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Giulietto Chiesa: complici dei criminali che sventolano diritti
In una intervista su “The Times of Israel” dello scorso ottobre, il capo del Mossad, Yossi Cohen, ha dichiarato: l’assassinio del generale Soleimani non è impossibile. Il vero motore dell’attacco all’Iran è proprio Israele, nella persona del primo ministro Netanyahu e della sua politica di questi anni. Insieme a Ntanyahu e Israele c’è una potente lobby ebraica sionista, che controlla una buona metà del Senato degli Stati Uniti e della Camera dei Rappresentanti. Sono calcoli forniti da autorevoli esperti. Questa lobby è quindi in grado di determinare anche il destino di Donald Trump. Non dimentichiamo che il senatore repubblicano Lindsay Graham ha detto esplicitamente e pubblicamente che, se ci fosse una decisione di Trump di ritirare le sue truppe dal Medio Oriente, non potrebbe garantire che una importante quota dei parlamentari repubblicani non possa votare a favore dell’impechment. Quindi a Trump è stato detto con tutta chiarezza: o procedi sulla linea che ti viene dettata, da Israele e dagli amici americani di Israele, oppure noi ti facciamo perdere l’impeachment e facciamo saltare la tua rielezione a presidente degli Stati Uniti. Per Trump questo è un colpo drammatico: per il suo destino. E non credo che riuscirà a recuperare, perché comunque sarà sotto accusa da ogni parte.Trump ha perduto nettamente tutto il Medio Oriente: non solo gli sciiti, che ormai si sono compattati interamente. Il problema è che anche una parte dei sunniti non potrà reggere a questa situazione: in caso di aggravamento della situazione, anche forze sunnite importanti del Golfo Persico possono sentirsi minacciate. Cinque importanti rappresentanti governativi del Qatar hanno chiesto il passaporto di Malta. Molte cose si stanno muovendo, nel campo islamico. Il Parlamento iracheno ha chiesto l’uscita delle truppe americane dal paese, e il problema non verrà risolto se non con l’uscita delle truppe. Trump nel frattempo sta già cercando di non parlare più dell’accaduto, come se non fosse successo nulla: è chiaro che il presidente americano è in piena ritirata, ma non credo che potrà rititarsi. L’atto è stato compiuto, e i rapporti politici, emotivi e istituzionali sono profondamente cambiati. Credo che la questione non si chiuda adesso, non c’è neanche da pensarci. Non credo che l’Iran farà azioni di grande portata. Credo invece che Trump dovrà cercare di tenere a freno la situazione, e mi auguro che gli europei siano in grado di capirlo: perché se le forze che vogliono la guerra (che non sono l’Iran) non saranno fermate dagli Stati Uniti, da Trump, dagli europei, io credo che andremo incontro a una crisi di proporzioni gigantesche.Non sottovalutiamo questa situazione: è in mano a veri e propri irresponsabili e criminali. Sono convinto che ci saranno dei gravi avvenimenti, nell’immediato futuro. Un punto importante è il ruolo della Russia: Putin è andato a Damasco a parlare con Assad, poi ad Ankara per inaugurare con Erdogan il Turkish Stream. Cioè, Putin sta dicendo che la Russia è in Medio Oriente, proprio nel momento in cui l’America viene invitata ad andarsene. Io credo che il destino della pace, in questo momento, sia in gran parte nelle mani della Russia e della Cina. Ritengo che la Russia dovrebbe dire, esplicitamente, che non accetterà in nessun modo un attacco contro l’Iran. Dovrebbe dirlo ora, perché ci sono forze che a questo attacco stanno pensando. Farebbe capire a tutti che oggi la pace è sotto il controllo della Russia e della Cina. I primi a sapere di poter sfidare militarmente gli Usa sono proprio i dirigenti iraniani. Nello stesso tempo, l’Iran è troppo forte per essere considerato un paese sconfiggibile: l’Iran non può vincere, ovviamente, ma non può neppure essere sconfitto. O meglio: potrebbe essere sconfitto solo con una gigantesca catastrofe internazionale, mondiale, nella quale noi europei saremmo coinvolti.Le cifre parlano chiaro: dallo Stretto di Hormuz passa il 22% del petrolio che è necessario alla vita quotidiana dell’intera Europa. Se attaccato, l’Iran può impedire l’uscita di quel petrolio, che è vitale anche per la Cina. Gli Stati Uniti, per quanto forti, sono in grado di imporre una catastrofe economica che si abbattesse sull’Europa e sulla Cina? Ne dubito. E quindi, la questione dovrebbe essere sul tavolo di tutti i paesi europei. Bisognerebbe riuscire a stabilire che gli interessi dell’Europa non coincidono più con quelli di un’America che non rispetta più le regole della convivenza internazionale. In qualche misura, bisogna che l’Europa agisca ora. Riteniamo che non succederà niente? Questa è una visione inaccettabile, di una miopia e di una stupidità assoluta, perché il mondo non è più quello di 25 anni fa: non capirlo, significa esporsi a gravi pericoli. Quindi, l’Europa e l’Italia dovrebbero essere capaci di dire agli americani: noi non vi seguiremo, non siamo d’accordo di andare a una rottura con l’Iran, bisogna ricucire. Se non siamo capaci di dire almeno questo, ci rendiamo complici dell’assurda pretesa di consegnare il pianeta a un gruppo di irresponsabili.Un giurista come Ugo Mattei dice che i diritti umani, insieme al diritto internazionale, sono stati usati essenzialmente come foglia di fico per il nostro colonialismo? Direi così: le foglie di fico servono per governare e ingannare le masse. Ma ci sono momenti in cui, se queste foglie di fico te le togli di dosso, le masse non saranno più governabili. Questo è il vero problema che sta di fronte a questa crisi, in Iran: quando vedi l’immensa partecipazione popolare ai funerali di Soleimani, e quando vedi piangere i due leader del paese, l’ayatollah Khamenei e il presidente Rohani – se li vedi piangere, di fronte al loro popolo che piange – tu non puoi ignorare che la foglia di fico è stata tolta, brutalmente. Conosciamo la durezza della realpolitik, e abbiamo avuto dirigenti che hanno corso il pericolo di essere uccisi – e sono stati uccisi (come Enrico Mattei) perché hanno avuto di coraggio e dire e fare quello che andava detto e fatto. I nostri politici devono fare il nostro interesse nazionale. Non si può esporre il nostro popolo a un rischio così grave, senza avere il coraggio di dire – nel modo giusto – che non si è d’accordo. Bisogna capire il momento. De Gaulle e altri grandi leader europei hanno saputo dire dei “no”, in certi momenti. Lo stesso Craxi pagò un caro prezzo per il suo “no” a Sigonella. Oggi però non abbiamo più un dirigente capace di dire, con garbo e fermezza: noi non siamo d’accordo. Non è giusto, e non lo faremo: perché è contro l’interesse del popolo italiano. Ci sarà qualcuno capace di dire almeno questo?(Giulietto Chiesa, dichiarazioni rilasciate l’8 gennaio 2020 alla trasmissione web-streaming su YouTube “Speciale #TgTalk”, condotta su “ByoBlu” da Claudio Messora e Francesco Toscano).In una intervista su “The Times of Israel” dello scorso ottobre, il capo del Mossad, Yossi Cohen, ha dichiarato: l’assassinio del generale Soleimani non è impossibile. Il vero motore dell’attacco all’Iran è proprio Israele, nella persona del primo ministro Netanyahu e della sua politica di questi anni. Insieme a Ntanyahu e Israele c’è una potente lobby ebraica sionista, che controlla una buona metà del Senato degli Stati Uniti e della Camera dei Rappresentanti. Sono calcoli forniti da autorevoli esperti. Questa lobby è quindi in grado di determinare anche il destino di Donald Trump. Non dimentichiamo che il senatore repubblicano Lindsay Graham ha detto esplicitamente e pubblicamente che, se ci fosse una decisione di Trump di ritirare le sue truppe dal Medio Oriente, non potrebbe garantire che una importante quota dei parlamentari repubblicani non possa votare a favore dell’impechment. Quindi a Trump è stato detto con tutta chiarezza: o procedi sulla linea che ti viene dettata, da Israele e dagli amici americani di Israele, oppure noi ti facciamo perdere l’impeachment e facciamo saltare la tua rielezione a presidente degli Stati Uniti. Per Trump questo è un colpo drammatico: per il suo destino. E non credo che riuscirà a recuperare, perché comunque sarà sotto accusa da ogni parte.
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Israele, guerra e Pil: e i palestinesi diventano schiavi inutili
Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.A sdoganare un linguaggio più che esplicito sono alcuni esponenti dell’establishment di Tel Aviv, come la parlamentare Ayelet Shaked, quella che durante l’ultimo assedio di Gaza esortò a colpire «tutto il popolo palestinese, inclusi gli anziani e le donne, le loro città e i loro villaggi, i loro beni e infrattutture». Anche le donne, colpevoli di allevare «serpenti». Su “The Times of Israel”, Yonahan Gordan spiega «quando si approva un genocidio», e argomenta: «Che altro modo c’è allora per affrontare un nemico di questa natura che non sia lo sterminio completo?». Il vicepresidente del Parlamento israeliano, Moshe Feiglin, membro del partito Likud di Netanyahu, sollecita l’esercito israeliano a uccidere indiscriminatamente i palestinesi di Gaza e a utilizzare ogni possibile mezzo per farli andar via: «Il Sinai non è lontano da Gaza e possono andarsene, questo sarà il limite dello sforzo umanitario di Israele». Questi appelli alla pulizia etnica e al genocidio stanno crescendo di frequenza, scrive Robinson nella sua analisi, ripresa da “Come Don Chisciotte”.Il clima politico in Israele ha continuato a spostarsi a destra: «Quasi la metà della popolazione ebrea di Israele appoggia una politica di pulizia etnica dei palestinesi», scrive Robinson. Secondo un sondaggio del 2012, «la maggioranza della popolazione appoggia la completa annessione dei Territori Occupati e l’istituzione di uno stato di apartheid». Il timore di una crescita del fascismo in Israele ha portato 327 sopravissuti, discendenti di sopravissuti e vittime del genocidio ebreo perpetrato dai nazisti, a pubblicare una lettera aperta sul “New York Times” del 25 agosto che esprimeva allarme per «la estrema disumanizzazione razzista dei palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto un picco febbrile». La carta continuava: «Dobbiamo alzare la nostra voce collettiva e usare il nostro potere collettivo per porre fine a tutte le forme di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo palestinese». Il problema, aggiunge Robinson, è che lo stesso progetto sionista può essere letto come basato sul genocidio della pulizia etnica: testualmente, l’articolo 2 della convenzione dell’Onu del 1948 definisce il genocidio come “azioni commesse con l’intenzione di distruggere totalmente o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.La drammatica escalation degli ultimi anni, rivela Robinson, ha origini economiche: è la globalizzazione a rendere ormai “superflui” i lavoratori palestinesi, ridotti allo status di “umanità eccedente”. «La rapida globalizzazione di Israele a partire dalla fine degli anni ‘80 coincise con le due Intifada (proteste) palestinesi e con gli accordi di Oslo, negoziati dal 1991 al ‘93 e che naufragarono negli anni seguenti». A premere per gli accordi di pace, i poteri forti finanziari: i focolai geopolitici della guerra fredda avevano ostacolato l’accumulazione di capitali e occorreva “stabilizzare” il Medio Oriente. «Il processo di Oslo – spiega Robinson – si può vedere come un pezzo chiave nel puzzle politico provocato dall’integrazione del Medio Oriente nel sistema capitalista globale emergente», il contesto nel quale poi si inserirà la stessa “primavera araba”. Gli accordi di Oslo, naturalmente, rimasero lettera morta: avevano promesso ai palestinesi una soluzione definitiva entro 5 anni, con uno statuto per i rifugiati e il loro diritto al ritorno in Palestina, una definizione delle frontiere e della gestione dell’acqua, nonché la ritirata di Israele dai Territori Occupati. Durante il periodo di Oslo, cioè tra il 1991 e il 2003, «l’occupazione israeliana della Cisgiordania e Gaza si intensificò smisuratamente».Perché fallì il processo di pace? Prima di tutto, perché «non era destinato a risolvere la difficile situazione dei palestinesi espropriati, ma a integrare una dirigenza emergente palestinese nel nuovo ordine mondiale e a dare a questa dirigenza una partecipazione nella difesa di quest’ordine, in modo che assumesse un ruolo nella vigilanza interna delle masse palestinesi nei Territori Occupati». C’è anche un profilo finanziario: l’Anp creata a Oslo doveva servire a integrare il capitale palestinese con quello dell’area del Golfo. E si sperava che l’Anp «servisse per mediare nell’accumulazione di capitali transnazionali nei Territori Occupati, mantenendo il controllo sociale sulla popolazione inquieta». Nel frattempo, la nuova economia israeliana – il complesso militare e di sicurezza, altamente tecnologico – si andava integrando col capitale corporativo transnazionale di Usa, Europa e Asia, proiettando l’economia israeliana anche nelle reti economiche regionali (Egitto, Turchia e Giordania). Infine, in quel periodo Israele «visse un episodio di grande immigrazione transnazionale, tra cui l’afflusso di circa un milione di immigrati ebrei, che indebolì la necessità di Israele di manodopera palestinese durante gli anni ‘90».«Fino a che la globalizzazione non prese vita, verso la metà degli anni ‘80, la relazione di Israele coi palestinesi rifletteva il classico colonialismo, nel quale il potere coloniale aveva usurpato la terra e le risorse dei colonizzati per poi farli lavorare, sfruttandoli», scrive il professor Robinson. «Però l’integrazione del Medio Oriente nell’economia globale e la società basata sulla ristrutturazione economica neoliberale, inclusa la ben conosciuta litania di misure quali la privatizzazione, la liberalizzazione del commercio, la supervisione del Fondo Monetario Internazionale sull’austerità e i prestiti della Banca Mondiale, aiutò a provocare la propagazione di pressioni da parte delle masse di lavoratori e dei movimenti sociali e la democratizzazione delle basi, che si riflette nelle Intifada palestinesi, il movimento operaio attraverso il Nordafrica e il malessere sociale, che si resero più visibili nelle rivolte arabe del 2011. Questa onda di resistenza forzò una reazione da parte dei governanti israeliani e dei loro alleati statunitensi».Integrandosi nel capitalismo globale, continua Robinson, l’economia israeliana visse due grandi ondate di ristrutturazione. La prima, negli anni ‘80 e ‘90, fu una transizione dall’economia tradizionale (agricoltura e industria) verso un nuovo modello basato sull’informatica: Tel Aviv e Haifa divennero le Silicon Valley del Medio Oriente, e nel 2000 il 15% del Pil di Israele e il 50% dell’export avevano origine dal settore dell’alta tecnologia. «Poi, dal 2001 in poi, e soprattutto sulla scia del disastro delle dot-com del 2000, che coinvolse imprese che commerciavano in Internet, e della recessione a livello globale, secondariamente per gli accadimenti del 11 Settembre 2001 e la rapida militarizzazione della politica mondiale, si produsse in Israele un altro spasmo volto a supportare un “complesso globale di tecnologie militari, di sicurezza, di spionaggio e di vigilanza contro il terrorismo”». Israele è divenuto la patria di imprese tecnologiche, pioniere della cosiddetta “industria della sicurezza”. «Di fatto, l’economia di Israele si è globalizzata specificamente attraverso l’alta tecnologia militare: gli istituti di esportazione israeliani stimano che nel 2007 c’erano circa 350 imprese transnazionali israeliane dedite ai sistemi di sicurezza, di spionaggio e controllo sociale, che si situarono nel centro della nuova politica economica israeliana».Le esportazioni israeliane di prodotti e servizi collegati alla “lotta al terrorismo” aumentarono del 15% nel 2006 e si prevedeva che sarebbero cresciute del 20% nel 2007, per un valore di 1,2 miliardi di dollari all’anno, secondo Naomi Klein. Questa crescita esplosiva «fa di Israele il quarto trafficante d’armi del mondo, davanti al Regno Unito». Numeri: Israele ha più azioni tecnologiche quotate al Nasdaq (molte collegate all’industria della sicurezza) che ogni altro paese straniero, e ha più brevetti hi-tech registrati negli Usa di quanti ne abbiano Cina e India messe insieme. Oggi, il 60% delle esportazioni israeliane è collegato alla tecnologia, specie nell’industria della sicurezza. In altre parole, sintetizza Robinson, «l’economia israeliana si è alimentata della violenza locale, regionale e mondiale, dei conflitti e delle disuguaglianze». Le sue principali imprese? «Hanno finito per dipendere dal conflitto». La guerra in Palestina, nel Medio Oriente e in tutto il mondo, è ormai un business che influenza l’intero sistema politico dello Stato israeliano.«Questa accumulazione militare è caratteristica anche degli Usa e di tutta l’economia mondiale globalizzata», annotra Robinson. «Viviamo sempre più in un’economia da guerra mondiale e certi stati, come Usa e Israele, sono ingranaggi chiave di questa macchina. L’accumulazione militarista per controllare e contenere gli oppressi e gli emarginati e per sostenere l’accumulazione nella crisi si prestano a tendenze politiche fasciste o a quello che noi abbiamo definito “il fascismo del XXI secolo”». Questo cambia (in peggio) la sorte della popolazione palestinese, che fino agli anni ‘90 era «una forza lavoro a basso costo per Israele». E’ stata soppiantata innanzitutto dal milione di nuovi arrivi dall’Est Europa, dopo il collasso dell’Urss, che hanno incrementato gli insediamenti coloniali: ebrei sovietici, a loro volta «resi profughi dalla ristrutturazione neoliberale post-sovietica». In più, l’economia israeliana cominciò ad attirare manodopera dall’Africa e dall’Asia, «dato che il neoliberismo produsse crisi con milioni di profughi dalle vecchie regioni del Terzo Mondo».Insieme alla recessione, la nuova mobilità lavorativa transnazionale ha permesso all’élite finanziaria mondiale «la riorganizzazione dei mercati del lavoro e il reclutamento di forze lavoro transitorie, private dei loro diritti e facili da controllare». Un’opzione «particolarmente attraente per Israele, dato che elimina la necessità di manodopera palestinese politicamente problematica». Oltre 300.000 lavoratori immigrati – provenienti da Thailandia, Cina, Nepal e Sri Lanka – ora costituiscono la forza lavoro predominante nell’agroalimentare di Israele, così come la manodopera messicana e centroamericana lo è nell’agroalimentare statunitense, nella stessa condizione precaria di super-sfruttamento e discriminazione. «Il razzismo che molti israeliani hanno mostrato nei confronti dei palestinesi (esso stesso prodotto del sistema di relazioni coloniale) ora si è tramutato in una crescente ostilità verso gli immigrati in generale», osserva Robison, «man mano che il paese si tramuta in una società totalmente razzista».E dato che l’immigrazione globale ha eliminato la necessità di Israele di avere manodopera a basso costo palestinese, quest’ultima si è convertita in una popolazione marginale eccedente. «Prima dell’arrivo dei rifugiati sovietici – scrive Naomi Klein – Israele non poteva neanche per un momento prescindere dalla popolazione palestinese di Gaza o della Cisgiordania; la sua economia non avrebbe potuto sopravvivere senza la mano d’opera palestinese». All’epoca, «circa 130.000 palestinesi abbandonavano le loro case a Gaza e in Cisgiordania ogni giorno e andavano in Israele per pulire le vie e costruire le strade, mentre gli agricoltori e i commercianti palestinesi riempivano camion di mercanzia e le vendevano in Israele e in altre parti dei Territori». Poi, in vista della grande trasformazione strutturale dell’economia israeliana, già nel ‘93 – anno della firma degli accordi Oslo – Tel Aviv inaugurò la politica di chiusura: palestinesi confinati dei Territori Occupati, pulizia etnica e forte aumento degli insediamenti ebraici. Istantaneo il crollo del reddito palestinese, di almeno il 30%, fino al bilancio del 2007, con disoccupazione e povertà al 70%.«Dal ‘93 al 2000, che si pensava dovessero essere gli anni nei quali veniva realizzato l’accordo di “pace” che esigeva la fine dell’occupazione israeliana e lo stabilirsi di uno Stato palestinese – scrive Robinson – i coloni israeliani in Cisgiordania raddoppiarono, arrivando a 400.000, poi a 500.000 nel 2009 e continuarono aumentando. La denutrizione a Gaza è agli stessi livelli di alcune delle nazioni più povere del mondo, con più della metà delle famiglie palestinesi che assumono un solo pasto al giorno. Mano a mano che i palestinesi venivano espulsi dall’economia di Israele, le politiche di chiusura e l’incremento dell’occupazione distrussero a loro volta l’economia palestinese». Il collasso degli accordi di Oslo, insieme a quella che Robinson chiama «la farsa delle negoziazioni di “pace” in corso, nel mezzo di un’occupazione israeliana sempre maggiore», può rappresentare un dilemma politico per i poteri forti transnazionali, che oggi vorrebbero «trovare meccanismi per lo sviluppo e l’assoggettamento dei ricchi palestinesi e dei gruppi capitalisti».In base alla logica perversa dell’élite, quella «del capitale militarizzato, incrostato nell’economia israeliana e internazionale», l’attuale situazione è eccellente: «E’ un’opportunità d’oro per espandere l’accumulazione di capitale per lo sviluppo e la commercializzazione di armi e di sistemi di sicurezza in tutto il mondo, attraverso l’uso dell’occupazione e della popolazione palestinese in cattività come obiettivi d’attacco e prova sul terreno». E’ questa élite affaristica e tecnologico-militare a condizionare oggi la politica di Israele. «La rapida espansione economica per l’alta tecnologia della sicurezza creò un forte desiderio nei settori ricchi e potenti di Israele di abbandonare la pace a favore di una lotta per la continua espansione della “guerra al terrore”», ricorda la Klein. Comodissimo, quindi, il conflitto coi palestinesi: non già come «battaglia contro un movimento nazionalista con mete specifiche al riguardo della terra e dei diritti», ma come «parte della guerra globale al terrorismo, come se fosse una guerra contro forze fanatiche e illogiche basate esclusivamente su obiettivi di distruzione».Israele sa che la pace non rende, scrisse su “Haaretz” nel 2009 Amira Hass, una delle poche voci critiche coraggiose nei media israeliani. L’industria della sicurezza? Fondamentale, per l’export: armi e munizioni si provano tutti i giorni a Gaza e in Cisgiordania. La protezione degli insediamenti? «Richiede uno sviluppo costante della sicurezza, la vigilanza e la dissuasione con strumenti come barriere, fili spinati, videocamere di vigilanza elettroniche e robot». Questi dispositivi «sono l’avanguardia della sicurezza nel mondo sviluppato e servono per le banche, le imprese e i quartieri di lusso a lato dei quartieri malfamati e delle enclavi etniche dove bisogna reprimere le ribellioni». Oggi, i palestinesi “rendono” ancora in un solo modo: come cavie, come bersagli. E se “la pace non rende”, si può immaginare chi investa sulla guerra, il grande business dell’Occidente sfinito dalla crisi e dominato dall’oligarchia globalista, di cui fa parte pienamente anche l’élite israeliana. Quella che ha strappato ai palestinesi le loro terra, ne ha fatto strage (pulizia etnica), ha sfruttato a lungo i superstiti, ma ora li considera “umanità eccedente”, sgradevole, da eliminare in ogni modo. Non c’è più posto, per loro: si accomodino pure sul Sinai, nel deserto.Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.