiti della Prima Repubblica, tranne uno: proprio l’erede della sinistra comunista avrebbe ricevuto le chiavi del regno a patto che tradisse tutti, il paese e il suo stesso elettorato, per svendere al miglior offerente il ricco bottino rappresentato da quella che, negli anni di Craxi, era diventata la quarta potenza economica mondiale. Attraverso uno strettissimo controllo sui media e sulla stessa magistratura, cominciò allora la narrazione aliena della realtà: il linciaggio contro i presunti corrotti, a beneficio dei “buoni” che regalavano l’Italia, pezzo per pezzo, ai poteri che li avevano insediati alla guida del paese, tramite illustri prestanome. Erano gli anni del fragoroso giustizialismo televisivo spettacolarizzato da un caposcuola come Michele Santoro, cui avrebbe fatto eco – di lì a poco – il talento della scolaresca di Marco Travaglio, specializzata nel completare la comoda narrazione anti-italiana della storia recente.
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L’avvocato dei morti viventi: l’Italia in mani straniere
Come Vlad l’Inestinto, Giuseppe Conte sopravvive a se stesso a modo suo, fingendo di essere vivo tra le anime morte del Parlamento italiano, cioè i disperati peones del patetico “uno vale uno” e la puntuale ciurma dei voltagabbana di cui è provvida la gloriosa tradizione italica. Sbiadisce il finto outsider Matteo Renzi, campione dello spreco: l’unico autentico talento affabulatorio comparso sulla scena, da anni, subito messosi al servizio della guerra santa dei Marchionne e dei Burioni, dei Tony Blair d’ogni tempo, dei signori di BlackRock a cui regalare il succulento boccone di Poste Italiane, azienda in ottima salute e dunque semi-privatizzata ad personam. Sul trono sembra restare il sempre più precario Re Travicello di Volturara Appula, con la sua rete di servizi segreti e cardinali che lo utilizzò già nel 2018 come testa di legno, infiltrato dormiente del vero potere, allarmato dalle inquietudini elettorali che sembravano agitare il partito-chiesa dei No-Tap, No-Muos, No-Ilva, No-Tutto.
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Fango: l’amara lezione che sta sommergendo tutto
Luce fredda di lampeggianti, pioviggine. Da qualche parte, lontano, ecco i parlamentari: spalano fango, curvi e sordi. Voci si spengono nel buio dei monitor parlanti, dentro una notte eterna di desolazioni che ormai è vano raccontare, articolando segni. Nero il destino che declina ciance vuote, in una recita spettrale di pagliacci. Morto il talento, il cuore, il canto di chi tenta, sapendo di poter sbagliare e di fallire, ma dopo aver lottato. Morte le idee, insieme ai desideri. Morte le parole. Nell’aria scialba, galleggiano le formule grigiastre del mendicare attimi. Notorietà ingloriosa, in mezzo a una palude di mediocrità invincibile: come una malattia senza speranza, da troppo tempo libera di seminare orrori sapientemente travisati e mascherati da normalità. Una lunghissima, inesorabile discesa. Si scivola nel fango, poco alla volta rinunciando a tutto, dopo la morte lenta della verità.
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Bizzi: ci schiavizzano mentendo, come previsto da Orwell
Ripubblicare oggi, nel giugno del 2020, un’opera come “1984″ di George Orwell «non rappresenta soltanto un preciso dovere culturale ed editoriale». Rappresenta, anche e soprattutto, «un chiaro messaggio politico e di denuncia sociale». Mai prima d’ora, infatti, dal 1949 – l’anno in cui Eric Arthur Blair (il vero nome di Orwell) pubblicò a Londra la sua ultima e più nota opera letteraria, “Nineteen Eighty-Four” – il mondo in cui viviamo ha rischiato realmente di precipitare nei cupi e allucinanti scenari, così mirabilmente descritti da questo scrittore singolare e visionario. Lo scrive lo storico Nicola Bizzi, editore di Aurora Boreale, nel presentare (insieme a Marco Della Luna) una riedizione dell’incubo del Grande Fratello in piena era Covid. «Molto probabilmente – scrivi Bizzi, nella prefazione – la drammatica situazione che stiamo ancora vivendo a livello globale sarà un giorno menzionata nei libri di scuola dei nostri figli e nipoti come il più grande inganno degli ultimi secoli». Un grande inganno «perpetrato, ai danni dei popoli, da una certa élite di potere che, con il pretesto di una falsa pandemia e servendosi di un “virus” abilmente ingegnerizzato in laboratorio, ha tentato di accelerare (per tutta una serie di ragioni che andremo a spiegare) il progetto di instaurazione di un Nuovo Ordine Mondiale».Un Nuovo Ordine Mondiale «già da molto tempo pianificato ed annunciato, fondato sul forzato depopolamento e sul controllo tecnocratico totale dei cittadini di un mondo sempre più globalizzato». Gli strumenti: progressiva accentrazione di tutte le risorse e le ricchezze, e distruzione delle identità etniche, nazionali, culturali e religiose. E graduale restringimento, fino ad arrivare alla totale eliminazione, dei diritti civili e delle libertà democratiche sanciti dalle vigenti costituzioni nazionali. «Diritti civili e libertà democratiche conquistati dai popoli con il sangue, attraverso secoli di incessanti lotte e battaglie». Come ricorda lo stesso Della Luna, avvocato e scrittore di successo nonché autore (insieme a Bizzi) dei testi inediti che concorrono alla prefazione a questa riedizione del capolavoro di Orwell, oggi i popoli della Terra «sono divenuti superflui», perché i metodi di produzione del potere e della ricchezza «si sono accentrati nel controllo di poche grandi famiglie dinastiche». Un’oligarchia che «decide a porte chiuse, sopra quanto rimane delle istituzioni delle democrazie formali nazionali». Oligarchie che «non necessitano più delle masse di lavoratori, consumatori, combattenti di cui necessitava fino a non molto tempo fa il capitalismo industriale produttivo».Di conseguenza, «cittadini e lavoratori hanno perso quella capacità di negoziare che fino all’altroieri ha rappresetato forse la sua unica e ultima risorsa». Cittadini che quindi «stanno inesorabilmente perdendo reddito, diritti, sicurezze, voglia di far figli». In sintesi, scrive Bizzi, stanno perdendo il loro stesso futuro, «condannati a una prospettiva di vita forse ancora peggiore di quella decrittaci da Orwell nel suo romanzo». Ciò che sta accadendo dall’autunno del 2019, «con il rilascio (intenzionale) il 19 di ottobre a Wuhan, in Cina, di un virus ingegnerizzato in laboratorio e con la sua propagazione palesemente “anomala”», cioè saltando letteralmente (a parte la Corea) tutte le nazioni confinanti con la Cina e diffondendosi direttamente in paesi come l’Iran, l’Italia, gli Stati Uniti e il Brasile. Su Facebook, già il 29 aprile, Bizzi le aveva chiamate “Prove tecniche di dittatura”, evidenziavo le inquietanti analogie tra gli strumenti e i metodi repressivi in uso nei paesi dell’Est Europa al tempo della Guerra Fredda e le misure «antidemocratiche e anticostituzionali» adottate in Italia dal governo Conte «con il pieno avvallo del Capo dello Stato, senza alcun voto parlamentare e con la totale connivenza e complicità delle cosiddette “opposizioni”».Impietoso, il parallelo tra il 2020 e la vita nei paesi del cosiddetto “socialismo reale” prima della caduta del Muro di Berlino. Primo punto: controllo totale dei cittadini, dei loro spostamenti e delle loro telefonate. «All’epoca non esistevano certe “applicazioni”, ma lo Stato non si faceva sfuggire niente, con l’impiego massiccio e sistematico di semplici ma efficienti metodi “tradizionali”, quali intercettazioni, pedinamenti, posti di blocco, e ricorrendo ad una estesa rete di delatori», ricorda Bizzi. «Ognuno era pronto, per paura e per evitare a sua volta di essere additato come un “nemico dello Stato”, a denunciare il proprio vicino, perfino i propri amici e familiari». Ci ricorda qualcosa di vicinissimo a noi? «Con il pretesto dell’instaurazione dapprima di “zone rosse” e poi di un lockdown esteso all’intero territorio nazionale, in spregio ai più elementari diritti sanciti dalla Costituzione, sessanta milioni di cittadini italiani sono stati di fatto costretti agli arresti domiciliari, con la simultanea forzata chiusura di oltre il 90% delle attività produttive e degli esercizi commerciali e con il divieto di spostamento e di libera circolazione».Agli italiani non è stato impedito solo di lavorare, e quindi di mantenere la propria famiglia, ma è stato loro “consentito” di uscire di casa «solo per ragioni di stretta necessità, uno solo per nucleo familiare, e con il divieto di allontanarsi a più di duecento metri dal proprio domicilio!». E ovunque, posti di blocco e pattuglie «a vigilare su una simile follia». Forze dell’ordine «incredibilmente potenziate per l’occasione, con l’acquisto di migliaia di nuovi automezzi, camionette blindate, elicotteri, droni e un notevole incremento di organico». Un’operazione dispendiosissima, sostiene Bizzi, «che poteva essere pianificata solo con diversi mesi di anticipo», e riguardo alla quale «nessun parlamentare di “opposizione” si è degnato di indagare o di avanzare un’interrogazione». Ciliegina sulla torta, «il ricorso alla sistematica delazione, da parte di vicini di casa improvvisatisi ignominiosamente spie da balcone, per l’individuazione e il sanzionamento dei “trasgressori”». Un controllo ferreo, agevolato dal punto 2 dell’operazione: totale censura e piena omologazione della stampa e delle televisioni al pensiero unico, proprio come avveniva nei regimi dell’Est Europa.«Esattamente quello che è successo e che sta ancora (mentre scrivo) succedendo in Italia: sistematica censura delle notizie “scomode” e arbitraria cancellazione o rimozione – da siti Internet, social network come Facebook e Twitter e da piattaforme come Youtube – di articoli, interviste, testimonianze e video che osavano mettere in discussione il pensiero unico imposto dal regime». Sconcertante, il “ministero della verità” istituito a Palazzo Chigi da Andrea Martella (Pd) per “bonificare” il web dalle notizie scomode. A questo si sono aggiunte «azioni di censura e di delegittimazione (fino al vero e proprio linciaggio mediatico) di politici, intellettuali, giornalisti, medici e scienziati che non si allineano con la narrazione imposta dal governo». E’ la legge della “società fondata sulla menzogna” (terzo caposaldo, per Bizzi, dei regimi coministi). La prassi: «Falsificazione totale dei dati economici e delle statistiche». Ovvero: «A dispetto di ogni evidenza, ciò che lo Stato affermava e comunicava ai cittadini diveniva verità assoluta e doveva essere accettato alla stregua di un dogma di fede». Anche in questo caso, in Italia «continua ad esserci una spudorata falsificazione dei dati e delle statistiche, sia da un punto clinico che economico».Bizzi denuncia la «palese falsificazione per eccesso del numero dei decessi», con l’inclusione forzata (nei numeri comunicati dai teatrali bollettini televisivi della Protezione Civile) dei morti «per qualsiasi patologia, anche per infarto o incidente stradale». In parallelo, la deformazione dei dati economici, «con la promessa, da parte del governo, di aiuti alle imprese e alle famiglie mai effettivamente erogati». E anche in questo caso, «con la demonizzazione e il discredito di chiunque si permettesse di criticare o di contestare le “verità” imposte dal regime». Parlava da sola (e lo fa ancora) il quarto punto indicato da Bizzi, nell’inquietante parallelo con l’Est Europa: lunghe code fuori da negozi e supermercati. «Altra situazione da incubo, creata ad arte dal regime per incrementare il senso di paura e di emergenza». Mentre nei paesi comunisti le code erano dovute all’effettiva penuria di generi di prima necessità, «le immense code fuori da supermercati e uffici postali che sono diventate una regola in Italia fin dall’inizio del lockdown sono state attentamente studiate e pianificate», per creare disagio, allarme e paura.In parallelo (punto 5) gli assembramenti rigorosamente vietati, che Bizzi preferisce chiamare “assemblamenti”: «I “puristi” della lingua Italiana qui mi criticheranno, ma io preferisco usare la parola “assemblamento” (che è effettivamente da sempre in uso nella lingua parlata), piuttosto che “assembramento”, una parola ruvida e stonata che gli Italiani hanno imparato a conoscere solo con gli incostituzionali decreti contiani». Attenzione: con questo pretesto sono stati negati anche il diritto di sciopero e quello di manifestazione. Già a febbraio, un intellettuale come Alessandro Benati annotava: «Le parole, la liturgia, i segni e i gesti di questa pandemia illustrano quanto chi sta orchestrando la nostra presunta salvezza fisica abbia profondamente in odio l’Essere Umano». Esempio, il “distanziamento sociale”: «In queste due innocue paroline è racchiuso il massimo disprezzo che certe potenze hanno per il massimo che può esprimere appunto l’uomo: l’amore e la libertà. L’algido e asettico neo linguaggio tecno-scientocratico tenta di far passare con ciò il messaggio che la tua salvezza (fisica, e solo fisica) debba passare dall’abdicazione a tutto ciò che Tu sei realmente, e che ti distingue da tutti gli altri Esseri del Cosmo: un essere d’amore e libero, capace di esprimere questi due valori Universali anzitutto nei confronti degli altri Esseri Umani, cioè nel sociale».Libertà, continua Benati, che va vista «come manifestazione dello Spirito attraverso i talenti nell’arte, nella cultura, nel lavoro manuale o intellettuale». Amore, «declinato ad esempio come solidarietà, in campo economico». Distanziamento sociale: «Due paroline innocue che nascondono invece un potenziale anti-umano inimmaginabile». Questa «sottrazione di umanità», aggiungeva Benati, è alimentata da personaggi «che non hanno per niente a cuore la vostra libertà e il vostro amore: anzi, si nutrono proprio del vostro dolore, della vostra volontà inespressa (vedi i talenti di cui sopra), della vostra sofferenza, e soprattutto della vostra adesione a queste forme-pensiero, siano esse parole, rituali, gesti, immagini». Bizzi concorda sulla pericolosità dei termini: sarebbe stato meglio evocare un distanziamento “fisico”, provvisorio. L’aggettivo “sociale”, invece, sottolinea «quanto l’obiettivo del governo e dei suoi manovratori internazionali sia proprio quello di spezzare i legami sociali tra le persone, di annientare ogni forma di aggregazione e di socialità», mortificando «l’indole e l’essenza stessa dell’essere umano, che è un animale sociale per definizione».Nel suo parallelo coi paesi del “socialismo reale”, Bizzi inserisce (punto 6) anche l’assenza di qualsiasi opposizione politica. Non che non in quel mondo non esistesse, un’opposizione formale: ma era appunto solo cosmetica, serviva a legittimare la finzione di una democrazia esclusivamente nominale, assorbendo il dissenso in modo che non potesse disturbare la macchina statale. «Nell’Italia di oggi il quadro non solo non è molto dissimile, ma è addirittura peggiore», accusa Bizzi. «I partiti di “opposizione” hanno del tutto tolto la maschera, dimostrando di essere totalmente funzionali e asserviti al pensiero unico del regime e ai suoi disegni totalitari, tecnocratici e antidemocratici». Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia «si sono piegati agli aberranti decreti anticostituzionali del governo, legittimando in questo modo la sospensione dei più elementari diritti democratici dei cittadini». Non solo: esponenti di spicco di quei partiti «hanno deliberatamente incrementato il clima di paura e di repressione, dimostrandosi più filogovernativi degli stessi partiti che sostengono l’esecutivo». Per non parlare «di quegli amministratori e sindaci di centrodestra che, degni emuli di Goebbels e di Mengele, non hanno esitato a ricorrere alla barbara pratica dei trattamenti sanitari obbligatori per silenziare i dissidenti».«Sarà senz’altro la Storia a giudicarli – scrive Bizzi – anche se mi auguro che possano venire un giorno non molto lontano giudicati e condannati nelle aule dei tribunali». I sedicenti partiti di “opposizione” «sono ormai del tutto delegittimati agli occhi del popolo Italiano». La loro unica funzione, ormai, «è quella di catalizzare e inertizzare ogni forma di dissenso». Altro dramma (punto 7), i diritti civili: garantiti solo sulla carta. «Nella dittatura orwelliana in cui è stata precipitata l’Italia, dissentire è diventato estremamente pericoloso», scrive Bizzi. «E gli abusi esercitati dalle “forze dell’ordine”, in spregio ai più elementari diritti costituzionali, sono ormai divenuti una costante pratica intimidatoria», mentre in televisione esponenti del Pd e dei 5 Stelle «esaltano senza alcun ritegno le misure liberticide del loro governo e proclamano la sospensione della Costituzione, al pari dell’orwelliano Ministero della Verità». Così, le task force di tecnici e di “esperti” «dettano la linea politica all’esecutivo, perseguendo un’agenda che è stata imposta dall’alto». Un’azione di annientamento: «Continuano inesorabilmente a distruggere ogni diritto civile e ogni conquista sociale».Ottavo capitolo dell’infame parallelo tra l’Italia e gli ex satelliti dell’Urss, la scure sulle funzioni religiose. «Mai, nella storia, neppure durante le spaventose epidemie di peste nera del XIV° e del XVII° secolo, la libertà di culto e il diritto dei cittadini di esercitare funzioni religiose e di prendervi parte erano stati messi in discussione». E’ invece avvenuto nell’Italia del 2020. Nei paesi del blocco orientale, nonostante l’ateismo di Stato, la religione non è mai stata vietata, e le pratiche di culto venivano comunque tollerate, sia pure sotto stretta sorveglianza politica. «Nell’Italia del 2020, invece, in nome di una falsa pandemia e adducendo come pretesto il divieto di assemblamenti e il mantra del “distanziamento sociale”, le funzioni religiose (e addirittura anche i funerali!) sono state veramente cancellate e proibite con un tratto di penna, cosa che neanche Stalin in persona osò fare». E la cosa più incredibile, aggiunge Bizzi, è che questo sia potuto avvenire con il pieno assenso del Vaticano e della Cei. Bizzi non è cristiano, né indulgente nei confronti del Vaticano. «Ma la mia posizione – ribadisce – è di assoluta difesa del diritto e della libertà di culto». Accusa: «Appare ormai evidente che l’obiettivo del governo Conte e delle forze oscure che lo eterodirigono sia quello di eradicare dalla popolazione qualsiasi sentimento religioso, in nome di un dogmatismo scientista totalitario che va ben oltre i cupi scenari narratici da Orwell in “1984″».Nona e ultima verogna: l’obbligo di speciali documenti e autorizzazioni (altro che “autocertificazioni”!) per potersi spostare da una città all’altra o da una regione all’altra. «La forzata introduzione di una simile modulistica è servita a impedire la libera circolazione dei cittadini, ad alimentare il clima di paura e la cappa repressiva, e schedare tutti coloro che si sono piegati a compilare simili assurdità e a consegnarle alle autorità». Il paragone con l’Europa dell’Est al tempo del Socialismo reale è però anche in questo caso calzante: in Unione Sovietica esistevano passaporti interni, indispensabili per spostarsi da una regione all’altra. «Passaporti che le autorità spesso revocavano ai dissidenti, proprio per limitare i loro movimenti». Quei lasciapassare li descrive anche Orwell nel suo romanzo distopico. Bizzi ha lavorato per anni in Bulgaria: «Io queste cose le ho vissute, le ho toccate con mano, le ho provate davvero sulla mia pelle. So cosa significa essere costantemente sorvegliato e fermato dalla polizia». Ma c’è una differenza fondamentale: «Nei regimi comunisti il cittadino serviva, rappresentava una forza lavoro, era considerato una indispensabile ruota dell’ingranaggio statale, e veniva in un certo qual modo tutelato dal regime proprio perché “utile”».Oggi, invece, come insegna Marco Della Luna, i popoli (e, di conseguenza, i semplici cittadini) per certe élite di potere sono ormai divenuti “superflui”. «Oggi, queste élite di potere non sono semplicemente interessate a mantenere e consolidare il proprio potere: intendono dare la spinta finale verso una società dittatoriale e tecnocratica decisamente peggiore di quella immaginata da Orwell nel suo romanzo». Una società da incubo, «dominata da un ottenebrante pensiero unico scientista, in cui non esistano più diritti, democrazia e libertà civili». E per fare questo – continua Bizzi – intendono «eliminare fisicamente una consistente parte della popolazione globale, come è stato esplicitamente scritto in otto lingue diverse (inglese, spagnolo, swahili, hindi, ebraico, arabo, cinese e russo) su quell’inquietante monumento noto come Georgia Guidestones, inaugurato su committenza privata il 22 marzo 1980 su una radura della contea di Elbert, in Georgia (Stati Uniti)». Bizzi ricorda le parole di un grande massone libertario, Benjamin Franklin, tra i padri fondatori degli Stati Uniti: «Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di momentanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza».Eppure, osserva sempre Bizzi, proprio in nome in una presunta “sicurezza”, la stragrande maggioranza degli italiani, «condizionati dalla paura e da un allarmismo televisivo platealmente confezionato ad arte dal governo», ha clamorosamente dimostrato di essere «pronta a rinunciare alle proprie libertà fondamentali», per le quali le precedenti generazioni «hanno lottato, combattuto e spesso dato la vita». Secondo Bizzi, «siamo di fronte alla più grande psy-op mai messa in atto nel mondo in tempi moderni». Si tratta di «un’operazione ben pianificata e congegnata, in quanto ha saputo fare leva proprio sulla paura, sulla più recondita paura dell’essere umano: la paura della morte, per giunta per mano – in questo caso – di un nemico invisibile». Un nemico elusivo e infido, «nell’immaginario confezionato ad arte dai “controllori della matrix”: il virus «poteva assumere il volto dei nostri vicini, dei nostri amici, dei nostri familiari, dei nostri affetti più cari; poteva insinuarsi ovunque, nell’aria che respiriamo, sugli oggetti che tocchiamo, sui nostri vestiti, nel vento, nella pioggia, sulla terra, nella sabbia». Un nemico «onnipotente e onnipresente, che poteva raggiungerci e colpirci ovunque, al pari del Grande Fratello di Orwell».Ricordate il celebre assioma di Noam Chomsky, “problema-reazione-soluzione”? Il problema, in questo caso, è il “virus”. La reazione è proprio la paura. «La soluzione? Una dittatura. Medica, mediatica, sociale, tecnocratica, finanziaria, politica, culturale». Chiamatela come volete, «ma la sostanza non cambia: una dittatura è una dittatura, punto». Come osserva Marcello Pamio, con la scusa di un misterioso virus arrivato dall’Oriente «il Grande Fratello affina le armi e stringe sempre il cappio attorno alle già risicate libertà». E i nostri governanti «ci impongono così l’isolamento sociale (che fa crescere non solo la paura ma anche la rabbia e il rancore)». Vogliono il tracciamento digitale, «incrociando tabulati, carte di credito e satellitare dei cellulari, per sapere in ogni momento dove siamo e cosa stiamo acquistando». Approntano «telecamere, sensori biometrici e termici per vedere in ogni istante cosa facciamo, nell’attesa del microchip e della sparizione del contante».«Nel biochip – prosegue Bizzi – saranno registrati tutti i dati individuali, sanitari, fiscali, compreso l’Id, l’Identificativo Digitale che tutti avranno». Il denaro cartaceo, «nelle intenzioni dei grandi burattinai», dovrà sparire: lascerà il posto a una moneta virtuale, elettronica, e quindi «facilmente manipolabile, gestibile, controllabile». Attenzione: «Tutto come da copione, tutto già predisposto e pianificato, secondo i piani dell’Agenda ID2020». Niente di inatteso, peraltro – almeno per Bizzi, che appartiene alla tradizione iniziatica dei Misteri Eleusini (è autore del saggio “Da Eleusi a Firenze”, che rivela l’ascendenza “eleusina”, ad esempio della signoria medicea rinascimentale). «La mia appartenenza a elitari contesti iniziatici, della quale non ho mai fatto mistero, e l’aver operato nel settore dell’intelligence – scrive Bizzi – mi hanno da tempo fatto capire quanto profonda e ramificata sia la tana del Bianconiglio: sapevo, in sintesi, che era tutto previsto, tutto già da tempo pianificato da menti che definire criminali sarebbe un eufemismo».Menti che, ci crediate o no, «conoscono molto bene non solo la psicologia umana, ma anche i più reconditi significati dei simboli e le leggi dell’astrologia», non certo quella degli oroscopi televisivi. «Mi sto riferendo a quella particolare forma elevata di astrologia che permette di calcolare, con assoluta precisione matematica, i giorni più propizi per insediare (o destituire) un governo, per scatenare una guerra, un attentato o un’operazione di “false flag”, o addirittura per rilasciare un virus ingegnerizzato in laboratorio o qualsiasi tipo di arma biologica». Ci crediate o meno – insiste Bizzi – una qualsiasi operazione avviata dall’uomo (che si tratti di un matrimonio, di un contratto d’affari, di una dichiarazione di guerra o di un attentato terroristico) in un giorno astrologicamente non propizio è destinata a fallire, mentre avrà invece un buon esito se il giorno sarà stato attentamente scelto sulla base di tutta una serie di requisiti. «Questo lo sapevano bene gli antichi etruschi e i sovrani babilonesi, come lo sapevano bene coloro che hanno pianificato la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione d’Ottobre in Russia, l’abbattimento delle Twin Towers a New York o l’incendio di Notre Dame a Parigi».Certe élite di potere «pianificano tutto, e lo fanno da molto, molto tempo». Niente di ciò che fanno è affidato al caso, «come non lo sono i giorni in cui lo fanno». Tutto, assicura Bizzi, «viene minuziosamente calcolato», e tutte le loro operazioni recano (celata, ma non più di tanto – in determinati simboli e in determinate date) la loro “firma”, sempre riconoscibile. Si pensi, ad esempio, «all’inquietante scenografia messa in atto nella cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi di Londra nel 2012», con la pantomima dell’emergenza sanitaria e il ricovero di un sosia di Boris Johnson, che allora era lontanissimo dal diventare premier. Oppure, «alla satanica rappresentazione svoltasi il 1° giugno del 2016 per l’inaugurazione del tunnel del San Gottardo», con una scenografia che esibiva sudditi nell’atto di prostrarsi di fronte a un dio-caprome, «fino ad arrivare all’aberrante imposizione agli italiani, nel mese di aprile del 2020, di mascherine, non solo nei luoghi di lavoro o in spazi chiusi, ma addirittura all’aperto».Mascherine? Secondo molti medici, del tutto inutili contro il virus e dannose per la salute. Ma, «al di là della vergognosa speculazione economica che attorno ad esse c’è stata», rivestono anche un profondo e recondito significato simbolico: «In passato, simili “dispositivi” erano riservati agli schiavi, alle persone private della loro libertà». E anche oggi, sostiene Bizzi, il loro vero scopo «è quello di applicare ai cittadini un palese marchio di sottomissione, di asservimento alla paura e di riduzione al silenzio». Obiettivo: creare un esercito silenzioso di zombie mascherati e impauriti, «talmente condizionati da arrivare ad aggredire, temere e insultare chi a tale paura non si conforma, chi osa non indossare la “museruola”». Per uno psicanalista come il professor Massimo Recalcati, infatti, «l’odio è non sopportare la libertà dell’altro». Proprio quella libertà alla quale molti, troppi, hanno scelto di rinunciare in cambio di briciole di momentanea “sicurezza”, o semplicemente per paura, l’atavica paura della morte.Come la paura e la mancanza di ragione uccidono la libertà e la democrazia: lo spiega Riccardo Manzotti, psicologo e filosofo: «Come nel romanzo di Orwell, le persone sono state isolate le une dalle altre e soggette a una continua imposizione di notizie da parte di schermi installati nelle loro abitazioni». E ancora: «Il runner solitario non mette a rischio la salute fisica dei cittadini, ma mette in discussione il valore salvifico della loro presunta moralità: “Se io sto in casa a soffrire, perché non lo fa anche lui?”. E così si deve stare in casa non per evitare il virus, ma per non mettere in discussione l’autorità del governo cui la società ha demandato la propria libertà. Perché il sacrificio della libertà di tutti sia efficace, deve essere condiviso». Così, secondo Manzotti, si rivela il lato oscuro della irrazionalità: paura e ignoranza. «L’ignoranza gonfia la paura, che cerca nel sacrificio della libertà e nella sottomissione all’autorità una salvezza che viene applicata con la stupidità irrazionale propria della superstizione». Nel citare Manzotti, lo stesso Bizzi ne sottoscrive le tesi: «L’aspetto peggiore si è manifestato in tutte quelle forme di intolleranza e di miseria umana che trovano amplificazione nel razzismo da balcone. Si spiano le persone perché gli altri non sono più percepiti in quanto esseri umani, ma come un potenziale pericolo».L’applicazione rigida della legge – aggiunge Manzotti – diventa il pretesto per sfogare invidie, rivalità e complessi di inferiorità, fino al patetico astio campanilistico che ad esempio ha ispirato il governatore della Campania nella sua ridicola polemica contro la Lombardia, sottoscritta dagli hooligan che vedono nel sistema-Milano la patria dell’odiato leghismo salviniano. «Quando la libertà individuale è sospettata di egoismo, quando si avalla il principio etico-politico che la sola vera libertà è quella che esprime il bene universale – scrive sempre Manzotti – la persona è in pericolo, perché la persona è la sua libertà individuale, insindacabile, indomabile, ingiudicabile». E’ un fatto: «La paura del virus ha spinto molti a rinunciare ai propri diritti individuali». La salvezza del corpo in cambio dell’anima appare un baratto ragionevole. «Accettare il diktat dello stare a casa senza ragione non è solo un rischio sanitario (il danno che tanti avranno da questa inutile clausura domestica) ma soprattutto il fallimento del patto di ragione tra Stato e cittadino». Ovvero: «Allo Stato non si chiede di spiegare le motivazioni razionali delle regole. Ai cittadini non si chiede di comportarsi responsabilmente. Ognuno viene meno ai suoi obblighi e ci si tratta con l’indulgenza tipica di persone immature».Il patto, conclude Manzotti, non è più basato sulla ragione e sul rispetto reciproco tra persona e istituzione, ma sull’interesse e sulla paura: «E la superstizione ne è il naturale collante». Lo sciagurato slogan #iorestoacasa, infatti, «esprime il fallimento della libertà e della democrazia». Nella sua introduzione alla nuova edizione di “1984″, Bizzi cita anche un giornalista scomodo come Gianmarco Landi, che definisce la App Immuni un aberrante strumento di controllo dei cittadini, dalle connotazioni veramente orwelliane: «Ho definio idioti quelli che la installano, e ho preteso da loro un distanziamento on-line cancellando l’amicizia su Facebook». Precisa Landi: «Non volevo offendere, ma scuotere in maniera vibrante chiunque pensasse di fare questa gigantesca idiozia». L’epiteto idioti non piace? Meglio «grandissime teste del piffero»? L’appello: «La app del telefonino è una finzione astratta inutile, perché non è che uno si faccia il tampone ogni giorno, quindi a cosa servirebbe? È una roba politica, non sanitaria». Alcuni protestano: tanto, siamo già on-line e spiati da Facebook. «Immuni non è Facebook, è roba dello Stato. Come fate a non capire la differenza? Avete chat di WhatsApp con gruppi vari? Integrate vostra moglie/marito in tutte, e vedrete cosa succederà nei prossimi giorni alla vostra vita».Immuni, aggiunge Landi, esprime lo stesso concetto della metafora chat WhatsApp, moltiplicato in gravità per 10.000. «Facebook vi può illecitamente prevaricare censurandovi, ma non è lo Stato e non ha polizie e pubblici ministeri che vi possono accusare, né procedure che vi possono spedire in carcere». A Facebook – continua il giornalista – non paghiamo le tasse o le multe, «Facebook non vi pignorerà somme o beni, né vi farà fallire con una procedura concorsuale». Ancora: «Nessuno farà una legge per non farvi entrare in un locale con amici per mangiare una pizza se non avete Facebook sul telefono o potrà cacciarvi via come cani pulciosi dalla vita sociale a patto che non facciate come una qualche Autorità stabilirà per voi». Di fatto, Immuni «può hackerare il vostro telefonino ed estendere ingerenze e controlli a tutti i vostri dispositivi, anche con telefono da voi spento». E tutto questo «è la premessa per una tirannide, lo capite?». Di questo passo, si potrebbe arrivare a essere distrutti, in qualsiasi momento. «C’è anche la possibilità che magistrati o funzionari corrotti e malvagi possano agire da Grande Fratello e usare vostre info personali per godimento proprio, e magari ricattarvi o devastare le vostre vite».«Se pensate di installare questo cavallo di Troia, un “bellissimo” regalo del governo filo-cinese e filo-coronavirus, non siete solo idioti secondo me: siete dei pazzi, degli incoscienti, dei criminali, e sareste responsabili della diffusione della cultura Big Brother di “1984″». Raccomanda Landi: «Leggetevi questo libro, e magari anche altri, prima di cliccare o aprire bocca, e poi traetene le conclusioni, su quanto o meno è stato corretto definire un tale vostro comportamento tipico degli idioti». Che il pericolo sia reale, secondo Bizzi, lo si constata anche rileggendo una storica conferenza di Rudolf Steiner, grande e indiscusso maestro. Era il 27 ottobre 1917. «Parole incredibilmente profetiche, che costituiscono un vero e proprio monito per il nostro presente». Disse Steiner: «Gli spiriti delle tenebre sono in mezzo a noi, sono qua. Dobbiamo restare in guardia in modo da accorgerci quando li incontriamo, in modo da comprendere dove si trovano. Perché la cosa più pericolosa nel prossimo futuro sarà abbandonarsi inconsciamente a tali influssi, che realmente esistono intorno a noi. Infatti, che l’uomo li riconosca o meno, non fa alcuna differenza per la loro reale esistenza. Ma soprattutto, per questi spiriti delle tenebre sarà importante portare confusione, dare false direzioni in ciò che si sta ora diffondendo in tutto il mondo e per cui gli spiriti della luce continueranno a operare nella direzione giusta».Secondo Steiner, il pensiero materialista avrebbe ostacolato in ogni modo lo sviluppo di una certa spiritualità. «Gli spiriti delle tenebre ispireranno le vittime di cui si nutrono, gli uomini che abiteranno, persino ad inventare un vaccino per deviare verso la fisicità, fin dalla prossima infanzia, la tendenza delle anime verso la spiritualità». Così parlava, Steiner, esattamente cent’anni fa. «Come oggi si vaccinano i corpi contro questo e quello, così in futuro si vaccineranno i bambini con una sostanza preparata in modo che attraverso la vaccinazione, queste persone saranno immuni dallo sviluppare in sé la “follia” della vita spirituale – follia, ovviamente, dal punto di vista materialistico». Tutto questo, aggiungeva il padre dell’antroposofia, tende a mettere a punto «il metodo con cui si potranno vaccinare i loro corpi, in modo che essi non potranno sviluppare inclinazioni verso idee spirituali, ma crederanno per tutta la loro esistenza solo alla materia fisica». Steiner, già allora, accusava una certa «inclinazione all’inganno» da parte della medicina: «Oggi si vaccina contro la tubercolosi, così domani si vaccinerà contro la disposizione verso la spiritualità». Steiner vedeva quindi «qualcosa di particolarmente paradossale», in arrivo «in un futuro prossimo e anche più remoto». Un caos così brutale – secondo Steiner – da propiziare, infine, «la vittoria degli spiriti della luce».«È pur vero che molti italiani si stanno svegliando, stanno uscendo dalla “caverna” e prendono gradualmente coscienza del grande inganno che è stato pianificato e attuato ai loro danni», ammette Bizzi, «ma pochi di questi risvegliati – aggiunge – comprendono realmente la vastità, la portata e le finalità di questo grande inganno che stanno vivendo». E purtroppo è anche vero che la maggioranza dei nostri concittadini «non intende minimamente svegliarsi e uscire dalla matrix». Infatti «si sta inesorabilmente incamminando di proposito verso un futuro di schiavitù, caratterizzato dal controllo totale delle persone mediante il riconoscimento facciale, la tecnologia 5G e il monitoraggio di ogni spostamento». Un mondo segnato «dalle vaccinazioni di massa, dall’impianto di microchip sottocutanei e dall’abolizione del denaro contante». Un futuro in cui «sarà abolita ogni forma di socialità e di affettività», e in cui l’infame “distanziamento sociale” diventerà «una regola permanente, anche all’interno dei nuclei familiari». Un futuro, insomma, in cui «non ci sarà spazio per il dissenso, in cui sarà vietato anche solo pensare». Un mondo in cui «chiunque potrà essere sottoposto a trattamenti sanitari obbligatori ed essere “rieducato” e “riprogrammato”, come nei peggiori gulag sovietici e laogai cinesi». La democrazia? «Sarà solo un vago e incerto ricordo, cancellato con un tratto di penna dai libri di storia». Saremo davvero solo numeri, cancellabili dalla memoria di un computer a piacimento dei nostri governanti? «È questo il futuro che volete per voi e per i vostri figli?». Conclude Bizzi: «Italiani, svegliatevi, finché siete in tempo, perché di tempo non ne è rimasto molto. Il 1984 di Orwell è adesso, è drammaticamente adesso!».(Il libro: George Orwell, “1984″, edizioni Aurola Boreale, 250 pagine, 20 euro. Contiene un saggio introduttivo di Nicola Bizzi e una prefazione di Marco Della Luna).Ripubblicare oggi, nel giugno del 2020, un’opera come “1984″ di George Orwell «non rappresenta soltanto un preciso dovere culturale ed editoriale». Rappresenta, anche e soprattutto, «un chiaro messaggio politico e di denuncia sociale». Mai prima d’ora, infatti, dal 1949 – l’anno in cui Eric Arthur Blair (il vero nome di Orwell) pubblicò a Londra la sua ultima e più nota opera letteraria, “Nineteen Eighty-Four” – il mondo in cui viviamo ha rischiato realmente di precipitare nei cupi e allucinanti scenari, così mirabilmente descritti da questo scrittore singolare e visionario. Lo scrive lo storico Nicola Bizzi, editore di Aurora Boreale, nel presentare (insieme a Marco Della Luna) una riedizione dell’incubo del Grande Fratello in piena era Covid. «Molto probabilmente – scrivi Bizzi, nella prefazione – la drammatica situazione che stiamo ancora vivendo a livello globale sarà un giorno menzionata nei libri di scuola dei nostri figli e nipoti come il più grande inganno degli ultimi secoli». Un grande inganno «perpetrato, ai danni dei popoli, da una certa élite di potere che, con il pretesto di una falsa pandemia e servendosi di un “virus” abilmente ingegnerizzato in laboratorio, ha tentato di accelerare (per tutta una serie di ragioni che andremo a spiegare) il progetto di instaurazione di un Nuovo Ordine Mondiale».
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Dylan e Martarossa, musica ribelle da Kennedy al Covid-19
Per chi suona la campana? Domanda sbagliata, rispose Hemingway. “Ring them bells”, rilanciò tanti anni dopo un certo Bob Dylan: svegliatevi, tutti quanti. E suonatele, quelle campane, «per i ciechi e i sordi», visto che «il pastore si è addormentato, e le montagne sono piene di pecorelle smarrite». Era il fatidico 1989, quello del crollo del Muro di Berlino. Non sono mai casuali, le date, per il grande cantautore americano insignito nel 2016 con il Nobel per la Letteratura. Il 19 giugno, un attimo prima del solstizio d’estate, uscirà l’attesissimo “Rough and Rowdy Ways”, anticipato da tre singoli dirompenti – il primo dei quali, l’epico “Murder Most Foul”, evoca lo splendore democratico della stagione di Jfk, denunciando gli assassini del presidente della New Frontier e gettando su di loro un’ombra che si allunga fino all’oscura Era del Covid, nella quale siamo precipitati. L’ultimo brano anticipato sul web, “False Prophet”, è accompagnato dall’immagine della morte che impugna una siringa: riferimento esplicito alla “cupola” del coronavirus, che usa il terrore della pandemia per tentare di imporre una sottomissione mondiale psico-sanitaria.Attenti: quella di Dylan è una discesa in campo. Una sfida, al potere che coltiva sogni totalitari dietro l’alibi della sicurezza. E quel potere – suggerisce Dylan – è l’erede dello stesso establishment, tuttora impunito, che assassinò John Kennedy a Dallas mezzo secolo fa. Date: Kennedy era nato il 29 maggio, anche lui a ridosso dell’esplosione estiva (Dylan ha appena festeggiato i 79 anni, il 24 maggio). «Chissà, forse Jfk tornerà nell’aria sotto forma di musica, anche in Italia». Lo annuncia Gioele Magaldi, segnalando l’imminente uscita – a giugno, praticamente insieme all’album dylaniano – dell’ultimo singolo di Marta Charlotte Ferradini, figlia del caposcuola Marco Ferradini. Una splendida cantante, dotata di uno swing elegante e morbidissimo, premiata nel 2012 ad Aversa tra le migliori nuove voci italiane. Su Spotify, è appena uscita una versione inedita di “Martarossa”, piccolo capolavoro che mette in mostra le sorprendenti capacità autoriali della cantautrice milanese: «La fame agli occhi di aria selvatica, su spiagge notturne di terra umida». Pura confidenza con la poesia. «Qualche volta lacrima nelle tasche l’anima, ma si vuole libera di sentirsi unica». E dov’è il nesso con Kennedy?«Il richiamo a Jfk sta in un brano ancora inedito, ascoltato anni fa», rivela Magaldi, che ricorda: Marta Charlotte Ferradini è stata socia fondatrice del Movimento Roosevelt. «Quella canzone, non ancora pubblicata, intreccia passioni private ed ethos civile e politico. Valori altissimi, trattandosi di Kennedy: diritti, giustizia e dinamismo sociale, equilibrio armonioso di una democrazia pienamente sviluppata». Massone progressista, autore del saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) che denuncia il ruolo occulto delle superlogge neo-conservatrici nella regia di questa globalizzazione senza diritti, Magaldi tifa per i nuovi talenti italiani: oltre alla Ferradini segnala volentieri il giovanissimo rapper Anastasio, vincitore di X-Factor nel 2018, e l’Enrico Nigiotti di “Baciami adesso”, a Sanremo lo scorso febbraio. Il grande tema? Semplice: la potenza emozionale della musica, specie in un momento come questo. Sapienza: l’arte può dire tanto, anche senza entrare per forza nei dettagli della politica. “Sono solo canzonette”, recitava beffardo Edoardo Bennato, ben sapendo quali universi può smuovere una semplice melodia, magari ricamata attorno a un testo come quello di “Martarossa”. «Nei suoi occhi nevica», recita la poetessa Charlotte, invocando proprio lo spirito capace di infiammare: «Smuovimi dentro, come spazio nel tempo: raccontami il senso di quest’incendio».Quel brano è ormai un baby-classico: «Scivola via leggero, ma ha una profondità, uno spessore: rinvia alla capacità che abbiamo di accenderci quando ci indigniamo, quando vogliamo combattere, rigenerarci e lanciare il nostro messaggio, lasciare un segno: la nostra firma». Riascoltato oggi nella sua nuova veste, sembra l’ennesimo avvertimento, confezionato su misura per i giorni sconvolgenti che stiamo affrontando. «Ormai è chiaro che ognuno dev’essere pronto a fare la sua parte, con i mezzi di cui dispone – dice Magaldi, che del Movimento Roosevelt è il presidente – visto che questa lenta e graduale liberazione non è scontata: c’è senpre chi vuole mettere in circolo situazioni provocatore e vessatorie, come l’ultimissima trovata delle “ronde” per sorvegliare la movida». E se l’Italia di Conte richiama la “situazione grave, ma non seria” del grande Flaiano, tra le righe lascia però intravedere tutta l’intensa drammaticità del momento: l’Italia come specchio (fragilissimo) di una sorta di “guerra mondiale” particolarmente subdola, sferrata nei mesi scorsi col pretesto della pandemia.Il disastro-Covid è esploso al culmine di una serie di rovesci, subiti dall’élite mondialista oligarchica. L’ultimo, decisivo, è stato l’insediamento di Trump alla Casa Bianca: brutale lo stop imposto, con i dazi, all’espansione geopolitica cinese (protetta dai settori più reazionari della supermassoneria atlantica). Il loro sogno: “cinesizzare” l’Occidente, soffocando i diritti democratici. «Ci hanno provato in tanti modi», sottolinea Magaldi, «a partire dal golpe in Cile nel 1973 che ha insediato il neoliberismo al governo del paese». Per Bob Dylan, questa storia comincia addirittura dieci anni prima: uccidendo Kennedy, si è voluto spegnere sul nascere la lunga marcia della libertà e dell’uguaglianza. A seguire: il manifesto “La crisi della democrazia” promosso dalla Trilaterale di Kissinger (il primo a scommettere sulla Cina come modello per gli occidentali), e la nascita di questa Unione Europea post-democratica, retta da una Commissione non eletta da nessuno, e dove il Parlamento non conta nulla. Nel 2001, poi, la drammatica accelerazione del terrorismo stragistico inaugurato con l’11 Settembre e la fabbricazione di mostri nati in provetta, da Bin Laden all’Isis. «Tutti massoni “controiniziati”, complici di un gioco spregevole fondato sul terrore».Ora siamo alla madre di tutte le paure: «Il virus, sotto questo aspetto, funziona ancora meglio del terrorismo», sostiene Magaldi. E’ un’insidia perfetta, senza volto né bandiere, che non conosce confini. Solo un cieco può non vedere quello che sta accadendo: col pretesto dell’emergenza, avanzano piani per una “tracciatura” di stampo orwelliano, cui sottoporre l’umanità. In più, la crisi-Covid ha azzoppato anche l’economia Usa, che Trump aveva fatto volare tagliando le tasse e aumentando il deficit. Intanto si scopre che l’Oms (largamente finanziata da Bill Gates) aveva un ruolo nel fatidico laboratorio di Wuhan, cinese ma sorretto da programmi come quelli sostenuti da Anthony Fauci. Esplosive rivelazioni sono attese nel sequel di “Massoni”, in uscita a novembre. Sottitolo: “Globalizzazione, Esoterismo e Virus”. Lo stesso Magaldi, salutando il brano “Murder Most Foul”, a fine marzo ha fatto un clamoroso annuncio ufficiale: «Bob Dylan è un massone ultra-progressista, un grande inziato che ha saputo inserire nel suo lavoro artistico, con estrema raffinatezza, le suggestioni dell’esoterismo che studia e pratica da una vita». Aggiunge Magaldi: «Oggi, Bob Dylan si sente un soldato: è in campo per combattere al nostro fianco, per impedire che ci venga tolta la libertà».E non si tratta soltanto di Dylan, aggiunge Magaldi: il cambio di casacca da parte di Christine Lagarde e Mario Draghi, che hanno abbandonato l’oligarchia neoliberista per abbracciare la causa progressista, sono solo le vette di un iceberg mondiale. S’è messo in moto qualcosa di profondo, per smascherare l’impostura che ha retto il pianeta negli ultimi decenni: fake news ufficiali e disinformazione, terrorismo sanguinario e austerity europea. Tutte facce della stessa medaglia, che adesso ha le sembianze dell’emergenza sanitaria. “The times they are a-changing”, finalmente? Parrebbe proprio di sì: «Sarà dura e ci sarà da combattere, ma vinceremo», confida Magaldi. «Volevano piegare il mondo con il rigore finanziario, ma non ci sono riusciti. L’altra paura, il terrorismo, non è bastata a spegnere la democrazia. E falliranno anche stavolta, gli stregoni del terrore che ora cavalcano il virus». In questo panorama, si staglia il prestigio di un gigante come Dylan. Il messaggio: avere il coraggio di non farsi spaventare, impararando a trovare innanzitutto dentro di sé le risorse indispensabili per disegnare un nuovo universo, più comodo per tutti. Risorse emotive, che possono essere svegliate (anche “incendiate”, per citare Marta Charlotte Ferradini) dalla stessa musica. Succede, di fronte a canzoni capaci di regalare occhi nuovi per guardare il mondo, una volta imparato che non è importante sapere per chi suona la campana.Per chi suona la campana? Domanda sbagliata, rispose Hemingway. “Ring them bells”, rilanciò tanti anni dopo un certo Bob Dylan: svegliatevi, tutti quanti. E suonatele, quelle campane, «per i ciechi e i sordi», visto che «il pastore si è addormentato, e le montagne sono piene di pecorelle smarrite». Era il fatidico 1989, quello del crollo del Muro di Berlino. Non sono mai casuali, le date, per il grande cantautore americano insignito nel 2016 con il Nobel per la Letteratura. Il 19 giugno, un attimo prima del solstizio d’estate, uscirà l’attesissimo “Rough and Rowdy Ways”, anticipato da tre singoli dirompenti – il primo dei quali, l’epico “Murder Most Foul”, evoca lo splendore democratico della stagione di Jfk, denunciando gli assassini del presidente della New Frontier e gettando su di loro un’ombra che si allunga fino all’oscura Era del Covid, nella quale siamo precipitati. L’ultimo brano anticipato sul web, “False Prophet”, è accompagnato dall’immagine della morte che impugna una siringa: riferimento esplicito alla “cupola” del coronavirus, che usa il terrore della pandemia per tentare di imporre una sottomissione mondiale psico-sanitaria.
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Il massone Bob Dylan, Kennedy e i golpisti del coronavirus
Vide il corpo di Kennedy sobbalzare in avanti, e capì che Chuck Nicoletti lo aveva colpito alla schiena, sparando dal palazzo accanto a quello in cui era appostato il futuro capro espiatorio Lee Oswald. Il presidente era ferito, ma in modo non mortale. Un’intuizione millimetrica, lo spazio di un secondo: poi la limousine si sarebbe allontanata dalla fatale collinetta dell’agguato. Fu in quel preciso istante che il secondo killer sparò a sua volta, con il suo Fireball, facendogli saltare il cervello e ribaltando all’indietro il corpo di Jfk. «Sono stato, io a esplodere il colpo mortale», dice James Files – detenuto negli Usa per altri reati – nel documentario (mai distribuito nel circuito televisivo) che svela la vera storia dell’omicidio, realizzato in mondovisione il 22 novembre 1963 a Dallas. Versione confermata in punto di morte da Howard Hunt, allora numero due della Cia. Per l’assassinio del secolo, gli 007 reclutarono la mafia di Chicago. Se ne accorse Zack Shelton, agente dell’Fbi, subito messo a tacere. Altra fonte, un “pentito”: il criminale Chaucey Holt. Conferma Tosh Plumlee, pilota della Cia: fu lui a trasportare a Dallas i gangster incaricati di eliminare Jfk.Alla vigilia, in un drammatico summit nella città texana, il piano venne convalidato dal Deep State: con lo stesso Howard Hunt, nella villa del petroliere Clint Murchinson c’era Edgar Hoover (Fbi) insieme al vice di Kennedy, Lyndon Johnson, e ad altri due futuri presidenti degli Stati Uniti, Richard Nixon e George Bush. Potere criminale: ma perché riparlarne oggi, come fa Bob Dylan, suggerendo un collegamento tra quell’atroce mattanza e il coronavirus? «State attenti e mettetevi al riparo», ha scritto Dylan sul suo sito, il 27 marzo, presentando l’esplosiva “Murder Most Foul”, regalata al pubblico “worldwide”, in modo sorprendente e spettacolare. Una strepitosa ballad lunga 1016 secondi (quasi 17 minuti) che ripercorre “l’omicidio più ignominioso”, facendo di Kennedy il simbolo di un’America che si stava svegliando, anche sulle ali della musica, per uscire dall’incubo della guerra fredda e della segregazione razziale, del terrore nucleare, del Vietnam.Perché farlo proprio adesso? Perché diventa così loquace, un solitario come Dylan, sempre ultra-reticente con la stampa? Probabilmente, la domanda contiene già la risposta: era indispensabile lanciare un avvertimento, sia pure filtrato dall’eleganza del linguaggio artistico. Un messaggio però anche esplicito, con indizi messi lì apposta per lasciarsi decodificare: l’invito a “suonare il numero 3, il numero 9″, cioè la perfezione dell’armonia. Roba da esoteristi: come il massonico 33, evocato a proposito dei “fratelli” che avrebbero organizzato “l’inferno”, a Dallas. «Nessun mistero: Bob Dylan è, da sempre, un massone radicalmente ultra-progressista», afferma – clamorosamente – Gioele Magaldi, evidentemente autorizzato a dare ufficialmente la notizia. «Dylan milita nei medesimi circuiti massonici progressisti ai quali appartengo anch’io», aggiunge Magaldi, che nel 2014 – nel saggio “Massoni”, edito da Chiarelettere – ha denunciato le trame anche golpiste e terroristiche della supermassoneria reazionaria.L’accusa: è stata la superloggia “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush, ad architettare l’11 Settembre e il crollo delle Torri Gemelle, per poi inventarsi anche l’Isis. Se qualche sprovveduto crede ancora alla storiella degli aerei che avrebbero abbattuto le Twin Towers (cadute per “demolizione controllata”, come ormai dimostrato da oltre tremila architetti e ingegneri americani), proprio l’omicidio Kennedy – giudiziariamente irrisolto, dopo oltre mezzo secolo – sta lì a ricordare a tutti che, a volte, “l’impossibile” diventa possibilissimo. Tant’è vero che qualcuno ci lascia la pelle: anche in modo inimmaginabile, persino se si tratta di un intoccabile come il presidente degli Stati Uniti. Magaldi mette in fila gli eventi: la stessa élite reazionaria, che nel 1975 usò la Trilaterale di Kissinger per dichiarare guerra alla democrazia sociale, oggi sovragestisce la crisi planetaria della pandemia secondo il modulo Wuhan, fondato sulla sospensione della libertà costituzionale.Attenti, avverte Magaldi: fu proprio il club di Kissinger a sdoganare la Cina, aprendola al mercato globale, per farne una specie di Frankenstein: formidabile efficienza economica, ma niente democrazia. Un modello perfetto da trapiantare in un futuro Occidente distopico, raggelante, oggi con il pretesto psico-sanitario del coronavirus, il coprifuoco imposto a tutti (provvisorio, ma con la prospettiva che le libertà di ieri non tornino mai più). Ed ecco, allora, Bob Dylan. «La sua uscita – sottolinea Magaldi – è perfettamente sincronizzata con l’altrettanto clamorosa lettera di Mario Draghi al “Financial Times”, in cui l’ex presidente della Bce (fino a ieri massone neoaristocratico, e oggi tornato ai lidi keynesiani delle origini) dichiara guerra alla “teologia” del rigore neoliberista, evocando addirittura il New Deal rooseveltiano: cioè la necessità di ricorrere a massicci aiuti di Stato per svincolare l’economia dal ricatto della finanza speculativa. Un regime che tuttora strangola l’Italia nella morsa dell’Ue, proprio adesso che il paese ha un bisogno drammatico di fondi che non si trasformino in debito».Draghi e Dylan, strano tandem: in modo diverso paiono dire la stessa cosa. Ovvero: siamo ormai giunti a un bivio esiziale, messi di fronte – con l’accelerazione planetaria della pandemia – a una scelta di campo ormai ineludibile: se la globalizzazione solo finanziaria porta dritti a Wuhan, l’alternativa sta nel riscrivere da zero le regole del mondo. E chi, meglio di John Kennedy, riuscì a esplicitare questo concetto? Era il sogno della New Frontier: un mondo unito, pacificato e libero. Di recente, s’è scoperto un carteggio segreto con Nikita Krushev: i due leader impegnavano Usa e Urss a mettere fine alla guerra fredda entro il 1970. Ma a costare la vita a Kennedy, probabilmente, fu altro: per esempio, la decisione di stampare direttamente banconote di Stato, svincolate dal sistema bancario. Ed ecco che Jfk, riletto oggi, sembra parlare direttamente a noi, alle prese con le maschere dell’euro-rigore “tedesco”. Ma chi era, veramente, Kennedy?«Tra le altre cose, il presidente assassinato a Dallas era un inziato eleusino», rivela lo storico fiorentino Nicola Bizzi, che nel sorprendente libro “Da Eleusi a Firenze” mette a fuoco l’ascendenza “eleusina” del Rinascimento italiano. Ovvero: la regia occulta, nel potere della signoria medicea, della tradizione misterica risalente al 1300 avanti Cristo, quando – secondo la narrazione – la dea Demetra avrebbe rivelato ai fedeli di Eleusi, alle porte di Atene, l’origine “atlantidea” della nostra specie, “creata” dagli dei Titani come Poseidone, signore dei mari. Kennedy eleusino? «Di più: era anche un templare, direttamente collegato a Dante Alighieri». Lo sostiene Luca Monti, autore del volume “Firenze, città santa dei templari”, pubblicato da Aurora Boreale, editrice di cui è titolare lo stesso Bizzi. Collegato alla rete odierna del templarismo, Monti spiega: l’autore della Divina Commedia ereditò la guida segreta dell’Ordine del Tempio dopo il rogo in cui fu arso vivo l’ultimo gran maestro ufficiale, Jacques de Molay. E il collegamento con il presidente assassinato a Dallas? «Il successore dell’Alighieri-templare fu Gherarduccio dei Gherardini, antenato di John Fitzgerald Kennedy», nientemeno.Stupefacente? Be’, sì. Ma questo aiuta a leggere un po’ meglio tra le righe, persino nei riferimenti simbolico-esoterici di cui è gremito l’amletico testo del massone Dylan, “Murder Most Foul”. Va preso sul serio, Luca Monti? Fate voi. Nel 2016, intervistato da Paolo Franceschetti, si sbilanciò con questa previsione: «Nel 2020 succederà qualcosa di inaudito, a livello mondiale». La fonte? Numeri, ancora: nella Commedia di Dante, ricorre il 515. Le profezie contenute nel poema sono intervallate dal medesimo numero di versi, “centodieci e quinque”. «Io penso che questo 515 arriverà verso il 2020», disse Monti, spiegando: «Questo numero rappresenta anche la riunificazione; noi siamo tutti in potenza parti di Dio, particelle divine, e il 515 rappresenta la riunione di noi stessi col divino». Suggestioni da brividi? Certo, si tratta di materiale con cui Bob Dylan ha sempre dimostrato un’estrema confidenza: nessuno come lui ha saputo maneggiare – e con uno slang “pop”, per giunta – la stessa Bibbia e i simboli pescati nei territori dell’alchimia, dell’astrologia, dei tarocchi, della mitologia. Se Kennedy era anche un neo-templare e un iniziato “eleusino”, oltre che un celebrato campione della democrazia, suona sempre meno strano l’omaggio che il grande cantautore gli tributa, in mezzo al panico da coronavirus, come se “Murder Most Foul” fosse anche una dichiarazione di guerra, oltre che un esercizio di pietà.Cade dall’alto, il guanto di sfida lanciato dall’ex ragazzo di Duluth, con alle spalle sessant’anni di carriera, oltre 50 dischi e anche l’Oscar cinematografico per la colonna sonora di “Things have changed”. Il prestigio culturale di Bob Dylan è già scritto nella storia: Premio Pulitzer, Nobel per la Letteratura, Legion d’Onore francese, Premio Principe delle Asturie. Risale al ‘97 il riconoscimento dei Kennedy Center Honors, e al 2012 la Medaglia Presidenziale della Libertà (massimo “award” civile, negli Stati Uniti). Neppure il Dylan politico è una sorpresa, dai tempi di “Blowin’ in the wind” e “Masters of war”. Suo il primo atto d’accusa, frontale, contro la globalizzazione: “Union Sundown”, nel 1983, anticipa profeticamente la tragedia delle delocalizzazioni, in un mondo che sarebbe stato devastato dallo strapotere delle multinazionali. Forte l’attitudine a scendere in campo direttamente, in modo anche spericolato: l’affarista William Zantzinger dichiarò di essere stato rovinato, da Dylan, per la canzone “The lonesome death of Hettie Carroll”, domestica nera uccisa a bastonate. Il pugile afroamericano Rubin Carter, vittima di un caso giudiziario condizionato dal razzismo, fu letteralmente scarcerato in seguito alla campagna per la sua liberazione lanciata da Dylan con il brano “Hurricane”.«Siamo un paese costruito sulla schiena degli schiavi», disse, in prossimità dell’uscita dell’album “Tempest”, pubblicato nel 2012, in cui riecheggia la guerra civile americana nell’interpretazione del poeta Herny Timrod. Sempre rarissime, le interviste, ma quasi tutte memorabili. «Come spiegare la mia longevità artistica? Be’, da giovane ho fatto un patto con il “comandante in capo”». Tradotto: consacro la mia arte alla maggiore delle cause. Obiettivo: far fermentare il talento, alchemicamente, al servizio dell’umanità. Un modo per “tendere al divino”, per citare il 515 dantesco? Più esplicitamente: «Pensate alla trasfigurazione di Cristo, nel Getzemani». Simboli, certo. Positivi e negativi: «Ha vinto Walt Disney», sentenziò anni fa: «Quindi abbiamo perso tutti». Prigioneri della Matrix, in un mondo di plastica? Ecco, forse il velo potrebbe squarciarsi, oggi, di fronte al dramma del coronavirus che sembra distruggere ogni certezza. A patto però – e qui è il “templare” kennedyano che riemerge, il “massone progressista” – che si abbia il coraggio di metterci la faccia. Per esempio regalando ai senzatetto milioni di dollari, ricavati dal disco natalizio “Christmas in the heart” pensato nel 2009 per sfamare gli homeless d’America (gesto di liberalità squisitamente massonico, se non addirittura rosacrociano).A proposito: tra i leggendari Rosa+Croce, elusiva confaternita iniziatica capitanata nel secondo ‘900 dal pittore Salvador Dalì, un simbologo italiano come Gianfranco Carpeoro include il grande Freddie Mercury. E il suo gruppo – i Queen – è l’unico citato da Dylan nella sequenza finale di “Murder Most Foul”, in cui si dispiega lo splendore della colonna sonora degli irripetibili anni Sessanta. Un indizio rivelatore: siamo di fronte a una stretta parentela, non solo artistica? In recenti conferenze, insieme allo stesso Magaldi, Carpeoro ha svelato la cifra massonica di artisti come David Bowie e, in particolare, l’identità anche rosacrociana del massone progressista Michael Jackson, cresciuto nella Prince Hall Freemasonry, l’obbedienza dei neri americani. A costargli la vita, a quanto pare, sarebbe stata la canzone “They don’t care about us”, contro gli abusi del grande potere globalista. Un verso recita: «Tutto questo non succederebbe, se Roosevelt fosse ancora qui». Alla moglie di Franklin Delano, Eleanor, madrina della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il giovanissimo Bob Dylan dedicò “Dear Mrs. Roosevelt”, scritta dal suo antico maestro Woody Guthrie.Sempre Dylan fu tra le star che risposero all’appello di Michael Jackson, autore con Lionel Richie del brano corale “We are the World”, destinato a raccogliere fondi (campagna “Usa for Africa”) per assistere la popolazione dell’Etiopia colpita dalla spaventosa carestia del 1985. Oggi, a quanto sembra, siamo all’ennesimo appuntamento con la storia: si tratta di disseppellire John Kennedy, per aiutare il mondo a ritrovare il suo stesso coraggio. Cambiare tutto, senza paura: né del coronavirus, né nei suoi ipotetici “sovragestori”, che probabilmente sognano un pianeta di neo-sudditi, schiavizzati dal terrore dei virus (oggi il “corona”, domani chissà), e sottoposti alla dittatura orwelliana di una polizia sanitaria capace di imporre vaccini e microchip, azzerando la privacy e la libertà. Messaggio: il momento è cruciale. La sfida è lanciata: “Murder Most Foul” è nell’aria, ne sta parlando il mondo intero. «State al riparo, e state attenti», si congeda il quasi ottantenne Dylan. «E che Dio sia con voi».(Giorgio Cattaneo, 5 aprile 2020).Vide il corpo di Kennedy sobbalzare in avanti, e capì che Chuck Nicoletti lo aveva colpito alla schiena, sparando dal palazzo accanto a quello in cui era appostato il futuro capro espiatorio Lee Oswald. Il presidente era ferito, ma in modo non mortale. Un’intuizione millimetrica, lo spazio di un secondo: poi la limousine si sarebbe allontanata dalla fatale collinetta dell’agguato. Fu in quel preciso istante che il secondo killer sparò a sua volta, con il suo Fireball, facendogli saltare il cervello e ribaltando all’indietro il corpo di Jfk. «Sono stato, io a esplodere il colpo mortale», dice James Files – detenuto negli Usa per altri reati – nel documentario (mai distribuito nel circuito televisivo) che svela la vera storia dell’omicidio, realizzato in mondovisione il 22 novembre 1963 a Dallas. Versione confermata in punto di morte da Howard Hunt, allora numero due della Cia. Per l’assassinio del secolo, gli 007 reclutarono la mafia di Chicago. Se ne accorse Zack Shelton, agente dell’Fbi, subito messo a tacere. Altra fonte, un “pentito”: il criminale Chaucey Holt. Un pilota della Cia, Tosh Plumlee, conferma di aver trasportato a Dallas i gangster incaricati di eliminare Jfk.
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Bob Dylan, messaggio: John Kennedy, contro il coronavirus
The Greatest, si auto-celebrò il giovane Cassius Marcellus Clay, non ancora Muhammad Alì. Figlio di un pittore di insegne pubblicitarie. Figlio adottivo del ladro che gli rubò la bicicletta nuova, che il padre – il pittore di insegne – gli aveva appena regalato, per il suo compeanno. E figlio anche di Joe Martin, il poliziotto di Louisville a cui baby-Cassius si rivolse, in lacrime, per il terribile furto. Va bene ragazzo, domani passa in ufficio per la denuncia. Ma se poi lo incontri, il ladro, sei capace di spaccargli la faccia? No, scosse la testa, sconsolato, il piccolo Cassius. E allora, gli disse Joe, ti aspetto nella mia palestra di boxe. Fu il primissimo passo, per poi diventare The Greatest. Mike Porco, from Italy (Calabria, per la precisione) era il nome del gestore del Gerde’s Folk City, la birreria del Village dove il giovanissimo Bobby si beveva le serate, di birra in birra, ascoltando gli strimpellatori che vi si esibivano. Un giorno si fece avanti: anch’io so suonare qualcosa. Mike lo mise alla prova, nel pomeriggio, mentre le ragazze lustravano il pavimento. Chiamò John Lee Hooker, che era atteso nei giorni seguenti. Poi gli comprò dei jeans puliti.Venne la sera fatidica, e andò tutto bene. John Lee Hooker disse a Mike Porco che il ragazzino del Minnesota se la cavava bene, con la sua armonica. Allora Mike gli regalò una serata morta, tutta per lui. Non c’era nessuno, nel pubblico, tranne un tizio un po’ sbronzo. L’indomani si capì che il tizio assonnato aveva un nome altisonante, Robert Shelton. Il suo giornale, il “New York Times”, annunciava che al Gerde’s era nata una stella. Virtualmente, nel suo campo, The Greatest. Ora che il mondo trema per il virus e seppellisce i suoi caduti, ecco che l’uomo del Minnesota fa un’uscita in solitaria e mondiale, nel suo stile, con una ballad regalata a tutti, urbi et orbi, lunga minuti 17. Un’omelia lentissima e dolcissima, in morte di John Kennedy e di tutta l’innocenza planetaria che morì insieme a John Kennedy, con tutte le speranze di un’umanità che sembrava si stesse pericolosamente risvegliando. Una sciarada di capolavori uno sull’altro, di nomi leggendari e memorabili, promesse, spettacolari acrobazie mai viste prima, e mai più viste. La consapevolezza del momento: la musica, in fondo all’anima del mondo, in quel miracoloso attimo in cui divenne musica persino la politica.Era semplicemente troppo, suggerisce la ballata. Ma se io sono ancora qui tra voi, alla mia età – dice l’autore, il menestrello – allora ve lo racconterò. Non è possibile dimenticare l’accaduto, non è possibile che non torni a vivere. Non è possibile non essere inondati dall’eco di quel lampo, di quell’istante irripetibile. Bisogna renderlo immortale, resuscitarlo tra i caduti del coronavirus, e trasformarlo in arma formidabile. Conosce l’arte di qualsiasi Antigone, l’autore. Gli han conferito pure il Premio Nobel, alla gloria dei suoi settantanove anni a maggio. Parla di sacrifici umani, la morte più cattiva. Evoca numeri ben noti al chiaroscuro, il 6 e il 9. E non teme di menzionare il 33, citando la crocifissione filmata da Zapruder sulla Dealey Plaza. Che è come dire: so chi è stato. Certo che sa chi è stato, il ragazzo di Duluth. L’ha capito da un pezzo. E sa anche che è gente della stessa razza che, tanti anni dopo, ha fatto crollare le Twin Towers. Sa anche che sono ancora loro, sempre gli stessi, a trafficare oggi col coronavirus. Lo dice a modo suo, con la sublime reticenza dei grandissimi, uscendosene con la sua ballad su John Kennedy, esattamente adesso, come se Jfk fosse una specie di sciamano, di talismano contro il male.Dal menestrello può solo imparare, il cinema, a sceneggiare vita e morte – only a matter of minutes, tra il prima e il dopo, e il mentre – quando si spappola la fisica e ogni singola molecola, ogni porzione del cervello di John Kennedy sembra tornare qui tra noi, a raccontare – con letizia misteriosa – lo splendore sterminato di chi osa guardare il mondo con amore, l’invincibile segreto che oggi più che mai viene in soccorso dell’umanità smarrita, terrorizzata dalla pandemia. L’elencazione ellittica, specialità retorica di aedi raffinati, sdraia la ballad in mezzo a nostalgie, tra monumenti museali dell’America che fu – con un’unica eccezione, Freddie Mercury, citato come per lasciare un segno a chi volesse coglierlo, bianco come lo strano guanto dell’ectoplasma Michael Jackson – we are the World, remember? We are the World, sicuro. Noi, non loro. E’ questo che sussurra la ballad sterminata del ragazzo del Nord, “Murder Most Foul”, chiedendo a tutti di specchiarsi per un attimo in quel cervello esploso a Dallas, lungo la New Frontier di tanti anni fa, quando una neve nera cominciò a cadere. Questo è il momento, sembra dire. Sapete, spetta a noi. Ora, di nuovo, tutto può accadere.(Giorgio Cattaneo, 5 aprile 2020. Il brano “Murder Most Foul” è stato pubblicato sul sito di Bob Dylan il 27 marzo 2020, accompagnato da queste parole: «Mettetevi al sicuro, state attenti, e che Dio sia con voi»).The Greatest, si auto-celebrò il giovane Cassius Marcellus Clay, non ancora Muhammad Alì. Figlio di un pittore di insegne pubblicitarie. Figlio adottivo del ladro che gli rubò la bicicletta nuova, che il padre – il pittore di insegne – gli aveva appena regalato, per il suo compleanno. E figlio anche di Joe Martin, il poliziotto di Louisville a cui baby-Cassius si rivolse, in lacrime, per il terribile furto. Va bene ragazzo, domani passa in ufficio per la denuncia. Ma se poi lo incontri, il ladro, sei capace di spaccargli la faccia? No, scosse la testa, sconsolato, il piccolo monello. E allora, gli disse Joe, ti aspetto nella mia palestra di boxe. Fu il primissimo passo, per poi diventare The Greatest. Mike Porco, from Italy (Calabria, per la precisione) era il nome del gestore del Gerde’s Folk City, il locale del Village dove il giovanissimo Bobby si beveva le serate, di birra in birra, ascoltando gli strimpellatori che vi si esibivano. Un giorno si fece avanti: anch’io so suonare qualcosa. Mike lo mise alla prova, nel pomeriggio, mentre le ragazze lustravano il pavimento. Lo propose a John Lee Hooker, che era atteso nei giorni seguenti. Quindi, in vista dell’evento, gli procurò dei jeans puliti.
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Il folle riconosce il mondo, il genio ci mostra com’è davvero
Il genio e il folle sono fratelli, forse gemelli. In entrambi il possibile eccede sul reale, ma nel pazzo il possibile sconfina nell’impossibile. Il genio non si accontenta del rapporto tra la realtà e la sua mente; stabilisce nuovi, più arditi contatti. Il pazzo invece ha perso quella relazione e va a ruota libera. Chesterton notava che il pazzo non è colui che ha perso la ragione ma chi ha perso tutto tranne la ragione: ha perso il rapporto col mondo reale. Genio e sregolatezza, si dice. Ma debordare dalle regole è un effetto della genialità, non è la prova del genio. La pazzia è l’emisfero in ombra dell’umanità, il lato b che percorre come una trama a rovescio la storia della civiltà, dell’arte, del pensiero e dei rapporti umani. Il sogno, il gioco, la fiction sono le dosi giornaliere di pazzia dei “savi”; quando la mente va in libera uscita e danza a corpo libero. Osate esser pazzi, esortava Papini. Come in una pulp fiction filosofica, artistica e letteraria scorre la divina pazzia di cui scriveva Platone e le tragedie greche da Eschilo a Euripide; la pazzia vissuta, studiata o narrata di Torquato Tasso ed Erasmo da Rotterdam, Cervantes con don Chisciotte e Shakespeare con Enrico IV, Hölderlin e Nietzsche, van Gogh e Ligabue, Dino Campana ed Ezra Pound, Pirandello e Strindeberg, Bukovski e Pessoa, Jaspers e Foucault, Mario Tobino e Alda Merini.Per Thomas Beckett nasciamo tutti pazzi, alcuni poi lo restano. Il genio mette a frutto la pazzia, cavalca la follia senza esserne dominato. A volte finisce irretito nella sua follia, perché ne è congenitamente predisposto, è ipersensibile o ha preteso l’infinito, l’assoluto. Ma chi è il genio, cosa lo distingue dal resto degli uomini? Dal ’68 in poi serpeggia l’illusione di una genialità di massa, attraverso l’uso estroso della trasgressione: si ritiene che la sregolatezza decreti il genio. Creatività diffusa, fantasia, la vita come capriccio e stravaganza di massa sono i suoi indizi fino al paradosso di sentirsi tutti speciali, fuori dal comune. Si abusa dell’aggettivo geniale. In giro troppi geni estemporanei per autoacclamazione o per esagerazione di chi li ama (ogni scarrafone è genio a mamma sua). Per Arthur Schopenhauer, che visse con la frustrazione del genio incompreso, genio è colui che sa vedere l’assoluto nel particolare, sa andare oltre i fenomeni e trascende la soggettività in una visione più ampia.Il genio ha una conoscenza intuitiva; vede le cose collegate da una postazione più alta, vede il mondo alla luce del sole, non al lume della sua candela. La fantasia è un suo strumento indispensabile per trascendere il reale nel possibile. Vede il generale nel particolare, a differenza dell’uomo comune e delle donne, nota Schopenhauer. Coglie l’essenza delle cose e supera la natura che invece congiunge intelletto e volontà. Ciò porta il genio a somigliare alla follia: entrambi, notava Pessoa, sono disadattati. Il genio non è mai un moderato o un flemmatico, spiega Schopenhauer, ma è sempre un eccessivo, frutto di un’esaltazione anormale della sua vita neuro-cerebrale. Il genio si dedica all’inutile e i suoi frutti saranno colti nel futuro. Un’opera geniale non è mai utile; è il suo rango, la sua nobiltà, come la fioritura. Il genio non serve al suo tempo, ed eccedendo dalla norma è destinato ad essere incompreso. Le persone comuni possono apprezzare il talento o il tipo brillante, difficilmente il genio che vive in perenne discordanza col mondo esterno e col proprio tempo. Avvertenza d’obbligo: per un genio incompreso ci sono mille presunti incompresi che geni non sono.Il genio è per natura solitario. È troppo raro per poter incontrare suoi simili e troppo diverso dagli altri per poter stare in compagnia e pensare in comune. Perciò si apparta, è a disagio. Se il genio è misantropo anche qui non vale l’inverso, che la misantropia non è il segno certo di una superiorità. Il genio è malinconico, anche se si delizia quando dà sfogo alla sua vena. Lo diceva già Aristotele, lo ripeteva Cicerone, poi anche Goethe. Schopenhauer spiega che la sua mente è più capace di percepire la miseria della condizione umana. Dunque il genio non può che essere pessimista, come lo era lui. Ripeto la controtesi: se il genio è malinconico, non tutti i tristi e i depressi sono geniali. Infine il genio è come un bambino, ha uno sguardo puro e disinteressato sul mondo. Anzi, ogni bambino è in un certo senso un genio potenziale e ogni genio è in un certo senso un bambino (S. cita Mozart e Goethe, noi potremmo citare Dalì e Fellini).Nel fanciullo, nota S., l’intelletto prevale sulla volontà (ma i suoi capricci non prefigurano la volontà?). Al bambino come al genio manca l’arida serietà tipica degli uomini comuni; c’è una vena giocosa e grottesca. Qui si affaccia la sindrome di Peter Pan: ma l’infantilismo in sé non è sintomo di genialità. Per Schopenhauer la genialità originaria del bambino viene poi rubata dalla genitalità: la pulsione sessuale è il focolaio della volontà e dunque nemica della conoscenza. Come dire che il genio tende a restare sessualmente bambino. Il genio, insomma, è un bambino malinconico che trascura sé e si cura del mondo. Il suo soffitto è il cielo, la sua vista è la visione del mondo, che è la sua penetrazione. Schopenhauer fa notare che l’orangutan è intelligente da piccolo e diventa poi brutale da adulto, in un rapporto inverso tra età e intelligenza. Ma non mancano capolavori del genio in età senile. Se il genio è sregolatezza, anche l’età precoce non può essere una regola. Il genio è puer eternus, bambino perenne. Ma la sua ombra è il pazzo, che a volte lo accoppa.(Marcello Veneziani, “Rari geni, pochi pazzi, tanti imitatori”, da “La Verità” del 23 ottobre 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Il genio e il folle sono fratelli, forse gemelli. In entrambi il possibile eccede sul reale, ma nel pazzo il possibile sconfina nell’impossibile. Il genio non si accontenta del rapporto tra la realtà e la sua mente; stabilisce nuovi, più arditi contatti. Il pazzo invece ha perso quella relazione e va a ruota libera. Chesterton notava che il pazzo non è colui che ha perso la ragione ma chi ha perso tutto tranne la ragione: ha perso il rapporto col mondo reale. Genio e sregolatezza, si dice. Ma debordare dalle regole è un effetto della genialità, non è la prova del genio. La pazzia è l’emisfero in ombra dell’umanità, il lato b che percorre come una trama a rovescio la storia della civiltà, dell’arte, del pensiero e dei rapporti umani. Il sogno, il gioco, la fiction sono le dosi giornaliere di pazzia dei “savi”; quando la mente va in libera uscita e danza a corpo libero. Osate esser pazzi, esortava Papini. Come in una pulp fiction filosofica, artistica e letteraria scorre la divina pazzia di cui scriveva Platone e le tragedie greche da Eschilo a Euripide; la pazzia vissuta, studiata o narrata di Torquato Tasso ed Erasmo da Rotterdam, Cervantes con don Chisciotte e Shakespeare con Enrico IV, Hölderlin e Nietzsche, van Gogh e Ligabue, Dino Campana ed Ezra Pound, Pirandello e Strindeberg, Bukovski e Pessoa, Jaspers e Foucault, Mario Tobino e Alda Merini.
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Avete mai avuto la sensazione di esser presi per i fondelli?
Avete mai avuto la sensazione di essere presi per i fondelli? Era il 1978 quando John Lydon, alias Johnny Rotten, pronunciò quella frase – non proprio da incorniciare nei libri di storia – al termine di un mediocre concerto dei suoi Sex Pistols, a San Francisco. Sono passati quarant’anni, e il punk imperversa ovunque sotto forma di trash. Ma quanti hanno la stessa onestà dell’allora giovane frontman inglese, nell’ammettere che lo show è truccato, visto che sul palco si agitano un bel po’ di cialtroni senza talento? Come verrebbe, la foto di gruppo, se Di Maio si facesse crescere una bella cresta viola e il suo ex preside-fantasma, il tuttora oscuro Giuseppe Conte, andasse in giro con canottiere strappate e giacconi borchiati? Nel paese di Pinocchio, se uno vuol farsi veramente del male, non ha che ha accendere il televisore un qualsiasi martedì sera, magari proprio il giorno in cui l’eroico Parlamento della Repubblica ha osato decespugliare senatori e deputati, quei puzzoni impresentabili. Per fare cosa, poi? Con quale costrutto e quale nuova legge elettorale? Lo saprete alla prossima puntata, sibila l’attore Di Maio, in attesa che la produzione gli passi il seguito del copione.Zapping: sul tema, Bianca Berlinguer interpella due numi pensosi, l’imperscrutabile Mieli e il sempre esecrante Cacciari, mentre l’immortale Lady Gruber si avvale del formidabile vaticinio di una leggenda del giornalismo mondiale come Beppe Severgnini. Altro giro, altro canale: il capocomico Floris scatena il suo zoo contro Matteo Salvini, obbligandolo a non-rispondere sul mitico Russiagate, lo scivolone del sciùr Savoini: la sua celebre cenetta coi petrolieri russi, con confidenze riservatissime affidate ai microfoni di non si sa esattamente quale servizio segreto. A proposito: sempre all’osteria di Floris si ciancia su come i servizi (italiani) avrebbero prima aiutato la Clinton, con Renzi, su richiesta di Obama, per ostacolare la corsa di Trump, salvo poi intervenire con Conte, in modo simmetrico e altrettanto irrituale, ancora una volta nelle lande dell’orso russo, per aiutare The Donald a inguaiare il suo avversario Biden, già braccio destro di Obama. Nel suo piccolo, l’ex rocker da strapazzo Johnny Rotten, campione di humour, non rischia forse di sembrare un gigante?Se poi – sempre per ridere – si finge di credere che esista davvero, qualcosa che assomigli all’irraggiungibile Olimpo marmoreo che i giornali continuano a chiamare L’Europa, non si può fare a meno di notare che dal bar di Bruxelles è sparito il simpatico Juncker, quello che citava Marx in segno di vicinanza politico-spirituale con le dolenti masse degli oppressi (ellenici in primis). Niente più bourbon, purtroppo, ma solo le bevande analcoliche servite dall’elegantissima barista Ursula von der Leyen, assistita da camerieri in livrea del calibro di Paolo Gentiloni, discendente dell’antica corte del Papa-Re. Nel personale di servizio figura lo stesso David Sassoli, un tempo mezzobusto del Tg1, temibile allevamento di giornalisti di razza, veri e propri “cani da guardia della democrazia”. A proposito di virtù canine: già ferocissima gregaria del mastino Angela Merkel, Frau Ursula è lì grazie all’ex comico televisivo Beppe Grillo, occasionalmente rivoluzionario (ma solo per i più piccini) prima di firmare, la scorsa primavera, il memorabile Patto per la Scienza insieme a Matteo Renzi, il suo attuale socio di governo (scopo del Patto, pietra miliare nella storia della medicina: zittire e delegittimare qualsiasi voce scientifica non allineata al nuovo affascinante dogma della Vaccinazione Universale).Come in tutti gli show, è il finale a riservare le vere sorprese. Ed è a quel punto che entrano in scena i fuoriclasse. Lui e lei, naturalmente: gran bella coppia. Mario & Christine: noti ai fan come insuperabili mattatori nei filmoni di guerra, nei thriller, nei plot più drammatici. Suspence, terrore. Severissima austerità, dolore copiosamente sparso con fermezza inflessibile. E invece adesso eccoli là, con in faccia il cerone della commedia: si scherzava, ragazzi, era tutta una burla. E’ vero, vi avevamo raccontato che non c’erano alternative: sangue, sudore e lacrime. Ci eravate cascati? Certo, siamo stati bravi. Ma adesso, sapete, cambierà tutto. E quelle maledette banconote, per le quali vi abbiamo spremuto fino al midollo, ora ve le getteremo dalla finestra: helicopter money! Che diamine, la moneta appartiene al popolo: non lo sapevate? Gli spettatori esitano, spiazzati – quasi quanto gli economisti da patibolo e il loro codazzo di coristi radiotelevisivi. Contrordine? Siamo per caso rimasti all’oscuro di decisioni epocali? Ci è sfuggito qualcosa di fatale che forse è maturato, lassù, tra le sfuggenti divinità? La produzione, caritatevole, sente che al pubblico – per il quale mostra compassione – bisogna pur concedere qualcosa di rassicurante. E allora, mentre le luci si abbassano, sul palco viene rispedito il solito usciere dall’aria dimessa, con lo storico annuncio: abbiamo tagliato i parlamentari. Tradotto in cifre, agli italiani viene offerto un caffè. Purtroppo lo steward non è Johnny Rotten, è solo Di Maio. Ma il risultato è lo stesso: avete mai avuto la sensazione di essere presi per i fondelli?(Giorgio Cattaneo, “Avete mai avuto la sensazione di esser presi per i fondelli?”, dal numero 12 de “La Voce Rooseveltiana”, 17 ottobre 2019).Avete mai avuto la sensazione di essere presi per i fondelli? Era il 1978 quando John Lydon, alias Johnny Rotten, pronunciò quella frase – non proprio da incorniciare nei libri di storia – al termine di un mediocre concerto dei suoi Sex Pistols, a San Francisco. Sono passati quarant’anni, e il punk imperversa ovunque sotto forma di trash. Ma quanti hanno la stessa onestà dell’allora giovane frontman inglese, nell’ammettere che lo show è truccato, visto che sul palco si agitano un bel po’ di cialtroni senza talento? Come verrebbe, la foto di gruppo, se Di Maio si facesse crescere una bella cresta viola e il suo ex preside-fantasma, il tuttora oscuro Giuseppe Conte, andasse in giro con canottiere strappate e giacconi borchiati? Nel paese di Pinocchio, se uno vuol farsi veramente del male, non ha che ha accendere il televisore un qualsiasi martedì sera, magari proprio il giorno in cui l’eroico Parlamento della Repubblica ha osato decespugliare senatori e deputati, quei puzzoni impresentabili. Per fare cosa, poi? Con quale costrutto e quale nuova legge elettorale? Lo saprete alla prossima puntata, sibila l’attore Di Maio, in attesa che la produzione gli passi il seguito del copione.