Archivio del Tag ‘Tory’
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Vietato svelare la verità: con Assange muore il giornalismo
La data – 11 aprile 2019 – vivrà nell’infamia negli annali dei “valori” occidentali e della “libertà di espressione”. L’immagine è desolata. Un giornalista ed editore ammanettato è stato trascinato fuori con la forza dall’interno di un’ambasciata, mentre stringeva un libro di Gore Vidal sulla storia dello Stato di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Il meccanismo è brutale. Il co-fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, è stato arrestato perché gli Stati Uniti lo pretendevano dal governo britannico dei Tory, che per parte sua ha sostenuto di non aver fatto pressione sull’Ecuador per revocare l’asilo ad Assange. Gli Stati Uniti cancellano magicamente i problemi finanziari dell’Ecuador, ordinando al Fmi di rilasciare un provvidenziale prestito di 4,2 miliardi di dollari. Subito dopo, i diplomatici ecuadoriani “invitano” la polizia metropolitana di Londra a entrare nella loro ambasciata per arrestare il loro ospite di lungo termine. Andiamo al sodo. Julian Assange non è un cittadino statunitense, bensì australiano. WikiLeaks non è un’organizzazione di media basata negli Stati Uniti. Se il governo Usa dovesse ottenere che Assange sia estradato, processato e incarcerato, legittimerebbe il suo diritto di perseguire chiunque, comunque, ovunque, in qualsiasi momento. Chiamatelo l’Uccisione del Giornalismo.Il caso del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (Doj) contro Assange è fragile, nel migliore dei casi. Tutto ha a che fare essenzialmente con la pubblicazione di informazioni classificate nel 2010: 90mila file militari in Afghanistan, 400mila file sull’Iraq e 250mila cablogrammi diplomatici diffusi su gran parte del pianeta. Assange è accusato di aver aiutato Chelsea Manning, l’ex analista dell’intelligence statunitense, ad ottenere questi documenti. Ma la faccenda diventa più complicata. È anche presumibilmente colpevole di “incoraggiare” Manning a raccogliere più informazioni. Non c’è altro modo di interpretarla. Ciò equivale, senza più alcuna esclusione di colpi, alla criminalizzazione totale della pratica giornalistica. Per il momento, Assange è accusato di “cospirazione volta a commettere intrusioni informatiche”. L’accusa sostiene che Assange ha aiutato Manning a decifrare una password memorizzata sui computer del Pentagono collegati al Secret Internet Protocol Network (SiprNet). Nei registri delle chat del marzo 2010 ottenuti dal governo Usa, Manning parla con qualcuno chiamato alternativamente “Ox” e “associazione di stampa”. Il Doj è convinto che questo interlocutore sia Assange. Ma devono dimostrarlo definitivamente.Manning e questa persona, presumibilmente Assange, si sono impegnati in “discussioni”. «Durante uno scambio, Manning disse ad Assange che ‘dopo questo upload, è tutto quello che mi è rimasto’. Al che Assange rispose: ‘degli occhi curiosi non sono mai rimasti all’asciutto nel corso della mia esperienza’». Tutto questo non regge. I grandi media privati statunitensi pubblicano regolarmente fughe illegali di informazioni classificate. Manning offrì i documenti che aveva già scaricato sia al “New York Times” che al “Washington Post” – e fu respinto. Solo allora si avvicinò a Wikileaks. L’accusa secondo cui Assange abbia cercato di aiutare a decifrare la password di un computer è in giro dal 2010. Il Dipartimento di Giustizia sotto Obama ha rifiutato di avallarla, consapevole di ciò che significherebbe in termini di potenziale messa al bando del giornalismo investigativo. Non c’è da stupirsi che i media privati statunitensi, spogliati di uno scoop della massima importanza, abbiano successivamente iniziato a denunciare WikiLeaks come agente russo.Il grande Daniel “Pentagon Papers” Ellsberg aveva già avvertito nel 2017: «Obama ha aperto la campagna legale contro la stampa andando alle radici dei rapporti investigativi sulla sicurezza nazionale – le fonti – e Trump andrà dietro agli stessi raccoglitori/giardinieri (e i loro capi, gli editori). Per cambiare metafora, un’accusa ad Assange è il “primo uso” dell’opzione nucleare contro la protezione che il Primo Emendamento assicura alla stampa libera». Le attuali accuse del Dipartimento di Giustizia – essenzialmente il furto di una password del computer – sono appena l’inizio della valanga. Almeno per ora, la pubblicazione non è un crimine. Eppure, qualora sia estradato, Assange potrebbe essere accusato anche di ulteriori cospirazioni e persino della violazione della Legge sullo Spionaggio del 1917. Quantunque debba ancora chiedere il consenso di Londra per avanzare ulteriori accuse, al Dipartimento di Giustizia non mancano gli avvocati in grado di applicare sofismi per evocare un crimine dal nulla.Jennifer Robinson, l’abilissimo avvocato di Assange, ha giustamente sottolineato che il suo arresto è «un problema di libertà di parola» perché «riguarda i modi in cui i giornalisti possono comunicare con le loro fonti». L’inestimabile Ray McGovern, che conosce una o due cose sulla comunità di spionaggio degli Stati Uniti, ha evocato un requiem del quarto potere. Il contesto completo dell’arresto di Assange viene alla luce una volta esaminato che risulta conseguente al fatto che Chelsea Manning ha trascorso un mese in isolamento in una prigione della Virginia per aver rifiutato di denunciare Assange di fronte a un gran giurì. Non c’è dubbio che la tattica del Dipartimento di Giustizia sia quella di spezzare Manning con ogni mezzo disponibile. Ecco cosa dice la squadra legale di Manning: «L’atto d’accusa contro Julian Assange, dissigillato oggi, è stato ottenuto un anno prima che Chelsea comparisse davanti al Gran Giurì e si fosse rifiutato di rendere testimonianza. Il fatto che questa incriminazione sia esistita da oltre un anno sottolinea quanto la squadra legale di Chelsea e la stessa Chelsea hanno detto da quando è stata emessa una citazione per comparire di fronte ad un Gran Giurì federale nel distretto orientale della Virginia: che convincere Chelsea a testimoniare avrebbe duplicato le prove già in possesso del Gran Giurì e questo non era necessario affinché gli avvocati statunitensi ottenessero un’accusa contro Assange.»La palla è ora presso un tribunale del Regno Unito. Assange rimarrà indubbiamente in prigione per alcuni mesi per evitare la cauzione mentre procede l’estradizione secondo il dossier statunitense. Il Dipartimento di Giustizia ha verosimilmente discusso con Londra su come un giudice “adatto” possa fornire il risultato desiderato. Assange è un editore. Di suo non ha fatto trapelare assolutamente nulla. Anche il “New York Times” e il “Guardian” hanno pubblicato ciò che Manning aveva scoperto. “Collateral Murder”, tra le decine di migliaia di prove, dovrebbe essere sempre in prima linea nell’intera discussione: si tratta di crimini di guerra commessi in Afghanistan e in Iraq. Quindi non c’è da meravigliarsi che lo Stato Profondo americano non perdonerà mai Manning e Assange, benché il “New York Times”, in un altro lampante esempio di due pesi e due misure, potrebbe ottenere un lasciapassare. Il dramma alla fine avrà bisogno di essere chiuso nell’Eastern District della Virginia perché la sicurezza nazionale e l’apparato dell’intelligence hanno lavorato per anni a questa sceneggiatura, a tempo pieno.In qualità di direttore della Cia, Mike Pompeo è andato dritto al punto: «È tempo di chiamare Wikileaks per quello che è realmente: un servizio di intelligence ostile non statale spesso favorito da attori statali come la Russia». Quel che di fatto equivale a una dichiarazione di guerra sottolinea quanto in realtà sia pericoloso Wikileaks, per il solo fatto di aver praticato del giornalismo investigativo. Le attuali accuse del Dipartimento di Giustizia non hanno assolutamente nulla a che fare con l’ormai demistificato Russiagate. Ma aspettatevi che il successivo calcio politico sia roboante. Il campo di Trump al momento è diviso. Assange è sia un eroe pop che combatte contro la palude dello Stato Profondo, sia un umile scagnozzo del Cremlino. Allo stesso tempo, Joe Manchin, un senatore democratico del Sud, gioisce, stando agli atti, come un proprietario di una piantagione del diciannovesimo secolo, sul fatto che Assange sia ora “nostra proprietà”. La strategia democratica sarà quella di usare Assange per arrivare a Trump. E poi c’è l’Unione Europea, di cui alla fine la Gran Bretagna potrebbe non far parte, più tardi piuttosto che più presto. L’Unione Europea sarà molto vigile sul fatto che Assange venga estradato nell’“America di Trump”, poiché lo Stato Profondo si assicura che i giornalisti di tutto il mondo abbiano effettivamente il diritto: di rimanere sempre in silenzio.(Pepe Escobar, “Hai il diritto di rimanere sempre in silenzio”, da “Asia Times” del 13 aprile 2019; articolo tradotto da Costantino Ceoldo per “Megachip”).La data – 11 aprile 2019 – vivrà nell’infamia negli annali dei “valori” occidentali e della “libertà di espressione”. L’immagine è desolata. Un giornalista ed editore ammanettato è stato trascinato fuori con la forza dall’interno di un’ambasciata, mentre stringeva un libro di Gore Vidal sulla storia dello Stato di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Il meccanismo è brutale. Il co-fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, è stato arrestato perché gli Stati Uniti lo pretendevano dal governo britannico dei Tory, che per parte sua ha sostenuto di non aver fatto pressione sull’Ecuador per revocare l’asilo ad Assange. Gli Stati Uniti cancellano magicamente i problemi finanziari dell’Ecuador, ordinando al Fmi di rilasciare un provvidenziale prestito di 4,2 miliardi di dollari. Subito dopo, i diplomatici ecuadoriani “invitano” la polizia metropolitana di Londra a entrare nella loro ambasciata per arrestare il loro ospite di lungo termine. Andiamo al sodo. Julian Assange non è un cittadino statunitense, bensì australiano. WikiLeaks non è un’organizzazione di media basata negli Stati Uniti. Se il governo Usa dovesse ottenere che Assange sia estradato, processato e incarcerato, legittimerebbe il suo diritto di perseguire chiunque, comunque, ovunque, in qualsiasi momento. Chiamatelo l’Uccisione del Giornalismo.
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TJ Coles: milioni di morti, il neoliberismo minaccia la Terra
Gli esseri umani sono creature complicate. Siamo sia cooperativi che settari. Tendiamo a essere cooperativi all’interno di gruppi (ad es. un sindacato) mentre competiamo con gruppi esterni (ad esempio, una confederazione di imprese). Ma società complesse come la nostra ci costringono anche a cooperare con gruppi esterni – nei quartieri, nel lavoro e così via. Negli ecosistemi sociali, la selezione naturale favorisce la cooperazione. Inoltre, esiste una preferenza per i comportamenti etici, quindi la cooperazione e la condivisione sono qualità apprezzate nelle società umane. Ma cosa succede quando siamo obbligati da un sistema economico che ci vuole competitivi a tutti i livelli? Il risultato logico è il declino o il collasso della società. Ne “L’individuo nella società”, Ludwig von Mises, insegnante di Friedrich Hayek (il padre del moderno neoliberismo), scriveva che, nel contratto sociale, il datore di lavoro è alla mercé della folla. Ma in un’economia di mercato improntata all’utilitarismo, «il coordinamento delle azioni autonome di tutti gli individui scaturisce dal funzionamento del mercato». Quindi, in questo mondo fantastico, i datori di lavoro possono licenziare i lavoratori e sostituirli con quelli più economici senza incorrere nei costi sociali dei sistemi di contratto sociale.Questo tipo di pensiero ha iniziato a permeare la cultura dei pianificatori del “libero mercato” nei corsi di economia delle università di Ivy League, in particolare dopo gli anni ’70. Robert Simons della Harvard Business School nota come l’economia sia di gran lunga la disciplina accademica dominante negli Stati Uniti oggi, e che molti laureati trasferiscono questa ideologia dell’interesse personale acquisita all’università nella loro attività lavorativa di gestione patrimoniale, hedge fund, assicurazioni, credito e così via. Simons critica ciò che definisce «l’accettazione universale e indiscussa da parte degli economisti dell’interesse personale – degli azionisti, dei manager e dei dipendenti – come fondamento concettuale per la progettazione e la gestione aziendale». Simons nota che i lavoratori sono una classe utilitaristica, come lo sono i manager, nel senso che cercano di ottenere maggiori benefici. «Per rimediare a questa situazione potenzialmente catastrofica» dei diritti dei lavoratori, «gli economisti di mercato tentano di canalizzare comportamenti sbagliati usando la teoria dello stimolo-risposta», ossia attraverso una legislazione antisindacale, tagli ai servizi sociali e la minaccia dell’outsourcing. Gli economisti di mercato «hanno elevato l’interesse personale ad ideale normativo».Nel 1988 l’allora cancelliere Tory Nigel Lawson scrisse che negli anni ’70, «il capitalismo, basato sull’interesse personale, è ritenuto moralmente deplorevole» dalla maggioranza dei britannici. Ma altrettanto immorale per Lawson era l’intervento statale: «Non c’è nulla di particolarmente morale in un’azione governativa pesante», sosteneva (a meno che non si tratti di salvare le grandi imprese). Ma, fortunatamente per i Tories, «l’ondata ideologica è cambiata», consentendo loro di ritornare al governo e imporre ulteriori riforme neoliberiste. Forse l’aspetto peggiore del neoliberismo è il fatto di aver contagiato il partito laburista. Per fare alcuni esempi: un neoliberista statunitense, Lawrence Summers (in seguito il Segretario al Tesoro di Bill Clinton), fece da tutore al giovane Ed Balls, che presto sarebbe diventato il consigliere economico del futuro cancelliere britannico Gordon Brown. Quando era ancora un semplice deputato, Brown ebbe degli incontri con il presidente della Federal Reserve statunitense, Alan Greenspan. Ciò diede inizio nel Regno Unito a un periodo di ulteriore deregolamentazione finanziaria sotto l’egida del sedicente “New Labour”.Vi furono tuttavia economisti che, a metà degli anni 2000, poco prima del crack finanziario, iniziarono a vedere crepe nell’ideologia, e osservarono: «Vediamo nel pubblico un diffuso disagio riguardo le soluzioni di mercato. Il libero scambio e la globalizzazione, la privatizzazione della previdenza sociale e la deregolamentazione del mercato dell’energia suscitano l’opposizione di molti consumatori, a volte argomentata ma spesso inadeguata. Non è un caso che il sostegno alle soluzioni di mercato sia concentrato tra le classi di maggior successo economico, e l’opposizione tra chi ne ha meno. La libera scelta ha un fascino morale, ma l’aspetto morale è più forte quando non è mescolato all’interesse personale». Nel 2008 gli Stati Uniti, e quindi l’economia globale, sono entrate in crisi. Greenspan testimoniò alla Camera dei rappresentanti: «Ho commesso un errore nel ritenere che l’interesse personale delle organizzazioni, in particolare delle banche e di altri, fosse tale da essere in grado di proteggere i propri azionisti e le proprie società azionarie». Eppure interesse personale significa proprio interesse personale. Gli amministratori delegati e gli alti dirigenti non vedevano la necessità di onorare i loro presunti doveri verso i loro azionisti, per non parlare della popolazione in generale.Le conseguenze politiche di decenni di neoliberismo hanno portato all’espropriazione democratica, in particolare durante il periodo di espansione (dagli anni ’70 al 2008), segnato dal declino o stagnazione dell’affluenza elettorale e dall’affermarsi di politiche cosiddette estremiste all’indomani della crisi (dal 2009 a oggi). Ma l’ideologia è radicata nella classe dominante. Così, anche dopo l’inevitabile incidente del 2008, sia la Banca Centrale Europea che la Banca d’Inghilterra hanno continuato a portare avanti il neoliberismo imponendo austerità rispettivamente ai popoli europei e al Regno Unito. In questo contesto, le istituzioni finanziarie transnazionali predatorie traggono profitto dal caos. Il fallimento del gigante immobiliare Carillon ne è un esempio calzante. La società fu lasciata fallire e il suo declino avvantaggiò diversi hedge fund, compresi alcuni con sede negli Stati Uniti. Le conseguenze sociali del neoliberismo sono ancora più gravi. La classe media americana si è ristretta dagli anni ’70, poiché i singoli individui sono diventati o molto poveri o molto ricchi.Uno studio del Harvard Business Review ha rilevato che all’inizio degli anni ’80 almeno il 49% degli americani pensava che la qualità dei loro prodotti e servizi fosse diminuita negli ultimi anni. I tassi di suicidio maschile e femminile hanno continuato a salire a partire dalla metà degli anni ’90. Uno studio recente suggerisce che l’aspettativa di vita è scesa ovunque tra i paesi ad alto reddito. Nel Regno Unito, l’austerità guidata dai Tory ha causato oltre centomila morti in un decennio, secondo il BMJ. Le popolazioni dei paesi più fragili ne hanno risentito ancora di più. Tra il 1990 e il 2005, i paesi sub-sahariani i cui governi hanno chiesto prestiti di adeguamento strutturale al Fondo monetario internazionale e alla Banca di sviluppo africana hanno visto un incremento da 231 a 360 casi di decessi da parto per 100.000 nati vivi, rispettivamente. Secondo un altro rapporto del Bmj, nei paesi dell’America latina un incremento di solo l’1% della disoccupazione tra il 1981 e il 2010 si è tradotto in «significativi peggioramenti nei risultati di salute», tra cui un incremento di 1,14 decessi infantili su 1.000 nascite. Tutto questo equivale a un bollettino di guerra di milioni di morti.Come documentato altrove, le società più vulnerabili, vale a dire le comunità indigene dedite al mantenimento dei loro modi di vita tradizionali, si stanno letteralmente estinguendo man mano che la “civiltà” avanza. Se questo modello decennale continua imporsi in tutto il mondo, specialmente in nazioni con popolazioni massicce come l’India e la Cina che sempre più si stanno allineando a politiche neoliberiste, le attuali condizioni di divisione sociale ed infrastrutture fatiscenti sembreranno al confronto solo un minimo inconveniente, in particolare in contesto di sempre maggiore scarsità di risorse e cambiamenti climatici. Solo se il mutamento culturale contro il neoliberismo cui si assiste oggi, che viene espresso un po’ dappertutto dai movimenti sociali progressisti agli scioperi dei lavoratori, riuscirà a sopravvivere ed espandersi, allora si potrà immaginare un futuro più equo.(T.J. Coles, “Perché una società neoliberista non può sopravvivere”, analisi tradotta e pubblicata da “Voci dall’Estero” il 2 novembre 2018. Coles è ricercatore presso il Cognition Institute dell’Università di Plymouth e autore di svariati saggi sociologici e filosofici).Gli esseri umani sono creature complicate. Siamo sia cooperativi che settari. Tendiamo a essere cooperativi all’interno di gruppi (ad es. un sindacato) mentre competiamo con gruppi esterni (ad esempio, una confederazione di imprese). Ma società complesse come la nostra ci costringono anche a cooperare con gruppi esterni – nei quartieri, nel lavoro e così via. Negli ecosistemi sociali, la selezione naturale favorisce la cooperazione. Inoltre, esiste una preferenza per i comportamenti etici, quindi la cooperazione e la condivisione sono qualità apprezzate nelle società umane. Ma cosa succede quando siamo obbligati da un sistema economico che ci vuole competitivi a tutti i livelli? Il risultato logico è il declino o il collasso della società. Ne “L’individuo nella società”, Ludwig von Mises, insegnante di Friedrich Hayek (il padre del moderno neoliberismo), scriveva che, nel contratto sociale, il datore di lavoro è alla mercé della folla. Ma in un’economia di mercato improntata all’utilitarismo, «il coordinamento delle azioni autonome di tutti gli individui scaturisce dal funzionamento del mercato». Quindi, in questo mondo fantastico, i datori di lavoro possono licenziare i lavoratori e sostituirli con quelli più economici senza incorrere nei costi sociali dei sistemi di contratto sociale.
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Gli strateghi del Brexit hanno ingannato chi ha votato Brexit
Credo che una delle più grandi doti di un politico sia l’onestà intellettuale – incluso l’ammettere i propri errori, soprattutto quando si agiva o si pensava in buona fede. Coloro che hanno sostenuto Brexit, credendo nella favola della liberazione dai potenti, dovrebbero oggi cominciare a vedere cosa Brexit è davvero: un feroce attacco allo Stato sociale della nazione che ha “inventato” e meglio realizzato un modello unico di società, in cui le libertà individuali e le responsabilità dell’individuo verso la comunità sono state efficacemente coniugate, a partire dal grande lavoro di William Beveridge. Brexit non è altro che l’attacco al modello economico e sociale piú avanzato al mondo, perpetuato e favorito da governi conservatori che, mentre predicavano alle masse di agire nel loro interesse, e mentre continuavano a tagliare i servizi e le tutele ai cittadini, sono riusciti a triplicare il debito pubblico – creando proprio le condizioni per poter rivendicare oggi, e dopo Brexit, “l’unaffordability” del welfare system. Gli ultimi governi conservatori hanno fatto proprio questo: creare le condizioni economiche per poter giustificare ed imporre l’austerity, così come è avvenuto nella maggior parte degli altri Stati europei da dieci anni a questa parte.«Ma ora che c’è Brexit, ora che usciremo dall’Unione Europea, potremo investire i nostri soldi nel nostro welfare system e migliorare il nostro sistema sanitario pubblico, invece di darli ai greci», senti le cornacchie del Brexit gracchiare. Ma il modello politico, economico e sociale sotto attacco non è, cari amici inglesi, quello greco, ma il modello di Stato sociale che, sviluppatosi nel Regno Unito, è poi diventato patrimonio del popolo europeo. Attaccare l’economia greca vuol dire attaccare il welfare system britannico; vuol dire indirettamente screditare ogni modello di stato sociale. Peccato. Brexit avrebbe potuto rappresentare il rilancio del modello sociale ed economico social-liberale, in barba al neoliberismo e agli interessi economici privati che si sono impossessati della Ue. Ma così non è stato e, soprattutto, non doveva mai essere. Coloro che il Brexit lo hanno voluto avevano interessi e piani diametralmente opposti a quelli di coloro che il Brexit lo hanno votato.Brexit rappresenta l’attacco al social-liberalismo per imporre il modello sociale neoliberista ad un Regno Unito che, pur abbracciando il neoliberismo, aveva ancora una società ed una politica “resistenti”. Brexit rappresenta l’opportunitá per cannibalizzare e spolpare Londra (vedremo gli effetti della riforma di Osborne sulle tasse sulla seconda casa, e a chi gioverà). Brexit consente al governo britannico di proporre la totale deregulation. Consente al governo di proporre che Londra diventi un “tax heaven”. Consente a Theresa May di presentare un European Union Withdrawal Bill che sostanzialmente le darà il potere di fare tutte le leggi che vorrà (tranne alzare le tasse, of course) senza passare per il Parlamento. Brexit consente a Theresa May di annunciare che l’amico Donald Trump sarà disponibile a firmare un “trade deal” unico col Regno Unito, per garantigli prosperitá dopo Brexit. Peccato che la May voglia ricambiare il favore, mettendo il sistema sanitario pubblico sul piatto e regalando la sanità pubblica al capitale privato americano.E i 350 milioni a settimana, pubblicizzati durante la campagna del Brexit, che dovevano andare nelle casse dell’Nhs per dargli nuova prosperitá? Smentiti il giorno dopo il voto e, actually… in Kent sono stati privatizzati i primi studi di medici generici, oggi di proprietà di Virgin Health. A livello nazionale si è discusso della famosa “dementia tax” e di ridurre le tutele sanitarie a obesi e fumatori. Cosa prova tutto questo? Che non ci possiamo innamorare della propaganda senza contenuti. Non possiamo innamorarci del “come”. Perche Brexit era un “come”, era un mezzo. Peccato che, come già detto ma è bene ripetere, il fine di coloro che hanno ideato Brexit era diametralmente opposto a quello di coloro che Brexit lo hanno votato. Prima di discutere del “come”, discutiamo del “cosa” – cosa vogliamo fare per il futuro del Regno Unito, dell’Italia e dell’Europa. Una proposta social-liberale sullo scenario politico non c’è.In Italia i cosiddetti democratici e progressisti che hanno votato il Fiscal Compact, come coloro che propongono ancora di alzare le tasse, non sono una proposta credibile. E una proposta social-liberale (raccogliamo tutti l’invito di Carpeoro a riscoprire Olof Palme) non c’è da nessuna parte. Abbiamo urgente bisogno di una proposta politica adatta alle sfide del futuro. Se qualcosa manca, lavoriamo alla sua costruzione. Sviluppiamo noi, cittadini con idee, questa proposta politica il prima possibile. Ricordiamoci anche che oggi ci lamentiamo di Brexit, ma una vittoria del Remain avrebbe ulteriormente legittimato un modello di Unione Europea, senza sostanziale legittimazione politica e popolare, asservito agli interessi del sistema neoliberista. Ricordiamoci che coloro che volevano combattere il modello politico, sociale ed economico, antidemocratico, illiberale, antisociale e antiambientale neoliberista, a cui l’Unione Europea sembra asservita, avevano ragione a farlo – hanno solo sbagliato il “come”.(Marco Moiso, “Brexit e gli interessi diametralmente opposti di chi lo ha ideato e chi lo ha votato”, dal blog del Movimento Roosevelt del 21 luglio 2017).Credo che una delle più grandi doti di un politico sia l’onestà intellettuale – incluso l’ammettere i propri errori, soprattutto quando si agiva o si pensava in buona fede. Coloro che hanno sostenuto Brexit, credendo nella favola della liberazione dai potenti, dovrebbero oggi cominciare a vedere cosa Brexit è davvero: un feroce attacco allo Stato sociale della nazione che ha “inventato” e meglio realizzato un modello unico di società, in cui le libertà individuali e le responsabilità dell’individuo verso la comunità sono state efficacemente coniugate, a partire dal grande lavoro di William Beveridge. Brexit non è altro che l’attacco al modello economico e sociale piú avanzato al mondo, perpetuato e favorito da governi conservatori che, mentre predicavano alle masse di agire nel loro interesse, e mentre continuavano a tagliare i servizi e le tutele ai cittadini, sono riusciti a triplicare il debito pubblico – creando proprio le condizioni per poter rivendicare oggi, e dopo Brexit, “l’unaffordability” del welfare system. Gli ultimi governi conservatori hanno fatto proprio questo: creare le condizioni economiche per poter giustificare ed imporre l’austerity, così come è avvenuto nella maggior parte degli altri Stati europei da dieci anni a questa parte.
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Qe, truffa da record: soldi facili alle banche, solo per i ricchi
Sembra che l’enorme trasferimento di ricchezza verso i ricchi, durato circa un decennio e noto come ‘quantitative easing’, stia per volgere al termine. Delle quattro principali banche centrali del mondo – la Federal Reserve americana, la Bank of England, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone – due hanno già abbandonato la politica di acquisto di attività finanziarie (la Fed e la BoE), e la Bce intende smettere gli acquisti da dicembre. La Fed dovrebbe infatti iniziare a vendere nei prossimi due mesi i 3500 miliardi di dollari di titoli acquistati in tre cicli di Qe. Dal momento che – valutato alla luce degli obiettivi ufficiali – il Qe è stato un completo disastro, ciò appare perfettamente sensato. Grazie ad un’“iniezione” di denaro nell’economia, il Qe avrebbe dovuto portare le banche a prestare nuovamente, rilanciando gli investimenti e la crescita economica. In realtà, dopo l’introduzione del Qe il credito bancario totale nel Regno Unito è invece diminuito, e il credito a piccole e medie imprese – responsabili per il 60% dell’occupazione – è in caduta verticale.Come notato da Laith Khalaf, senior analyst presso Hargreaves Lansdown, «dopo la crisi finanziaria, le banche centrali hanno inondato l’economia globale con denaro a buon mercato, ma la crescita globale è tuttora in una situazione di stallo, in particolare in Europa ed in Giappone, dove sono state prese imponenti misure di stimolo per fronteggiare il problema». Persino “Forbes” ammette che il Qe ha «in gran parte fallito nel rivitalizzare la crescita economica». Ciò non sorprende, o quanto meno non dovrebbe. Il Qe era destinato fin dall’inizio a mancare i suoi obiettivi dichiarati, perché il motivo per cui le banche non finanziavano investimenti produttivi non era la carenza di denaro – al contrario, già nel 2013, molto prima degli ultimi cicli di Qe, le imprese inglesi disponevano di quasi 500 miliardi di riserve liquide – ma piuttosto perché l’economia globale si trovava (e si trova tuttora) in una profonda crisi di sovrapproduzione. In poche parole, i mercati erano (e sono) saturi, e non ha senso investire in un mercato saturo.Per questo motivo, tutto il nuovo denaro creato dal Qe ed “iniettato” nelle istituzioni finanziarie – come fondi pensione e compagnie d’assicurazione – non è stato poi investito nelle attività produttive, ma si è invece riversato nei mercati azionari ed immobiliari, gonfiando i prezzi delle azioni e degli immobili, senza generare nulla in termini di ricchezza reale o occupazione. I titolari di beni come azioni e immobili hanno tratto molti vantaggi dal Qe, che in Uk si stima abbia accresciuto la ricchezza del 5 percento più ricco mediamente di 128.000 sterline a testa. Com’è stato possibile? Da dove è venuta tutta questa nuova ricchezza? Dopo tutto, anche se il denaro – a dispetto degli slogan dei Tory – può essere effettivamente creato “dal nulla”, precisamente come è stato fatto col Qe, non è così per la ricchezza reale. Ed il Qe non ha prodotto ricchezza reale. Eppure, il 5% più ricco oggi dispone di 128.000 sterline extra da spendere in yacht, ville principesche, diamanti, caviale e così via. Ma da dove viene questo denaro?Semplice. La ricchezza che il Qe ha trasferito ai titolari di asset proviene, in primo luogo, direttamente dai salari dei lavoratori. Poiché ha praticamente svalutato la moneta, il Qe ha ridotto la capacità d’acquisto del denaro, il che ha causato nei fatti una svalutazione dei salari reali, che in Uk sono tuttora del 6% al di sotto dei loro livelli pre-Qe. Il denaro sottratto ai salari forma dunque parte di quel dividendo di 128.000 sterline. Ma viene anche dagli ultimi arrivati nei mercati gonfiati dal Qe – principalmente gli acquirenti di una prima casa e chi è recentemente andato in pensione. Chi oggi acquista una casa (che il Qe ha reso molto più cara), ad esempio, dovrà lavorare migliaia di ore in più per pagare un mutuo a prezzi più alti. Sono queste ore in più a creare la ricchezza che sovvenziona le stravaganti spese del 5% più ricco. Ovviamente, questi prezzi immobiliari più alti sono pagati da chiunque acquisti una casa, non solo da chi lo fa per la prima volta – ma per chi è già proprietario il costo aggiuntivo è compensato dall’aumento di prezzo della casa già di proprietà (o delle azioni, per chi è abbastanza ricco da possederne).Un’altra conseguenza del Qe è che chi va in pensione adesso è costretto a sovvenzionare il 5% più ricco. I nuovi pensionati usano il loro fondo pensione per acquistare una ‘rendita’ – un pacchetto di titoli azionari fruttiferi che produce reddito. Ma poiché il Qe ha causato un’inflazione del prezzo dei titoli, ciò ha ridotto il numero di titoli acquistabili con questo fondo. E dato che all’aumento di prezzo dei titoli non corrisponde un aumento dei dividendi, ciò si traduce in una pensione ridotta. In realtà, la teoria che il Qe servisse ad incoraggiare gli investimenti e stimolare l’occupazione e la crescita è sempre stata un artificio fantasioso creato per dissimulare quello che stava realmente accadendo – un colossale trasferimento di ricchezza verso i più ricchi. L’economista Dhaval Joshi faceva notare nel 2011: «La cosa più sconvolgente è che, dopo due anni di apparente ripresa, i lavoratori [inglesi] in realtà guadagnano meno che nel momento più drammatico della recessione. Salari e stipendi reali sono calati di 4 miliardi di sterline. I profitti sono aumentati di 11 miliardi. I benefici della ripresa sono stati distribuiti nel modo più iniquo possibile».Nel marzo di quest’anno il “Financial Times” riportava che, nonostante il Pil della Gran Bretagna sia ritornato ai livelli pre-crisi già dal 2014, i salari reali sono ancora più bassi del 10% rispetto al 2008. «La contrazione dei salari reali in Uk si è arrestata nel 2015», aggiungeva, «ma ciò non è destinato a durare». Così è stato. Nello stesso mese di pubblicazione di quell’articolo, i salari reali hanno iniziato nuovamente a scendere, e sono da allora in costante diminuzione. Lo stesso è successo in Giappone, dove, secondo “Forbes”, «il reddito delle famiglie si è effettivamente ridotto dopo l’introduzione del Qe». Il Qe ha sortito un effetto simile nei paesi del sud del mondo: aumentare la ricchezza dei detentori di asset a spese di chi non ne ha. Così come l’afflusso di nuovo denaro crea bolle nei mercati immobiliari e finanziari, allo stesso modo crea una bolla nei prezzi delle materie prime, dovuta ad esempio alla corsa degli speculatori all’acquisto di quote di petrolio e di materie prime alimentari.Per alcuni paesi produttori di petrolio ciò ha comportato effetti positivi, con la messa a disposizione di denaro inatteso da investire in programmi sociali, come inizialmente è accaduto nel caso di Venezuela, Libia ed Iran. In tutti e tre i casi, le forze imperialiste sono state costrette a ricorrere a vari livelli di intervento militare per contrastare queste conseguenze indesiderate. Ma l’aumento del prezzo del petrolio è certamente deleterio per paesi che non ne producono – e qualsiasi aumento dei prezzi alimentari è sempre devastante. Nel 2011 il “Daily Telegraph” sottolineava «la correlazione tra i prezzi alimentari e gli acquisti da parte della Fed di titoli di Stato americani (ossia, programmi di quantitative easing)…Si può notare come l’indice dei prezzi alimentari si è pressoché stabilizzato tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, ed è poi nuovamente salito a partire dalla metà del 2010 dopo il nuovo avvio del quantitative easing… con un aumento dei prezzi di circa il 40% durante un periodo di tempo di otto mesi».L’aumento dei prezzi ha spinto 44 milioni di persone in povertà nel solo 2010 – il “Telegraph” riteneva che ciò stesse alla base del malcontento manifestato nelle cosiddette Primavere Arabe. Robert Zoellick, ex presidente della Banca Mondiale, all’epoca commentava: «L’inflazione dei prezzi alimentari è oggi la più grave minaccia incombente sui poveri del mondo… basta un episodio di maltempo estremo per finire nel baratro». Sono questi i costi del quantitative easing. I paesi Brics erano anche critici nei confronti del Qe per un altro motivo: lo consideravano un metodo subdolo di svalutazione competitiva. Riducendo artificialmente il valore delle loro monete, la “triade imperiale” Usa, Ue e Giappone causavano a tutti gli effetti un apprezzamento delle valute di tutti gli altri paesi, danneggiando così le loro esportazioni.Nel 2015 “Forbes” scriveva: «Gli effetti si iniziano già a sentire anche nei paesi esportatori più dinamici al mondo, nell’est asiatico. Le loro esportazioni in dollari americani hanno subito una drammatica variazione, da una crescita annua del 10% ad una contrazione del 12% nella prima metà di quest’anno, e questi risultati non cambiano, che si tenga conto o no della Cina». Il vantaggio principale del Qe per i paesi in via di sviluppo avrebbe dovuto essere l’enorme afflusso di capitali da esso innescato. Si stima che circa il 40% del denaro generato dalla prima espansione di credito Qe della Fed (‘Qe1’) si è spostato all’estero – in particolare nei cosiddetti ‘mercati emergenti’ del sud del mondo – e circa un terzo durante il Qe. Tuttavia, contrariamente alle apparenze questo non è necessariamente un vantaggio. Gran parte del denaro, come si è visto, è stato utilizzato per acquistare scorte di materie prime (rendendo così beni essenziali come il cibo esorbitanti per i poveri) invece di essere investito in attività di produzione, ed un’altra buona parte è servita per acquistare scorte valutarie, causando ancora una volta un apprezzamento nocivo alle esportazioni.Per di più, un afflusso di ‘hot money’ (capitali speculativi erranti, in contrapposizione al capitale per gli investimenti di lungo termine) accentua la volatilità e vulnerabilità delle valute in caso, ad esempio, di aumenti dei tassi esteri. Se, ad esempio, i tassi d’interesse dovessero nuovamente salire in Usa ed in Europa, ciò rischierebbe di scatenare una fuga di capitali dai mercati emergenti, che potrebbe innescare un tracollo valutario. Fu infatti proprio un afflusso di ‘hot money’ nei mercati valutari asiatici, molto simile a quello visto durante il Qe, a precedere la crisi valutaria asiatica del 1997. La prossima fine del Qe, con il conseguente innalzamento dei tassi d’interesse, rischia di riproporre proprio questa vulnerabilità come una possibilità – se non addirittura come un’opportunità speculativa.(Dan Glazebrook, “Quantitative Easing, il più grande trasferimento di ricchezza della storia”, da un editoriale su “Rt” del 22 luglio 2017, tradotto e ripreso da Margherita Russo per “Voci dall’Estero”. Glazebrook è un giornalista politico freelance che collabora, fra gli altri, con “Russia Today Rt”, “Counterpunch”, “Z Magazine”, il “Morning Star”, il “Guardian”, il “New Statesman”, l’“Independent” e “Middle East Eye”. I suoi saggi esaminano i legami tra la crisi economica, l’ascesa dei Brics, le guerra in Libia e in Siria e l’“austerità” europea. Attualmente conduce ricerche per un libro sull’impiego degli “squadroni della morte” contro Stati sovrani e movimenti politici, dall’Irlanda del Nord e dall’America Centrale negli anni ‘70 e ‘80 fino al Medio Oriente e all’Africa di oggi).Sembra che l’enorme trasferimento di ricchezza verso i ricchi, durato circa un decennio e noto come ‘quantitative easing’, stia per volgere al termine. Delle quattro principali banche centrali del mondo – la Federal Reserve americana, la Bank of England, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone – due hanno già abbandonato la politica di acquisto di attività finanziarie (la Fed e la BoE), e la Bce intende smettere gli acquisti da dicembre. La Fed dovrebbe infatti iniziare a vendere nei prossimi due mesi i 3500 miliardi di dollari di titoli acquistati in tre cicli di Qe. Dal momento che – valutato alla luce degli obiettivi ufficiali – il Qe è stato un completo disastro, ciò appare perfettamente sensato. Grazie ad un’“iniezione” di denaro nell’economia, il Qe avrebbe dovuto portare le banche a prestare nuovamente, rilanciando gli investimenti e la crescita economica. In realtà, dopo l’introduzione del Qe il credito bancario totale nel Regno Unito è invece diminuito, e il credito a piccole e medie imprese – responsabili per il 60% dell’occupazione – è in caduta verticale.
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La lezione inglese: se i socialisti tornano a fare i socialisti
Tutte le elezioni degli anni della crisi sono state caratterizzate dai risultati catastrofici dei partiti socialisti, che in vari casi – ultimi due l’Olanda e la Francia – da formazioni che competevano per il governo si sono ridotti a gruppetti irrilevanti. Sono i risultati di lungo termine della loro mutazione genetica, iniziata con la truffaldina “Terza via” blairiana che li ha portati ad accogliere senza riserve l’ideologia neoliberista. In vari casi i loro elettori tradizionali ci hanno messo un po’ a capire che erano passati dall’altra parte e quindi in una prima fase hanno avuto successo, usufruendo di un patrimonio di adesioni consolidatosi storicamente e raccogliendone altre nuove dall’area moderata. Ma poi hanno cominciato a franare, perché non c’è tradizione che tenga quando si sceglie di rappresentare interessi opposti a quelli per tutelare i quali il partito era nato. Questa è stata anche la parabola del Labour, che dopo il grande e anche lungo successo di Blair ha cominciato a perdere sempre più terreno, avviandosi a seguire quella stessa sorte.L’elezione a sorpresa di Jeremy Corbyn alla segreteria – grazie a primarie che hanno dato più peso alla base e meno ai notabili – ha rappresentato una rottura e un ritorno alla linea precedente. Non c’è stato osservatore o analista politico che non abbia accolto questa sterzata con commenti impregnati di uno scetticismo a volte ai limiti del dileggio: in questo modo, si è detto, il Labour si condanna a una sterile opposizione, senza alcuna speranza di tornare prima o poi al governo. I sondaggi sembravano confortare questa tesi, visto che fino a un paio di mesi fa accreditavano al Labour consensi intorno al 25%, con un abissale distacco di una ventina di punti rispetto ai rivali Tory. Poi Corbyn ha presentato il suo programma, subito bollato come “massimalista” e “populista”. In realtà, al di là di qualche esagerazione da campagna elettorale, era semplicemente un programma che rovesciava i paradigmi neoliberisti: basta all’austerità diretta a senso unico verso le classi più svantaggiate, basta riduzioni del welfare, ri-nazionalizzazione di servizi essenziali come poste e ferrovie (queste ultime oggetto di una privatizzazione particolarmente fallimentare).Basta con l’università così costosa da escludere gran parte di coloro che non hanno possibilità economiche: e probabilmente proprio questa è stata la carta vincente nei confronti dei giovani, che sono andati a votare (mentre al referendum sulla Brexit si erano astenuti per due terzi) e hanno votato in maggioranza per Corbyn. Il risultato è stato che un partito che sembrava avviato verso la triste sorte degli altri confratelli ha ottenuto un successo a cui il numero di seggi non rende giustizia: il Labour è arrivato al 40%, testa a testa con il 42,5 dei Tory. Altro che che “così non vincerà mai più”: la linea Corbyn ha dimostrato di essere l’unica che possa sperare di contendere il potere ai conservatori. Una speranza tutt’altro che peregrina: quando le percentuali sono così vicine basta l’ulteriore spostamento di un numero abbastanza limitato di voti per rovesciare la maggioranza dei seggi conquistati. Frutto di un sistema elettorale che produce risultati paradossali: anche questa volta, per esempio, l’irlandese Dup con lo 0,91% conquista 10 seggi, mentre il 7,36 dei Libdem ne vale appena 2 in più e il 3% dei nazionalisti scozzesi gliene assegna 35.Insomma la lezione, per chi la vuol capire, è molto chiara: se i socialisti non fanno i socialisti prima o poi vanno incontro alla scomparsa. Ogni paese ha le sue dinamiche e le sue specificità: per alcuni quel “poi” è già arrivato, in altri casi – come quello dell’Italia – non ancora, ma è sulla buona strada. Ne dovrebbero tener conto, per esempio, i fuoriusciti dal Pd, le cui analisi sulla globalizzazione, sull’Europa e sull’economia non recidono ancora quel legame con la Terza via che ha distrutto o sta distruggendo la sinistra. Cosa che invece ha fatto, per esempio, il francese Jean-Luc Mélenchon, ottenendo alle recenti presidenziali un successo che – anche in quel caso – nessuno aveva previsto. Il mondo è cambiato, è vero. Ma ciò non significa che non possa cambiare di nuovo. Soprattutto, non sono cambiati i bisogni e gli interessi di chi da questi mutamenti è stato danneggiato e vede un futuro in cui la propria condizione potrà semmai solo peggiorare. Chi vuole rappresentarli dovrà prenderne atto fino in fondo.(Carlo Clericetti, “Uk, quando i socialisti fanno i socialisti”, da “Repubblica” del 9 giugno 2017, articolo ripreso da “Micromega”).Tutte le elezioni degli anni della crisi sono state caratterizzate dai risultati catastrofici dei partiti socialisti, che in vari casi – ultimi due l’Olanda e la Francia – da formazioni che competevano per il governo si sono ridotti a gruppetti irrilevanti. Sono i risultati di lungo termine della loro mutazione genetica, iniziata con la truffaldina “Terza via” blairiana che li ha portati ad accogliere senza riserve l’ideologia neoliberista. In vari casi i loro elettori tradizionali ci hanno messo un po’ a capire che erano passati dall’altra parte e quindi in una prima fase hanno avuto successo, usufruendo di un patrimonio di adesioni consolidatosi storicamente e raccogliendone altre nuove dall’area moderata. Ma poi hanno cominciato a franare, perché non c’è tradizione che tenga quando si sceglie di rappresentare interessi opposti a quelli per tutelare i quali il partito era nato. Questa è stata anche la parabola del Labour, che dopo il grande e anche lungo successo di Blair ha cominciato a perdere sempre più terreno, avviandosi a seguire quella stessa sorte.
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Ex sindaco di Londra: ricchi parassiti, felici di restare nell’Ue
Alla conferenza del partito Tory dell’anno scorso ho attirato l’attenzione su di una statistica preoccupante sul modo in cui sta cambiando la nostra società. È la proporzione tra lo stipendio medio dei top manager del Ftse100 e quello del suo dipendente medio – ribadisco, medio – in azienda. Questa proporzione sembra in fase di esplosione a un ritmo straordinario, inspiegabile e francamente sospetto. Platone diceva che nessuno dovrebbe guadagnare più di cinque volte di chiunque altro. Be’, Platone si sarebbe stupito dalla crescita della disuguaglianza aziendale odierna. Nel 1980 la proporzione era 1 a 25. Nel 1998 era salita a 47. Dopo 10 anni di Tony Blair e Peter Mandelson – e del loro atteggiamento “intensamente rilassato” nei confronti degli “schifosamente ricchi” – i massimi dirigenti delle grandi aziende britanniche guadagnavano 120 volte la retribuzione media dei dipendenti di basso livello. Lo scorso anno la proporzione è arrivata a 130.Quest’anno – stappando una bottiglia di champagne – i pezzi grossi hanno sfondato la barriera magica di 150. Il Ceo medio del Ftse100 si porta a casa 150 volte lo stipendio del suo dipendente medio – e in alcuni casi molto di più. Non usiamo mezzi termini: queste persone guadagnano così tanti più soldi degli altri nella stessa società, che volano su jet privati e costruiscono piscine sotterranee, mentre molti dei loro dipendenti non possono nemmeno permettersi di acquistare alcun tipo di casa. C’è un signore là fuori che guadagna 810 volte la media dei suoi dipendenti. Cosa sta succedendo? È solo avidità, o favori reciproci dei comitati di remunerazione? Non c’è dubbio che ci racconteranno, come sempre, che questi sono “i prezzi di mercato”. Ma ho notato un’altra cosa di questi uomini del Ftse100 (e ho paura che siano quasi sempre uomini): che sono sempre felicissimi di sfilare per Downing Street e dichiarare la loro eterna devozione verso l’Ue. Firmano entusiasticamente lettere ai giornali, spiegando come sia fondamentale che restiamo nell’Ue. Credono che l’Ue faccia bene al loro business.Ma come, esattamente? Il mercato unico è un microcosmo di bassa crescita. E’ cronicamente affetto da un elevato tasso di disoccupazione. I paesi dell’Ue sono gli ultimi della fila in quanto a crescita tra i paesi dell’Ocse; ed è incredibile che ci siano 27 paesi extracomunitari che hanno goduto di una crescita più veloce delle esportazioni di merci verso l’Ue della Gran Bretagna, a partire dall’avvio del mercato unico nel 1992, mentre 20 Paesi hanno fatto meglio di noi nell’esportazione di servizi. Far parte dell’Ue non è poi così conveniente per le aziende britanniche. Perciò che cosa piace dell’Ue a questi pezzi grossi? Sostanzialmente due cose. A loro piace l’immigrazione incontrollata, perché aiuta a mantenere bassi i salari dei lavori meno qualificati, e quindi aiuta a controllare i costi, e quindi ad assicurarsi che vi sia ancora più grasso da spartirsi per quelli che comandano. Un rifornimento costante di solerti lavoratori immigrati significa non doversi preoccupare più di tanto delle competenze o delle aspirazioni o della fiducia in sé stessi dei giovani che crescono nel loro paese.E in quanto clienti di Learjets e frequentatori di salotti esclusivi, essi non sono solitamente esposti alle tipiche pressioni causate dall’immigrazione su larga scala, come quelle sull’intrattenimento, sulla scuola o sugli alloggi. Ma poi c’è una ragione ancor più sottile – il fatto che l’intero sistema di regole Ue è così lontano dai cittadini e opaco che i pezzi grossi possono volgerlo a loro vantaggio, al fine di mantenere le loro posizioni oligarchiche e, tenendo lontana la competizione, spingere la propria busta paga ancora più in alto. Nel loro ottimo libro “Perché le Nazioni falliscono”, Daron Acemoglu e James A. Robinson spiegano come istituzioni politiche trasparenti siano essenziali per l’innovazione e la crescita economica. Distinguono tra le società “inclusive”, dove le persone si sentono coinvolte nelle loro democrazie ed economie, e società “esclusive”, dove il sistema è sempre più manipolato da una élite per proprio esclusivo vantaggio. L’Ue sta cominciando ad assumere alcune caratteristiche delle società “esclusive”. E’ dominata da un gruppo di pochi politici internazionali, lobbisti e affaristi.Queste persone si conoscono a vicenda. Essendo parti di grandi aziende, possono permettersi di assumere qualcuno per seguire le complesse regole che vengono da Bruxelles. Possono fissare appuntamenti coi responsabili delle Commissioni. Possono perfino incontrarli alle conferenze o agli eventi – il più famoso di questi è Davos. In questo senso, hanno un immenso vantaggio rispetto alla maggioranza delle aziende del paese. La maggior parte delle aziende (e in effetti la maggior parte degli inglesi) non hanno alcuna idea di chi lavori per la Commissione, o di come mettersi in contatto con queste persone, e non saprebbero distinguere i loro euro-parlamentari da dei marziani. Solo il 6% delle aziende britanniche in realtà esportano in Ue, e ciò nonostante il 100% di esse deve sottostare al 100% delle leggi Ue, che si tratti di aziende piccole o grandi – un peso normativo che costa circa 600 milioni di sterline alla settimana.La scorsa settimana ho visitato la Reid Steel, un’azienda britannica di successo a Christchurch, nel Dorset. Esportano acciaio per costruire ponti in Sudan, alberghi alle Mauritius, hangar di aerei in Mongolia. L’unica cosa che li frena, dicono, sono le regole Ue – generate attraverso un incomprensibile processo che coinvolge i lobbisti di grosso calibro, le grosse multinazionali e i governi di paesi stranieri. Non vedono l’ora di uscire dall’Ue, e hanno ragione. Pensano che le altre nazioni Ue stringerebbero rapidamente nuovi trattati commerciali. E che le aziende britanniche, liberate dalle catene europee, finirebbero per esportare in Europa di più anziché meno di quanto facciano ora.Naturalmente, i pezzi grossi del Ftse100 firmeranno per poter rimanere in Ue: a livello personale stanno diventando sempre più ricchi – sfruttando manodopera immigrata per le loro aziende e manipolando le regole Ue a vantaggio dei grandi attori, gli unici a poterle comprendere – mentre i meno fortunati hanno invece visto una diminuzione in termini reali delle loro retribuzioni. Questa è una delle ragioni per le quali la Ue ha una bassa innovazione, bassa produttività e bassa crescita. Se volete sostenere gli imprenditori, i faticatori, gli innovatori, i lavoratori, le imprese dinamiche e fiorenti dell’Inghilterra – allora votate per uscire dalla Ue il 23 giugno, e date a questi parassiti il calcio nel sedere che si meritano.(Boris Johnson, “L’Ue, uno strumento dei forti per sfruttare i deboli”, appello agli inglesi pubblicato su Facebook il 16 maggio 2016. Parlamentare inglese eletto tra i conservatori, Johnson è l’ex sindaco di Londra).Alla conferenza del partito Tory dell’anno scorso ho attirato l’attenzione su di una statistica preoccupante sul modo in cui sta cambiando la nostra società. È la proporzione tra lo stipendio medio dei top manager del Ftse100 e quello del suo dipendente medio – ribadisco, medio – in azienda. Questa proporzione sembra in fase di esplosione a un ritmo straordinario, inspiegabile e francamente sospetto. Platone diceva che nessuno dovrebbe guadagnare più di cinque volte di chiunque altro. Be’, Platone si sarebbe stupito dalla crescita della disuguaglianza aziendale odierna. Nel 1980 la proporzione era 1 a 25. Nel 1998 era salita a 47. Dopo 10 anni di Tony Blair e Peter Mandelson – e del loro atteggiamento “intensamente rilassato” nei confronti degli “schifosamente ricchi” – i massimi dirigenti delle grandi aziende britanniche guadagnavano 120 volte la retribuzione media dei dipendenti di basso livello. Lo scorso anno la proporzione è arrivata a 130.
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La lunga marcia dei no-euro, assedio all’Europarlamento
In Gran Bretagna il partito populista “United Kingdom Indipendence Party”, Ukip, il Partito per l’indipendenza del Regno Unito, è rilevato in prima posizione nelle intenzioni di voto per le elezioni europee in un sondaggio realizzato dall’istituto Yougov per il quotidiano “Sunday Times”. I dati registrano lo Ukip guidato da Nigel Farage al 31%, i laburisti al 28%, i Tory del premier Cameron al 19%, e i Liberaldemocratici al 9%. Lo Ukip sta realizzando per le europee una campagna molto vigorosa contro i posti di lavoro “rubati” dagli stranieri, definita razzista dagli altri partiti. Secondo l’opinione della maggioranza del campione di Yougov questo tipo di posizione non è razzista, ma un commento duro sulla realtà. Nei sondaggi realizzati da quest’istituto si nota come l’avvicinarsi del voto stia spingendo verso l’alto i consensi dello Ukip, cresciuto dal 23% di inizio marzo all’attuale 31%, con una contemporanea flessione dei laburisti così come dei conservatori.Per il voto alla Camera dei Comuni i sondaggi sono diversi; certo se questo dato fosse confermato sarebbe comunque piuttosto clamoroso che un partito che combatte da sempre contro l’adesione della Gran Bretagna all’Unione Europea in pochi anni sia passato da una relativa marginalità al primato nazionale, per quanto in questa specifica consultazione. Il Regno Unito non è però l’unico paese Ue dove alle prossime europee sarà possibile un’affermazione dei no-euro. Il “Movimento 5 Stelle” è una formazione che nella stampa europea viene definita no-euro, anche se il M5S non è assimilabile ai partiti di destra populista che combattono contro Bruxelles. Alle europee il primato dei 5 Stelle è un’ipotesi al momento non così probabile, ma neppure impossibile. Il fronte no-euro al Parlamento di Strasburgo sarà guidato da Marine Le Pen, e il suo Front National potrebbe conseguire una prima posizione alle consultazioni del 25 maggio.Come mostra la media dei sondaggi realizzata da “Electionista” su Twitter, il partito della destra repubblicana Ump e la formazione di Marine Le Pen sono praticamente appaiate poco sopra il 20%. Per il Front National si tratterebbe di una crescita clamorosa, visto che 5 anni fa raccolse poco più del 6%. I Paesi Bassi, come la Francia e l’Italia, sono una delle sei nazioni fondatrici del processo di unificazione dell’Europa. Anche l’elettorato olandese potrebbe consegnare ai no-euro del “Partito della Libertà” di Geert Wilders il primato nazionale alle consultazioni per l’Europarlamento. Al momento il Pvv è terzo dietro i liberali progressisti, ora all’opposizione, e i liberali conservatori del premier Rutte, ma il margine di distacco è molto ridotto. La terza formazione assai rilevante che aderisce al blocco no euro della destra populista sono i liberali austriaci della Fpö di Heinz-Christian Strache. Anche in Austria le europee potrebbero essere vinte dai no -uro, ora al terzo posto nella media delle intenzioni di voto, dietro ai popolari e ai socialdemocratici.In Germania i no-euro di “Alternativa per la Germania”, che hanno recentemente rifiutato la proposta di alleanza offerta loro da Marine Le Pen, non vinceranno le elezioni europee ma sicuramente entreranno all’Europarlamento, con un risultato in costante crescita, che danneggia la Cdu della vera leader dell’Ue, Angela Merkel. Come si vede nell’ultimo sondaggio pubblicato su “Bild”, “Alternativa per la Germania”, Afd, è rilevata al 7,5%, in aumento rispetto al 4,9% conseguito alle ultime federali. E’ difficile definire “Syriza” un partito no-euro, visto che la formazione guidata da Tsipras è favorevole alla moneta unica. Le critiche radicali alle politiche di austerità hanno però tratti accomunabili al variegato fronte che combatte contro i governi dell’Ue, ed in questa prospettiva la possibile affermazione di “Syriza” in Grecia alle prossime europee rappresenterebbe uno scossone a Bruxelles non così dissimile dal primato nazionale del Front National della Le Pen o del Pvv di Wilders.(Andrea Mollica, “I paesi dove i no-euro hanno chance di vittoria alle europee”, dal blog di Gad Lerner del 28 aprile 2014).In Gran Bretagna il partito populista “United Kingdom Indipendence Party”, Ukip, il Partito per l’indipendenza del Regno Unito, è rilevato in prima posizione nelle intenzioni di voto per le elezioni europee in un sondaggio realizzato dall’istituto Yougov per il quotidiano “Sunday Times”. I dati registrano lo Ukip guidato da Nigel Farage al 31%, i laburisti al 28%, i Tory del premier Cameron al 19%, e i Liberaldemocratici al 9%. Lo Ukip sta realizzando per le europee una campagna molto vigorosa contro i posti di lavoro “rubati” dagli stranieri, definita razzista dagli altri partiti. Secondo l’opinione della maggioranza del campione di Yougov questo tipo di posizione non è razzista, ma un commento duro sulla realtà. Nei sondaggi realizzati da quest’istituto si nota come l’avvicinarsi del voto stia spingendo verso l’alto i consensi dello Ukip, cresciuto dal 23% di inizio marzo all’attuale 31%, con una contemporanea flessione dei laburisti così come dei conservatori.