Archivio del Tag ‘Tesoro’
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Pritchard: se resta nell’euro, nel 2014 l’Italia collassa
Enrico Letta aspetta che sia la Merkel a salvare l’Italia? Be’, buonanotte. Secondo Ambrose Evans-Pritchard, l’Italia sta scherzando col fuoco: avanti di questo passo, sotto la sferza dell’euro-rigore, il nostro paese rischia il collasso già nel 2014. Il problema? L’euro, ovviamente. E il regime di Bruxelles, che taglia lo Stato imponendo sacrifici con un unico orizzonte: la catastrofe. «Quello che serve in Europa oggi è uno shock economico sul modello dell’Abenomics», dice il columnist economico del “Telegraph”, indicando come modello il Giappone di Shinzo Abe. Sovranità monetaria e deficit positivo, per risollevare l’economia. «Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, insieme alla Francia devono smettere di fare finta di non avere un interesse in comune da tutelare». Attenzione: «Questi paesi hanno i voti necessari per forzare un cambiamento». In Francia, sarà risolutiva Marine Le Pen: magari non conquisterà l’Eliseo, ma costringerà i grandi partiti a cambiare agenda, imponendo loro di fare finalmente i conti con Bruxelles, Berlino e la Bce.Per l’Italia, il disastro è imminente: «Senza un cambio di strategia forte», si prevede lo tsunami già nel 2014. «Il paese ha un avanzo primario del 2,5% del Pil, e ciononostante il suo debito continua ad aumentare: il dramma dell’Italia non è morale, ma dipende dalla crisi deflattiva cui è costretta per la sua partecipazione alla zona euro», dice Pritchard nell’intervista concessa ad Alessandro Bianchi e ripresa da “Come Don Chisciotte”. «La politica è fatta di scelte e di coraggio. Fino ad oggi non si è agito per impedire che si dissolvesse il consenso politico dell’euro in Germania. Ma oggi c’è una minaccia più grande. E se Berlino non dovesse accettare le nuove politiche, può anche uscire dal sistema». Fuori dall’euro, dunque. «Il ritorno di Spagna, Italia e Francia ad una valuta debole è proprio quello di cui i paesi latini hanno bisogno. Del resto, la minaccia tedesca è un bluff e i paesi dell’Europa meridionale devono smascherarlo. L’ora del confronto è arrivata». E Letta? Non pervenuto. Pritchard l’ha incontrato a Londra. «Alla mia domanda sul perché non si facesse promotore di un cartello con gli altri paesi dell’Europa in difficoltà per forzare questo cambiamento, il premier italiano mi ha risposto che secondo lui sarà Angela Merkel a mutare atteggiamento nel prossimo mandato e venire incontro alle esigenze del sud».Per l’analista inglese, «si tratta di un approccio assolutamente deludente», perché «come anche Hollande in Francia, Letta è un fervente credente del progetto di integrazione europea e non riesce ad accettare che l’attuale situazione sia un completo disastro». Chi agita la paura dell’uscita dall’euro dice che la svalutazione produrrebbe iper-inflazione, e questo metterebbe ko la nostra industria di fronte alla concorrenza della Cina. E’ vero esattamente il contrario, dice Pritchard: Pechino ha gioco facile col super-euro proprio perché mantiene lo yuan sottovalutato. La moneta europea è il nostro vero handicap: «L’euro è un’autentica maledizione per le esportazioni, che dipendono dai prezzi e dal tasso di cambio». Da quando vige la moneta della Bce, l’Europa ha perso rilevanti quote di mercato e l’export italiano è crollato. E a chi sostiene che un’uscita disordinata dall’euro produrrebbe iper-inflazione e impennate nei prezzi, Pritchard risponde che già ora i prezzi sono fuori controllo. Eppure, continuiamo a farci del male: in Italia il rapporto debito-Pil in soli due anni è schizzato dal 120 al 133%. E’ la trappola che sta portando il paese al collasso: «Il problema da combattere oggi è la deflazione, e non l’inflazione».Dalla stessa trappola, ricorda il giornalista del “Telegraph”, la Gran Bretagna uscì due volte – negli anni ’30 del Gold Standard e poi durante la crisi dello Sme nel ’91-92 – con lo stesso strumento: rafforzamento della sovranità monetaria e svalutazione per stimolare la ripresa. Il fantasma-inflazione? Smentito dai fatti: lo stimolo monetario ha prodotto nuova economia, senza alcun “impazzimento” dei prezzi. Per cui, «se dovesse lasciare l’euro, l’Italia dovrebbe optare per un grande stimolo monetario da parte della Banca d’Italia, una svalutazione ed una politica fiscale sotto controllo: questa combinazione garantirebbe al paese una transizione tranquilla e nessuna crisi fuori controllo». Ritorsioni da Berlino? «Niente di più falso», replica Pritchard: «Nel caso di un deprezzamento fuori controllo della lira, ad esempio, il più grande sconfitto sarebbe Berlino: le banche e le assicurazioni tedesche che hanno enormi investimenti in Italia sarebbero a rischio fallimento». Inoltre, «le industrie tedesche non potrebbero più competere con quelle italiane sui mercati globali». Quindi, la Bundesbank correrebbe ad acquisire sui mercati valutari internazionali le lire, i franchi, pesos o dracme per impedirne un crollo.«Si tratta di un punto molto importante da comprendere: nel caso in cui uno dei paesi meridionali dovesse decidere di lasciare il sistema in modo isolato, è nell’interesse dei paesi economici del nord Europa, in primis la Germania, impedire che la sua valuta sia fuori controllo e garantire una transizione lineare. Tutte le storie di terrore su eventuali disastri che leggiamo non hanno alcuna base economica». Lo sanno bene gli economisti di Parigi che ispirano la svolta sovranista di Marine Le Pen, che a partire dalle europee 2014 potrebbe dare la scossa necessaria all’inversione di rotta. «Il programma di Le Pen è chiaro: uscita immediata dall’euro – con il Tesoro francese che proporrà un accordo con i creditori tedeschi: se questi non l’accetteranno, la Francia tornerà lo stesso al franco e le perdite principali saranno per la Germania». Poi c’è la proposta di un referendum sull’Ue sul modello inglese proposto da Cameron. Prima reazione a Bruxelles: gli inglesi sarebbero “stupidi suicidi”. «Argomentazioni ridicole», afferma Pritchard: tutti sanno che, senza Londra (più l’Olanda e la Scandinavia), l’Ue sarebbe finita, e salterebbe anche l’equilibrio tra Francia e Germania. «La decisione inglese è un enorme avviso a Bruxelles: l’integrazione è andata troppo oltre il volere popolare e le popolazioni vogliono indietro alcuni poteri».La Costituzione europea, continua Pritchard, è stata rigettata dai referendum in Francia e in Olanda. Trattati imposti contro la volontà popolare? «Questa fase in cui si procede senza consultare i cittadini è finita. Questo tipo di arroganza è finito». Problema fondamentale: la confisca della politica economica nazionale. A imporre le tasse e i tagli alla spesa non può essere un organismo non eletto democraticamente. «Non è un caso che la guerra civile inglese sia iniziata nel 1640 quando il re ha cercato di togliere questi poteri al Parlamento o che la rivoluzione americana sia scoppiata quando questo potere è stato tolto da Londra a stati come Virginia o il Massachusetts». Quello che sta facendo Bruxelles è «pericoloso e antidemocratico». L’alibi è la salvezza dell’euro? «E’ ridicolo. La federazione deve essere subordinata ai grandi ideali che plasmano una società e non alla salvezza di una moneta. I paesi devono tornare alla realtà sociale al più presto e non devono pensare a strumenti di ingegneria finanziaria per far funzionare qualcosa che non può funzionare».Con buona pace degli eurocrati alla Enrico Letta, l’orizzonte decisivo è quello delle europee 2014, col previsto boom degli euroscettici. «Oggi il pericolo maggiore per i paesi dell’Europa meridionale si chiama crisi deflattiva», cioè: mancanza di liquidità, tagli alla spesa, asfissia dell’economia. La recessione «potrebbe presto trasformarsi in una depressione economica, in grado di rendere fuori controllo la traiettoria debito-Pil: è un potenziale disastro». In questo contesto, per il giornalista inglese, la politica si deve porre l’obiettivo del ritorno di una serie di poteri sovrani delegati a Bruxelles. Le elezioni del maggio prossimo? «Saranno un evento potenzialmente epocale: i partiti scettici dell’attuale architettura istituzionale potrebbero essere i primi in diversi paesi – l’Ukip in Gran Bretagna, il Fronte Nazionale in Francia, il Movimento 5 Stelle in Italia, Syriza in Grecia». Parleranno i popoli: gli elettori potranno «esprimere la loro irritazione e frustrazione contro le scelte da Bruxelles». Così, «un blocco politico importante potrà distruggere questo “mito artificiale” che si è costruito: l’Ue non sarà più la stessa e sarà costretta ad essere meno ambiziosa e comprendere che molte delle sue prerogative devono tornare agli Stati nazionali». In altre parole: «I governi di Italia, Spagna e Francia devono riprendere il pieno controllo delle vite dei loro cittadini e non pensare all’allargamento all’Ucraina o alla Turchia. Si tratta dell’ultima battaglia».Enrico Letta aspetta che sia la Merkel a salvare l’Italia? Be’, buonanotte. Secondo Ambrose Evans-Pritchard, l’Italia sta scherzando col fuoco: avanti di questo passo, sotto la sferza dell’euro-rigore, il nostro paese rischia il collasso già nel 2014. Il problema? L’euro, ovviamente, e il regime di Bruxelles, che taglia lo Stato imponendo sacrifici con un unico orizzonte: la catastrofe. «Quello che serve in Europa oggi è uno shock economico sul modello dell’Abenomics», dice il columnist economico del “Telegraph”, indicando come modello il Giappone di Shinzo Abe. Sovranità monetaria e deficit positivo, per risollevare l’economia. «Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, insieme alla Francia devono smettere di fare finta di non avere un interesse in comune da tutelare». Attenzione: «Questi paesi hanno i voti necessari per forzare un cambiamento». In Francia, sarà risolutiva Marine Le Pen: magari non conquisterà l’Eliseo, ma costringerà i grandi partiti a cambiare agenda, imponendo loro di fare finalmente i conti con Bruxelles, Berlino e la Bce.
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Della Luna: morte lenta, la nostra fine decisa all’estero
«Italy is going the right way», dice l’umorista Obama al fido Enrico Letta. Solo che la “giusta via” ricorda la macellazione per dissanguamento: morte lenta. Così funziona la politica economica italiana, da qualche decennio al servizio di interessi stranieri: il trucco, sostiene Marco Della Luna, sta nello svuotare il paese di tutta la sua linfa, ma lentamente, in modo che non “muoia” e che non soffra troppo, perché potrebbe ribellarsi. All’avvio dell’euro, è bastato qualche anno di bassi tassi per la finanza pubblica, per gonfiare fabbisogno strutturale e debito. «Poi, di colpo, austerità e tassi alti (spread), per creare l’emergenza, imporre il presidenzialismo de facto e la “sospensione della democrazia” a tempo indeterminato». Ma già con la riforma monetaria del 1981-83 poi col Trattato di Maastricht, era stata scardinata la Costituzione: sovranità nazionale e primato del lavoro. «Fatto questo, tutto il resto è stato in discesa»: svuotare il paese di industrie pregiate, capitali e cervelli, in favore della finanza apolide e del suo feudatario-kapò europeo, la Germania.Si è tutto tragicamente avverato: lo dicono Pil, occupazione, flussi di capitale, investimenti, quote di mercato internazionale, qualità della scuola, prospettive per i giovani e per i pensionati. Una manovra che viene da lontano: blocco dei cambi, divieto di protezioni doganali, privatizzazione della gestione delle banche centrali, politiche di tagli e nuove tasse. «Queste mosse hanno prodotto e continuano a produrre esattamente i risultati opposti a quelli promessi e per cui erano stati imposti», scrive Della Luna nel suo blog. Ed è un declino “irreversibile”: «Il che dimostra che il vero fine per cui sono stati concepiti e imposti è molto diverso da quello dichiarato, probabilmente opposto, ossia di creare disperazione, paura, miseria, distruzione, la fine delle democrazie parlamentari, della responsabilità dei governanti verso i governati, della possibilità di un’opposizione e persino di un dissenso culturale, scientifico, giuridico».Lo stesso Fmi ha riconosciuto che, su 167 paesi colpiti da misure di “risanamento” e rigore, nessuno si è risanato né rilanciato, ma tutti sono peggiorati, soprattutto in quanto a Pil e debito pubblico. «I paesi che crescono sono quelli che non applicano questa ricetta e che mantengono il dominio della loro propria moneta: i Brics. La Russia ha superato l’Italia in fatto di Pil e ora l’Italia è nona, fuori dal G8». Già lo si era visto col primo aumento dell’Iva, quello di Monti, aumentata dal 20 al 21%: consumi scoraggiati, crollo della domanda, ulteriore recessione. Con Letta, obbligato a non sforare il tetto europeo del 3% per il deficit, l’Iva è al 22%. Risultato? Scontato: depressione. Che poi, per Della Luna, è esattamente l’obiettivo voluto, come già per Monti. Tutto a va a rotoli? Non è certo un caso: «I vent’anni di stagnazione, declino, delocalizzazioni ed emigrazioni, senza capacità di recupero, di questo paese, nonostante i diversi cambi di maggioranze parlamentari e di inquilini del Quirinale, sono un aspetto di questo processo di lungo termine. Vent’anni inaugurati dal Britannia Party e da Mani Pulite».A questo, continua Della Luna, sono serviti l’architettura dell’Ue, del mercato comune, dei parametri di convergenza, e soprattutto di quel sistema di blocco dei naturali aggiustamenti dei cambi monetari noto come “euro”. «A questo piano hanno lavorato molti governi e gli ultimi capi dello Stato: ne ho parlato ampiamente nei miei ultimi tre saggi, “Cimit€uro”, “Traditori al governo”, e “I signori della catastrofe”», pubblicati da Arianna-Macro Edizioni. E chi ha collaborato al piano di liquidazione dell’Italia «non ha mai avuto problemi giudiziari e, se ne aveva, gli sono stati risolti». Grande svendita del paese, a bordo del famoso panfilo inglese. Fine dell’Italia, altro che Ruby o diritti Mediaset. L’attuale governante Letta? Un continuatore: la sua finanziaria 2014 è pura «policy del dissanguamento lento e pacifico in favore dei paesi e dei capitali dominanti», e si basa sui due pilastri della politica italiana degli ultimi decenni: mantenere l’Italia sottomessa alla super-casta mondiale dell’élite finanziaria e, necessariamente, continuare a foraggiare la mini-casta nazionale incaricata di portare a termine la missione, agli ordini dell’euro-regime.«Una sorta di patto: tu, casta italiana, aiutaci a estrarre tutto quello che c’è di buono per noi in Italia, e ad annientare la capacità italiana di competere con noi sui mercati; in cambio, noi ti lasceremo continuare a mangiare come sei abituata sulle spalle della cosa pubblica, dei lavoratori, dei risparmiatori – ma non troppo voracemente, altrimenti il paese collassa o insorge, vanificando l’esecuzione del piano». Naturalmente l’operazione «deve apparire all’opinione pubblica come perfettamente legittima e democratica», meglio quindi se al governo ci sono larghe intese. Parliamoci chiaro: «Che cosa può mai fare, per rilanciare un paese, un governo che non può permettersi, nemmeno per fronteggiare una tragedia nazionale, di ridurre gli sprechi e le mangerie di una partitocrazia-burocrazia ladra e incapace quanto trasversale?». E’ una casta incompetente ma «selezionata, da decenni, solo per intercettare le risorse pubbliche». Non ci saranno svolte, ma solo promesse.Poi, continua Della Luna, l’Italia è invecchiata, tecnologicamente arretrata, sorpassata per le infrastrutture e in più sovra-indebitata, vessata da maxi-interessi. E infine devastata dalla disoccupazione. Il paese vacilla: «Non vi sono abbastanza giovani lavoratori per pagare le pensioni e le cure dei vecchi». Succede tutto questo perché l’Italia «è sottomessa a potenze straniere che la condizionano e la limitano». Lo profetizzò quarant’anni fa l’economista Nikolas Kaldor: bloccando i cambi e introducendo l’unione monetaria europea, sarebbe ulteriormente aumentato il vantaggio competitivo dei più forti, che avrebbero assorbito industrie, capitali e lavoratori dai paesi più fragili. Vent’anni fa ribadivano questa previsione economisti come Paul Krugman e Wynne Godley. Quindi, «tutti quelli che hanno architettato l’euro sapevano benissimo su che scogli era diretta la nave: il loro scopo era appunto quello di farla naufragare».Le previsioni continuano ad avverarsi in modo sempre più violento da almeno sette anni, ma non è stato introdotto alcun correttivo; al contrario, sono state inasprite le misure di squilibrio e sopraffazione. E chi ha osato anche solo accennare a un referendum sull’euro – Berlusconi, Papandreou – è stato «sostituito dalla Merkel», che ha imposto governi compiacenti (Monti, Letta) patrocinati dal Quirinale. Mentre in Gran Bretagna si fa largo l’Ukip di Nigel Farage e in Francia il Front National di Marine Le Pen, due formazioni fieramente all’opposizione di Bruxelles, «l’Italia si trova nella condizione di protettorato», quasi fosse tornata alla debolezza strutturale pre-unitaria, di entità politica «messa insieme artificialmente, per volontà straniera, mediante conquiste militari». Napolitano? «Si conferma un realista e un saggio disincantato». Inutile opporsi allo strapotere di forze soverchianti: «Poiché gli italiani sono in questa condizione, bisogna farli obbedire e agire anche contro il loro interesse, onde risparmiare loro un male peggiore». La consapevolezza? «Renderebbe la gente solo più infelice e inquieta» e anche «più esposta alle violenze repressive» se osasse ribellarsi. Come dice Obama, fiduciario del Washington Consensus e dei suoi super-banchieri, quella dell’Italia è proprio la “right way”.«Italy is going the right way», dice l’umorista Obama al fido Enrico Letta. Solo che la “giusta via” ricorda la macellazione per dissanguamento: morte lenta. Così funziona la politica economica italiana, da qualche decennio al servizio di interessi stranieri: il trucco, sostiene Marco Della Luna, sta nello svuotare il paese di tutta la sua linfa, ma lentamente, in modo che non “muoia” e che non soffra troppo, perché potrebbe ribellarsi. All’avvio dell’euro, è bastato qualche anno di bassi tassi per la finanza pubblica, per gonfiare fabbisogno strutturale e debito. «Poi, di colpo, austerità e tassi alti (spread), per creare l’emergenza, imporre il presidenzialismo de facto e la “sospensione della democrazia” a tempo indeterminato». Ma già con la riforma monetaria del 1981-83 poi col Trattato di Maastricht, era stata scardinata la Costituzione: sovranità nazionale e primato del lavoro. «Fatto questo, tutto il resto è stato in discesa»: svuotare il paese di industrie pregiate, capitali e cervelli, in favore della finanza apolide e del suo feudatario-kapò europeo, la Germania.
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Saccomanni ci riprova con l’Eni, mentre l’euro ci divora
Saccomanni ci riprova: dopo aver più volte annunciato a partire dalla scorsa estate la fine della crisi italiana, ora supera se stesso affermando che è finita addirittura la crisi mondiale. Unitamente a questo splendido annuncio, ecco l’altra grande conferma: la svendita dei maggiori beni statali, cominciando da un gioiello come l’Eni. L’ex banchiere centrale, prende nota Mitt Dolcino, ora annuncia che vuol proprio vendere l’asset migliore che l’Italia ha in portafoglio, che secondo Paolo Scaroni rende al Tesoro il 6%, per poi pagare interessi sul debito pubblico inferiori al 4%. Follia? La “spiegazione”, secondo Dolcino, la fornisce involontariamente il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, che a “Radio 3” – definisce l’interesse straniero (a comprare Eni) come più forte di quello italiano. «Della serie: Saccomanni per chi lavora, per l’interesse degli italiani o per quello dei partner europei, potenziali compratori di Eni?». Dubbio più che lecito, ricordando le famose privatizzazioni del 1992 in cui il nume tutelare di Saccomanni, Mario Draghi, regalò mezza Italia agli stranieri, facendo così decollare la sua brillante carriera.Bonanni che balbetta, scrive Dolcino su “Scenari Economici” in un intervento ripreso da “Come Don Chisciotte”, «fa ben capire la gravità della situazione: anche un sindacalista vede le stesse cose che stiamo stigmatizzando noi da qualche mese». Qualcuno, aggiunge il blogger, dovrebbe “spiegare” a Saccomanni che «le partecipazioni statali non sono sue», e che in teoria esiste ancora un Parlamento. Inoltre, dire che “la crisi è finita” serve «solo per giustificare successivamente azioni straordinarie, approfittando dei problemi che emergeranno e della crescita che non ci sarà». Soltanto alibi, per arrivare all’obiettivo desiderato: privatizzare l’Italia. Tutti gli indicatori smentiscono il ministro, persino i consumi di energia: -3% rispetto all’anno scorso. Il pericolo dello smantellamento del paese resta forte, perché «nessun politico, per cialtrone che sia, ha interesse a far cadere il governo attuale: meglio che la colpa di provvedimenti impopolari non abbia un nome, un responsabile, un colore». Questo potrebbe essere il “movente” dell’eventuale salvataggio di Berlusconi dalla decadenza, per non staccare la spina a Letta e Saccomanni.Le misure speciali evocate del ministro? Tutte inutili, anzi suicide. Unico risultato: agevolare la Germania, che punta a trasformare l’Italia – il suo più grande competitor manifatturiero continentale – in una sacca di manodopera a basso costo, dopo averne acquistato a prezzi di saldo i pezzi più pregiati. «Italiani sveglia, bisogna fare qualcosa», aggiunge Dolcino. Se oggi la maggioranza degli italiani ha finalmente capito che la moneta unica avvantaggia solo i tedeschi a nostro danno, «bisogna minacciare seriamente di uscire dall’euro se non verranno rivisti pesantemente i limiti di bilancio imposti dalle regole europee», preparandosi anche a «ripudiare la moneta unica». Fare qualcosa, subito: «Non bisogna continuare a permettere a politici come Saccomanni di prendere decisioni contro gli interessi del paese». E attenzione anche alla geopolitica, conclude Dolcino, convinto che siano stati gli Usa ad “autorizzare” la Germania a spremere il resto d’Europa. Ora, con lo scandalo Datagate e lo spionaggio ai danni della Merkel, la fiducia si è incrinata: e Washington potrebbe scoprire di aver “allevato”, a Berlino, un competitor globale insidioso per l’America, quasi quanto Cina e Russia.Saccomanni ci riprova: dopo aver più volte annunciato a partire dalla scorsa estate la fine della crisi italiana, ora supera se stesso affermando che è finita addirittura la crisi mondiale. Unitamente a questo splendido annuncio, ecco l’altra grande conferma: la svendita dei maggiori beni statali, cominciando da un gioiello come l’Eni. L’ex banchiere centrale, prende nota Mitt Dolcino, ora annuncia che vuol proprio vendere l’asset migliore che l’Italia ha in portafoglio, che secondo Paolo Scaroni rende al Tesoro il 6%, per poi pagare interessi sul debito pubblico inferiori al 4%. Follia? La “spiegazione”, secondo Dolcino, la fornisce involontariamente il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, che a “Radio 3” – definisce l’interesse straniero (a comprare Eni) come più forte di quello italiano. «Della serie: Saccomanni per chi lavora, per l’interesse degli italiani o per quello dei partner europei, potenziali compratori di Eni?». Dubbio più che lecito, ricordando le famose privatizzazioni del 1992 in cui il nume tutelare di Saccomanni, Mario Draghi, regalò mezza Italia agli stranieri, facendo così decollare la sua brillante carriera.
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Fuga in Svizzera, lontano dal crollo del made in Italy
Aumento del costo del lavoro, bassa competitività del made in Italy e prezzi alle stelle per l’energia, i più alti dell’Unione Europea insieme a Cipro. Si salvi chi può: è il motto degli imprenditori italiani travolti dalla deinstrustrializzazione, dall’eccessiva burocrazia e dal basso livello d’investimenti in ricerca e sviluppo. A monte, il terremoto finanziario aggravato dall’Eurozona. Dal 2007 a oggi, osserva Loretta Napoleoni, la produzione industriale italiana è crollata del 20%. «Di fronte alla nave che affonda, chi sa nuotare si getta in acqua per raggiungere la terraferma: è quello che hanno cercato di fare le 682 imprese che hanno risposto all’invito del sindaco di Chiasso, per partecipare a un incontro sulla possibilità di trasferirsi in Svizzera». Tutto ciò succede mentre due colossi italiani come Telecom e Alitalia (e presto anche sezioni di Finmeccanica) vengono svenduti sul mercato internazionale ai partner-concorrenti stranieri, rispettivamente Telefonica ed Air France-Klm. Sono le ultime firme di una lunga lista – dalla Ducati alla Plasmon fino alla Fiat, ormai in rotta verso gli Usa – a diventare di proprietà straniera.«Con la pressione fiscale più alta in Europa, costi di produzione astronomici ed una burocrazia da terzo mondo, lavorare bene in Italia ed essere competitivi non è più possibile», scrive la Napoleoni in un post ripreso da “Megachip”. In Svizzera invece la situazione è diametralmente opposta: l’Iva è ancora ferma all’8%, la pressione fiscale media sulle imprese è del 17,1%, quella complessiva è meno della metà del 68,3% imposto alle aziende italiane. Chi investe a Chiasso, come in tutto il Ticino, e assume lavoratori locali, ha la possibilità di ottenere rimborsi sugli oneri sociali. Infine, chi punta in settori innovativi come quelli tecnologici, ha la possibilità di ottenere aiuti sugli investimenti. «La deindustrializzazione colpisce tutte le imprese ed è frutto, per le piccole, della pessima gestione dell’economia». Sulle grandi aziende pesa anche la pessima conduzione manageriale, «da parte di individui scelti dai politici egualmente incompetenti».E’ il caso di Alitalia: nel 2008 i francesi offrirono 6,5 miliardi di euro per gli investimenti necessari a far ripartire l’impresa in cambio del pacchetto di maggioranza dell’azienda, ma Berlusconi – allora in campagna elettorale – disse di no e guidò l’Operazione Fenice, alla quale parteciparono alcuni suoi “accoliti”, industriali e manager, con lo scopo di far rimanere italiana la storica compagnia di bandiera. «Risultato: oggi l’Alitalia trasporta circa 25 milioni di passeggeri, meno di un quarto di quelli di Lufthansa e meno di un terzo di quelli della compagnia low cost Ryanair e del gruppo franco-olandese Air France-Klm. Un disastro!». Lo Stato italiano, continua Napoleoni, ha buttato quattro miliardi di euro per sanare il fallimento dell’Alitalia, e la cordata di imprenditori capitanata da Roberto Colaninno e Intesa Sanpaolo ha perso un altro milione. Le leggi ad hoc varate dal governo Berlusconi sulla chiusura del mercato, col divieto d’intervento per l’Antitrust sulle tratte monopolistiche detenute dalla nuova Alitalia, non hanno funzionato. «Il destino triste dell’industria italiana è segnato dall’inettitudine della sua classe politica». Così, per molti, «trasferirsi in Svizzera è l’unica alternativa al declino».Nel 1992, dopo la storica svalutazione competitiva della lira, Mario Draghi – allora direttore generale del Tesoro – ha guidato i primi “saldi all’italiana” sul mercato internazionale: multinazionali angloamericane, ma anche francesi e svizzere, sono piombate in Italia per “fare shopping”, in cerca di società da comprare a poco prezzo, specie nel settore agroalimentare e in quello della meccanica di precisione. La Nestlé, per esempio, ha comprato l’Italgel per 680 miliardi di lire, contro una valutazione di 750. Anche i giganti italiani, però, hanno guadagnano dallo smembramento del patrimonio nazionale: il gruppo Benetton, ricorda Loretta Napoleoni, si è aggiudicato per 470 miliardi Gs autogrill, che poi ha rivenduto ai francesi di Carrefour per 10 volte tanto. Cedute anche le grandi compagnie di servizi: privatizzata totalmente la Telecom, oggi fagocitata dalla Telefonica spagnola, e parzialmente l’Enel e l’Eni. Ma la svendita del made in Italy non ha portato, come era stato promesso, al miglioramento dei conti pubblici. Al contrario: ha contribuito al processo di deindustrializzazione che oggi preoccupa la Commissione Europea. Lo provano le cifre, conclude l’analista: «Nel 1994 il debito pubblico ammontava a 1.771.108 miliardi di lire, mentre il gettito generato dalle privatizzazioni per il triennio 1993-1995 fu di appena 27.000 miliardi, meno dell’1,5%».Aumento del costo del lavoro, bassa competitività del made in Italy e prezzi alle stelle per l’energia, i più alti dell’Unione Europea insieme a Cipro. Si salvi chi può: è il motto degli imprenditori italiani travolti dalla deinstrustrializzazione, dall’eccessiva burocrazia e dal basso livello d’investimenti in ricerca e sviluppo. A monte, il terremoto finanziario aggravato dall’Eurozona. Dal 2007 a oggi, osserva Loretta Napoleoni, la produzione industriale italiana è crollata del 20%. «Di fronte alla nave che affonda, chi sa nuotare si getta in acqua per raggiungere la terraferma: è quello che hanno cercato di fare le 682 imprese che hanno risposto all’invito del sindaco di Chiasso, per partecipare a un incontro sulla possibilità di trasferirsi in Svizzera». Tutto ciò succede mentre due colossi italiani come Telecom e Alitalia (e presto anche sezioni di Finmeccanica) vengono svenduti sul mercato internazionale ai partner-concorrenti stranieri, rispettivamente Telefonica ed Air France-Klm. Sono le ultime firme di una lunga lista – dalla Ducati alla Plasmon fino alla Fiat, ormai in rotta verso gli Usa – a diventare di proprietà straniera.
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Ville e castelli, grande svendita dei tesori degli italiani
Il governo italiano prevede la vendita della villa del Grande Inquisitore, del Forte dei Papi e di una delle isole della laguna veneta, allo scopo di tagliare il deficit di bilancio. Secondo quanto riportato dai mass media italiani, la dismissione di questi 50 luoghi di prestigio dovrà apportare al Tesoro all’incirca 500 milioni di euro. Si dice che il passaggio ai privati di parte del patrimonio immobiliare dello Stato permetterà di contenere il deficit di bilancio nel 2013 entro la soglia del 3% del Pil, come esige l’Unione Europea. A parte la riscossione immediata di questi importi, il governo auspica che le ville e i castelli siano convertiti in ristoranti, musei ed alberghi, così da consentire la creazione di nuovi posti di lavoro.Anche la Grecia, altro paese al quale l’Unione Europea ha prescritto un duro regime di controllo del bilancio, l’anno scorso si è trovata a dover svendere ai privati alcune delle sue isole, spiagge e luoghi di villeggiatura. L’Italia, a sua volta, aveva già messo in vendita con successo alcuni fari sull’isola della Sardegna. Secondo il “Corriere della Sera”, tra le proprietà immobiliari statali in dismissione, quest’anno si troverebbe anche il Castello Orsini, vicino Roma, fatto costruire da Papa Nicola III nel 1270, dalla metà del 19° secolo fino al 1989 utilizzato come prigione. La gente del posto ne parla male, come se vi vivessero i fantasmi.Un’altra vestigia nazionale di cui si prepara la messa in vendita è Villa Mirabello, situata non lontano da Milano, costruita nel 1700 dal Cardinal Durini, grande inquisitore di Malta. Nella laguna veneta gli investitori potranno acquistare l’isola di San Giacomo, che dall’undicesimo secolo è stata residenza dei monaci; nel secolo scorso fu trasformata in base militare e poi, dal 1962, dismessa e abbandonata al degrado. Secondo esperti locali, il governo italiano non ha le forze per mantenere adeguatamente questi monumenti, senza contare che molti paesi europei adesso si adoperano per fare cassa attraverso tutte le risorse possibili.(“L’Italia svenderà i castelli storici per risanare i buchi di bilancio”, da “Russia Today” del 16 ottobre 2013, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Il governo italiano prevede la vendita della villa del Grande Inquisitore, del Forte dei Papi e di una delle isole della laguna veneta, allo scopo di tagliare il deficit di bilancio. Secondo quanto riportato dai mass media italiani, la dismissione di questi 50 luoghi di prestigio dovrà apportare al Tesoro all’incirca 500 milioni di euro. Si dice che il passaggio ai privati di parte del patrimonio immobiliare dello Stato permetterà di contenere il deficit di bilancio nel 2013 entro la soglia del 3% del Pil, come esige l’Unione Europea. A parte la riscossione immediata di questi importi, il governo auspica che le ville e i castelli siano convertiti in ristoranti, musei ed alberghi, così da consentire la creazione di nuovi posti di lavoro.
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Tv, nebbia sulla crisi: Report oscura le verità di Iacona
«Chi ha ancora il coraggio di guardare la tv, e ha il fegato di frequentare RaiTre, ricorderà che circa un mese fa Riccardo Iacona, ideatore della trasmissione “Presa Diretta”, mise in onda una puntata di vera informazione sulla crisi dei cittadini europei, che illuminava il grande pubblico sulle autentiche responsabilità della crisi, intervistava economisti di valore come Emiliano Brancaccio e Bruno Amoroso, nonché personalità come Hans Olaf Henkel, e raccontava in maniera magistrale le lotte dei portoghesi contro la Troika». Claudio Martini ammette di essere trasecolato: «Chi si aspettava di veder affiorare certi concetti su una grande rete nazionale? Chi poteva immaginare una Rai che fa informazione?». Ma niente paura: «Per fortuna, Milena Gabanelli ha rimesso le cose in ordine, con la puntata di “Report” di lunedì 14 ottobre». La giornalista «è riuscita agevolmente ad annientare quanto di buono costruito dal suo collega un mese prima. Niente voci “critiche”. Piuttosto, le opinioni rassicuranti di economisti come Boeri e Perotti».Dopo averci a lungo intrattenuto sui guai del fisco e sulle inefficienze pubblica amministrazione, scrive Martini su “Il Main Stream”, il programma della Gabanelli ha presentato un’inchiesta sui motivi che spingono gli imprenditori a delocalizzare all’estero le aziende. Polonia: una voce narrante cerca di indorare la pillola, che spiegando che a Varsavia «fare impresa è possibile, perché l’imposizione fiscale sulle imprese è quasi inesistente, esiste la possibilità di licenziare incondizionatamente e con breve preavviso, non esiste il Trattamento di Fine Rapporto, non esiste la tredicesima, e in generale si lavora più a lungo per meno». Poi, “Report” mostra «come in Polonia i bambini vengano addestrati sin da piccoli ad acquisire la cultura imprenditoriale». Una “coordinatrice del programma di apprendimento dell’imprenditorialità” spiega che «fin dalla tenera età i piccoli giocano al “Piccolo Bancomat”, e che alle elementari si addestrano al gioco del “Piccolo Ministro delle Finanze”, dove ai bambini è dato di decidere quali spese tagliare».Proseguendo, la Gabanelli individua nella carenza di produttività il vero guaio italiano, e addita chi parla di uscita dall’euro a «ciarlatani che cercano di distrarre dai problemi reali». L’economista Lucrezia Reichlin spiega che l’idea di far acquistare i titoli del Tesoro dalla propria banca centrale è «molto pericolosa», in quanto «toglie incentivi al risanamento dei conti». E archiviare il rigore sui bilanci è ancora più pericoloso, perché «creerebbe inflazione», cioè «una tassa occulta che distrugge i risparmi». Molto meglio, sempre per la Reichlin, che anche l’Italia accetti un piano di “aiuti” dalla Bce, con relativo commissariamento. «La voce narrante conferma», racconta Martini, e passa a intervistare un giornalista di “Repubblica”, sicuro che – con l’uscita dall’euro – i risparmi degli italiani sarebbero decurtati di un terzo. Sempre la voce narrante di “Report” paragona l’uscita dalla moneta unica a «una patrimoniale sui cittadini italiani di centinaia di miliardi: di gran lunga la soluzione più costosa».Sistemati gli “uscisti”, continua Martini, si passa alle altre possibili soluzioni per uscire dalla crisi. «La risposta non può che essere una: fare come la Germania». Così, vengono illustrati gli effetti delle riforme tedesche dei primi anni 2000: aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze, perdita di redditi e diritti per i lavoratori. Scelte che però “Report” presenta sotto una luce favorevole: hanno avuto luogo in un momento di crescita dell’economia mondiale, quindi al momento giusto. «A quei tempi la Germania è dimagrita, mentre noi siamo ingrassati, e adesso ci supera», dice la solita voce narrante, evidentemente soddisfatta del “sorpasso virtuoso” dei tedeschi messi a dieta. Infine, un accenno al Fiscal Compact: «Iacona, giustamente, lo indicava come una sciagura», mentre – per gli “esperti” citati dalla Gabanelli – dire che il Fiscal Compact applicato alla lettera strangolerebbe l’economia italiana è, senza mezzi termini, «una cavolata», dal momento che «con un po’ di inflazione e crescita economica il debito si aggiusta da solo». Come a dire: manco ce ne accorgeremo. Inutile spendere altre parole per smontare queste bufale, dice Martini, o spigare che «è truffaldino chiamare “Unione” un’organizzazione che ha il solo fine di portare alle estreme conseguenze la concorrenza tra nazioni, cioè tra lavoratori». Resta l’amarezza: la Gabanelli «fa disinformazione a spese nostre», e attraverso il suo potere mediatico «inocula, ad arte, veleno nelle menti dei cittadini». E l’etica del servizio pubblico? « Gabanelli, mi si passi il francesismo, se ne fotte».«Chi ha ancora il coraggio di guardare la tv, e ha il fegato di frequentare RaiTre, ricorderà che circa un mese fa Riccardo Iacona, ideatore della trasmissione “Presa Diretta”, mise in onda una puntata di vera informazione sulla crisi dei cittadini europei, che illuminava il grande pubblico sulle autentiche responsabilità della crisi, intervistava economisti di valore come Emiliano Brancaccio e Bruno Amoroso, nonché personalità come Hans Olaf Henkel, e raccontava in maniera magistrale le lotte dei portoghesi contro la Troika». Claudio Martini ammette di essere trasecolato: «Chi si aspettava di veder affiorare certi concetti su una grande rete nazionale? Chi poteva immaginare una Rai che fa informazione?». Ma niente paura: «Per fortuna, Milena Gabanelli ha rimesso le cose in ordine, con la puntata di “Report” di lunedì 14 ottobre». La giornalista «è riuscita agevolmente ad annientare quanto di buono costruito dal suo collega un mese prima. Niente voci “critiche”. Piuttosto, le opinioni rassicuranti di economisti come Boeri e Perotti».
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Un partito patriottico, contro questi collaborazionisti
Moderatismo significa pensare che il sistema va bene strutturalmente, così come è; e vuol dire anche credere in come il sistema descrive e giustifica se stesso, e che al massimo c’è da migliorarlo e ripararlo. Con lo spodestamento di Berlusconi da parte dei “moderati”, si dissolvono le ultime differenze politiche – sfumature o poco più – sicché ora abbiamo un’unità completa della partitocrazia e un Parlamento quasi interamente uniformato alla strategia “europeista” di totale cessione al capitalismo estero delle leve di economia politica, delle industrie strategiche o di eccellenza nazionali, del controllo dei servizi pubblici essenziali e, ancor più, del sistema creditizio. L’arco moderato è collaborazionista. Fantoccio. Ed è insieme la partitocrazia parassitaria, tassaiola e incompetente che ben conosciamo, la quale ora, essendosi compattata e non avendo competitori, si fa sempre più arrogante e aggressiva con la gente.La Lega è senza armi perché ormai marginale e screditata; mentre il M5S pare arenato, al di là delle contraddizioni interne e degli interrogativi sui veri scopi dei suoi effettivi titolari. Nessuno dei due ha figure di statista o mezzo statista. I partiti della maggioranza hanno superato la crisi senza formulare, nemmeno questa volta, un piano comune degli interventi politico-economici: segno oggettivo che mirano solo alla poltrona e alla greppia e che continueranno a fare le cose come da ordini che riceveranno da Berlino, senza doversi arrovellare per elaborare un programma, che peraltro in tempi differenti hanno dimostrato di essere incapaci di elaborare. Ora la casta può anche riformare la legge elettorale e inscenare nuove elezioni politiche proponendo all’elettorato una falsa dialettica e una falsa alternanza falsamente democratiche, per poi proclamare che l’Italia è finalmente un paese normale.Ma perlomeno, a questo punto, il quadro si è chiarito, abbiamo il bipolarismo reale: un polo è la partitocrazia collaborazionista. L’altro polo è la nazione, la gente, l’interesse collettivo. Lo Stato è ormai veramente e indubitabilmente il nemico della gente e del paese. Come tale è ben diffusamente percepito: strumento di sfruttamento e soprusi, ormai quasi privo di utilità per il popolo. Intanto sta maturando il bubbone del contenzioso sommerso, ossia di tutti i crediti divenuti inesigibili o critici, che le banche dovrebbero segnare in bilancio come tali, ma non lo fanno, perché costerebbe troppo quando non le farebbe, addirittura, saltare. Bankitalia ha completato, giorni fa, un controllo del deterioramento del portafoglio crediti delle banche medie, e sta per iniziare quello sulle banche grosse. Nelle medie, ha trovato che queste non avevano messo in sofferenza crediti per circa 8 miliardi. Ora queste banche sono costrette, per coprire questi crediti deteriorati con la costituzione dei fondi prescritti, a cercare miliardi in giro. Nelle banche grosse troverà di peggio. Ed esse dovranno cercare molti miliardi per coprire le perdite.I capitali stranieri approfitteranno di tutto ciò per acquisire ulteriori quote strategiche nel sistema bancario italiano. E siccome tutto il nostro sistema-paese, aziende in testa, notoriamente dipende dalle banche, mancando di idonei capitali propri, quei capitali stranieri si impadroniranno completamente dell’Italia, facendone un protettorato dedicato alle lavorazioni di bassa e medio-bassa tecnologia, affidate a una forza lavoro di bassa e medio-bassa qualificazione, sottopagata e precaria, alimentata dall’immigrazione, in cui svolgere la parte povera del ciclo produttivo e lasciare la parte minima dei margini di profitto, salvo drenare anche quelli con interessi e tasse.Berlusconi, se non avesse più convenienza a stare buono e giocare diplomaticamente per tutelare le sue aziende di famiglia e la propria libertà, potrebbe, a questo punto, approfittare dello spazio politico che si è aperto, e lanciare un partito patriottico, euroscettico e indipendentista, incentrato sulla tutela degli interessi nazionali e sul recupero della sovranità nazionale, iniziando col ritorno alla lira secondo il modello ante-divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per rilanciare gli investimenti e l’occupazione, e pagare i debiti pubblici in moneta sovrana come fanno Usa, Regno Unito, Giappone, ponendo fine alla presente, interminabile e ingiustificabile agonia, coltivata dai collaborazionisti.(Marco Della Luna, “Moderatismo e collaborazionismo”, dal blog di Della Luna del 7 ottobre 2013).Moderatismo significa pensare che il sistema va bene strutturalmente, così come è; e vuol dire anche credere in come il sistema descrive e giustifica se stesso, e che al massimo c’è da migliorarlo e ripararlo. Con lo spodestamento di Berlusconi da parte dei “moderati”, si dissolvono le ultime differenze politiche – sfumature o poco più – sicché ora abbiamo un’unità completa della partitocrazia e un Parlamento quasi interamente uniformato alla strategia “europeista” di totale cessione al capitalismo estero delle leve di economia politica, delle industrie strategiche o di eccellenza nazionali, del controllo dei servizi pubblici essenziali e, ancor più, del sistema creditizio. L’arco moderato è collaborazionista. Fantoccio. Ed è insieme la partitocrazia parassitaria, tassaiola e incompetente che ben conosciamo, la quale ora, essendosi compattata e non avendo competitori, si fa sempre più arrogante e aggressiva con la gente.
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Ecco perché le banche non hanno più soldi da prestarci
Il ruolo delle banche è da sempre quello di ricevere denaro e di farlo fruttare prestandolo. Oggi, come sa chiunque ci abbia provato a chiederglielo, le banche il denaro non lo prestano più. Senza credito non ci può essere sviluppo. Senza credito le imprese soccombono e licenziano. Senza credito è impossibile per chiunque non sia “ricco di suo” creare un’attività. E siccome chi oggi è ricco di suo tra il rischio di un investimento e il comodo porto dei Bot preferisce certamente la seconda attività, comprendiamo perché la disoccupazione sia raddoppiata in soli 4 anni. Le banche non sono l’unico problema, però sono uno snodo centrale e sono una metafora della crisi Italiana dovuta alla capacità della classe politica di occupare lo spazio che dovrebbe essere di quella civile. Non importa se non funziona, l’importante è mantenere la poltrona.Il Fmi (non sarà il Vangelo, però i numeri li sanno leggere) ci dice che la causa di ciò è la sottocapitalizzazione delle nostre banche. In parole povere, vuol dire che se non hanno soldi non li possono prestare. Una banca che si trova in questa situazione ha una sola soluzione se vuole continuare a operare: chiedere ai suoi azionisti nuovi soldi. In Italia questo non è possibile. Non lo è perché, per quanto formalmente “privati”, tutti i maggiori istituti italiani sono propaggini del sistema politico. Quando 20 anni orsono il Tesoro decise di vendere la maggioranza delle azioni, per mantenere il controllo i politici italiani inventarono il trucco delle fondazioni bancarie, che mantennero la quota di controllo (sufficiente a nominare i manager). Fu una finta privatizzazione, perché a decidere chi comandava restava sempre la politica. E’ questo il motivo per cui le banche sono rimaste senza soldi; perché li hanno prestati non a chi li meritava, ma a chi il politico di riferimento ordinava.L’unica soluzione sarebbe, appunto, di chiedere ai soci di tirare fuori il grano. Ma se ciò avvenisse, le fondazioni perderebbero il controllo degli istituti perché non avrebbero il denaro sufficiente per coprire la loro parte, e la perdita del controllo significherebbe che i partiti non potrebbero più nominare i manager e questo il sistema non lo potrebbe accettare. Quindi preferiscono tirare a campare continuando a evitare di dirci che i soldi che hanno prestato non esistono più perché li hanno prestati agli amici degli amici, che se li sono pappati. Se si facesse pulizia nei conti, la quasi totalità delle nostre banche sarebbe fallita. Allora si preferisce prendere i soldi dei cittadini e “prestarli” alle banche; ma un prestito è un prestito quando esiste la possibilità che venga rimborsato, altrimenti si chiama regalo. I cosiddetti “Monti bond” che hanno salvato l’Mps appartengono a questa categoria. Non è questione di essere di destra o di sinistra per rendersi conto che ciò è assurdo.Esistono solo due soluzioni possibili a questa situazione. Se è il mercato a decidere, allora i soldi li devono tirare fuori i privati, guadagnandoci se son bravi e perdendoci se cattivi. Se invece siamo noi (lo Stato) a metterci il grano, è giusto che siamo noi a possedere le banche, quindi una sorta di ri-nazionalizzazione del sistema. A prima vista la soluzione più ragionevole è un mix delle due precedenti; lasciare ai privati quello che i privati possono salvare e fare intervenire lo Stato laddove ciò non è possibile. Per parare l’obiezione che già sento arrivare (ai privati il salvabile, al pubblico le carrette) ricordo che lo Stato è già garante del sistema bancario e che, in caso di fallimento, dovrebbe comunque intervenire a coprire il buco. All’obiezione di chi invece dice che riportare al Tesoro la proprietà non significa certo eliminare l’influenza della politica, rispondo che è vero ma almeno esiste la speranza che a nominarne i vertici non sia il solito capobanda locale.(Marco Di Gregorio, “Perché le banche non hanno più soldi da prestare”, dall’“Huffington Post” del 7 ottobre 2013).Il ruolo delle banche è da sempre quello di ricevere denaro e di farlo fruttare prestandolo. Oggi, come sa chiunque ci abbia provato a chiederglielo, le banche il denaro non lo prestano più. Senza credito non ci può essere sviluppo. Senza credito le imprese soccombono e licenziano. Senza credito è impossibile per chiunque non sia “ricco di suo” creare un’attività. E siccome chi oggi è ricco di suo tra il rischio di un investimento e il comodo porto dei Bot preferisce certamente la seconda attività, comprendiamo perché la disoccupazione sia raddoppiata in soli 4 anni. Le banche non sono l’unico problema, però sono uno snodo centrale e sono una metafora della crisi Italiana dovuta alla capacità della classe politica di occupare lo spazio che dovrebbe essere di quella civile. Non importa se non funziona, l’importante è mantenere la poltrona.
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Guzzanti: Scalfari e quella cena così strana e inquietante
Mancava soltanto Francesco, il Papa. Lo aspettavano per il caffè ma poi ha dato buca. Tutti gli altri erano lì: il signor presidente della Repubblica, il signor presidente del Consiglio dei ministri, il signor presidente della Banca centrale europea. Quanto all’anfitrione non poteva che essere lui: Eugenio Scalfari, l’uomo di gran lunga più onnipotente di Dio, cui non crede ma da cui ha comunque ottenuto un voucher per l’eternità – just in case – proprio dal commensale assente, il papa argentino. Non conosciamo la disposizione dei commensali (anche se immaginiamo Giorgio Napolitano a capotavola) e ignoriamo tutto del menù. Non ci sembra invece difficile indovinare i temi della conversazione, dato il consesso e lo stato delle cose, ovvero la situazione politica. Pur giocando a mosca cieca con i dettagli, ci sono un paio di considerazioni che vorremmo fare.Il presidente della Repubblica è la più alta istituzione di garanzia del paese. È il garante dei garanti, il super partes fra i super partes, un equilibrista in equilibrio. O, almeno, dovrebbe. E da chi va a cena? Dal venerando Eugenio Scalfari, creatore e signore di ebdomadari e gazzette quotidiane di gran successo, nonché di teorie sulla latente esistenza sia di Dio che del suo Io (cui dedicò con successo un suo libro) ma più che altro il campione incontrastato dell’antiberlusconismo, benché gli sia capitato nella sua lunga vita persino di intrattenersi ad Arcore alternandosi al pianoforte con l’odiato Cavaliere. Insomma, al di là della scelta dei vini e dei contorni, quel che colpisce di questo simposio (rivelato dal “Fatto Quotidiano”) è che almeno due figure centrali per il loro ruolo di garanzia – Napolitano e Draghi – piluccavano e sorseggiavano nella magione del principe e decano dell’antiberlusconismo più militante e quasi militare.Domanda ai lettori: c’è per caso qualcosa che non va, che non suona bene in questa faccenda? Sì, d’accordo, Scalfari si può permettere l’ego smisurato che ha, e si nutre soltanto di ospiti adeguati alla sua dieta. Ma gli altri? Perché il capo dello Stato, garante della Costituzione, era a discutere di politica – e di che cos’altro sennò? – con un giornalista schierato su uno dei due fronti politici? E che cosa ci faceva Mario Draghi? E che cosa Enrico Letta, in partenza per gli Usa? Non ci vuole molta fantasia: Eugenio dirigeva l’orchestra non facendo mancare la sua devozione a Napolitano; Draghi parlava poco e annuiva molto, Letta non poteva frenarsi dall’esprimere la sua esausta frustrazione.Provando a immaginare la cena, ecco che un’altra immagine ci si è parata davanti: quella del panfilo Britannia a bordo del quale nella primavera del 1992 – annus horribilis di Falcone, Borsellino, Tangentopoli e molto altro ancora – fu avviata la svendita dell’Italia. Così almeno vuole la vulgata, solida e ben fondata. Ventuno anni fa a bordo di quel naviglio c’era anche il giovane Mario Draghi, allora direttore delegato del ministero del Tesoro, Beniamino Andreatta (sponsor e mentore di Enrico Letta) e tanti altri banchieri, affaristi, venditori, acquirenti, maneggioni e speculatori d’ogni risma. Dopo quell’allegra crociera il 48 per cento delle aziende italiane passò di mano ad aziende straniere, la lira svalutò e il paese si avviò in un declino pilotato.Lungi da noi l’idea che l’abitazione di Scalfari galleggi e bordeggi come un panfilo e non sarà certo qualche elemento di continuità, come la presenza allora e oggi di Mario Draghi a farci velo e indurci a similitudini forzate. Ma conosciamo i nostri polli a cominciare dal variopinto gallo Scalfari. E possiamo essere sicuri che nel corso del sobrio banchetto (persone d’età, stomaci delicati) si sia parlato più di futuro che di passato e che si siano gettate le basi sul da farsi prossimo venturo. La crostata a casa Letta (Gianni, in questo caso) a confronto era una minestra della Caritas.Ora, uno può invitare a casa sua chi vuole e chiunque è padrone di accettare qualsiasi invito. Ma la densità, la qualità e l’attualità delle persone concentrate davanti alla stessa tovaglia imbandita ci dice che è proprio il fatto in sé ad apparire improprio, criticabile e fuori dalle regole, specie considerando che quei quattro commensali sono persone che fanno del rispetto delle regole una ragione di vita. Ecco quindi che qualsiasi cosa sia accaduta, qualsiasi cosa sia stata detta in quella cena, per il solo fatto che si sia svolta nella casa privata di un campione politico, oltre che giornalistico, impone uno stato d’allarme. Il capo dello Stato, il capo del governo e il capo della Bce hanno accettato di riunirsi sotto la tenda del canuto maresciallo di uno dei due eserciti in battaglia per brindare e fare piani. Nessuno dica dunque che non è accaduto nulla: non basterà un digestivo per digerire questo inquietante simposio…(Paolo Guzzanti, “Ma quante trame a casa Scalfari con Letta, Napolitano e Draghi”, da “Il Giornale” del 28 settembre 2013).Mancava soltanto Francesco, il Papa. Lo aspettavano per il caffè ma poi ha dato buca. Tutti gli altri erano lì: il signor presidente della Repubblica, il signor presidente del Consiglio dei ministri, il signor presidente della Banca centrale europea. Quanto all’anfitrione non poteva che essere lui: Eugenio Scalfari, l’uomo di gran lunga più onnipotente di Dio, cui non crede ma da cui ha comunque ottenuto un voucher per l’eternità – just in case – proprio dal commensale assente, il papa argentino. Non conosciamo la disposizione dei commensali (anche se immaginiamo Giorgio Napolitano a capotavola) e ignoriamo tutto del menù. Non ci sembra invece difficile indovinare i temi della conversazione, dato il consesso e lo stato delle cose, ovvero la situazione politica. Pur giocando a mosca cieca con i dettagli, ci sono un paio di considerazioni che vorremmo fare.
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La cena segreta: Draghi da Scalfari con Letta e Napolitano
«Mancava soltanto Francesco, il Papa. Lo aspettavano per il caffè ma poi ha dato buca. Tutti gli altri erano lì», racconta Paolo Guzzanti sul “Giornale”. Metti una sera a cena: con Napolitano, Letta e nientemeno che sua maestà Mario Draghi. Dove? A casa di Eugenio Scalfari, il fondatore di “Repubblica”. Che, tra un colloquio e l’altro col Pontefice, trova anche il tempo di occuparsi del destino della nazione. Non in qualità di giornalista, come forse ci si aspetterebbe, e neppure di “consigliere del principe”. Anche perché in questo caso i principi sono addirittura tre. E il consigliato è lui, che riceve precise istruzioni da trasmettere alla plebe dei lettori. Loro, gli italiani incorreggibili che dimostrano «l’incapacità della massa di fare progressi» e cedono di fronte all’altro grande male che affligge il paese, «la caparbietà di Berlusconi nel privilegiare se stesso». Un racconto lunare, quello che offre “Dapospia” attingendo al “Fatto Quotidiano”, sulla famosa cena (ovviamente informale, dunque top secret) del 20 settembre: la folla di agenti in borghese e l’inattesa processione di auto blu in piazza della Minerva, nel cuore di Roma, alla vigilia del tremebondo ricatto berlusconiano contro il governo Letta.«Non sapremo mai cosa si sono detti», ma possiamo desumerlo dall’articolo in cui Scalfari, due giorni dopo, “spiega” che il governo Letta, così come l’esecutivo Monti, non è stato una scelta, ma solo «il prodotto necessario d’una situazione priva di alternative». Napolitano, Letta e Draghi? Sono «lo scudo Italia-Europa». Cioè «i nostri tre punti di forza, che hanno l’Europa come obiettivo preminente per l’avvenire di tutti». Ben più drastica, e di segno diametralmente opposto, l’interpretazione di “Movisol”, il movimento internazionale per i diritti civili presieduto da Liliana Gorini: «L’Ue trama un altro golpe in Italia per prorogare lo “stato di necessità”». Enrico Letta, sostiene “Movisol” nel suo sito, ha superato il voto di fiducia alle Camere anche grazie ai meccanismi di “stabilizzazione” politica messi in atto da Bruxelles per «assicurare che saranno prese decisioni conformi allo “stato di necessità”» decretato dall’Unione Europea. Traduzione: «Le elezioni vanno evitate a tutti i costi e il golpe avviato con la nomina di Mario Monti deve proseguire, per assicurare che gli italiani si immolino per salvare l’euro».“Movisol”, che si richiama all’economista statunitense Lyndon LaRouche, più volte candidato alla presidenza Usa e autore di una proposta per la ristrutturazione democratica del sistema finanziario mondiale, attribuisce grande importanza al vertice informale del 20 settembre, nel quale include anche la presidente della Camera, Laura Boldrini, eletta in Parlamento dal partito di Vendola. Scalfari e i suoi commensali? «Tutti membri della corrente spinelliana del “partito britannico”». Chiari i riferimenti al padre nobile del federalismo europeo, l’intellettuale antifascista Altiero Spinelli, e ad un’altra famosa cena, tristemente nota: quella del ’92 in cui, a bordo del panfilo Britannia ormeggiato a Civitavecchia, l’allora direttore del Tesoro, Mario Draghi, fu messo a parte del primo grande piano di privatizzazioni selvagge ai danni del patrimonio pubblico italiano. Sul vascello dei reali inglesi, insieme a Draghi, il gotha della finanza anglosassone: è lo stesso super-clan planetario – oggi Gruppo dei Trenta, Bilderberg, Goldman Sachs – di cui allora l’opinione pubblica non aveva praticamente mai sentito parlare.«Ciò che il partito britannico teme – scrive “Movisol” – è che il sentimento anti-austerità nella popolazione italiana (che Berlusconi sicuramente sfrutta per salvarsi, ma questo è solo una complicazione per gli smarriti) possa sfociare in un definitivo voto anti-euro in caso di nuove elezioni». Attenzione: il fronte anti-euro si sta finalmente organizzando su scala pan-europea. Il 23 settembre a Roma si è tenuto il primo incontro degli euroscettici del nord e del sud del continente. Presenze importanti: da Hans-Olaf Henkel dell’università di Mannheim, già capo della Confindustria tedesca, a Brigitte Granville, economista della Queen Mary University di Londra. Fra gli italiani, oltre a Carlo Borghi e Alberto Bagnai, anche l’ex ministro Giuseppe Guarino, secondo cui la politica “zero deficit” dell’Ue non solo è sbagliata, ingiusta e suicida, ma è pure illegale persino per la stessa normativa comunitaria.«Per giustificare l’illegalità – sostiene “Movisol” – l’Ue ha costantemente usato l’argomentazione dello “stato di necessità”, che secondo Karl Schmitt autorizza a sospendere la Costituzione». In realtà, «lo stato di necessità è dettato dall’imperativo di salvare il sistema oligarchico», e nell’estate 2011 Bruxelles lo ha imposto all’Italia «manipolando il valore dei suoi titoli di Stato: la Bce ha prima lasciato cadere i titoli, ed è intervenuta successivamente ad acquistarli per sostenere il governo Monti». Si ripeterà il giochetto con Letta? Altra domanda: è questo che Draghi ha discusso nella “cena delle trame”? E il suo annuncio al Parlamento Europeo che la Bce è pronta ad un’altra mega-iniezione di liquidità per le banche (Ltro) ha a che fare con questo? Ma soprattutto: Draghi cosa avrebbe chiesto, in cambio, ai suoi illustri commensali? «Il Financial Stability Assessment del Fmi per l’Italia, rilasciato il 27 settembre – conclude “Movisol” – raccomanda l’applicazione del bail-in (prelievo forzoso) per soccorrere le banche italiane. È quanto ha chiesto Draghi? O si è limitato a sollecitare le privatizzazioni, in consueto “stile Britannia”?». Magari lo si potrebbe chiedere a Scalfari, se solo facesse ancora il giornalista.«Mancava soltanto Francesco, il Papa. Lo aspettavano per il caffè ma poi ha dato buca. Tutti gli altri erano lì», racconta Paolo Guzzanti sul “Giornale”. Metti una sera a cena: con Napolitano, Letta e nientemeno che sua maestà Mario Draghi. Dove? A casa di Eugenio Scalfari, il fondatore di “Repubblica”. Che, tra un colloquio e l’altro col Pontefice, trova anche il tempo di occuparsi del destino della nazione. Non in qualità di giornalista, come forse ci si aspetterebbe, e neppure di “consigliere del principe”. Anche perché in questo caso i principi sono addirittura tre. E il consigliato è lui, che riceve precise istruzioni da trasmettere alla plebe dei lettori. Loro, gli italiani incorreggibili che dimostrano «l’incapacità della massa di fare progressi» e cedono di fronte all’altro grande male che affligge il paese, «la caparbietà di Berlusconi nel privilegiare se stesso». Un racconto lunare, quello che offre “Dapospia” attingendo al “Fatto Quotidiano”, sulla famosa cena (ovviamente informale, dunque top secret) del 20 settembre: la folla di agenti in borghese e l’inattesa processione di auto blu in piazza della Minerva, nel cuore di Roma, alla vigilia del tremebondo ricatto berlusconiano contro il governo Letta.
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Barnard: l’evasione fiscale ci parla, e oggi va ascoltata
In Italia, circa 270 miliardi di euro sfuggono al fisco ogni anno. Lì dentro c’è di tutto: dal “nero” di cittadini e aziende alle fughe di capitali nei paradisi fiscali, dall’artigiano che non paga l’Iva “per sfamarsi” all’immobiliarista che scoppia di soldi ma non ne ha mai abbastanza. «Abbiamo compassione per il primo e ci fa incazzare il secondo», scrive Paolo Barnard, che però avverte: «Se guardiamo alla realtà contabile dell’evasione fiscale con occhi fermi e non isterici, e se invece di gridare contro l’evasione proviamo ad ascoltarla, allora tutto cambia». Cosa fa chi evade? «Si tiene dei soldi, così non li incassa lo Stato». E cosa fa con quei soldi? «Li spende, o li investe in risparmi». In ogni caso, spese e investimenti contribuiscono all’economia. E Barnard, che considera “illegale” la super-tassazione imposta dall’Eurozona, denuncia la corrente mistificazione sulle tasse. E sostiene che l’evasione, che certo discrimina i “pagatori” virtuosi rispetto agli evasori, non può comunque avere sulle casse statali l’impatto che viene comunemente evocato.
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Italia vicina al collasso voluto dall’Ue, e la casta obbedisce
Svalutazione interna del 10%, vale a dire: l’Italia deve “costare” meno. Meno soldi per salari, pensioni e servizi, mettendo mano alle “riforme strutturali” neoliberiste invocate da Mario Monti e ora sul tavolo di Letta, Alfano e Saccomanni, cioè la “squadra” messa insieme da Napolitano. E’ la drammatica “ricetta” avanzata dall’élite finanziaria mondiale per tramite del famigerato Fmi, che nella settimana della crisi-burla ha recapitato a Roma un dossier di 300 pagine in cui il braccio armato della Troika disegna l’imminente fallimento del nostro paese, prenotandone la resa: cessione dello Stato a prezzi di realizzo, smantellamento di quel che resta del welfare, ulteriore compressione degli stipendi. Il rapporto rivela che il saldo della nostra bilancia dei pagamenti è migliorato solo “per disgrazia ricevuta”: spendiamo meno per le importazioni perché stanno franando i consumi sotto la scure dell’austerità, mentre le aziende chiudono e il 25% dei giovanissimi vive in famiglie che non sanno più come arrivare alla fine del mese.