Archivio del Tag ‘treno’
-
Nucleare francese: c’è un segreto, dietro alla Torino-Lione?
Vuoi vedere che c’è il nucleare francese, dietro alla linea Tav Torino-Lione? Lo ipotizza Mitt Dolcino, interrogandosi sul “mistero” della grande opera più inutile d’Europa: perché insistere nel volerla realizzare a tutti i costi, visto che i maggiori trasportisti (da Marco Ponti in giù) sostengono che sia sostanzialmente superfua? Opera comunque da completare perché ormai iniziata? Non è esatto: sono state realizzate solo le gallerie accessorie, non il tunnel da 57 chilometri che collegherebbe Italia e Francia (doppione perfetto del Traforo del Frejus, sempre in valle di Susa, appena riammodernato – costo, 400 milioni di euro – per tenderlo idoneo al passaggio di treni con a bordo Tir e container “navali” della massima pezzatura). Perché allora incaponirsi tanto nel voler gettare decine di miliardi – in un momento come questo, poi – per una infrastruttura da più parti considerata obsoleta e destinata a restare un binario morto? L’interno del Massiccio dell’Ambin, la montagna che verrebbe traforata, «è saturo di uranio, torio e quindi di radon, con problemi per la salute sia nello scavo che per lo smaltimento della roccia scavata», scrive Dolcino, richiamandosi ai dati ufficiali, geologici, diffusi dal Politecnico di Torino.«Nel caso di completamento dell’opera nascerebbe il problema di dover smaltire le migliaia se non milioni di tonnellate di roccia uranifera estratta dal centro della montagna». A dire la verità, aggiunge il blogger, lo studio del Politecnico è ridonante: già negli anni ’70 e ’80 del Novecento la stessa Agip aveva condotto scavi in quell’area, con possibilità di ottenere concessioni per l’estrazione di uranio e torio. «Poi non se ne fece nulla, anche a causa dell’abbandono del nucleare da parte dell’Italia dopo Chernobyl». Proprio la presenza di provate grandi vene di uranio e torio – aggiunge Mitt Dolcino – fanno pensare che sia proprio la Francia a essere interessata all’estrazione del minerale radioattivo, da utilizzare nelle sue centrali, grazie alla roccia estratta dalla galleria. «Ricordate che oggi l’uranio la Francia lo ottiene in larga parte dal Niger, paese sempre più ambito da altri paesi, oltre ad essere stato messo sotto la lente di ingrandimento da parte del governo gialloverde per il cripto-colonialismo francese». Proprio in Niger, aggiunge Dolcino, i francesi sono presenti con la Legione Straniera sin da prima della deposizione di Gheddafi. Fece notizia l’Operazione Barkhane, che si sospetta sia servita a «far giungere immigrati dall’Africa profonda verso le coste libiche, per mandarli finalmente in Italia ma tenendo le frontiere francesi chiuse».Evidente il possibile obiettivo del neo-colonialismo francese: «Destabilizzare l’Italia, facendo leva sui cooptati italiani a libro paga di Parigi, per poi conquistare la Penisola come ai tempi di Napoleone». Negli ambienti scientifici, continua Mitt Dolcino, circola da tempo la voce che la Francia «abbia già iniziato la costruzione del laboratorio nucleare sotto il Fréjus, già pianificato da tempo: infatti il tunnel di servizio servirebbe proprio a questo». Le gallerie accessorie per la Torino-Lione sarebbero in realtà infrastrutture pensate per il nucleare francese? «A quando – si domandava Mitt Dolcino, già un anno fa – una richiesta di chiarimenti, nell’aula del Parlamento, sulla presenza di un laboratorio nucleare francese sotto il Fréjus, con scavo pagato dagli italiani? Perché tutto tace? Perché nessuno fa domande ufficiali in riguardo?». Ancoera: «Se la Francia pretende che l’Italia paghi per permettere a Parigi di fare un laboratorio nucleare sotto una grande montagna italiana, evidentemente non è stato chiarito che, nel caso, dovranno contribuire in modo molto più sostanzioso di quanto previsto». In attesa di risposte – mai pervenute – resta un mistero l’insistenza sui cantieri della Torino-Lione, senza che nessuno abbia finora spiegato, in modo convincente, l’utilità di una maxi-opera così costosa e contestata.Vuoi vedere che c’è il nucleare francese, dietro alla linea Tav Torino-Lione? Lo ipotizza Mitt Dolcino, interrogandosi sul “mistero” della grande opera più inutile d’Europa: perché insistere nel volerla realizzare a tutti i costi, visto che i maggiori trasportisti (da Marco Ponti in giù) sostengono che sia sostanzialmente superflua? Opera comunque da completare perché ormai iniziata? Non è esatto: sono state realizzate solo le gallerie accessorie, non il tunnel da 57 chilometri che collegherebbe Italia e Francia (doppione perfetto del Traforo del Frejus, sempre in valle di Susa, appena riammodernato – costo, 400 milioni di euro – per tenderlo idoneo al passaggio di treni con a bordo Tir e container “navali” della massima pezzatura). Perché allora incaponirsi tanto nel voler gettare decine di miliardi – in un momento come questo, poi – per una infrastruttura da più parti considerata obsoleta e destinata a restare un binario morto? L’interno del Massiccio dell’Ambin, la montagna che verrebbe traforata, «è saturo di uranio, torio e quindi di radon, con problemi per la salute sia nello scavo che per lo smaltimento della roccia scavata», scrive Dolcino, richiamandosi ai dati ufficiali, geologici, diffusi dal Politecnico di Torino.
-
Addio made in Italy: agli stranieri tutti i nostri marchi storici
Fiorucci, Versace e i gelati Motta. Negli ultimi anni sono state diverse le aziende del Made in Italy a essere rilevate da compagnie straniere. Il marchio italiano piace a tutti e a far gola non sono solo le marche di moda, ma tutti i settori. Dall’alimentare all’energia, i migliori “pezzi” italiani vengono arpionati e trascinati in acque straniere. Facciamo il punto su tutti i gioielli tricolore “perduti”. Alta Moda e Lusso – Uno dei brand più in voga tra gli anni ’70 e gli anni ’90 è Fiorucci, fondata a Milano da Elio Fiorucci nel 1967. Nel 1990 viene rilevata dalla Edwin International, società giapponese di abbigliamento con diversi marchi di proprietà e licenza, poi dalla Itochu Corporation e infine dagli inglesi di Schaeffer. Le collezioni di Krizia sono invece passate a Marisfrolg Fashion Co. Non solo moda. Alle aziende straniere piacciono molto anche gli yacht. Quelli Ferretti sono di proprietà di Shandong Heavy Industry-Weichai Group. Grande scorpacciata per il fondo francese Kering, che ha acquistato Gucci, Bottega Veneta, Pomellato, Dodo, Brioni e Richard Ginori.Dal 2012, la maison Valentino è nelle mani di Mayhoola Investments mentre Ferrè è passato nelle mani del Paris Group di Dubai. Anche La Rinascente appartiene alla compagnia thailandese Central Group of Companies. Tra i casi che ha tenuto alta l’attenzione degli italiani c’è quello di Versace, il cui brand è stato venduto allo stilista americano Michael Kors per la bellezza di 2 miliardi di dollari. L’altro grande colosso francese della moda, Lvmh, è diventato proprietario di Loro Piana, Fendi, Emilio Pucci e Bulgari. La giapponese Itochu Corporation ha fatto suoi altri marchi italiani come Mila Schon, Conbipel, Sergio Tacchini, Belfe e Lario, Mandarina Duck, Coccinelle, Safilo, Ferrè, Miss Sixty-Energie, Lumberjack e Valentino SpA. Quasi tutte queste aziende sono state poi rivendute sempre ad aziende straniere. Anche l’Italia, seppur non con la stessa voracità, ha però acquistato un’azienda francese, la Moncler, che dal 2003 è di proprietà dell’italiano Remo Ruffini.Cibo – Galbani, Locatelli, Invernizzi e Cademartori sono di Lactalis, acquirente della Parmalat nel luglio del 2011, mentre gli oli Cirio-Bertolli-De Rica sono passati nel 1993 alla Unilever, che poi li ha ceduti nel 2008 alla spagnola Deoleo, già titolare di Carapelli, Sasso e Friol. Anche l’Eridania Italia, società leader nel settore zucchero italiano, è passata poi in mani francesi. La Birra Peroni, comprendente i marchi Peroni e Nastro Azzurro, è stata fagocitata dal colosso giapponese Asahi Breweries, mentre la Star, proprietaria di diversi marchi come Pummarò, Sogni d’oro, GranRagù Star, è stata acquistata dalla spagnola Gallina Blanca del Gruppo Agrolimen. Finanza – Anche in termini economici e finanziari, sono molte le società straniere che stanno fagocitando quelle italiane. Nel 2006, il gruppo Bnp Paribas acquisisce Bnl. Nel 2007, Crédit Agricole prende il controllo delle banche Cariparma e Banca Popolare FriulAdria. Sempre nello stesso anno, Generali accetta l’offerta di Groupama per l’acquisto del 100% di Nuova Tirrena per 1,25 miliardi di euro.Anche Unicredit ha venduto Pioneer ad Amundi per un valore di 3,5 miliardi di euro. Industria – Nell’industria, Italcementi è stata acquisita da HeidelbergCement. A Pirelli invece tocca andare in Cina. ChemChina è infatti il nuovo socio. A settembre 2016 la francese Suez ha acquisito parte di Acea mentre Magneti Marelli passa ai giapponesi di Calsonic Kansei. Energia – In campo energetico, Edison ha piegato la bandiera tricolore a favore di un’altra: quella francese. Trasporti – Nell’industria dei treni, il made in Italy non esiste più. La Fiat Ferroviaria è controllata da Alstom. AnsaldoBreda è stata invece venduta alla giapponese Hitachi da parte di Finmeccanica. Non è diverso per gli aerei, Etihad ha acquisito per tre anni Alitalia mentre la Piaggio Aerospace è dal 2014 in mano agli arabi di Mubadala. Per Lamborghini, invece, la nuova casa è in Germania dove il padrone di casa è il Gruppo tedesco Volkswagen.(”Addio al Made in Italy: tutte le aziende italiane diventate straniere”, da “TgCom24″ del 14 luglio 2020; articolo realizzato in collaborazione con il master biennale in giornalismo della Iulm, contenuto a cura di Ilaria Quattrone).Fiorucci, Versace e i gelati Motta. Negli ultimi anni sono state diverse le aziende del Made in Italy a essere rilevate da compagnie straniere. Il marchio italiano piace a tutti e a far gola non sono solo le marche di moda, ma tutti i settori. Dall’alimentare all’energia, i migliori “pezzi” italiani vengono arpionati e trascinati in acque straniere. Facciamo il punto su tutti i gioielli tricolore “perduti”. Alta Moda e Lusso – Uno dei brand più in voga tra gli anni ’70 e gli anni ’90 è Fiorucci, fondata a Milano da Elio Fiorucci nel 1967. Nel 1990 viene rilevata dalla Edwin International, società giapponese di abbigliamento con diversi marchi di proprietà e licenza, poi dalla Itochu Corporation e infine dagli inglesi di Schaeffer. Le collezioni di Krizia sono invece passate a Marisfrolg Fashion Co. Non solo moda. Alle aziende straniere piacciono molto anche gli yacht. Quelli Ferretti sono di proprietà di Shandong Heavy Industry-Weichai Group. Grande scorpacciata per il fondo francese Kering, che ha acquistato Gucci, Bottega Veneta, Pomellato, Dodo, Brioni e Richard Ginori.
-
Tav, Governo del Tradimento: sangue e bugie, addio grillini
«Non c’erano e non ci sono governi amici, l’abbiamo sempre saputo». Così il movimento NoTav reagisce al “tradimento” gialloverde sulla Torino-Lione, anticipato da Conte: «Non fare il Tav costerebbe più che farlo». Alberto Airola, parlamentare 5 Stelle, si sente raggirato da Di Maio: «Il suo – dice – è un atteggiamento pilatesco: sa benissimo che in aula saremo gli unici a votare “no”». In una video-intervista al “Fatto Quotidiano”, Airola condanna la decisione di rinunciare al potere dell’esecutivo per bloccare l’opera, ricorrendo alla farsa del voto parlamentare (più che scontato) sul destino del progetto, costosissimo e inutile. «L’ho detto più volte, a Conte: l’opera – che è appena ai preliminari – si può fermare senza danni per l’Italia». Conte però ha finto di non sentire: «E’ stato mal consigliato?», si domanda Airola. Certo, in linea con Conte appare Di Maio, che sposa in pieno la tattica dell’ipocrisia: i 5 Stelle ribadiranno la loro pletorica contrarietà alla super-ferrovia, già sapendo che Lega, Pd, Forza Italia e Fratelli d’Italia voteranno a favore. Un mezzuccio un po’ meschino, per tentare di salvarsi la coscienza. «Credo che il Movimento 5 Stelle abbia deciso di scrivere il proprio testamento politico», sentenzia Nilo Durbiano, sindaco di Venaus, uomo-simbolo dell’opposizione della valle di Susa alla grande opera. Addio 5 Stelle: «La loro avventura è conclusa», dice Durbiano, nel cui Comune i 5 Stelle erano il primo partito.Il cedimento gialloverde emerge anche dalle parole di Beppe Grillo, secondo cui è illusorio «credere che basti essere al governo, in tandem, per bloccare un processo demenziale come questo». Per Grillo, «significa avere dimenticato che non siamo una repubblica presidenziale oppure una dittatura». Ammette il fondatore, che della battaglia NoTav aveva fatto una sua bandiera: «Sono molto scontento della situazione che si è venuta a creare». Ma non aggiunge altro, preparandosi a “digerire” il clamoroso voltafaccia difendendo Toninelli e Conte, che avrebbero reso «meno disastroso» lo scenario, tenendo testa a Macron. Come dire: scusate, ma finora avevamo scherzato. Vi avevamo promesso che ci saremmo messi di traverso, per fermare il Tav? Erano solo parole: come quelle contro l’obbligo vaccinale, il Tap in Puglia e le trivelle nell’Adriatico. Impossibile, sembra dire Grillo tra le righe, che un governo possa fare davvero gli interessi dei cittadini, e non quelli delle lobby che dominano l’Ue. Se non ci fossimo noi – aggiunge l’ex comico – sarebbe pure peggio. Come dire: non siamo colpevoli, e in ogni caso è inutile illudersi che il sistema possa essere cambiato. Ma non era proprio per questo che erano nati, i 5 Stelle? Difatti: non a caso, il loro consenso sta franando. E il “tradimento” sul Tav, come dice Durbiano, sembra davvero l’inizio della fine: tra poco i 5 Stelle potrebbero non esistere più.Dopo la sortita di Conte, affermano i NoTav, ora tutto è finalmente chiaro: «Come abbiamo sempre sostenuto, dalle parti del governo non abbiamo mai avuto amici». Aggiungono i NoTav: «La manfrina di tutti questi mesi giunge alla parola fine, e il cambiamento tanto promesso dal governo getta anche l’ultima maschera, allineandosi a tutti i precedenti». Formule retoriche, che si ripetono dal 2001 a prescindere dal colore politico dell’esecutivo di turno. Il governo Conte? Sembra aver voluto «cambiare tutto per non cambiare niente». Tante chiacchiere, ma poi – al dunque – il governo gialloverde «è sempre stato ambiguo, negli atti concreti, e questo è il risultato». Non fare la Torino-Lione costerebbe più che farla? «E’ solo una scusa per mantenere in piedi il governo e le poltrone degli eletti, sacrificando ancora una volta il futuro di molti sull’altare degli interessi politici di pochi». Lo stesso Conte fino a poco tempo fa si era detto convinto che quest’opera non serviva all’Italia. Ora perché ha cambiato idea? E’ stato «fulminato sulla via di Damasco da promesse di finanziamenti europei o da equilibri politici da mantenere?».Recentissima la richiesta di arresto per il direttore della Cmc di Ravenna, general contractor della Torino-Lione, accusato per una storia di corruzione in Kenya. «Un piccolo esempio di cosa abbia scelto il presidente Conte», sottolineano i NoTav: «Altro che interessi degli italiani!». Del resto, aggiunge il movimento valsusino, «abbiamo sempre definito il sistema Tav il bancomat della politica». Cosa cambia, ora? «Per noi assolutamente nulla, perché sono 30 anni che ogni governo fa esattamente come quello attuale: annuncia il sì all’opera e aumenta il debito degli italiani facendo leva su un fantomatico interesse nazionale – che non c’è, e che nessuno dimostrerà mai». Opera inutile: lo dice anche la commissione speciale istituita da Toninelli e coordinata dal professor Marco Ponti. «Conte e il governo che presiede saranno gli ennesimi responsabili di questo scempio ambientale, politico ed economico: dalla Torino Lione la maggioranza del paese non trarrà nessun vantaggio, ma un danno economico e ambientale, che pagheremo tutti».E i 5 Stelle, da sempre NoTav, ora faranno finta di niente, tirando a campare? Bella sceneggiata, quella di «portare il voto in un Parlamento dove l’esito è già scontato, e dove il Movimento 5 Stelle voterebbe contro, tentando di salvarsi la faccia dicendo “siamo coerenti, abbiamo fatto tutto il possibile”». I NoTav annunciano battaglia: «Proseguiremo la nostra lotta popolare per fermare quest’opera inutile e imposta. Lo faremo come abbiamo sempre fatto, mettendoci di traverso quando serve e portando le nostre ragioni in ogni luogo di questo paese, che siamo convinti, sta con noi». Nel 2005, quando la polizia sgomberò con inaudita violenza i manifestanti dal presidio di Venaus, di colpo l’Italia scoprì che in valle di Susa c’era un problema – non locale, ma nazionale. «Non si possono imporre le opere pubbliche col manganello», disse Di Pietro. Da allora sono passati quasi 15 anni, e il governo in carica – stavolta rappresentato anche dai 5 Stelle – continua a premere per la grande opera senza la minima trasparenza, cioè evitando ancora una volta di dimostrarne l’utilità. Una storia tristemente italiana, di democrazia calpestata. Con un corollario: l’auto-rottamazione del movimento creato da Grillo.Era nell’aria: il Governo del Tradimento si sarebbe apprestato a rimangiarsi anche l’ultima delle sue promesse. Ovvero: non gettare via miliardi in valle di Susa per il Tav Torino-Lione, senza prima averne verificato l’utilità. La verifica – la prima, nella storia – era arrivata nei mesi scorsi dopo decenni di silenzio da parte dei governi romani, per merito del ministro Danilo Toninelli. Verdetto negativo, firmato dal più autorevole trasportista italiano, il professor Marco Ponti, già docente del Politecnico di Milano e consulente della Banca Mondiale: un’opera faraonica e completamente inutile, perfetto doppione della linea Italia-Francia che già attraversa la valle di Susa, collegando Torino e Lione via Traforo del Fréjus, da poco riammodernato al prezzo di quasi mezzo miliardo di euro per consentire il passaggio di treni con a bordo i Tir e i grandi container “navali”. Lo sapevano anche i sassi, peraltro: il traffico Italia-Francia è praticamente estinto. Lo chiarisce la Svizzera, delegata dall’Ue a monitorare i trasporti transalpini: l’attuale linea valsusina Torino-Modane-Lione, ormai semideserta e destinata a restare un binario morto anche nei prossimi decenni, potrebbe aumentare del 900% il suo volume di traffico, se solo esistesse almeno il miraggio di merci da trasportare, un giorno.
-
Vergogna gialloverde, i 5 Stelle si piegano anche sul Tav
«Alla luce degli investimenti comunitari, non realizzare il Tav costerebbe più che completarlo». Con queste parole, il premier Giuseppe Conte azzera politicamente il Movimento 5 Stelle, da sempre contrario alla Torino-Lione. L’opposizione all’alta velocità in valle di Susa era l’ultima grande promessa elettorale non ancora disattesa. A questo punto, i grillini sono politicamente finiti. Non manca di sense of humor, Conte, quando aggiunge che «soltanto il Parlamento può recedere unilateralmente dal contratto», ben sapendo che tutti gli altri partiti – Lega, Pd, Forza Italia e Fratelli d’Italia – sono da sempre favorevoli alla maxi-opera più inutile della storia d’Europa, peraltro mai neppure avviata. L’unico cantiere aperto, a Chiomonte, riguarda infatti una semplice galleria esplorativa: un piccolo tunnel solo geognostico, da cui non passerebbe mai nessun treno. Del faraonico traforo Italia-Francia non è stato finora scavato neppure un metro. Sarebbe un doppione disastrosamente inutile: proprio attraverso la valle di Susa, Torino e Lione sono già collegate dalla ferrovia internazionale che valica le Alpi grazie al traforo del Fréjus, recentemente ammodernato (quasi mezzo miliardo la spesa) in modo da consentire il transito di treni con a bordo i Tir e i grandi container “navali”. La nuova Torino-Lione? Non servirebbe a nessuno. In più, il traffico merci fra Italia e Francia è ormai inesistente.Lo ribadì alcuni mesi fa lo studio sul rapporto costi-benefici commissionato dal ministro Danilo Toninelli al professor Marco Ponti del Politecnico di Milano, “trasportista” di fama mondiale. Era la prima analisi seria, professionale, prodotta da un governo italiano, da vent’anni a questa parte, sulla grande opera più controversa della penisola, contro la quale si è scatenata una fortissima protesta popolare culminata nel 2005 con la quasi-insurrezione della valle di Susa, guidata dai sindaci in fascia tricolore. Protesta tempestivamente cavalcata da Beppe Grillo, in prima linea coi NoTav insieme a Dario Fo. Cinque anni dopo, lo stesso Grillo tornò in valle di Susa spingendosi a Chiomonte e violando provocatoriamente la prima “zona rossa” imposta dalle forze dell’ordine. Sembrano passati mille anni: i grillini oggi sono costretti a ingoiare le parole del premier gialloverde, scelto proprio da loro per giudare la traballante alleanza con la Lega, da sempre favorevole allo spreco ferroviario del secolo. «Sono pervenuti dei fatti nuovi», ha tentato di spiegarsi Conte, alludendo alla recente apertura dell’Unione Europea, che si è detta disponibile ad aumentare lo stanziamento dal 40% al 55%. «La tratta nazionale per l’Italia potrebbe beneficiare di un contributo europeo pari al 50%».A proposito di Bruxelles: proprio i grillini sono stati determinanti, la scorsa settimana, nella nomina della tedesca Ursula von der Leyen, fedelissima della Merkel e impietosa interprete del peggior rigore europeo. Oltre che l’ennesimo clamoroso tradimento dell’elettorato grillino, l’incredibile voltafaccia sul Tav Torino-Lione si annuncia come una pagina particolarmente vergognosa per il governo gialloverde: se la mossa di Conte sembra un tentativo funambolico di tenere in piedi l’esecutivo accontentando Salvini, rivela soprattutto le mostruose pressioni subite dal potere Ue, a cui l’Italia sembra cedere anche stavolta, come già per la vertenza sul deficit negato. E’ un’Italia che evidentemente obbedisce a decisioni altrui, in questo caso imposte dalla potente lobby europea delle grandi opere. Il paese dei viadotti che crollano ha un disperato bisogno di infrastrutture utili, e invece si prepara a regalare miliardi ai soliti noti, per un’opera inutile che prevede cantieri con un profilo occupazionale ridicolo. Una farsa, che per i 5 Stelle si trasformerà in tragedia politica: d’ora in poi, nessuno potrà più prendere sul serio Luigi Di Maio, qualunque cosa dovesse dire. Chi ha votato 5 Stelle difficilmente lo rifarà.«Alla luce degli investimenti comunitari, non realizzare il Tav costerebbe più che completarlo». Con queste parole, il premier Giuseppe Conte azzera politicamente il Movimento 5 Stelle, da sempre contrario alla Torino-Lione. L’opposizione all’alta velocità in valle di Susa era l’ultima grande promessa elettorale non ancora disattesa. A questo punto, i grillini sono politicamente finiti. Non manca di sense of humor, Conte, quando aggiunge che «soltanto il Parlamento può recedere unilateralmente dal contratto», ben sapendo che tutti gli altri partiti – Lega, Pd, Forza Italia e Fratelli d’Italia – sono da sempre favorevoli alla maxi-opera più inutile della storia d’Europa, peraltro mai neppure avviata. L’unico cantiere aperto, a Chiomonte, riguarda infatti una semplice galleria esplorativa: un piccolo tunnel solo geognostico, da cui non passerebbe mai nessun treno. Del faraonico traforo Italia-Francia non è stato finora scavato neppure un metro. Sarebbe un doppione disastrosamente inutile: proprio attraverso la valle di Susa, Torino e Lione sono già collegate dalla ferrovia internazionale che valica le Alpi grazie al traforo del Fréjus, recentemente ammodernato (quasi mezzo miliardo la spesa) in modo da consentire il transito di treni con a bordo i Tir e i grandi container “navali”. La nuova Torino-Lione? Non servirebbe a nessuno. In più, il traffico merci fra Italia e Francia è ormai inesistente.
-
La Francia respinge migranti imbrogliando la polizia italiana
Le procedure sono procedure. E se un paese amico fa la cose per bene, non ci sarebbe motivo di dubitarne. Tuttavia i saggi sanno che in politica fidarsi è bene, ma non farlo è pure meglio. Anche se di mezzo c’è la Francia. Già, perché a quanto pare pur di respingere quanti più migranti possibili in Italia, i nostri cugini non si fanno problemi ad aggirare le norme o a taroccare i documenti. Dal lontano 2015 Parigi gestisce una sorta di “muro invisibile” al confine tra Ventimiglia e Mentone. Solo negli ultimi dodici mesi ha rispedito nel Belpaese qualcosa come 18.125 immigrati. E ogni giorno continua a mettere in atto riammissioni e respingimenti facendo leva sulla sospensione dell’accordo di Schengen prorogata (nel silenzio dell’Ue) ben oltre il limite dei due anni. Niente di assurdo, per carità. Anzi: la Francia fa quello che – a giudicare dalle elezioni – anche gli italiani desiderano. Ovvero sbarrare i luoghi d’ingresso ai clandestini. Solo che mentre i “porti chiusi” di Salvini indignano l’Europa intera, nessuno s’infiamma per le saracinesche calate da Macron o per i trucchetti della polizia d’Oltralpe.Vediamo cosa accade. Quando Parigi trova un irregolare alla frontiera può “respingerlo” in Italia. Si tratta di una procedura molto rapida: i gendarmi pizzicano i clandestini sui treni e li portano a Ponte San Luigi. Qui li trattengono in container senza cibo né acqua, gli danno un foglio chiamato “refus d’entré” e poi li rimandano indietro. Tutto nella norma. O quasi. L’obiettivo della polizia francese, infatti, è quello di cacciare oltre confine i migranti prima possibile. E per riuscirci svolgono le pratiche in maniera più che sbrigativa, a volte calpestando i diritti degli stranieri. Facciamo qualche esempio. Per identificare gli immigrati si basano su un paio di domande su nome, cognome ed età senza approfondire le indagini. E se fosse un profugo? Se fosse in fuga dalla guerra? Pace. E ancora: i “refus d’entré” dovrebbero essere firmati dagli agenti specificando nome e grado, ma in quasi tutti i documenti appaiono solo scarabocchi e poco più. Infine, molti migranti hanno denunciato l’impossibilità di presentare richiesta di asilo: i poliziotti li ignorerebbero, evitando così di doversi far carico della domanda di protezione. Bel vantaggio.«Alla maggior parte delle persone – spiega Emilie Pesselier, di Anafè – viene solo consegnato il “refus d’entre” e vengono rimandate in Italia». Di aneddoti su espedienti poco ortodossi ne esistono a bizzeffe. Capita pure che fermino gli stranieri ben oltre la frontiera e, violando gli accordi, provino a rispedirli a Ventimiglia. Le norme affermano che per giustificare il respingimento debbano beccare il clandestino al confine e presentare una “prova” della sua provenienza dall’Italia. Cosa fanno invece i transalpini? «A volte prendono un biglietto del treno Venitimiglia-Mentone e lo danno in mano al migrante», ci rivela un poliziotto italiano impegnato al confine. Poi ovviamente i nostri agenti domandano loro se sono davvero stati presi sul convoglio (come scritto sui documenti francesi) e «rispondono che erano già a Marsiglia». Cioè a tre ore d’auto dalla frontiera. Un piccolo trucco con cui «si stanno ripulendo la Francia». A discapito del Belpaese.L’inventiva francese non ha limiti. «Quando ci presentano i documenti – aggiunge il poliziotto – sui fogli scrivono nome, cognome, data di nascita e provenienza del migrante. Ma spesso li compilano loro stessi». Sui “refus d’entré” gli agenti nostrani trovano «nomi o storie inventate» e «minori che diventano maggiorenni» per magia. L’artificio dei finti over 18 è stato per lungo tempo motivo di scontro: «Su quelli palesemente minori dicono: “Ha dichiarato di essere maggiorenne”. Ma poi quando verifichiamo le impronte digitali scopriamo che non ha 18 anni». A quel punto la polizia li riporta in Francia e i gendarmi “fanno gli stupidi”. «Ci dicono: “Ah, scusami, non me ne ero accorto”. Insomma, “ci provano”».Secondo il regolamento di Dublino, i minori non accompagnati non potrebbero essere respinti. E così per evitare di farsene carico, nel tempo Parigi ne ha inventate di ogni: alcuni sono stati rimessi direttamente sul treno per Ventimiglia senza passare dagli uffici, altri sono stati “affidati” ad altri migranti maggiorenni anche se non erano parenti. E si sono verificate pure modifiche arbitrarie alle date di nascita pur di farli risultare maggiorenni. «Diverse missioni di osservazione – si legge nel rapporto di Anafé – hanno trovato prove del fatto che il cambio della data di nascita sarebbe avvenuta allo scopo di ingannare la polizia italiana». Non proprio quella che si può definire “correttezza istituzionale”. Perché respingere i clandestini sarà pure un diritto. Ma taroccare le carte no.(Giuseppe De Lorenzo e Costanza Tosi, “La Francia falsifica i documenti per rimandare i migranti in Italia”, dal “Giornale” del 20 luglio 2019).Le procedure sono procedure. E se un paese amico fa la cose per bene, non ci sarebbe motivo di dubitarne. Tuttavia i saggi sanno che in politica fidarsi è bene, ma non farlo è pure meglio. Anche se di mezzo c’è la Francia. Già, perché a quanto pare pur di respingere quanti più migranti possibili in Italia, i nostri cugini non si fanno problemi ad aggirare le norme o a taroccare i documenti. Dal lontano 2015 Parigi gestisce una sorta di “muro invisibile” al confine tra Ventimiglia e Mentone. Solo negli ultimi dodici mesi ha rispedito nel Belpaese qualcosa come 18.125 immigrati. E ogni giorno continua a mettere in atto riammissioni e respingimenti facendo leva sulla sospensione dell’accordo di Schengen prorogata (nel silenzio dell’Ue) ben oltre il limite dei due anni. Niente di assurdo, per carità. Anzi: la Francia fa quello che – a giudicare dalle elezioni – anche gli italiani desiderano. Ovvero sbarrare i luoghi d’ingresso ai clandestini. Solo che mentre i “porti chiusi” di Salvini indignano l’Europa intera, nessuno s’infiamma per le saracinesche calate da Macron o per i trucchetti della polizia d’Oltralpe.
-
Roberto Alice: un altro mondo è possibile, bisogna volerlo
«Si parla tanto di un progetto completamente assurdo e inutile come il costosissimo Tav Torino-Lione, mentre la Regione Piemonte ha chiuso 500 chilometri di ferrovie per i pendolari. E così, ogni giorno sono 400.000 le auto che inondano Torino». Follie piemontesi: «Il treno che da Pont Canavese raggiunge il capoluogo impiega un’ora e mezza per percorrere 55 chilometri. Con i soldi del Tav potremmo comprare 1.000 nuovi treni per il Piemonte, oppure 14.000 autobus elettrici o 200.000 auto elettriche. Risolveremmo una volta per tutte il problema del traffico e dell’inquinamento, mettendo fine all’inferno quotidiano dei pendolari». Parola di Roberto Alice, progettista hardware nel settore dell’elettronica per le telecomunicazioni. Torinese, è stato fra i tanti italiani che, anni fa, risposero all’appello di Beppe Grillo per ridare speranza all’Italia, sfinita dalla cattiva politica. Oggi la “rivoluzione” grillina è impigliata tra le luci e le ombre del governo gialloverde, troppo timido con Bruxelles nel rivendicare la propria autonomia finanziaria, indispensabile per investire in modo massiccio nei settori strategici, capaci di creare posti di lavoro. Lo sa benissimo Roberto Alice, keynesiano convinto, esponente piemontese del Movimento Roosevelt e collaboratore di “Scenari Economici”, il newsmagazine fondato da Antonio Maria Rinaldi, ora candidato alle europee con la Lega.Anche Alice è candidato, ma con i 5 Stelle e alle regionali piemontesi. «Il 26 maggio – dice Marco Moiso, vicepresidente del Movimento Roosevelt – gli elettori di Torino e provincia potranno arricchire la Regione Piemonte con la sensibilità “rooseveltiana” di Roberto Alice, sul piano della buona amministrazione e di una cultura politica di impronta keynesiana, fieramente ostile al neoliberismo che ha condizionato centrodestra e centrosinistra, meri esecutori dell’austerity Ue che, a cascata, ha impoverito Stati, Regioni e Comuni». Se Salvini e Di Maio possono non entusiasmare molti elettori, resta comunque intatta la solida passione degli attivisti come quelli che formano, ad esempio, la base pentastellata. Questione di impegno sociale personale: Roberto Alice vive la militanza nel Movimento 5 Stelle come strumento diretto di partecipazione civile, mettendo a disposizione la sua esperienza. Sogna un Piemonte più pulito e vivibile, da migliorare mettendoci la faccia. Di formazione scientifica, Roberto ha studiato fisica. Parla inglese e francese, viaggia, si guarda intorno. E’ comunque contento che, un anno fa, gli italiani abbiano mandato a casa la vecchia casta dei politici condizionati dai tecnocrati. Ecologia: fare pulizia a casa propria, innanzitutto. Il Piemonte? E’ un po’ come l’Italia: tante potenzialità, ma poco sfruttate. Cosa manca? Una visione: tecnologie pulite, al servizio dei cittadini.Quando ormai il Nord Europa brillava per la capacità di fare business riciclando i rifiuti con procedure a impatto zero, Torino non ha trovato di meglio che costruire un gigantesco inceneritore. Pessima idea: «Se i rifiuti li brucio, la loro massa non sparisce affatto: finisce semplicemente nell’aria, che poi respiriamo», dice Roberto. «Smettiamola di considerarli rifiuti, gli scarti che buttiamo via. Se anziché bruciarli li ricicliamo, abbiamo solo vantaggi: non inquiniamo, otteniamo materie prime rigenerate e risparmiamo molto denaro, in termini di energia». Facile a dirsi. Ma in Piemonte sembra tutto più complicato, a partire dai trasporti: i tagli – spesso imposti dalle politiche neoliberiste basate sul rigore – hanno colpito moltissime località periferiche, da cui ogni mattina sciamano lavoratori e studenti diretti nel capoluogo. Il Piano-B è semplice: incentivare la mobilità elettrica, creare parcheggi di scambio e aggregare i viaggiatori su vettori elettrici, treni e pullman. Efficienza, rapidità, aria pulita. «Abbiamo meno di 200 treni regionali, ormai vecchi, che spesso viaggiano a una media di 20 chilometri all’ora. E siamo nel 2019». Attenzione: «Quello dei pendolari rappresenta il 90% del trasporto regionale». Ma siamo in Piemonte, appunto, e non si smette di farneticare sull’ipotetico Tav Torino-Lione, inutile doppione (per merci inesistenti) dell’attuale linea Torino-Modane che già collega Torino a Lione attraverso la valle di Susa e il Traforo del Fréjus, appena riammodernato con una spesa di quasi mezzo miliardo di euro.Non è tutto, naturalmente. Tra i cavalli di battaglia di Roberto Alice c’è la contestazione del nuovo distretto sanitario torinese a valenza regionale, la Città della Salute, che si otterrebbe “traslocando” in periferia i poli ospedalieri d’eccellenza come il Cto (traumatologia), il Sant’Anna (neonatologia) e il Regina Margherita (pediatria). Veri e propri gioielli, di fama europea, cresciuti attorno all’ospedale maggiore, le Molinette, lungo il Po e di fronte alla collina. «Una location prestigiosa, appetibile per costruire alloggi residenziali: operazione che puzza di speculazione edilizia», avverte Alice. Poi ci sono altri pericoli, secondo il candidato grillino: «Si prevede una riduzione di 900 posti letto. E nel futuro maxi-quartiere ospedaliero rischia di sparire l’autonomia sanitaria dei centri di eccellenza. Senza contare la triste sorte dell’Ospedale Oftalmico, già colpito da scriteriati tagli orizzontali». Una politica lontana dai cittadini, progettata dall’alto e in modo opaco? E’ quanto sostengono gli esponenti piemontesi del Movimento 5 Stelle, forti – se non altro – delle prove di trasparenza sin qui offerte dall’amministrazione cittadina guidata dalla grillina Chiara Appendino, sindaco di Torino dal 30 giugno 2016.«Viviamo in un momento difficile», ammette Roberto Alice: «Ad ogni passo, se pur piccolo, verso una politica umanistica, si contrappone il fuoco di fila da parte dei grandi media, che rende faticoso il cammino. Per questo non bisogna mollare». Il governo gialloverde? «Sono cosciente delle difficoltà che deve affrontare». Un consiglio? «Un po’ più di coraggio nelle politiche economiche: i bravi economisti non ci mancano». Quello, infatti, è il vero nodo italiano: «Anziché le fallimentari politiche di austerità, per far crescere il benessere bisogna usare le leve keynesiane: investimento pubblico strategico». Con che soldi? Per esempio, quelli indicati da Nino Galloni, che lo stesso Roberto Alice ha presentato lo scorso 15 marzo a Torino, in un affollato convegno del Movimento Roosevelt: moneta parallela, non a debito, per creare posti di lavoro. «Dobbiamo abbandonare il modello neoaristocratico e turbo-liberista, accogliendo un modello equilibrato dove umanesimo e libero mercato concorrano come forze simbiotiche e non opposte». Come tradurre tutto ciò nelle elezioni regionali? «Impeganrsi nella Regione è importante – dice Roberto Alice – perché è la giusta dimensione intermedia fra il livello locale e quello nazionale ed europeo». Se l’Europarlamento conta pochissimo, e in ogni caso non elegge la Commissione Ue, almeno nelle Regioni sono ancora i cittadini-elettori e decidere, intercettando anche le istanze dei Comuni.Non è poco, in un sistema neo-feudale e post-democratico dominato da lobby potenti che, di fatto, scrivono direttamente le normative europee. Negli ultimi decenni, i livelli decisionali locali sono quasi scomparsi, in favore di una centralizzazione verticale del potere, a spese della sovranità democratica degli elettori. «E’ in Regione – insiste Roberto – dove le possibilità economiche date dallo Stato e dall’Europa possono essere tradotte in politiche virtuose verso il cittadino». Nei trasporti, per esempio: «Il diavolo si nasconde nei dettagli: a che serve disporre di grandi risorse per sviluppare la mobilità elettrica, se poi vengono usate solo per fare appalti a pioggia?». Roberto Alice ragiona da italiano semplice, ma fa parte di una categoria particolare: quella dei cittadini che si sono stancati di assistere passivamente al ripetersi del solito, deludente copione. Per questo si sono rimboccati le maniche, mettendosi a studiare problemi e soluzioni. «In una cornice ambientale sostenibile – ribadisce – possiamo guardare le nostre montagne sotto cieli azzurri, in un Piemonte di grandi tradizioni culturali ma spinto verso un futuro migliore grazie all’adozione di tecnologie pulite». D’accordo, ma perché mai un elettore dovrebbe votare proprio Roberto Alice? «Difficile rispondere», si schermisce l’interessato. «Conosco il territorio e le sue problematiche, ma sono tutte cose che potrebbe fare chiunque». Già, ma non tutti lo fanno. C’è qualcosa di intimamente personale, nello sguardo di Roberto: «Lo ammetto: ho la passione per vedere l’armonia, da cui deriva il benessere e forse anche la felicità. Che dite, può bastare?».«Si parla tanto di un progetto completamente assurdo e inutile come il costosissimo Tav Torino-Lione, mentre la Regione Piemonte ha chiuso 500 chilometri di ferrovie per i pendolari. E così, ogni giorno sono 400.000 le auto che inondano Torino». Follie piemontesi: «Il treno che da Pont Canavese raggiunge il capoluogo impiega un’ora e mezza per percorrere 55 chilometri. Con i soldi del Tav potremmo comprare 1.000 nuovi treni per il Piemonte, oppure 14.000 autobus elettrici o 200.000 auto elettriche. Risolveremmo una volta per tutte il problema del traffico e dell’inquinamento, mettendo fine all’inferno quotidiano dei pendolari». Parola di Roberto Alice, progettista hardware nel settore dell’elettronica per le telecomunicazioni. Torinese, è stato fra i tanti italiani che, anni fa, risposero all’appello di Beppe Grillo per ridare speranza all’Italia, sfinita dalla cattiva politica. Oggi la “rivoluzione” grillina è impigliata tra le luci e le ombre del governo gialloverde, troppo timido con Bruxelles nel rivendicare la propria autonomia finanziaria, indispensabile per investire in modo massiccio nei settori strategici, capaci di creare posti di lavoro. Lo sa benissimo Roberto Alice, keynesiano convinto, esponente piemontese del Movimento Roosevelt e collaboratore di “Scenari Economici”, il newsmagazine fondato da Antonio Maria Rinaldi, ora candidato alle europee con la Lega.
-
Salvini sia statista: pensi agli italiani, non alla Torino-Lione
Salvini sa benissimo che quelli per il traforo Tav Torino-Lione sono 10 miliardi buttati dalla finestra: abbia il coraggio di essere uno statista, capace di parlare con franchezza anche al suo stesso elettorato. Meglio usare quei soldi per i tantissimi cantieri utili, di cui l’Italia ha un disperato bisogno. Lo scrive Davide Gionco su “Scenari Economici”: possibile che il leader della Lega voglia ridursi a fare il mestierante della politica, come gli “eroi” che trascinarono l’Italia nella catastrofe dell’Eurozona? «Ciò che deve distinguere uno statista dai troppi politicanti che hanno fatto disastri in Italia negli ultimi decenni – scrive Gionco – dev’essere la capacità di confrontarsi con la realtà, andando oltre alle proprie posizioni ideologiche o alle proprie convenienze personali e avendo la capacità, se il caso, di spiegarlo ai propri elettori». Per intenderci: politicanti, sostiene Gionco, sono quelli che hanno ingannato gli italiani, raccontando loro che l’euro sarebbe stato un paradiso. «I vari Prodi, D’Alema, Berlusconi, Ciampi (ma anche Bossi) lo hanno fatto per convinzione ideologica o, se in mala fede, per convenienza personale, politica o economica (lascio a voi giudicare). Se avessero analizzato dal punto di vista tecnico l’opzione politica “moneta unica” – dice Gionco – avrebbero dovuto, anche con coraggio, sostenere pubblicamente che si trattava di una opzione non conveniente per gli italiani».Invece, come noto, chi allora gestiva il paese non avvertì dei pericoli connessi con la moneta unica, di cui ancora oggi stiamo pagando il prezzo. «Nel caso della linea Tav Torino-Lione la situazione è stata del tutto simile», osserva Gionco. «Per diversi lustri, tutte le forze politiche sono state favorevoli al progetto, pur in assenza di uno studio costi-benefici serio e indipendente». Lo erano per convinzione ideologica, o magari per convenienza politica o economica. Dopo di che, è arrivata al governo una forza politica – i 5 Stelle – che ha avuto fra i propri sostenitori il movimento NoTav, «costituito da cittadini che da 25 anni manifestano le proprie ragioni di contrarietà all’opera, peraltro con il sostegno di persone competenti in materia». Ed ecco il fatto politico sostanzialmente nuovo, per l’Italia: «Per la prima volta viene effettuata un’analisi tecnica costi-benefici sulla convenienza dell’opera». Scrive Gionco: «Se Prodi & c. avessero fatto lo stesso nei primi anni ’90, oggi forse l’Italia vivrebbe una situazione economica molto diversa». Ora, l’analisi costi-benefici della Commissione Ponti «dimostra che l’opera non solo non è conveniente, ma è molto lontana dall’esserlo». E questo, principalmente a causa dello scarso traffico (di merci e passeggeri) sulla tratta Torino-Lione, ormai ridottosi in modo inesorabile, nonostante il quasi mezzo miliardo speso negli ultimi anni per rendere transitabile l’attuale traforo valsusino del Fréjus anche da parte di treni a con a bordo Tir e grandi container “navali”.La decisione di realizzare l’opera, ricorda Gionco, fu presa sulla base di previsioni di crescita del traffico merci: una prima previsione del 1999, una seconda del 2004 e una terza del 2012. L’andamento reale del traffico merci – che sarebbe dovuto aumentare – non ha fatto invece che calare, fino a rendere quasi semideserta la ferrovia internazionale Torino-Modane che già oggi collega Torino a Lione attraverso la valle di Susa. Davide Gionco sa bene che la decisione di realizzare un’opera del genere deve essere innanziutto politica, ma i dati tecnici – avverte – dovrebbero «aiutare gli statisti a decidere in nome degli interessi degli italiani e non di altri interessi (personali o di partito)». Altrimenti, si rischia di fare la fine toccata a francesi e spagnoli con l’alta velocità che collega Montpellier a Barcellona: un catastrofico buco nell’acqua. La tratta Perpignan-Girona fa anch’essa parte dell’ex “Corridoio 5” Lisbona-Kiev, ora declassato a “Corridoio Mediterraneo”. Qualche anno fa, i media francesi esaltavano la possibilità di “filare” da Montpellier a Barcellona in sole 2 ore e 45 minuti entro la fine del 2013. Peccato però che Francia e Spagna avessero “dimenticato” di realizzare uno studio costi-benefici indipendente: l’unico disponibile era quello prodotto dai costruttori dell’opera.Due anni dopo l’inaugurazione, nel 2015, la società franco-spagnola Tp Ferro è finita sotto amministrazione giudiziaria, per i troppi debiti accumulati. La colpa? Troppo scarso il traffico di merci e passeggeri. Dopo aver costruito la Barcellona-Mompellier, nel 2016 la Tp Ferro ha dichiarato il fallimento. E i debiti? Finiti «a totale carico dei contribuenti francesi e spagnoli». Ora, anche dopo il fallimento di Tp Ferro – continua Gionco – la tratta (Perpignan-Girona) risulta essere fortemente sottoutilizzata, con soli 4.800 treni sui 34.000 attesi nei primi anni di esercizio. «Si tratta quindi di un’opera costantemente in perdita», anche perché «coloro che vogliano andare da Parigi a Barcellona o da Milano a Barcellona, ma anche da Lione e da Marsiglia, ci vanno comodamente in aereo». Il traffico merci? «Non decolla, causa le politiche di austerità sia lato francese che spagnolo». Ma poi: «Per quale ragione i francesi dovrebbero aumentare a dismisura il consumo di merci spagnole e viceversa? Il consumo di merci non è una funzione matematica (come quelle che insegnano alla Bocconi), ma è la conseguenza dei bisogni delle persone, che non crescono indefinitamente». In altre parole: il trend è questo, e non c’è grande opera che possa invertirlo. Vale, a maggior ragione, per l’improbabilissima Torino-Lione.«Davvero Matteo Salvini – si domanda Gionco – vuole assumersi la responsabilità politica e storica di buttare via 10 miliardi di euro (o quanti sono) per realizzare un’opera la cui utilità concreta è molto dubbia, se la si guarda senza preconcetti ideologici?». Salvini ha ragione, ovviamente, a sostenere che per rilanciare l’economia del paese abbiamo bisogno di realizzare opere pubbliche. «Noi di “Scenari Economici” diciamo da anni che dalla crisi economica si esce rilanciando gli investimenti pubblici – conferma Gionco – senza farsi imporre le stupide e criminali politiche di austerità». Ma, aggiunge: «Perché investire in un’opera “poco utile”, quando in tutta Italia non abbiamo nemmeno le risorse per riparare le buche delle strade?». Mancano soldi per mettere in sicurezza le scuole e per la sistemazione idrogeologica del territorio (a proposito, «a quando i prossimi morti?»). Non ci sono risorse «per investire sull’efficientamento energetico di edifici pubblici e privati, per garantire trasporti pubblici locali funzionanti, per far funzionare gli ospedali». L’elenco di lavori urgenti da realizzare subito in Italia è sterminato. «In Svizzera effettivamente realizzano tunnel ferroviari per l’alta velocità, come il San Gottardo, il Monte Ceneri o il Lötschberg, ma se lo possono permettere – dice Gionco – dopo che tutte le infrastrutture pubbliche di base ci sono già e funzionano bene. Non è questa la situazione dell’Italia».Gionco si augura che Salvini «non voglia dimostrarsi come uno dei tanti politicanti che hanno fatto danni all’Italia». E’ il caso degli attuali partiti di opposizione come il Pd, Forza Italia e Leu: «Con la loro incompetenza e i loro conflitti di interessi, hanno messo l’Italia in balia dei poteri finanziari internazionali, facendo pagare sempre il conto ai (sempre più poveri) cittadini italiani». Questi 10 miliardi del Tav Torino-Lione, insiste Gionco, «spendiamoli in altre opere utili, urgenti e necessarie». Tanto per cominciare, si creerebbero più posti di lavoro di quelli destinati alla realizzazione del tunnel, «dato che una parte rilevante dei costi di realizzazione delle opere del Tav è consumo di energia per forare le montagne». In altre parole, «senza Tav risparmiamo energia e investiamo gli stessi importi per impiegare più personale in altre opere, utili». Conclude l’analista di “Scenari Economici”: «Ci auguriamo che Salvini dimostri di essere uno statista, comprendendo che la questione del Tav è del tutto irrilevante per portare l’Italia fuori dalla crisi economica». Piuttosto, Gionco considera determinante il fatto che l’attuale governo vada avanti, «per sottrarre l’Italia al giogo dell’Unione Europea e delle politiche di austerità». Sintetizzando: «Personalmente, non mi interessa nulla guadagnare un’ora per andare da Torino a Lione fra vent’anni, mentre mi interessa molto porre fine – ora – alla crisi economica in Italia».Salvini sa benissimo che quelli per il traforo Tav Torino-Lione sono 10 miliardi buttati dalla finestra: abbia il coraggio di essere uno statista, capace di parlare con franchezza anche al suo stesso elettorato. Meglio usare quei soldi per i tantissimi cantieri utili, di cui l’Italia ha un disperato bisogno. Lo scrive Davide Gionco su “Scenari Economici”: possibile che il leader della Lega voglia ridursi a fare il mestierante della politica, come gli “eroi” che trascinarono l’Italia nella catastrofe dell’Eurozona? «Ciò che deve distinguere uno statista dai troppi politicanti che hanno fatto disastri in Italia negli ultimi decenni – scrive Gionco – dev’essere la capacità di confrontarsi con la realtà, andando oltre alle proprie posizioni ideologiche o alle proprie convenienze personali e avendo la capacità, se il caso, di spiegarlo ai propri elettori». Per intenderci: politicanti, sostiene Gionco, sono quelli che hanno ingannato gli italiani, raccontando loro che l’euro sarebbe stato un paradiso. «I vari Prodi, D’Alema, Berlusconi, Ciampi (ma anche Bossi) lo hanno fatto per convinzione ideologica o, se in mala fede, per convenienza personale, politica o economica (lascio a voi giudicare). Se avessero analizzato dal punto di vista tecnico l’opzione politica “moneta unica” – dice Gionco – avrebbero dovuto, anche con coraggio, sostenere pubblicamente che si trattava di una opzione non conveniente per gli italiani».
-
Viareggio, strage-vergogna: Moretti premiato dopo il rogo
Difficilmente mi occupo di questioni legate alla giustizia, ma quando si tratta della strage di Viareggio non posso tacere, essendo io nativo e abitante di quelle terre, e data la atrocità oggettiva di quanto accadde in quell’inferno esploso proprio nel centro cittadino. L’esplosione del convoglio avvenne sotto il sovrappasso che unisce via Ponchielli e Burlamacchi, percorso che fino a quel momento era legato ai ricordi delle moltissime persone che come me lo utilizzavano per recarsi ai rioni notturni di Carnevale. Toccato da tanto dolore e drammaticità scrissi anche una poesia quasi per sprigionare tutta l’emozione, il coinvolgimento, l’angoscia, l’incredulità: 31 morti carbonizzati, 11 dei quali “disciolti” all’istante, 2 infarti e 25 feriti, alcuni dei quali con lesioni gravissime). L’11 febbraio 2019 sono stati chiesti 15 anni e 6 mesi dalla Procura generale di Firenze (appello) per Mauro Moretti: la strage risale al 29 giugno 2009 quando egli era amministratore delegato di Fs e Rfi. Puntualmente gli organi della giustizia e del potere, perché Moretti di potere ne ha da vendere, mostrano una prevedibile resistenza, rispettivamente, a giudicare ed esser giudicati, soprattutto quando il soggetto in questione può disporre dei migliori avvocati e di enormi agganci politici. Presto saranno passati ben 10 anni.Non so se noi italiani ce ne rendiamo conto e se ci sta bene, ma i media italiani, chiacchieroni, a seconda dei propri interessi sono i più disinvolti nell’enfatizzare questioni pretestuose e inconsistenti, magari parlandone per mesi, sostanzialmente ignorando quelle notizie come QUESTA, che meriterebbero adeguato risalto. Segnalo solo alcune posizioni assunte dal Moretti: ha fatto carriera nella Cgil tra gli anni ’80 e gli anni ‘90 arrivando ai vertici del sindacato, dal 2006 al 2014 è stato Ad di Ferrovie dello Stato su nomina dell’ex ministro Pd Tommaso Padoa Schioppa (quello che definiva i giovani disoccupati “bamboccioni”) e dal 2014 al 2017 è stato “promosso” come direttore generale e Ad di Finmeccanica-Leonardo a 1,7 milioni di “salario”: il doppio, più o meno, rispetto ai tempi di Fs quando, nel 2012, si lamentava praticamente di guadagnare troppo poco, cioè quasi 900 mila euro all’anno, più i “premi”. Tutte “cosine” avvenute dopo la strage…Tra le varie posizioni assunte, anche ruoli internazionali come quello di presidente della Community of European Railway and Infrastructure Companies, sindaco di Mompeo per due mandati, presidente della Fondazione Ferrovie dello Stato, presidente dell’Associazione Europea delle Industrie per l’Aereospazio e la Difesa, membro del consiglio direttivo degli amici dell’Accademia dei Lincei. Per dire come funzionavano le cose all’epoca (nei meandri dello Stato profondo italiano ancora oggi) il 31 maggio 2010 Moretti fu nominato, dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, cavaliere del lavoro. Una vergogna e una beffa, 11 mesi dopo la strage. Bene ha fatto il M5S (tramite Gianluca Ferrara, senatore di Viareggio da me criticato per altre questioni ma in questo caso molto opportuno) a farsi “ricevere” (dovremmo dire che si “sale” da lui?) dal presidente emerito (emerito…) per avere risposte. Risposte che, se si legge l’articolo linkato, hanno il sapore delle lacrime di coccodrillo (mi si perdoni il tono emotivo e meno “professionale” del solito), con un retrogusto di scaricabarile; sono certo che esse si trasformerebbero in tutt’altro, in sordità e arroganza, qualora il presidente ringiovanisse 20 anni e si ritrovasse al Colle.Presidente Napolitano che, ricordo bene, quando militavo nel M5S (2012-2017), “c’era da stare attenti” a chiamare in causa anche “solo” per chiedergli (inutilmente) di incontrare i familiari delle vittime, perché c’era il rischio di essere accusati da parte delle altre forze politiche di “strumentalizzare” la strage. Ebbene, una parte di italiani ricorda, io ricordo, e adesso che non faccio politica (ma anche all’epoca non mi tiravo indietro ed elaborai anche il testo di una mozione in merito) posso esprimere tutto il mio disprezzo, non solo contro questo pannolone mantenuto dallo Stato, ma anche verso quei politici locali che, anziché percorrere una strada di accusa, seguendo un impulso naturale umano, facevano un compromesso tra ciò che “si dovrebbe” e ciò che “non si poteva” (per non ledere la propria ambizione di poltrona) magari perché della stessa “ditta” della prima carica dello Stato.Perfino l’ex presidente del Consiglio Letta si macchiò di una grave colpa, non permettendo allo Stato di costituirsi parte civile. Ancora oggi, quando qualcuno descrive Napolitano per quello che è, viene sottoposto alla fanfara starnazzante di fango mediatico, al fuoco incrociato degli organi di “informazione” di destra e sinistra, come avvenuto per Di Battista recentemente. Gli italiani evidentemente dimenticano troppo in fretta, perfino cosa è stato Napolitano – e non mi riferisco alla carica che rivestiva…basta un po’ di alone, la consueta bolla mediatica di pensiero dominante e l’indottrinamento orwelliano porta a stigmatizzare (stigma = base del pregiudizio e della vergogna) chi si distingue solo perché dice la verità. Eppure qualcosa sta cambiando, molti tabù stanno emergendo dalla loro intoccabilità. Concludo con una richiesta al presidente Mattarella: vada in televisione e chieda la revoca di tutti i titoli di cavalierato a tal Moretti; e chieda una iniziativa di legge che determini, per i condannati in via definitiva per reati gravissimi quali strage, associazione mafiosa e stupro, un tetto massimo di pensione pari al minimo nazionale (780 euro).(Marco Giannini, “Viareggio, la strage della vergogna: almeno, si infligga a Moretti la pensione minima”, da “Libreidee” del 24 febbraio 2019).Difficilmente mi occupo di questioni legate alla giustizia, ma quando si tratta della strage di Viareggio non posso tacere, essendo io nativo e abitante di quelle terre, e data la atrocità oggettiva di quanto accadde in quell’inferno esploso proprio nel centro cittadino. L’esplosione del convoglio avvenne sotto il sovrappasso che unisce via Ponchielli e Burlamacchi, percorso che fino a quel momento era legato ai ricordi delle moltissime persone che come me lo utilizzavano per recarsi ai rioni notturni di Carnevale. Toccato da tanto dolore e drammaticità scrissi anche una poesia quasi per sprigionare tutta l’emozione, il coinvolgimento, l’angoscia, l’incredulità: 31 morti carbonizzati, 11 dei quali “disciolti” all’istante, 2 infarti e 25 feriti, alcuni dei quali con lesioni gravissime). L’11 febbraio 2019 sono stati chiesti 15 anni e 6 mesi dalla Procura generale di Firenze (appello) per Mauro Moretti: la strage risale al 29 giugno 2009 quando egli era amministratore delegato di Fs e Rfi. Puntualmente gli organi della giustizia e del potere, perché Moretti di potere ne ha da vendere, mostrano una prevedibile resistenza, rispettivamente, a giudicare ed esser giudicati, soprattutto quando il soggetto in questione può disporre dei migliori avvocati e di enormi agganci politici. Presto saranno passati ben 10 anni.
-
Poteri oscuri, anche Salvini obbedisce al Tav Torino-Lione
Non basterebbe neppure Dan Brown. Ci vorrebbe almeno Tolkien, per svelare – attraverso una fiaba – il mistero del Tav Torino-Lione, cioè il sortilegio nero che vuole che si spendano 20-30 miliardi per costruire quella linea ferroviaria “maledetta”. Si tratta dell’inutile e faraonico doppione della ferrovia che esiste già, e che da 150 anni collega Torino a Lione attraverso la valle di Susa e il Traforo del Fréjus, riammodernato qualche anno fa (costo, 400 milioni di euro) per consentire il transito dei treni con a bordo i Tir e anche i grandi container “navali”, della massima pezzatura. L’unico problema è che non ci sono più merci da trasportare: l’asse strategico del terzo millennio è quello che unisce Genova e Rotterdam, mentre la direttrice Torino-Lione è ormai un binario morto, dal destino segnato. Secondo la Svizzera, incaricata dall’Ue di monitorare il traffico alpino, l’attuale Torino-Modane, semideserta, potrebbe incrementare addirittura del 900% il suo volume di trasporti. E allora che bisogno c’è di scavare – da zero – un nuovo traforo, lungo 57 chilometri, di cui non esiste ancora neppure un metro?L’unico mini-tunnel realizzato, quello di Chiomonte, è solo una galleria esplorativa accessoria, geognostica: non potrebbe mai passarci nessun treno, anche se Matteo Salvini arriva a sostenere – davanti alle telecamere, proprio a Chiomonte – che costerebbe meno “finire il lavoro” piuttosto che “tappare il buco”. Dichiarazione ingannevole: Salvini sa benissimo che il “lavoro” per il tunnel destinato al treno non è mai neppure cominciato. Pur di premere sui 5 Stelle, il leader leghista – come già Renzi – arriva a ipotizzare un progetto “low cost”, parlando di appena 4 miliardi (cioè il costo della parte italiana dell’ipotetico futuro traforo, non quello della linea ferroviaria fino a Torino). Di più: il ministro dell’interno aggiunge che, “risparmiando” (ad esempio, rinunciando alla surreale “stazione internazionale” di Susa), si potrebbero costruire finalmente anche opere utili, come la metropolitana di Torino. Su questo ha ragione: il capoluogo piemontese, a lungo amministrato dalla dinastia Castellani-Chiamparino-Fassino, dispone solo di un’unica, patetica linea.Torino, la metropoli più inquinata della penisola, è anche la grande città italiana peggio servita dai mezzi pubblici veloci: è l’unica a non disporre di una vera rete metropolitana. In compenso, i suoi ex sindaci sono tra i più fanatici sostenitori dell’inutile Tav Torino-Lione. Chiamparino, in particolare, è il capo degli hooligan pro-Tav. Un caso esemplare di mistero italico: dopo aver fatto il sindaco è passato senza colpo ferire alla guida di una potentissima centrale finanziaria come la Compagnia di San Paolo, per poi tornare tranquillamente alla politica. L’uomo di fiducia dei grandi banchieri è oggi presidente della Regione Piemonte, poltronissima da cui martella il governo gialloverde per ottenere a tutti i costi la grande opera “maledetta”. Ci sta riuscendo? Stando a Salvini, parrebbe di sì. Sulla maxi-torta dell’appalto alpino, il capo della Lega è perfettamente allineato al fantasma del Pd.A questo punto, la ragione vacilla. Per chi ha seguito i vent’anni di protesta popolare in opposizione alla Torino-Lione, i conti non tornano. Il movimento NoTav – ormai appoggiato da vasti strati dell’opinione pubblica nazionale – è stato il primo vero esempio, in Italia e non solo, di denuncia politica “glocal”. Dal particulare all’universale, dicevano gli umanisti rinascimentali. Agire localmente e pensare globalmente, ripetevano negli anni ‘80 i primi Verdi ispirati da Alex Langer. I valsusini – popolo sulle barricate, che nel 2005 riuscì a fermare il progetto con una spettacolare protesta nonviolenta guidata dai sindaci in fascia tricolore – per molti aspetti hanno come anticipato gli americani di Occupy Wall Street, adottando un metodo di lotta, dal sit-in fino al blocco stradale, che oggi i Gilet Gialli si limitano a replicare. L’intuizione: se il potere “bara” a casa nostra, sulla base di dati falsificati, è lecito sospettare che “imbrogli” ovunque. E’ lecito supporre che si limiti a eseguire gli ordini di un’oligarchia del denaro mossa da interessi inconfessabili.Sta barando da vent’anni, il potere che insiste – come un disco rotto – nel voler imporre quella super-linea inutile in valle di Susa, facendola pagare carissima all’Italia? Vedete voi, ma sappiate che la Torino-Lione non serve: lo dicono tutti i maggiori esperti di trasporti, tra cui il professor Marco Ponti del Politecnico di Milano, ora collocato dal ministro Toninelli nella scomodissima posizione di presidente della commissione incaricata di formulare un giudizio decisivo sul rapporto costi-benefici della grande opera. La Torino-Lione non serve: lo ribadirono ben 360 professori e tecnici dell’università italiana, in accorati e inutili appelli rivolti al Quirinale e a Palazzo Chigi. Costi immensi, e nessun risultato: perché le merci devono comunque viaggiare a bassa velocità, per motivi di sicurezza. Quanto alla Francia, spesso usata in Italia come alibi “europeo” per costruire a tutti i costi l’infrastruttura, ha deciso ufficialmente che di Torino-Lione, a Parigi, si riparlerà eventualmente solo dopo il 2030.Il progetto Torino-Lione è un relitto ormai obsoleto degli anni ‘80: era nato come sogno di collegamento veloce per passeggeri, ed è stato archiviato dall’avvento dei voli low-cost. Al che, è stato trasformato in Tac, treno ad alta capacità per le merci, fingendo di non sapere che i convogli commerciali devono viaggiare lentamente, e che la chiave del trasporto merci non è la velocità, ma la puntualità della logistica: il sistema più efficiente al mondo è quello degli Usa, fatto da treni che viaggiano a 60 miglia utilizzando tunnel dell’800 che valicano le Montagne Rocciose. I costi territoriali della Torino-Lione sarebbero folli: le montagne della valle di Susa sono piene di amianto e tuttora traforate dalle gallerie scavate dall’Agip negli anni ‘70, ai tempi del nucleare italiano, perché il Massiccio dell’Ambin è un immenso giacimento di uranio. Senza contare la devastazione ambientale e urbanistica (vent’anni di cantieri), l’incognita maggiore è quella idrogeologica: quei monti fra Italia e Francia, dicono i geologi, ospitano un enorme bacino sommerso. Bucarlo potrebbe comportare conseguenze impensabili, con ripercussioni sui fiumi fino alla Valle d’Aosta.Il compianto Luca Rastello, giornalista di “Repubblica”, in un saggio sul tema spiega che poi, una volta alle porte di Torino, la nuova linea potrebbe congiungersi alla Torino-Milano solo sbancando interi quartieri o procedendo per via sotterranea, e quindi perforando la falda idropotabile che alimenta l’area metropolitana torinese. Non se ne rendono conto, gli abitanti di Torino, perché nessun politico – prima di Chiara Appendino – si è mai premurato di spiegarlo chiaramente. Né si interrogano, i torinesi, sul motivo di tanta ostinazione, da parte dei valsusini, nell’opporsi al progetto. Non sospettano, i torinesi, che la criminalizzazione a reti unificate del movimento NoTav è servita a nascondere due verità imbarazzanti. La prima: in vent’anni, la politica non ha mai voluto o saputo dimostrare l’utilità della grande opera, neppure a fronte di una protesta così rumorosa. La seconda: il progetto Torino-Lione è nato sotto una cattiva stella, la peggiore di tutte: la strategia della tensione.Negli anni ‘90, appena si cominciò a insistere sull’opera come “inevitabile” prospettiva strategica, la valle di Susa fu terrorizzata da 12 attentati dinamitardi. Alcuni furono rivendicati in modo delirante: volantini firmati “Valsusa Libera” e “Lupi Grigi” contenevano farneticazioni “guerriere” contro l’alta velocità. I giornali, all’unisono, puntarono il dito contro gli “ecoterroristi” e gli “anarco-insurrezionalisti”. Poco dopo vennero arrestati tre giovani anarchici, di cui due – Edoardo Massari e Maria Soladed Rosas, “Sole e Baleno” – trovati morti (impiccati) mentre erano in stato di detenzione. Contro di loro, l’accusa aveva vantato “prove granitiche”, che poi al processo evaporarono: non erano stati loro a mettere quelle bombe. Chi, allora? Non s’è mai saputo: caso chiuso. I valsusini però non dimenticano. Sanno che quello di Bardonecchia, santuario del turismo bianco, vicino a Sestriere, è stato il primo Consiglio Comunale italiano – a nord del Po – a essere disciolto per mafia. E sanno che, sempre negli anni ‘90, la procura di Torino intercettò un traffico di armi che collegava l’armeria di Susa a una cosca calabrese, con il placet di settori del Sismi e del Sisde. Erano gli anni della “trattativa”, in cui Falcone e Borsellino saltavano per aria, in Sicilia.Si può immaginare lo stato d’animo dei valsusini, quando – dopo tutto questo – si sono visti arrivare, nel cortile di casa, anche lo spettro della maxi-opera più controversa della storia, al pari del Ponte sullo Stretto. A parlare è il buon senso della geografia: Moncenisio, Fréjus e Monginevro. Ovvero: statali, autostrada, ferrovia, trafori. Nessun’altra valle alpina è altrettanto collegata al resto d’Europa, attraverso valichi internazionali. Perché aggiungere anche l’assurda Torino-Lione? Quale mistero indicibile trasforma la valle di Susa in un oscuro crocevia di mafie e affari, bombe e appalti? E soprattutto: com’è possibile che, in vent’anni, la politica non si sia mai degnata di dare una risposta chiara? E’ evidente che, se l’utilità della Torino-Lione venisse finalmente dimostrata, le bandiere della protesta finirebbero per venir ammainate. Basterebbe spiegare per quale motivo l’opera è ritenuta indispensabile. La valle di Susa lo chiede da vent’anni. E la risposta non è mai arrivata. Perché?Visto che la politica tace, tanto varrebbe chiedere lumi ai romanzieri come Dan Brown o all’autrice di Harry Potter, non essendo più possibile interpellare il Signore degli Anelli. Magia? Se una verità viene palesemente taciuta da decenni, il minimo che possa accadere è che si scatenino anche i complottismi più fantasiosi. Ha suscitato sconcerto, nel 2016, l’inaugurazione teatrale del traforo del Gottardo, con l’inquietante coreografia dedicata a un Dio Caprone. Fausto Carotenuto, già analista strategico dell’intelligence ora passato al network “Coscienze in Rete”, sostiene che la Torino-Lione sarebbe una sorta di “attentato energetico” per violare la Linea di Michele, notissima ley-line che unisce Israele all’Irlanda attraverso i santuari dedicati all’arcangelo Michele, con epicentro proprio la Sacra di San Michele in valle di Susa. Paolo Rumor, nipote del più volte premier Mariano Rumor, nel libro “L’altra Europa” racconta una storia sconvolgente, rivelata a suo padre dall’europeista francese Maurice Schuman: il medesimo potere, di natura dinastica (denominato “La Struttura”) governerebbe il pianeta da 12.000 anni, e la stessa Unione Europea sarebbe opera sua.Non potendo interpellare Tolkien o scomodare la Rowling, non resta che tralasciare le suggestioni e attenersi ai fatti: sarebbe capace, Matteo Salvini, di spiegare il motivo per cui l’Italia, insieme alla Francia, dovrebbe scavare – da zero – un tunnel di 57 chilometri per costruire il doppione della ferrovia Torino-Lione che esiste già? Se la risposta la conosce, perché non la svela? Perché anche lui si limita, come tutti gli altri, a dire stupidaggini, sapendo che i media mainstream le ripeteranno con successo, confidando nell’ignoranza del grande pubblico? C’è davvero un grande potere-ombra che – per motivi ignoti e imperscrutabili – ha lanciato un’Opa misteriosa sulla stramaledetta Torino-Lione? Un grande affare finanziario, d’accordo, ma per pochi intimi (pochissimi i lavoratori coinvolti). E, secondo il giallista Massimo Carlotto, anche una virtuale “lavanderia” di denaro: un magistrato come Ferdinando Imposimato ha dimostrato che vasti tratti della rete Tav italiana sono stati costruiti proprio da aziende mafiose.Poi ci sarebbe il triste indotto politico della filiera, affidato ai soliti yesman che in realtà lavorano da sempre per le consorterie affaristiche che hanno costruito le loro carriere istituzionali. Ma non può essere tutto qui, il problema. Cos’altro può muovere i fili di una follia pubblica così estrema, e così potente da piegare persino i bulletti del “governo del cambiamento”? Lo spettacolo non è edificante: Salvini con l’elmetto a Chiomonte, ormai arruolato alla causa, mentre Di Maio e Toninelli non osano neppure lontanamente minacciare le dimissioni, nel caso dovessero perdere il braccio di ferro (e quindi la faccia). Li si può capire: dal canto suo, il primo ministro Conte cazzeggia beatamente al bar con Angela Merkel, l’amicona di Macron e dell’Italia, ridacchiando alle spalle di quei fessi dei 5 Stelle (e degli italiani che li hanno votati). Nel frattempo, l’inesorabile ecomostro finanziario e ferroviario avanza, passo dopo passo. E l’umorista Salvini pensa di cavarsela con le battute sui mitici “risparmi”: come se davvero si trattasse di tre o quattro miliardi, e non invece di un grottesco attentato alla sovranità democratica del paese, evidentemente organizzato – con tenacia impressionante – da poteri che possono mettersi in tasca qualsiasi politico, anche se indossa la maschera di cartone del sovranismo.(Giorgio Cattaneo, “Quale oscuro potere ha piegato anche l’ex sovranista Salvini alla teologia dell’inutile Tav Torino-Lione?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 2 febbraio 2019).Non basterebbe neppure Dan Brown. Ci vorrebbe almeno Tolkien, per svelare – attraverso una fiaba – il mistero del Tav Torino-Lione, cioè il sortilegio nero che vuole che si spendano 20-30 miliardi per costruire quella linea ferroviaria “maledetta”. Si tratta dell’inutile e faraonico doppione della ferrovia che esiste già, e che da 150 anni collega Torino a Lione attraverso la valle di Susa e il Traforo del Fréjus, riammodernato qualche anno fa (costo, 400 milioni di euro) per consentire il transito dei treni con a bordo i Tir e anche i grandi container “navali”, della massima pezzatura. L’unico problema è che non ci sono più merci da trasportare: l’asse strategico del terzo millennio è quello che unisce Genova e Rotterdam, mentre la direttrice Torino-Lione è ormai un binario morto, dal destino segnato. Secondo la Svizzera, incaricata dall’Ue di monitorare il traffico alpino, l’attuale Torino-Modane, semideserta, potrebbe incrementare addirittura del 900% il suo volume di trasporti. E allora che bisogno c’è di scavare – da zero – un nuovo traforo, lungo 57 chilometri, di cui non esiste ancora neppure un metro?
-
Tav, la strana guerra contro i palestinesi della val di Susa
Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.Nemmeno l’umorismo iperbolico di Paolo Villaggio, forse, sarebbe riuscito a dipingere il carattere lunare, gaglioffo e cialtrone del fantasma ferroviario che insidia da più di vent’anni l’estremo nord-ovest italiano: un ipotetico super-treno pensato negli anni ’80 del secolo scorso per i passeggeri, surclassato in capo a un decennio dall’avvento dei voli low-cost e infine umiliato anche dal traffico merci, defunto pure quello. La globalizzazione “cinese” sbarca a Genova e punta verso Rotterdam, snobbando il Piemonte e le Alpi del Rodano. Dalla Fortezza Bastiani del Tav, a lungo presidiata dall’ineffabile Pd con la collaborazione del centrodestra (leghisti compresi), ormai si guarda con malinconia ai dati, impietosi, sciorinati ufficialmente anche a Palazzo Chigi: il flusso di merci è crollato, e la ferrovia internazionale che già collega Torino a Lione attraversando l’infelice valle di Susa (via Modane, traforo del Fréjus) potrebbe tranquillamente reggere un incremento di traffico del 900%, se solo ci fossero merci da trasportare. Bel guaio: cosa bisognerà inventare, ancora, per spillare soldi euro-italiani da spalmare su appalti e subappalti? Avverte il giallista Massimo Carlotto, vicino ai NoTav: le grandi opere sono perfette per riciclare denaro, nell’immensa “lavanderia a cielo aperto” chiamata Europa. Business is business: non è che si possa smontare così, su due piedi, un grande affare destinato a pompare milioni (miliardi) in una filiera che include industria e indotto cantieristico, studi e consulenze, progettisti, banche e partiti.Se sento ancora parlare di Tav Torino-Lione, scrisse Giorgio Bocca nel 2005, vado a ripescare il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato alla fine della guerra partigiana. Si era documentato, l’ultimo grande vecchio del giornalismo italiano: aveva capito che i palestinesi inermi le avevano buscate in modo selvaggio, riempiti di botte – uomini e donne, ragazzi e anziani – dai robocop venuti da lontano, in piena notte, per sgomberare il prato di Venaus occupato dalle famiglie impegnate in una sorta di sit-in permanente. Ne seguì una sommossa popolare a carattere insurrezionale: qualcosa che in Italia s’era visto soltanto nei moti di Reggio Calabria del 1970. Un popolo sulle barricate, armato solo di indignazione. Scudi umani, i sindaci in fascia tricolore (e le loro auto, quelle dei vigili urbani, spedite a sbarrare le strade, coi lampeggianti accesi). Due giorni di follia collettiva, dopo il pestaggio notturno, fino alla paralisi della tangenziale di Torino e alla capitolazione del governo: progetto sospeso, ritirato, archiviato. Clamorosa vittoria dei palestinesi, che da quel momento cominciarono a credersi invincibili. O meglio: ritennero invincibile la forza della ragione, la sovranità democratica del cittadino, la legittimità della protesta di una comunità coesa e fasciata di tricolore.Durò anni, l’illusione. Una speranza radicata: il governo centrale si sarebbe deciso a cestinare il dossier – poi bocciato anche da 360 tecnici universitari – per concludere che sì, avevano ragione i palestinesi della valle di Susa: quella ferrovia andava dimenticata, gettata nella spazzatura della storia. Ma le trivelle tornarono, dopo un quinquennio di silenzio. Era il 2010. La tensione emotiva era scemata, molti sindaci erano spariti – non rieletti, o semplicemente rimasti a casa, non più disposti a fare da caschi blu. Fu allora che cominciò l’accerchiamento, lento e inesorabile. Senza più i sindaci in prima fila, i NoTav erano nudi. “Siete finiti”, li avvertì cordialmente il sindaco di Torino, Chiamparino. Risposero in quarantamila, con una marcia sotto la neve. I piani di Roma, intanto, erano cambiati: il cantiere per la prima galleria esplorativa, inizialmente programmato nel prato poi “espugnato” a Venaus nel 2005, sarebbe stato reimpiantato a Chiomonte, sopra le gole della Dora Riparia, in posizione militarmente difendibile. I NoTav risposero asserragliandosi proprio lì, tra le loro Termopili. Nacque la Libera Repubblica della Maddalena, il villaggio di Asterix attrezzato – con barricate – per tentare di resistere all’esercito imperiale. I reparti antisommossa, duemila uomini, si presentarono puntuali all’alba del 27 giugno 2011. Agirono con calma, minimizzando la loro forza d’urto. In cabina di regia il ministro Maroni e il capo della polizia Manganelli. Niente più cariche, solo lacrimogeni.Ci rimasero malissimo, i palestinesi: avevano sperato di ripetere il “miracolo” del 2005, quand’erano riusciti – sciamando in 80.000 attraverso i boschi – a sfrattare la polizia da Venaus. Una settimana dopo lo sgombero della “Libera Repubblica”, il 3 luglio 2011 tentarono di riprendersi Chiomonte. Erano in centomila: un corteo lungo chilometri. Pullman da tutta Italia, decine di migliaia di valsusini. E anche giovani dei centri sociali: quelli che poi, nel pomeriggio, avrebbero contribuito a trasformare la protesta in guerriglia. “Volevano il morto”, dichiarò Maroni. Bilancio ufficiale: 200 feriti per parte. E fine di una lunga, gloriosa anomalia: la lotta popolare esclusivamente nonviolenta, nata e cresciuta in mezzo ai monti, che tanto aveva spaventato la politica. Inammissibile che una comunità di sessantamila valligiani riuscisse a fermare le ruspe. Intollerabile, che lo facesse in modo pacifico. Inaccettabile, che imponesse al governo di lasciarsi ascoltare, e lo costringesse a prender nota del fatto che, secondo tutti gli esperti, la linea Tav Torino-Lione era (ed è) una pazzia completamente inutile, destinata a pesare per decine di miliardi sul debito pubblico dopo aver reso invivibile il territorio, cioè i 50 chilometri che separano Torino dalla Francia. Rocce piene di amianto, montagne dove l’Agip scavò decine di gallerie per estrarre l’uranio al tempo del nucleare italiano. Falde acquifere a rischio, salute in pericolo e addio agricoltura. Dissesto idrogeologico irrimediabile, apocalisse urbanistica, catastrofe idrica incombente sulla stessa area metropolitana torinese. Ma perché, di grazia? A beneficio di chi?“Diteci almeno a cosa servirebbe, tutto questo”. Domanda rimasta sempre inevasa. Lo vuole l’Europa, c’è un impegno con la Francia. Davvero? Sì e no. L’Europa ha cambiato idea: ha archiviato l’originaria, fantascientifica direttrice Kiev-Lisbona, di cui la Torino-Lione sarebbe stata il passante alpino. Quanto alla Francia, varie istituzioni parigine hanno via via intiepidito la loro posizione. Analoga retromarcia tattica dal governo Renzi: è vero, la nuova linea costa troppo; meglio limitarsi al solo traforo, facendo poi passare i treni sull’attuale linea (perfettamente idonea, dunque – percorsa, già oggi, dal Tgv francese). Nel frattempo, sui NoTav si è scatenata una campagna di demonizzazione parossistica, da parte della politica istituzionale e dei grandi media. E il movimento valsusino, senza più la tutela diretta dei sindaci, ha fatto miracoli per arginare il pericolo di infiltrazioni da parte delle frange virtualmente violente (un conto è gestire un corteo, un altro controllare manifestanti in ordine sparso, nei boschi). Anni durissimi, rischiosi, in bilico, ma durante i quali – nonostante tutto – la resistenza dei palestinesi ha conquistato piena cittadinanza in larghi strati del paese, anche grazie al generoso impegno di opinion leader di prima grandezza, scrittori e artisti, cantanti, giuristi, intellettuali. Senza con questo riuscire minimamente a scalfire il muro di omertoso silenzio che ancora protegge, misteriosamente, il progetto della grande opera: un dogma marmoreo, quasi mistico, che sembra imposto da una religione sconosciuta, alla quale gli stessi politici (ministri, premier) appaiono sottomessi.C’è altro, poi, che i valsusini sanno e gli altri italiani per lo più ignorano. E’ una storia complicata, tra loro e il governo. Una storia tormentata e opaca, per molti aspetti, che risale addirittura alla Liberazione, quando molti partigiani – in maggioranza comunisti – rifiutarono di consegnare le armi agli alleati, per poi tirarle fuori, occupando fabbriche, in risposta all’attentato a Togliatti. Ha radici antiche, il ribellismo della valle di Susa, industriale e operaia già alla fine dell’800. Dopo il Sessantotto, mentre i padri issavano bandiere rosse sui cotonifici, decine di figli cedettero alla tentazione della lotta armata. La valle di Susa è stata l’unica area non metropolitana, in tutta Italia, ad allevare una colonna di terroristi, arruolati tra le file di Prima Linea. Poi vennero gli anni ’80, con l’autostrada del Fréjus che la valle non voleva. Le solite mazzette e, a seguire, la relativa Tangentopoli, con arresti eccellenti, mentre la commissione parlamentare antimafia denunciava il radicamento della ‘ndrangheta nell’alta valle, il paradiso sciistico che a Sestriere avrebbe ospitato i Mondiali di sci e poi le Olimpiadi Invernali. Quello di Bardonecchia è stato il primo Consiglio comunale italiano, a nord del Po, a essere disciolto per mafia.L’onorata società tornò a occupare la cronaca della valle di Susa poco dopo gli attentati siciliani costati la vita a Falcone e Borsellino, quando la magistratura di Torino scoprì che erano finite a una cosca calabrese le pistole uscite illegalmente, a centinaia, da un’armeria di Susa. Chi avrebbe dovuto vigilare non l’aveva fatto: emerse l’ombra dei servizi segreti. Gli inquirenti avevano scoperto il traffico di armi grazie a un pentito della ‘ndrangheta, che smise di parlare (di colpo) dopo che gli fu ucciso il fratello, proprio in valle di Susa, da un ex agente del Sismi, reo confesso. Uno stillicidio di notizie inquietanti, che il valsusino medio – non ancora palestinese – apprendeva con sgomento, a metà degli anni ’90. A seguire, cominciarono a esplodere bombe: una dozzina di attentati dinamitardi, notturni e devastanti ma tutti incruenti, colpirono le prime trivelle del futuro Tav ma anche centraline Enel, tralicci telefonici, ripetitori televisivi. I giornali, in coro, parlarono di eco-terrorismo anarco-insurrezionalista. Comparve una sigla, “Lupi Grigi”, con rivendicazioni deliranti contro le grandi opere. Finirono in manette tre giovani anarchici, due dei quali (“Sole e Baleno”) poi trovati morti in stato di detenzione, impiccati. L’accusa: banda armata e associazione sovversiva. Lui, Edoardo Massari, un anarchico piemontese. Lei, Maria Soledad Rosas, argentina, giovanissima, venuta in Europa in vacanza premio, dopo il liceo, e poi rimasta in Italia perché innamoratasi del suo “Edo”. Il pm annunciò di avere “prove granitiche”, contro di loro. Salvo poi ammettere il tragico errore, fuori tempo massimo. Scagionati post mortem, alla fine del processo: non erano stati quei ragazzi, a far saltare in aria mezza valle di Susa. Chi, allora?Aveva in testa anche questi pensieri, il valsusino medio (mediamente colto e informato, mediamente scettico) quando cominciò a diventare un po’ palestinese, trascinando la famiglia nei prati di Venaus dove, nel 2005, si era accampata la polizia, spedita lassù da un governo che sosteneva fosse fondamentale far passare proprio di lì, spianando l’intera vallata, la famosa super-ferrovia miliardaria destinata a collegare il Portogallo all’Ucraina. Non può essere, si dicevano i valligiani: avranno capito male, a Roma. E così studiarono, si documentarono, mobilitarono i migliori specialisti. Non sta né in cielo né in terra, conclusero: è un’opera faraonica e devastante, tragicamente inutile. Ne parlavano anche coi poliziotti infreddoliti, inviati a Venaus a presidiare il prato prescelto per accogliere il primo cantiere. Dai NoTav, una protesta formato famiglia: bambini, polenta, bicchieri di tè caldo offerti agli stessi agenti – non quelli che li avrebbero sgomberati (per l’operazione, il reparto presidiario fu avvicendato). Gli incursori notturni colpirono alla cieca, travolgendo tende e sacchi a pelo. Una gradine di manganellate, al buio. Le ambulanze, le urla, i feriti. L’inizio della saga, già l’indomani: i valsusini, a migliaia, nelle strade. La circolazione paralizzata, i treni fermi. Il ministro dell’interno, Pisanu, scomparso dai radar. Imbarazzo, fra i palazzi romani. I palestinesi in rivolta ospitati per la prima volta in televisione, da Gad Lerner, per poi ricevere i primi rumorosi endorsement a reti unificate: Beppe Grillo, Dario Fo. E quei benedetti sindaci, avvolti nel tricolore, a ripetere che la legalità comincia dal rispetto del cittadino, democraticamente sovrano e tutelato da diritti costituzionali.Era solo il 2005, ma sembrano passati cent’anni. Le famiglie di allora avevano una luce particolare, negli occhi. La crisi era ancora lontana. C’era lavoro per tutti, i negozi non avevano ancora cominciato a chiudere, uffici e fabbriche funzionavano. All’ora dell’aperitivo i bar tracimavano di giovani – tutti palestinesi, naturalmente, tra svolazzi di bandiere NoTav. Un clima festoso, di fiducia. “Capiranno, a Roma. Si decideranno a ragionare”. I valsusini: riscopertisi comunità, proprio grazie allo scampato pericolo. Idee politiche forse rudimentali, antiche: la destra, la sinistra. A dire il vero, nella valle ribelle non s’era visto nessuno dei big: tutti spariti, i grandi partiti. La parte del cattivo era toccata a Berlusconi, ma poi Prodi (frenato dai ministri filo-valsusini Paolo Ferrero e Alfonso Pecoraro Scanio) non aveva comunque mai mostrato entusiasmo, per il fervore democratico dei palestinesi garibaldini, alle prese con quello strano risorgimento alpino, montanaro, periferico ma non provinciale. E’ come se si fosse laureato honoris causa, il valsusino medio, in questi anni grami: si è probabilmente conquistato il suo diploma di cittadino di prima classe, quanto a consapevolezza, mentre buona parte dell’Italia dormiva ancora sugli allori, prima di essere svegliata nel peggiore dei modi dal professor Monti, dalla professoressa Fornero.Si racconta che dal massiccio dell’Ambin, nel quale si è andato scavando il dannato tunnel esplorativo, sia disceso Annibale coi suoi elefanti. In direzione opposta avanzò Giulio Cesare alla conquista delle Gallie, facendo base a Susa, dove poi l’imperatore Costantino assediò Massenzio. Poco più a valle, Carlomagno sbaragliò i Longobardi manzoniani di Adelchi e Desiderio per poter fondare il Sacro Romano Impero, il cui erede Barbarossa mise a soqquadro Susa. Napoleone aprì la strada del Moncenisio, Cavour fece scavare il traforo del Fréjus. Quasi ogni sasso, in valle di Susa, ha molti secoli da raccontare, all’ombra dell’imponente Sacra di San Michele, monumento simbolo del Piemonte, eretto prima dell’anno Mille. Sul versante opposto, da una roccia emerge il Giove Dolicheno, scolpito dai soldati mediorientali arruolati da Roma nella Legione Siriana, di stanza nella valle conquistata dai Cesari. I valsusini amano le loro montagne, le frequentano con devozione. Le guardano diventare rosse, e poi viola, quando il tramonto illanguidisce nel crepuscolo lungo la cordigliera transalpina, dalla piramide del Rocciamelone alla mole nevosa del Niblè. Prima di altri, a loro spese, hanno imparato che il nuovo impero ha un’unica legge davvero sacra, quella dei soldi. A loro modo, da palestinesi, sono stati tra gli ultimi difensori di una repubblica di cui tutti gli italiani, oggi, hanno nostalgia.(Giorgio Cattaneo, “Tav, la strana guerra contro i palestinesi della valle di Susa”, dal blog “Petali di Loto” dell’11 dicembre 2018).Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.
-
Je suis NoTav, i sindaci francesi a Torino: basta frottole Ue
Fa parte del paesaggio mentale artificiale: è il solito balletto dei numeri esibiti per gonfiare o sgonfiare le manifestazioni di piazza. Le folkloristiche “madamine” Sì-Tav, da Marco Revelli definite “fate ignoranti” perché dichiaratamente all’oscuro delle ipotetiche ragioni a supporto della Torino-Lione, lo scorso 10 novembre erano 20-25.000 per la questura di Torino, ma una volta sbarcate su “Stampa” e “Repubblica” sono diventate 30.000. Tempo un mese, di fronte alla marea NoTav che l’8 dicembre ha invaso la città, sempre le stesse “madamine” sono magicamente diventate 40.000, per la letteratura giornalistica di una metropoli tramortita dal fiume umano non-ignorante, anzi informatissimo, sceso in corteo fino a intasare piazza Castello. Missione: avvertire il governo gialloverde che una vasta avanguardia democratica della popolazione italiana non tollera che si tenga in piedi a tutti i costi, a beneficio di quella che appare un’esigua ciurma di affaristi, il miraggio della grande opera più inutile d’Europa: una ferrovia di cui non è ancora stato costruito neppure un metro. E a proposito di Europa, ha scaldato i torinesi la generosa presenza dei sindaci francesi, benché oscurata dai media mainstream che hanno preferito parlare solo della rappresentanza transalpina di Gilet Gialli, aggiornati alla bisogna (“Je suis NoTav”). La verità vale oro, specie se recitata in francese nel cuore di Torino: la Francia non sa che farsene, della ipotetica Torino-Lione.Lo hanno scandito dal palco, di fronte alle decine di migliaia di torinesi e valligiani (almeno 70.000, secondo i NoTav), i sindaci delle cittadine francesi al di là del confine, spintisi fino a Torino per contribuire a bonificare i cervelli dalle grossolane menzogne della vecchia élite cementiera subalpina affamata di soldi pubblici: «La Francia ha finora accettato il progetto Torino-Lione solo perché i costi sono per lo più a carico dell’Italia. Ma, anche qualora l’inutile tunnel si scavasse, Parigi non prenderebbe in considerazione la costruzione della nuova linea: documenti alla mano, di quella ferrovia se ne riparlerebbe solo a partire dal 2038». Perché sarebbe inutile, il traforo miliardario? «Perché la linea ferroviaria già esistente è semi-deserta: non ci sono merci da trasportare (né ce ne saranno, secondo tutte le proiezioni). E’ così sotto-utilizzata, la Torino-Modane che collega stabilmente Torino a Lione attraverso la valle di Susa e il Traforo del Fréjus, che basterebbe già oggi a togliere tutti i Tir dalle strade e dall’autostrada, facendoli viaggiare sui treni».Per i passeggeri, va da sé, il problema non esiste: senza contare i voli low-cost, che hanno annullato la concorrenza ferroviaria sulle lunghe tratte, sono comunque quotidiane in valle di Susa le corse del Tgv francese che collega rapidamente Milano a Parigi. La manciata di minuti che si risparmierebbero con il nuovo euro-tunnel da 57 chilometri costerebbero 30-40 miliardi, ma le cifre sono solo teoriche: in Italia la rete Tav è costata quasi il triplo che nel resto d’Europa, con il prezzo degli appalti lievitato anche del 400% rispetto alla stima iniziale. Quello che lascia sgomenti, di fronte al delirio narrativo che ha nutrito la leggenda della Torino-Lione, è la totale assenza di certezze: nonostante la tenacia della protesta della valle di Susa, che ha raccolto la solidarietà di vastissimi strati dell’opinione pubblica italiana, nessuno dei governi degli ultimi vent’anni – Berlusconi, Prodi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni – ha mai voluto o potuto spiegare perché mai l’Italia dovrebbe spendere miliardi per un’infrastruttura dall’impatto sicuramente devastante.Il territorio alpino sarebbe infatti terremotato da anni di cantieri e irrimediabilmente compromesso, visto che si scaverebbe tra montagne piene di amianto e persino di uranio (negli anni ‘70, al tempo del nucleare italiano, l’Agip realizzò decine di tunnel esplorativi proprio sui monti alle spalle di Susa, dato che il Massiccio dell’Ambin è il più grande giacimento di minerale radioattivo di tutte le Alpi Occidentali). Quanto allo spinoso problema idrogeologico, sono gli stessi geologi – tra i redattori del progetto – ad ammettere di non poter valutare l’impatto dell’euro-tunnel: le viscere di quei monti ospitano un’immensa riserva idrica, una sorta di grande lago sommerso. Perforare il bacino sotterraneo potrebbe voler dire far cambiare corso ai fiumi ed esporre più valli alpine al rischio di inondazioni catastrofiche. Citando tecnici della Regione Piemonte, nel saggio “Binario morto” (Chiarelettere), il compianto Luca Rastello, giornalista di “Repubblica”, spiega che – una volta realizzato il tunnel e poi la nuova ferrovia – il raccordo con la rete Tav italiana potrebbe avvenire solo a 30 metri di profondità, “bucando” la falda idropotabile che alimenta l’area metropolitana di Torino.Senza contare l’esborso folle, per un’Europa che muove guerra all’Italia per lo 0,1% del deficit 2019, i maggiori trasportisti italiani – come il professor Marco Ponti, del Politecnico di Milano – ricordano che la chiave logistica per le merci (che per motivi di sicurezza devono viaggiare lentamente) non è la rapidità, ma la puntualità. Nel miglior sistema di smistamento del mondo, quello degli Usa, i treni merci viaggiano a 60 miglia; ma dispongono di efficienti piattaforme logistiche, di cui non c’è traccia né in Piemonte né sulle Alpi del Rodano – dove il trend dei trasporti è in calo da anni, le ferrovie esistenti sono semi-abbandonate e tutte le proiezioni per il futuro dicono che la direttrice commerciale su cui il mercato punta non è la Torino-Lione, ma la Genova-Rotterdam. Se i tecnici universitari a cui si sono rivolti i NoTav hanno prodotto chilometri di documentazione a sfavore del maxi-progetto, sul versante opposto non si è mai usciti dal lobbismo vecchia maniera, fino all’imbarazzante gossip meta-politico delle sedicenti “madamine” torinesi, pronte a invocare “sviluppo e progresso” ma – per loro stessa ammissione – senza conoscere una sola virgola del dossier Torino-Lione. Se si possono capire i piccoli circuiti industriali della vecchia Torino tradita dall’esodo della Fiat, traslocata a Detroit grazie a Marchionne, non è comprensibile il silenzio assordante della politica.Gilet Gialli a Torino ed77eDietro alle “madamine” non è difficile scorgere l’ombra di personaggi multiruolo come Sergio Chiamparino, emblema vivente della sinistra neoliberista, passato senza colpo ferire dalla guida del Comune a quella della Regione, dopo aver presieduto la Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria. Quello che sconcerta, semmai, è la politica nazionale: lungi dal rappresentare, tutelare ed eventualmente rassicurare i 60.000 abitanti della valle di Susa, preoccupati per la loro sicurezza, dopo decenni di proteste i governanti non hanno ancora spiegato, ai cittadini, perché mai dovrebbero sacrificare in modo così devastante il loro territorio. I vari esecutivi, di ogni colore, non hanno mai avuto la cortesia di motivarla, la Torino-Lione: non hanno mai chiarito a cosa servirebbe, in cosa sarebbe strategica per il sistema-Italia o almeno per il Piemonte. Gli unici dati oggettivi vengono, come sempre, dal fronte avverso: il profilo occupazionale della maxi-opera sarebbe così insignificante (qualche centinaio di addetti) che il costo medio di ogni singolo lavoratore supererebbe il milione di euro.Prima e meglio di altre battaglie politiche italiane, quella contro la Torino-Lione ha precisato i termini reali della questione, cioè il diritto democratico di essere innanzitutto informati. Si può discutere se un’opera serva o meno, ma quello che non è accettabile – di fronte alla prove negative fornite dgli oppositori – è che si continui a imporla senza spiegarla, limitandosi a criminalizzare comodamente la protesta. Prima e meglio di ogni altro evento politico recente, la battaglia democratica della valle di Susa – esplosa nel lontano 8 dicembre 2005 – ha illuminato lo scenario con il quale l’intero paese avrebbe fatto i conti, molti di anni dopo, insieme al resto d’Europa: da una parte un’élite autoritaria, la stessa che oggi spinge la polizia di Macron a trattare gli studenti francesi come prigionieri di Guantanamo, e dall’altra il cosiddetto popolo ex-sovrano, quello dei cittadini declassati al rango di neo-sudditi, in balia di un potere apolide e senza volto, che impone decisioni senza mai fornire adeguate spiegazioni.Anche per questo, l’8 dicembre 2018 a Torino, è stata particolarmente istruttiva – oltre che rincuorante – la presenza dei sindaci delle valli francesi interessate dal progetto: nel ribadire la loro piena solidarietà alle migliaia di famiglie del corteo NoTav, hanno sottolineato una vicinanza civile e politica con i “cugini” italiani, alla faccia di Macron e degli altri burattini dell’attuale Disunione Europea. In quel loro “Je suis NoTav”, i francesi rivendicano la loro (e nostra) parte d’Europa, intesa come piattaforma di convivenza democratica popolata di cittadini liberi di pensare, di esprimere la loro voce, di contribuire a un mondo meno ingiusto e meno incomprensibile. Un mondo fatto di “vicini di casa” che si parlano e si capiscono. Quella delle nazioni contrapposte, sembrano dire i francesi accorsi a Torino, è solo una fiaba sinistra, che fa comodo ai sovragestori del potere europeo e magari ai loro oppositori apparenti, arruolati dal neo-sovranismo. La guerra non conviene mai, al popolo: l’antagonismo nazionistico è un imbroglio ridicolo. C’era più Europa, l’8 dicembre a Torino, di quanta non se ne sia vista a Bruxelles negli ultimi vent’anni.(Giorgio Cattaneo, “Je suis NoTav, i sindaci francesi a Torino: amici italiani, fermiamo insieme il treno di questa Ue che ci deruba e ci divide”, dal blog del Movimento Roosevelt del 9 dicembre 2018).Fa parte del paesaggio mentale artificiale: è il solito balletto dei numeri esibiti per gonfiare o sgonfiare le manifestazioni di piazza. Le folkloristiche “madamine” Sì-Tav, da Marco Revelli definite “fate ignoranti” perché dichiaratamente all’oscuro delle ipotetiche ragioni a supporto della Torino-Lione, lo scorso 10 novembre erano 20-25.000 per la questura di Torino, ma una volta sbarcate su “Stampa” e “Repubblica” sono diventate 30.000. Tempo un mese, di fronte alla marea NoTav che l’8 dicembre ha invaso la città, sempre le stesse “madamine” sono magicamente diventate 40.000, per la letteratura giornalistica di una metropoli tramortita dal fiume umano non-ignorante, anzi informatissimo, sceso in corteo fino a intasare piazza Castello. Missione: avvertire il governo gialloverde che una vasta avanguardia democratica della popolazione italiana non tollera che si tenga in piedi a tutti i costi, a beneficio di quella che appare un’esigua ciurma di affaristi, il miraggio della grande opera più inutile d’Europa: una ferrovia di cui non è ancora stato costruito neppure un metro. E a proposito di Europa, ha scaldato i torinesi la generosa presenza dei sindaci francesi, benché oscurata dai media mainstream che hanno preferito parlare solo della rappresentanza transalpina di Gilet Gialli, aggiornati alla bisogna (“Je suis NoTav”). La verità vale oro, specie se recitata in francese nel cuore di Torino: la Francia non sa che farsene, della ipotetica Torino-Lione.
-
Feltri l’antiromano, delizioso antropofago proto-gialloverde
Se Vittorio Feltri è diventato Vittorio Feltri, lo deve a tante qualità e a qualche suo difetto, ma lo deve sotto sotto a una cosa: non si è mai fatto sedurre, conquistare, tentare dalla Gloriosa Baldracca di nome Roma. È rimasto refrattario al fascino lascivo di lei, incorruttibile, non è mai sceso nella Capitale per dirigere giornali, per trafficare indulgenze e complicità, è sempre stato al di là del Rubicone, anzi nel regno dei Lombardi. Ha considerato i romani perfino peggio dei meridionali, il che per lui è tutto dire. Il viaggio della sua vita è stato da Bergamo a Milano, e lì è il suo sapore e la sua salvezza. Se pensi a tutti i giornali che ha diretto, ha fondato, ha ribattezzato, te li trovi tutti a Milano e paraggi. Non solo i giornali da cui è partito, come è inevitabile per chi viene dalla provincia. Ma anche quelli in cui è cresciuto e si è affermato: dall’“Eco di Bergamo” alla “Notte”, dal “Corriere della Sera” all’“Europeo”, dall’“Indipendente” al “Giornale”, da “Libero” alle altre avventure di passaggio. Perfino l’unico settimanale che ha diretto di passaggio, e che era diventato romano, “Il Borghese”, lui lo fece a nord e poi lo usò come un utero in affitto per partorire “Libero”.A proposito di “Borghese”, è uscito un suo bel libro, autobiografico, nell’inconfondibile stile feltriano, intitolato “Il Borghese” (ed. Mondadori), ma non allude al settimanale di Longanesi e dei Tedeschi (pater et filius), ma a se stesso. E Feltri in effetti può dirsi almeno per metà borghese. Ma a differenza dei borghesi italioti, Feltri ama sì, i costumi borghesi, i perfetti abiti borghesi, lo stile gentleman e alcuni modi di vivere straborghesi, ma è ispido, un po’ selvatico, paleoleghista, capace di fregarsene dei bei modi borghesi. Ama la borghesia del nord, non quella romana, il generone parastatale, vaticanesco e alla vaccinara. Ma quel suo modo di essere, quel suo modo di preferire cavalli e gatti a romani e migranti, lo ha reso quel che è. È forse l’unico personaggio di cui Crozza fa una caricatura perfino più moderata rispetto all’originale. Ma quell’indole, quel bossismo interiore ma con giacche firmate e non in canottiera, lo ha vaccinato dai compromessi col potere romano, col sottobosco della capitale e gli ossequi alla curia. Insomma il contrario di Gianni Letta, che è stato il miglior cerimoniere, il miglior diplomatico, l’unico cardinale prestato dalla curia al giornalismo e alla politica.Nelle sue pagine, Feltri parla dei suoi incontri con alcuni potenti, Fanfani, Andreotti, che collaborò col suo Europeo, Craxi, che egli attaccò come Cinghialone ma poi difese quando finì in esilio e rivalutò da morto. Si capisce che non ha mai trescato con loro. Non è mai sceso a patti col potere, ma non per chissà quale Visione etica e trascendentale, ma per una ragione più semplice e più schietta: il carattere. Allergico ai salamelecchi, ai minuetti, ai cedimenti, pratico, mai contorto. Fu burbero e scontroso anche coi suoi editori, incluso Berlusconi. Non a caso si diceva “Il Giornale di Feltri” e non, come poi si è detto, “il Giornale di Berlusconi”. Posso testimoniare che con lui ho avuto il massimo di libertà di scrivere e pure di criticare il berlusconismo, il centro-destra e paraggi. Se un’opinione non gli piaceva, pensava ai lettori che l’avrebbero condivisa e magari vi opponeva un’opinione in senso contrario. Ma la sua forza è sempre stata il mercato, aveva i numeri dalla parte sua, aveva le copie, e se all’editore non andava giù qualcosa, lui poteva andarsene a fondare un altro giornale.Epica fu la stagione de “L’Indipendente”, gloriosa quella del “Giornale”, nientemeno dopo Montanelli, il suo dio fondatore, che lui raddoppiò nelle vendite. E poi “Libero”. Andò di successo in successo, dando voce a quella metà d’Italia che i potentati giornalistici ignoravano. Posso dire d’aver partecipato a tutte le sue imprese di successo, meno a un paio che successo ne ebbero un po’ meno. Feltri è stato il precursore del berlusconismo in politica, del bossismo, del centro-destra e un po’ anche del Vaffa grillino; ha rappresentato l’altra metà del mondo, ora in maggioranza, i cani sciolti e gli arrabbiati, la borghesia delusa e spaventata. E dev’essere un gran cruccio ora vedere che più di mezza Italia la pensa come lui in molte cose ma i giornali più vicini a quell’area di umori e malumori non sfondano, perché la gente non legge più. Esprime umori, non cerca opinioni. Con Feltri c’incontrammo perché lo invitai a scrivere per “L’Italia Settimanale” nel ’92 e insieme sostenemmo l’alleanza ibrida che poi prese corpo. Ricordo che gli chiesi un commento sul tema “Se cani e gatti si alleassero”, che precorse il Polo delle Libertà. Poi lasciai il “Giornale” di Montanelli per seguirlo all’“Indipendente”, tornai con lui al “Giornale” lasciando la redazione Rai; poi a “Libero”, e ancora al “Giornale”.L’unica parentesi critica fu col “Borghese” – lui direttore e io direttore editoriale – accorpato con un settimanale che dirigevo io, “Lo Stato”. Lui chiuse l’inserto culturale, lo “Stato delle Idee”, gli editori infilarono cassette semi-porno nella rivista, e io nel nome di Longanesi e della dignità me ne andai. Lo reincontrai una volta a Roma al Matriciano ma fingemmo di non vederci. L’incontro fatale fu su un treno Roma-Milano. Stavo andando in bagno, era occupato, si liberò in quel momento e uscì Feltri. Eravamo faccia a faccia. Avevo tutto da perdere nello stringergli la mano perché il 50% degli italiani, bergamaschi inclusi, non si lava le mani dopo la pipì. Ma fu giocoforza. Riuniti per la prostata. Poi riprendemmo il nostro strano sodalizio senza frequentazione, adozione a distanza, ammirazione e forse affetto, ma senza darlo a vedere. Lui nordista io sudista, lui lombardocentrico io romanocentrico, io nazionalista lui padano-individualista, lui liberista io destra-sociale, io per la cultura lui per il giornalismo duro e puro. Ma la divergenza fu il sale della nostra unione, non dirò che fummo precursori della coppia Di Maio-Salvini, ma ci siamo capiti…Feltri ha dato sapore e brio al giornalismo nostrano, ha dato carattere, anche brutto, ha dato inventiva e titoli esagerati ma efficaci. Nel momento in cui cadevano gli dei del giornalismo, Bocca, Biagi, Montanelli, Fallaci – a cui Feltri dedica in queste pagine succosi ritratti- lui è rimasto solo. El Diretur. Se Vittorino da Feltre fu un grande umanista, Vittorione Feltri è un delizioso antropofago che se ne impipa dell’umanità. Il peggior affronto che gli feci, lo riconosco, fu quella volta, vent’anni fa, che lo portai a pranzo dopo una riunione a Roma del “Borghese”. Lo portai ar Pallaro, romanesco che più romano non si può, e lui guardava inorridito il luogo e gli indigeni, come se l’avessi portato in un campo rom o in una baraccopoli africana. Se famo du spaghi dottò? So di avergli fatto passare una brutta ora. Ma non volevo fargli un torto, e neanche la mitica sora Paola der Pallaro lo voleva. È lo spirito sornione della Vecchia Roma che appena sente odore di antiromani li prende in ostaggio, dà il peggio di sé, e se mette a‘ cojonà il suo nemico. Che spettacolo indimenticabile fu Feltri cacio e pepe.(Marcello Veneziani, “Feltri l’antiromano”, da “Il Tempo” del 21 settembre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani. Il libro: Vittorio Feltri, “Il borghese. La mia vita e i miei incontri da cronista spettinato”, Mondadori, 108 pagine, 17 euro).Se Vittorio Feltri è diventato Vittorio Feltri, lo deve a tante qualità e a qualche suo difetto, ma lo deve sotto sotto a una cosa: non si è mai fatto sedurre, conquistare, tentare dalla Gloriosa Baldracca di nome Roma. È rimasto refrattario al fascino lascivo di lei, incorruttibile, non è mai sceso nella Capitale per dirigere giornali, per trafficare indulgenze e complicità, è sempre stato al di là del Rubicone, anzi nel regno dei Lombardi. Ha considerato i romani perfino peggio dei meridionali, il che per lui è tutto dire. Il viaggio della sua vita è stato da Bergamo a Milano, e lì è il suo sapore e la sua salvezza. Se pensi a tutti i giornali che ha diretto, ha fondato, ha ribattezzato, te li trovi tutti a Milano e paraggi. Non solo i giornali da cui è partito, come è inevitabile per chi viene dalla provincia. Ma anche quelli in cui è cresciuto e si è affermato: dall’“Eco di Bergamo” alla “Notte”, dal “Corriere della Sera” all’“Europeo”, dall’“Indipendente” al “Giornale”, da “Libero” alle altre avventure di passaggio. Perfino l’unico settimanale che ha diretto di passaggio, e che era diventato romano, “Il Borghese”, lui lo fece a nord e poi lo usò come un utero in affitto per partorire “Libero”.