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Cure proibite, per lanciare i vaccini: spiegata la strage
Ha idea, Roberto Speranza, di quante persone sono morte per il Covid, nell’ultimo anno, a causa delle cure non autorizzate? Migliaia? Tutti pazienti che potevano essere salvati, se solo non fossero stati ostacolati in ogni modo i medici che avevano scoperto come guarirli, spesso da casa, senza nemmeno ricorrere all’ospedale. Massimo Mazzucco snocciola i numeri della strage: e spiega anche perché è stata provocata, da che cosa. L’imputato numero uno ha un nome preciso: il vaccino. Se fossero state approvate le terapie salva-vita, sarebbe stato impossibile (per l’Ema, e quindi per l’Aifa) accordare ai vaccini-Covid l’autorizzazione d’emergenza per la loro somministrazione. Normalmente, per approvare un vaccino servono 3-5 anni di sperimentazioni. La procedura emergenziale può scattare solo in un caso: quando non esistono alternative, cioè cure. Ecco perché le cure (che esistono e funzionano) sono state sistematicamente boicottate: se fossero state approvate, addio vaccini.Piccolo particolare: in attesa dei vaccini, l’Italia ha ufficialmente registrato 120.000 morti. Quanti di questi pazienti sarebbero ancora vivi, se ai medici fosse stato permesso di curarli con i farmaci nel frattempo individuati come rimedio efficace? Nel video-denuncia “Covid, le cure proibite”, Mazzucco documenta i capi d’accusa che ormai emergono in modo schiacciante: tutte le terapie vincenti (almeno una decina) sono state regolarmente oscurate e combattute per poter presentare il vaccino come unica soluzione, e – sempre per imporre la vaccinazione di massa – sono state imposte le peggiori restrizioni: lockdown, coprifuoco, zone rosse. Un ricatto: tornerete liberi solo quando vi sarete vaccinati. Ma attenzione, si tratta dell’ennesimo imbroglio: è infatti prevista una vaccinazione periodica e frequente, dall’incubo non si uscirà mai. E naturalmente: le terapie salva-vita, quelle che renderebbero superfluo il vaccino, restano nel cassetto.Nel suo reportage, Mazzucco non entra nel merito del piano vacciale più controverso della storia. Quelli somministrati sono farmaci “genici” sperimentali, impropriamente chiamati vaccini: non immunizzano completamente il corpo, e lasciano che il soggetto vaccinato possa restare contagioso. Non solo: presentano un serio rischio fisico immediato, in termini di reazioni avverse, mentre non si conoscono le conseguenze a lungo termine di un inoculo Rna-Dna che va a insediarsi nelle cellule, interagendo con il genoma umano. In questo caso, Mazzucco – autore di video-reportage che hanno fatto storia, come quelli sull’11 Settembre, trasmessi anche da “Canale 5″ in prima serata – si concentra sul più pazzesco degli scandali: quello delle “cure proibite”. Un copione invariabile, drammatico: scoperta la terapia, viene immediatamente screditata e poi messa al bando. Una dopo l’altra, le autorità sanitarie italiane hanno regolarmente respinto tutte le cure – efficaci – che i medici avevano scoperto, per contrastare il Covid.L’elenco è avvilente, grida vendetta: e a protestare (inutilmente, finora) sono proprio i medici, cui è stato materialmente sottratto lo strumento terapeutico per guarire i pazienti. Incredibilmente, il protocollo nazionale parla ancora di Tachipirina – farmaco inutile, in caso di Covid, se non dannoso – e si limita a raccomandare la “vigilante attesa”. Di cosa, se non dell’aggravamento? Mazzucco cita i vip prontamente curati e guariti nel 2020, non proprio giovanotti: Berlusconi, Briatore, lo stesso Trump. Rimessi in sesto in pochissimi giorni, nonostante la loro età avanzata. Come? Non certo con la “vigile attesa”: li hanno curati tempestivamente, con i farmaci adatti. Quelli a cui il cittadino normale continua a non avere accesso, visto che ai medici di famiglia non è ancora stato affidato un protocollo idoneo. Attenzione: si tratta di farmaci normalissimi. Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano, spiega come “domare” l’incendio Covid ricorrendo a semplici antinfiammatori: funzionano purché si agisca celermente, cioè dopo i primi sintomi.I medici dell’associazione Ippocrate, che curano il Covid in modo volontaristico data la latitanza delle autorità sanitarie, hanno messo a punto un prontuario specifico: precisi farmaci (di uso comune) per ogni singola fase della malattia. I numeri sono dalla loro parte: si parla di migliaia di guarigioni da casa, evitando il ricovero. A Roma, il dottor Mariano Amici dimostra di aver guarito il 100% dei suoi pazienti – non meno di 2.000 persone – con la somministrazione, in fase precoce, di normali antinfiammatori. Nel video-reportage di Mazzucco, sul tema intervengono i sanitari dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna: le morti per Covid sono finite, assicurano, quando hanno cominciato a curare i pazienti direttamente nelle loro case, rinunciando cioè alla “vigile attesa” (che determinava il ricovero di malati ormai in gravi condizioni). Carta vincente, le cure precoci domiciliari: quelle che il ministero di Speranza ha appena chiesto e ottenuto, dal Consiglio di Stato, di non autorizzare.Mazzucco rievoca le tappe del calvario. Capitolo primo, le vitamine: consigliate da molti medici come sostanze utili per la prevenzione e, in dosi elevate, per la guarigione. Ma guai a dirlo: contro la “bufala” delle vitamine anti-Covid si sono scatenati prima i virologi televisivi, e a ruota i media. Risultato: vitamine bocciate. Ma non per tutti: Mazzucco esibisce un documento dei carabinieri che (già a marzo 2020) invitava i miltari dell’Arma ad assumere ogni mattina le vitamine C e D. Lo schema si ripete in modo scandaloso di fronte a ogni altra scoperta medica: anziché essere incoraggiati, i sanitari che hanno individuato una terapia efficace vengono zittiti, oscurati, screditati e boicottati. Succede a Giuseppe De Donno (Mantova), il primo ad aver sperimentato la plasmaferesi: guarigioni garantite, in poche ore, a chi riceve trasfusioni con il sangue dei pazienti guariti. Niente da fare nemmeno per Elena Campione dell’università romana di Tor Vergata, che ha scoperto i benefici della lattoferrina: sostanza naturale e antivirale, contenuta nel latte materno, che spiega il motivo per cui i bambini non vengono colpiti dall’infezione.Un caso-limite è quello dei cortisonici: nell’aprile 2020, sempre Roberto Speranza non ha degnato di risposta i 30 luminari italiani che gli segnalavano i grandi risultati ottenuti con farmaci a base di cortisone. Ironia della sorte, due mesi dopo è stata la stessa Oms a complimentarsi coi medici inglesi, che a loro volta avevano scoperto le virtù del Desametasone. Ma niente da fare, la consegna è sempre la stessa: negare l’evidenza per affossare le cure. E pazienza, se nel frattempo i malati – lasciati a casa in “vigile attesa” – continuano a morire, o arrivano in ospedale con la salute ormai gravamente compromessa proprio perché rimasti per giorni senza cure. E’ così che ha funzionato, la macchina del terrore: negare le terapie è “servito” esattamente ad alzare il numero dei ricoveri, delle terapie intensive, permettendo ai politici, ai media e agli “scienziati di corte” di recitare all’infinito il mantra della paura e dell’attesa messianica dell’unico possibile rimedio, il vaccino.Per questo, aggiunge Mazzucco, nonostante i risultati lusinghieri sono state biocciate tutte le altre soluzioni terapeutiche nel frattempo emerse: la quercetina scoperta dal Cnr, l’ozonoterapia praticata con successo all’ospedale di Udine, l’adenosina (introdotta a Reggio Calabria dai medici Sebastiano Macheda e Pierpaolo Correale), e persino un antiparassitario come l’ivermectina, che ha permesso alla Repubblica Ceca di veder crollare di colpo i decessi per Covid. Tradotto: a Praga si è smesso di morire, in Italia no. Culmine della vergogna, il caso dell’idrossiclorochina associata a un antibiotico come l’azitromicina: terapia sperimentata con successo in Francia dal professor Didier Raoult, uno dei maggiori virologi al mondo, ma poi abbandonata dopo uno studio (falsato da dati inventati) pubblicato sul “Lancet”. Poi la rivista si è corretta, scusandosi: quello studio era da buttare, la clorochina (antimalarico in uso da decenni) non è affatto pericolosa, in dosi appropriate. Ma il divieto di usarla, in Italia, è rimasto: anche dopo la scoperta della frode scientifica del “Lancet”.Domanda: quale organizzazione criminale potrebbe mai progettare e attuare un piano simile, fondato sulla disinformazione e sul boicottaggio delle guarigioni, a costo di provocare decine di migliaia di morti? Qualunque ne sia l’origine, dice Mazzucco, ne conosciamo il coordinatore: Big Pharma. Anche in Italia, tutti i decisori sono strettamente controllati dalle farmaceutiche, che ottengono il consenso dei media a suon di milioni in termini di pubblicità. In cambio, giornali e televisioni fanno parlare – come oracoli – solo e sempre determinanti esponenti del mondo scientifico (i vari Bassetti, Pregliasco, Crisanti, Galli, Burioni e Lopalco, perfettamente funzionali al business farmaceutico-vaccinale). Ferreo anche il controllo sul governo, esercitato da un Comitato Tecnico-Scientifico composto da dirigenti dell’Aifa, del ministero della salute e dell’Istituto Superiore di Sanità, tutti «baroni legati a Big Pharma, che non si sognerebbero mai di contraddire le farmaceutiche».Nel Cts, ricorda Mazzucco, c’erano anche Ranieri Guerra, indagato per il piano pandemico non aggiornato né applicato, e lo stesso Walter Ricciardi, consulente di Speranza. «Due anni fa, Ricciardi dovette dimettersi da direttore dell’Iss dopo che emersero i suoi conflitti d’interesse con le case farmaceutiche». Questi, sottolinea Mazzucco, sono i personaggi che stabiliscono cosa chiudere, e fino a quando: il controllato e il controllore sono lo stesso soggetto, Big Pharma, che agisce attraverso i suoi ramificati canali, anche istituzionali. «La stessa Ema è zeppa di dirigenti che provengono da Big Pharma, tramite il meccanismo delle “porte girevoli”: l’attuale direttrice, Emer Cooke, quella che ripete che “i benefici dei vaccini superano i rischi”, viene dalla lobby europea delle industrie farmaceutiche». E’ vero, purtroppo: la Cooke è stata a lungo in forza alla Efpia, European Federation of Pharmaceutical Industries and Associations.Nell’Epfia, conferma Wikipedia, Emer Cooke ha lavorato per 8 anni come lobbysta delle “Big 30″, incluse Pfizer, AstraZeneca, Novartis e Johnson & Johnson. «Secondo voi chi l’ha messa a dirigere l’Ema, Gesù Bambino?». Non solo: «Credete che sia l’Unione Europea, coi nostri soldi, a finanziare la sua agenzia del farmaco? Errore: l’agenzia vive di fondi pubblici solo per il 16%, dato che l’84% del denaro che serve al suo funzionamento proviene dalle aziende farmaceutiche, sotto forma di autorizzazioni per i medicinali». Domanda retorica: qualcuno può davvero pensare che l’Ema (da cui di fatto dipende anche l’Aifa) sia un ente autonomo e quindi scientificamente affidabile, indipendente, che ha a cuore solo la salute dei cittadini, e non invece – anche e soprattutto – quella dei bilianci miliardari del complesso industriale farmaceutico che la foraggia quasi completamente?Tragedia e farsa si sommano, nell’impietosa ricostruzione di Mazzucco, fino all’epilogo tanto atteso: lo sdoganamento anticipato dei famosi “vaccini genici”. «Per i preparati vaccinali, la procedura d’emergenza (quindi con sperimentazione molto limitata) può avvenire solo a certe condizioni». Una su tutte: «Non deve esistere nessuna cura disponibile, per la malattia in questione, altrimenti il vaccino non la può ricevere, l’approvazione d’emergenza». Vale per la statunitense Food and Drug Administration: a febbraio, nell’autorizzare i vaccini-Covid, la Fda ha ricordato che non deve esistere «una adeguata, approvata e disponibile alternativa al prodotto». Idem l’Ema: il vaccino «deve rispondere a una necessità medica non soddisfatta, ovvero una patologia per la quale non esiste un metodo soddisfacente di diagnosi, prevenzione o cura autorizzato dalla comunità (o, anche se questo metodo esistesse, il nuovo prodotto medicinale deve rappresentare un importante vantaggio terapeutico per i malati)».E dato che «nessun vaccino potrà mai rappresentare un importante vantaggio terapeutico, rispetto a una medicina che agisce subito», ecco che «le medicine normali non vengono autorizzate», scandisce Mazzucco. «Abbiamo svelato l’arcano: le cure non sono mai state riconosciute non perché non funzionino, ma perché sapevano fin dall’inizio che – riconoscendo una qualunque cura valida – non si sarebbe potuta ottenere l’autorizzazione d’emergenza per il vaccino». Ragiona il reporter: «Se per ipotesi i vaccini non esistessero (cioè, se non fossero mai stati “inventati”), secondo voi come si competerebbe la sanità, rispetto al Covid? Ovvio: curerebbe i malati senza indugi, con tutte le terapie disponibili, e anzi rafforzandole con ulteriori ricerche (proprio quelle che finora sono state accuratamente evitate, privando i medici di sperimentazioni su vasta scala)». Insiste Mazzucco: «Paradossalmente, il vaccino non è la soluzione: è il problema». Vero, se è stato la vera causa del rifiuto di somministrare terapie salva-vita.«Pensateci: potremmo tornare a vivere tranquillamente, domattina, riaprendo tutto e curando le persone appena si ammalano, con le varie terapie ormai disponibili (lasciando libere di vaccinarsi, ovviamente, le persone che lo desiderano)». E invece, questo non accade. «Quello che non è accettabile – ripete Mazzucco – è che il vaccino sia imposto come unica condizione per riavere le nostre libertà. Si chiama ricatto, e si chiama anche crimine: perché nel frattempo muoiono mogliaia di persone che si potrebbero salvare». E’ così: «Le nostre libertà ci vengono negate intenzionalmente, proprio per obbligarci ad accettare la vaccinazione come unica via d’uscita». Lo dice apertamente la professoressa Leana Wen, docente di politiche della salute alla George Washington University. «La Wen è tra i “top doctors” americani, scrive sul “Washington Post” e appare spesso come commentatrice televisiva. E’ stata anche premiata dal Forum di Davos tra i “giovani leader globali”».Una grande opinion maker, Leana Wen: nel 2019, “Time Magazine” l’ha definita “una delle 100 persone più influenti del mondo”. Di fronte al fatto che Stati come Florida e Texas stanno già riaprendo tutto, anche con pochi cittadini vaccinati, alla “Cnn” si è lasciata scappare la seguente ammissione: «Ci sono milioni di persone che per qualche ragione temono i vaccini, e non capiscono quale possa esserne il vantaggio, per loro. Noi dobbiamo spiegargli bene che il vaccino è il loro lasciapassare, per tornare alla vita com’era prima della pandemia. E la finestra di tempo per farlo si sta restringendo, per legare le riaperture alla situazione vaccinale: altrimenti, se si riapre tutto, quale sarà la “carota”?». La carota: il premio. «Come faremo a incentivare le persone a farsi vaccinare? Ecco perché il Cdc e l’amministrazione Biden devono affermare con forza: se sarete vaccinati, guardate quante cose potrete fare, quante libertà potrete riavere. Viceversa, la gente tornerà a godersi queste libertà in ogni caso».Capito, come funziona? Massimo Mazzucco lancia un appello severo e accorato ai giornalisti, finora reticenti o addirittura complici del sistema “bastone e carota”, fatto di cure negate, migliaia di vittime e “terrorismo sanitario” per spingere il popolo bue verso l’imbuto previsto fin dall’inizio, quello del vaccino. «Voi, che continuate a chiamare “negazionista” chiunque protesti per questa situazione assurda, finirete per passare alla storia come i nuovi collaborazionisti», dice Mazzucco agli operatori dei media. «Gli uomini di Vichy sono passati alla storia per aver aiutato il nazismo in Francia; voi passerete alla storia per aver aiutato il vacci-nazismo che si sta cercando di instaurare: e come c’è stata una Norimberga per i nazisti, ci sarà sicuramente una Norimberga anche per voi». E dunque: «Smettetela di fare i servi delle case farmaceutiche, e tornate a mettervi dalla parte dei cittadini, prima che sia troppo tardi».Il secondo messaggio, al termine del suo lungo video, Mazzucco lo dedica a tutti quelli che dicono: «Non vedo l’ora di vaccinarmi, così almeno questo incubo finirà». Magari. «Non illudetevi: non finirà. Il tira e molla delle restrizioni continuerà all’infinito». Facile profezia: «Ci faranno respirare un po’ quest’estate, e poi in autunno arriverà la “quarta ondata”, così imporranno nuove restrizioni e magari daranno la colpa a quelli che si saranno “divertiti troppo” durante l’estate. Incolperanno anche i non vaccinati, per cercare di metterci gli uni contro gli altri». Mazzucco è pessimista: «State tranquilli che non basterà una sola vaccinazione, per farla finita: ci saranno i richiami, perché ci saranno mille, nuove meravigliose “varianti”, e dovremo abituarci a vaccinarci tutti, ogni anno». Non ci credete? Male. «Ci sarà una terza dose, poi il richiamo annuale», dice Albert Bourla, presidente della Pfizer. «Deve diventare un’abitudine: una volta all’anno dovremo vaccinarci», conferma l’immunologo genovese Matteo Bassetti.E se qualcuno aveva sperato che con Mario Draghi sarebbe finita, la colossale farsa, si deve amaramente ricredere: «Dovremo continuare a vaccinarci, per gli anni a venire – ha appena annunciato il nuovo primo ministro – perché ci saranno delle varianti, e quindi i vaccini andranno adattati». Che caso: la Pfizer intanto ha già previsto rincari del 900%. «Una dose costerà fino a 175 dollari: che pagheremo noi, con in soldi delle nostre tasse». Pfizer e Moderna – aggiunge Mazzucco – hanno appena cominciato le sperimentazioni su bambini di 6 mesi, ed entro novembre sarà pronto il vaccino per il neonati (e i bambini fino a 11 anni)». Chiosa il reporter: «Questa idea di vaccinarsi pur di uscire dall’incubo è una pia illusione: significa uscire dalla gabbia del lockdown per entrare nella gabbia più grande, quella delle vaccinazioni permanenti. Che poi è il sogno di Big Pharma: una società in cui tutte le persone sane si abituino comunqe a vaccinarsi regolarmente, a tutte le età, una o più volte all’anno, pena la restrizione delle loro libertà. Questo è quello che vogliono ottenere, e stanno per riuscirci».Quindi, conclude Massimo Mazzucco, vedete voi in che mondo volete vivere: «Un mondo libero, dove ci vengono garantite da subito delle cure valide (e dove chi vuole potrà anche vaccinarsi, se lo desidera), oppure un mondo di schiavi, ricattati dalle continue restrizioni e condannati a circolare con il passaporto vaccinale in tasca per andare allo stadio, in discoteca, a trovare i parenti anziani nelle case di risposo». Violando la Costituzione, il governo Draghi ha già imposto il vaccino ai sanitari: in teoria, la Carta proibisce di sottoporre cittadini a Tso con farmaci ancora sperimentali. Il grande avvocato tedesco Reiner Fuellmich, insieme a mille colleghi e 10.000 medici di tutto il mondo, sta preparando le carte per ottenerla, la Nuova Norimberga. Nella geografia della strage, spicca l’Italia di Giuseppe Conte e Roberto Speranza: alle cure negate (”proibite”, per dirla con Mazzucco) corrisponde un numero spaventoso di vittime, abbandonate in “vigile attesa” della morte.Ha idea, Roberto Speranza, di quante persone sono morte per il Covid, nell’ultimo anno, a causa delle cure non autorizzate? Migliaia? Tutti pazienti che potevano essere salvati, se solo non fossero stati ostacolati in ogni modo i medici che avevano scoperto come guarirli, spesso da casa, senza nemmeno ricorrere all’ospedale. Massimo Mazzucco snocciola i numeri della strage: e spiega anche perché è stata provocata, da che cosa. L’imputato numero uno ha un nome preciso: il vaccino. Se fossero state approvate le terapie salva-vita, sarebbe stato impossibile (per l’Ema, e quindi per l’Aifa) accordare ai vaccini-Covid l’autorizzazione d’emergenza per la loro somministrazione. Normalmente, per approvare un vaccino servono 3-5 anni di sperimentazioni. La procedura emergenziale può scattare solo in un caso: quando non esistono alternative, cioè cure. Ecco perché le cure (che esistono e funzionano) sono state sistematicamente boicottate: se fossero state approvate, addio vaccini.
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La strage: cure negate, per poter autorizzare i vaccini
Si può concedere l’autorizzazione d’emergenza, per vaccini ancora sperimentali, solo in un caso: che non esistano terapie riconosciute come efficaci. Ecco il cavillo, che spiega il “mistero” della guerra condotta nell’ultimo anno contro tutti i farmaci che hanno dimostrato la capacità di salvare vite umane, tra i pazienti Covid. Percentuali da capogiro: terapie che hanno prontamente guarito tre malati su quattro, o addirittura fatto registrare il 95% di guarigioni. Ogni volta, condannate dal medesimo copione. Primo passo: l’entusiasmo dei medici che le hanno scoperte. Poi la timida eco concessa in prima battuta dai media. Terzo passaggio, l’invariabile bocciatura delle autorità sanitarie (accampando pretesti anche ridicoli). Infine: il “seppellimento” della terapia salva-vita, mediante linciaggio a mezzo stampa dei medici benemeriti, prima isolati e poi anche derisi. E’ impietosa, la ricostruzione fornita da Massimo Mazzucco su “Contro Tv” il 12 maggio: era solo per arrivare alla “autorizzazione d’emergenza” per i vaccini, che nel frattempo si è negata ogni cura salva-vita? Tradotto: quante, delle 120.000 vittime ufficialmente stimate, oggi sarebbero ancora in vita, se non fossero state ostacolate quelle cure?Il prontuario delle occasioni perdute è ormai sterminato, stando al triste elenco fornito da Mazzucco: plasmaferesi e cortisonici, azitromicina e quercitina, ozonoterapia, eparina, idrossiclorochina. Nel video-reportage presentato, Mazzucco offre una panoramica imbarazzante di fatti, interviste, evidenze e documenti. Emerge una verità schiacciante: medici, ricercatori, scienziati e primari ospedalieri italiani sono stati regolarmente ignorati, o addirittura combattuti, pur di non riconoscere la validità delle loro terapie (che avrebbero ostacolato, a quanto pare, la famosa “autorizzazione d’emergenza” per i vaccini). Non si contano le proteste da parte degli operatori sanitari in prima linea: boicottati, uno dopo l’altro, i validi tentativi messi in atto dagli ospedali di Bologna e Mantova, Reggio Calabria e Udine. Ogni evidenza – elevatissimo tasso di guarigioni, in tempi rapidi – è sempre stata rigettata. Particolarmente scandaloso in caso del Sant’Orsola di Bologna: da quando abbiamo capito l’importanza delle cure precoci – dicono i medici – siamo intervenuti a casa dei pazienti: i ricoveri sono cessati, e di Covid non è morto più nessuno.Per tutta risposta, Roberto Speranza (tuttora ministro della sanità del governo Draghi) si è premurato di far bloccare dal Consiglio di Stato le terapie domiciliari riconosciute dal Tar e, di recente, invocate da una mozione pressoché unanime del Senato. E’ come se in tutto questo tempo – osserva Mazzucco – avesse operato un’attenta regia, composta da Ema e Oms, Aifa e ministero della salute, giornali e virologi televisivi. Tutti a favore di un’unica narrazione: il terrore sanitario, le terapie intensive intasate, le migliaia di ricoveri, i decessi, le bare di Bersamo. E le cure salva-vita? Cancellate: sottratte all’opinione pubblica, persuasa – in modo martellante – che dal Covid ci si possa salvare solo all’ospedale, e poi ovviamente con il vaccino. Tutto falso, naturalmente. E anche criminale, sottolinea Mazzucco. Tralasciando il fatto che i “vaccini genici” (non sicuri, e di dubbia efficacia) necessitino di continui richiami, dato il carattere mutante del virus Rna, resta la domanda: se davvero le terapie sono state negate, quante persone sono state fatte morire (di fatto: lasciate senza cure) solo per poter arrivare alla “autorizzazione d’emergenza” per i vaccini?Si può concedere l’autorizzazione d’emergenza, per vaccini ancora sperimentali, solo in un caso: che non esistano terapie riconosciute come efficaci. Ecco il cavillo, che spiega il “mistero” della guerra condotta nell’ultimo anno contro tutti i farmaci che hanno dimostrato la capacità di salvare vite umane, tra i pazienti Covid. Percentuali da capogiro: terapie che hanno prontamente guarito tre malati su quattro, o addirittura fatto registrare il 95% di guarigioni. Ogni volta, condannate dal medesimo copione. Primo passo: l’entusiasmo dei medici che le hanno scoperte. Poi la timida eco concessa in prima battuta dai media. Terzo passaggio, l’invariabile bocciatura delle autorità sanitarie (accampando pretesti anche ridicoli). Infine: il “seppellimento” della terapia salva-vita, mediante linciaggio a mezzo stampa dei medici benemeriti, prima isolati e poi anche derisi. E’ impietosa, la ricostruzione fornita da Massimo Mazzucco su “Contro Tv” il 12 maggio: era solo per arrivare alla “autorizzazione d’emergenza” per i vaccini, che nel frattempo si è negata ogni cura salva-vita? Tradotto: quante, delle 120.000 vittime ufficialmente stimate, oggi sarebbero ancora in vita, se non fossero state ostacolate quelle cure?
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Magaldi: cari grillini (e Travaglio), votate No ai poteri forti
Alla vigilia del voto del 20-21 settembre, accorato appello di Gioele Magaldi nei confronti dei pentastellati: tornate in voi, ai tempi in cui vi battevate per la democrazia diretta. «Io sono per indire sistematici referendum propositivi e senza quorum, cioè forme di democrazia diretta che integrino in modo efficace la democrazia rappresentativa», premette il presidente del Movimento Roosevelt: «Se credete ancora nei valori di partecipazione in base ai quali nacque il Movimento 5 Stelle – dice Magaldi, rivolgendosi ai grillini – votate No al taglio dei parlamentari, che restringe ulteriormente gli spazi di democrazia, come espressamente richiesto dall’élite neoliberista che ha messo in crisi il pianeta». Stupore, da parte di Magaldi, per la presa di posizione di Marco Travaglio, giornalista di cui pure ha stima: «Come può scrivere che a volere il No siano i “poteri forti”, quando è vero esattamente il contrario? La Loggia P2 di Licio Gelli, che era il terminale italiano dei veri poteri forti, nel suo Piano di Rinascita Democratica metteva al primo posto proprio il taglio dei parlamentari».«La penalizzazione del Parlamento è stata ripetutamente pretesa, anche di recente, dal grande potere finanziario», ricorda Magaldi, evocando il documento con cui una grande banca come la Jp Morgan “consigliò” il taglio dei parlamentari. «Ai grillini – dice Magaldi – resta il merito storico di aver smascherato la fittizia contrapposizione tra centrodestra e centrosinistra, due schieramenti che di fatto eseguivano le direttive della medesima élite: e allora perché adesso, votando Sì, ci tengono così tanto a fare un piacere a quella stessa élite, che vede nel Parlamento una minaccia e un ostacolo ai suoi piani?». Analogo discorso quello rivolto a Travaglio: «Come fa oggi a sostenere il contrario della verità, dopo aver così bene smascherato, negli ultimi anni, le ipocrisie del centrodestra e quelle del centrosinistra, senza fare sconti a nessuno?». Per Magaldi, la realtà è lampante: «Dopo le privatizzazioni selvagge, le infami restrizioni imposte dall’austerity e la mortificazione degli enti locali, il taglio del Parlamento – che distanzia ulteriormente gli eletti dai cittadini – è l’ultimo anello di una catena di eventi drammatici, promossi dai nemici della democrazia».Per Magaldi, è irrisorio il vantaggio economico che si otterrebbe con la riduzione dei seggi (si risparmierebbe l’equivalente di un caffè all’anno), mentre è clamoroso il depistaggio dell’elettorato. «Per quanto “rubino”, i cattivi politici restano degli straccivendoli. Chi preme per il Sì, ha idea di quanto ci costino i manager, spesso in televisione, che poi chiedono aiuto allo Stato per salvare le banche e le aziende che hanno portato alla bancarotta?». Seriamente: «Avete idea – insiste Magaldi – di quanto ci sia costato, in termini di miliardi, il divorzio tra Tesoro e Bankitalia? O la stessa manipolazione dello spread, operata dai soliti noti? E’ tristemente ridicolo che si scateni il risentimento popolare verso i parlamentari, ed è molto deludente – aggiunge sempre il presidente “rooseveltiano” – che a questo gioco si siano prestati persino Matteo Salvini e Giorgia Meloni». Dice ancora Magaldi: «So benissimo che Salvini non è favorevole al Sì, esattamente come i leghisti Borghi, Bagnai e Giorgetti, che si sono apertamente pronunciati per il No».Se non troverà il modo di rimediare a questo gravissimo errore, lo avverte Magaldi, anche il leader della Lega ne farà le spese, «esattamente come tutti gli italiani che, dopo aver votato Sì, scopriranno amaramente di essersi sbagliati: perché saranno loro le prime vittime di un’operazione che, tagliando la politica, mira a tagliare la democrazia». Sull’esito del voto, Magaldi è pessimista: «Ho in frigo lo Champagne per brindare alla vittoria del No, ma prevedo che il Sì abbia più numeri, a causa della martellante disinformazione operata dai media e dai partiti. In ogni caso – conclude il presidente del Movimento Roosevelt – una eventuale, sciagurata vittoria del Sì aprirà gli occhi a tutti, dimostrando quanto si sarà caduti in basso. Sarà il punto di partenza per mobilitare finalmente le energie necessarie a compiere quella rivoluzione democratica di cui proprio l’Italia sarà protagonista: una battaglia durissima, per il futuro del nostro paese ma anche dell’Europa e del mondo, contro l’oligarchia della globalizzazione neoliberista che oggi vuole tagliare anche il Parlamento, dopo averci tolto molte libertà e il diritto a un futuro sereno e dignitoso».(Affermazioni che Gioele Magaldi ha reso il 19 settembre 2020 nella trasmissione “Pane al Pane”, di MrTv, in web-streaming su YouTube, condotta da Roberto Hechich. Nell’ambito della diretta, Magaldi ha ricordato l’impegno del Movimento Roosevelt a favore del progressista Massimo Della Siega, candidato sindaco a Varmo, Udine, e di Marco Bonini, candidato sindaco a Zagarolo, alle porte di Roma; già assessore nella precedente amministrazione dominata dal Pd, Bonini è ora alla guida di un cartello appoggiato anche da Lega e Fratelli d’Italia, «in polemica con il conservatorismo che può frenare l’azione sia del centrodestra che del centrosinistra»).Alla vigilia del voto del 20-21 settembre, accorato appello di Gioele Magaldi nei confronti dei pentastellati: tornate in voi, ai tempi in cui vi battevate per la democrazia diretta. «Io sono per indire sistematici referendum propositivi e senza quorum, cioè forme di democrazia diretta che integrino in modo efficace la democrazia rappresentativa», premette il presidente del Movimento Roosevelt: «Se credete ancora nei valori di partecipazione in base ai quali nacque il Movimento 5 Stelle – dice Magaldi, rivolgendosi ai grillini – votate No al taglio dei parlamentari, che restringe ulteriormente gli spazi di democrazia, come espressamente richiesto dall’élite neoliberista che ha messo in crisi il pianeta». Stupore, da parte di Magaldi, per la presa di posizione di Marco Travaglio, giornalista di cui pure ha stima: «Come può scrivere che a volere il No siano i “poteri forti”, quando è vero esattamente il contrario? La Loggia P2 di Licio Gelli, che era il terminale italiano dei veri poteri forti, nel suo Piano di Rinascita Democratica metteva al primo posto proprio il taglio dei parlamentari».
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Socialismo liberale, rooseveltiani al voto: Zagarolo e Varmo
«Il Movimento Roosevelt appoggia Marco Bonini come candidato sindaco di Zagarolo, grosso Comune alle porte di Roma, perché crede nella necessità di cambiare orizzonte». E’ esplicito, l’endorsement di Gioele Magaldi nei confronti di Bonini, già assessore nella precedente amministrazione dominata dal Pd e ora candidato con il supporto di svariati partiti del fronte opposto, tra cui Lega e Fratelli d’Italia. «Io non ragiono in termini di etichette facili e di superficie», chiarisce Magaldi, che archivia volentieri le categorie destra-sinistra e la contrapposizione solo fittizia tra i due schieramenti, protagonisti entrambi – nella Seconda Repubblica – del progressivo pensionamento della democrazia sostanziale. «Quello che oggi distingue un politico, semmai, è la sua vicinanza (o lontananza) rispetto all’unica ideologia subdolamente imperante, quella del neoliberismo che ha privatizzato e malamente globalizzato il pianeta». Una ideologia sommaria e totalizzante, «che oggi ci propone un orrore come il taglio dei parlamentari, insignificante sul piano del risparmio economico ma tragicamente simbolico: voler ridurre ulteriormente la rappresentanza democratica vuol dire continuare a penalizzare i cittadini, allontanando ulteriormente gli elettori e rendendo gli eletti sempre più irraggiungibili, fedeli solo ai leader di partito».«Seguiremo con grande attenzione le elezioni comunali di Zagarolo», annuncia il presidente del Movimento Roosevelt, che in tutt’altra parte d’Italia (a Varmo, Udine) schiera direttamente un suo dirigente, Massimo Della Siega, candidato sindaco in una coalizione squisitamente civica. «Non è davvero più questione di etichette, sigle e schieramenti», conferma Della Siega: «Qui si tratta di riscrivere le regole del buon governo locale, dialogando con tutti e cercando di “fare rete”, su territori resi sempre più periferici». L’impegno nei Comuni, sottolinea Magaldi, nella deprecata Prima Repubblica era – giustamente – il primo passo, per elaborare quell’esperienza che, col tempo, avrebbe forgiato dirigenti politici capaci, e non improvvisati come quelli di oggi. «Intanto – riassume Pierluigi Winkler, uno dei vicepresidenti del Movimento Roosevelt – è necessario tornare ai valori del socialismo liberale che abbiamo appena sentito risuonare nelle parole pronunciate a Berlino da Robert Kennedy Junior, che ci hanno scaldato il cuore: ogni vera soluzione, per l’umanità, non può prescindere dalla libera partecipazione democratica».Socialismo liberale? «Un ossimoro, per un guru del neoliberismo come Friedrich von Hajek – dice Magaldi – che finse di non aver letto Carlo Rosselli». Quei valori sono perfettamente coniugabili: e devono tornare a esserlo, oggi più che mai, dice Winkler, «anche se il socialismo maggioritario che si affermò in Occidente non era democratico ma comunista, cioè a vocazione oligarchica». Questa distorsione, per Magaldi, spiega la delusione che la sinistra ha riservato a tanti suoi elettori: mentre i socialisti liberali come Craxi (al netto dei loro errori) furono liquidati dal nascente regime neoliberista, furono gli eredi della tradizione comunista a mettersi a disposizione degli oligarchi che, negli anni Novanta, privatizzarono l’Italia e cominciarono a ridurre gli spazi di democrazia, puntando solo sui diritti civili in cambio della svendita dei diritti sociali. Passo dopo passo, abbiamo ristretto ogni spazio civico, fino ad arrivare alla brutale riduzione del Parlamento. Magaldi parla di una «bruttissima pseudo-riforma della Costituzione», che ora rischia di essere confermata dal referendum del 20-21 settembre.«Credo che, alla fine, gli italiani saranno condizionati dalla pessima pedagogia antipolitica, antidemocratica e demagogica di questi anni: moltissimi italiani non hanno nemmeno capito perché votare Sì piuttosto che No», dice il presidente “rooseveltiano”, mettendo a fuoco il problema: «Non c’è più una formazione civica adeguata, né tantomeno l’hanno fatta i mezzi di informazione, in questi mesi». Per questo, Magaldi teme che vincerà il Sì confermativo. «Ma stiano tutti tranquilli», avverte: «Appena possibile rimedieremo a questo eventuale scempio della Costituzione, se dovesse esserci. Tuttavia – aggiunge lo stesso Magaldi – anche se il pessimismo della ragione mi induce a ritenere che prevarranno i Sì, io andrò comunque a votare No».Evidente, in ogni caso, la fibrillazione del governo: Pd e 5 Stelle temono per l’esito delle regionali, e non sono neppure sicurissimi che gli italiani voteranno Sì al referendum. Intanto, Magaldi annuncia che il Movimento Roosevelt presenterà il suo “ultimatum” al governo Conte: un pacchetto di proposte per alleviare immediatamente le sofferenze economiche provocate dal lockdown. «Sarà anche calendarizzato l’esordio della Milizia Rooseveltiana», formazione che scenderà in piazza nel caso in cui l’esecutivo non dovesse rispondere, in modo adeguato, alle proposte avanzate. «Finora, l’ultimatum a Conte non è stato ancora presentato, a causa della fluidità della situazione, molto complicata ma anche molto feconda». Proprio in nome di un orizzonte nuovo, che sappia declinare il socialismo liberale nel terzo millennio, il Movimento Roosevelt sosterrà Massimo Della Siega a Varmo e Marco Bonini a Zagarolo, in questo caso nel segno della discontinuità: Bonini ritiene salutare un’alternanza, portando l’ex opposizione al governo di un Comune rimasto per vent’anni nelle mani del centrosinistra. Magaldi crede al lavoro nei Comuni, così come quello nelle Regioni, dove i “rooseveltiani” stanno sostenendo alcuni candidati. «Anche dai territori, grazie a uomini come Bonini e Della Siega – chiosa Magaldi – potrà crescere in modo laico e trasversale quella consapevolezza politica necessaria a sconfiggere la “teologia” neoliberista dell’austerity, per tornare a politiche autenticamente progressiste».«Il Movimento Roosevelt appoggia Marco Bonini come candidato sindaco di Zagarolo, grosso Comune alle porte di Roma, perché crede nella necessità di cambiare orizzonte». E’ esplicito, l’endorsement di Gioele Magaldi nei confronti di Bonini, già assessore nella precedente amministrazione dominata dal Pd e ora candidato con il supporto di svariati partiti del fronte opposto, tra cui Lega e Fratelli d’Italia. «Io non ragiono in termini di etichette facili e di superficie», chiarisce Magaldi, che archivia volentieri le categorie destra-sinistra e la contrapposizione solo fittizia tra i due schieramenti, protagonisti entrambi – nella Seconda Repubblica – del progressivo pensionamento della democrazia sostanziale. «Quello che oggi distingue un politico, semmai, è la sua vicinanza (o lontananza) rispetto all’unica ideologia subdolamente imperante, quella del neoliberismo che ha privatizzato e malamente globalizzato il pianeta». Una ideologia sommaria e totalizzante, «che oggi ci propone un orrore come il taglio dei parlamentari, insignificante sul piano del risparmio economico ma tragicamente simbolico: voler ridurre ulteriormente la rappresentanza democratica vuol dire continuare a penalizzare i cittadini, allontanando ulteriormente gli elettori e rendendo gli eletti sempre più irraggiungibili, fedeli solo ai leader di partito».
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Della Siega: il coraggio di ripartire dall’Italia dei Comuni
«La notizia peggiore forse è questa: molte famiglie, qui in paese, quest’anno non avranno i soldi per iscrivere i figli all’università. E questo significa una sola cosa: tagliare il futuro, e dire addio a quel che resta dell’ascensore sociale». Il paese in questione è Varmo, nella piana friulana a meno di venti chilometri dal mare, sulla riva sinistra del Tagliamento, a metà strada tra Udine e Pordenone. Un borgo duramente colpito dal terremoto del 1976 e poi rifiorito, come molti altri, grazie alla proverbiale, silenziosa tenacia dei friulani. E’ di poche parole anche l’uomo che potrebbe diventarne il sindaco: Massimo Della Siega, 56 anni, odontoiatra e medico ospedaliero (in prima linea – durante il lockdown – tra i malati di Covid). Un evento rovinoso, destinato a cambiare la storia. Ma non per sempre: «Pur mantenendo la doverosa prudenza che la situazione impone – dice il medico – oggi abbiamo il dovere di osservare la realtà attuale: clinicamente il virus non è più la minaccia di qualche mese fa. Quindi è ora di rimboccarci le maniche e ricominciare a vivere, senza più stare ad ascoltare chi vorrebbe prolungare all’infinito il clima di emergenza e di paura, che poi è quello che ha prodotto il disastro economico che ora l’Italia intera dovrà affrontare».Massimo Della Siega è stato invitato a candidarsi, come sindaco, da due gruppi civici, “ViviAmo Varmo” e “Varmo comunità”. Nelle elezioni comunali, specie nei paesi con pochi abitanti (appena 2700, in questo caso), gli schemi classici – centrodestra contro centrosinistra – lasciano il tempo che trovano. Specie se poi a dover «fare sintesi» è un personaggio come il dottor Della Siega, per vocazione abituato all’ascolto e al dialogo: prima le idee, purché buone, a prescindere dalla fonte da cui provengono. «Sarà un fatto di carattere», dice, in web-streaming su YouTube: a vincere è il pragmatismo del medico, dell’approccio scientifico. «Poi, certo, nel mio modo di essere influisce anche la mia esperienza del Movimento Roosevelt, che è laico e trasversale, oltre le appartenenze, pur nell’ispirazione liberal-socialista». Lo conferma – in video-chat con Massimo su “MrTv” – il conterraneo Roberto Hechich, altro dirigente “rooseveltiano”, che riassume: «Qui si tratta di rianimare la politica italiana, parlando a tutti i partiti – nessuno escluso – per aiutarli a ritrovare la sovranità di fondo della democrazia sostanziale, confiscata attraverso i pericolosi equivoci di un’Europa mai nata. Lo si è visto anche adesso, con il Covid: aiuti scarsi, tardivi e gravati da pesanti condizionalità».Beninteso: il caso di Varmo resta un’esperienza civica, profondamente comunale, in cui a essere “rooseveltiana” è la storia (personale) del candidato sindaco, ben attento a concentrarsi sul paese con un programma di buon senso. Esempio: «In cassa ci sono un sacco di soldi che dovevano essere spesi per opere pubbliche, ma sono rimasti bloccati: amministrare non è mai facile, tra mille lacci e laccioli, ma forse è giunta l’ora di abbandonare le titubanze, perché la situazione oggi lo richiede». Oppure: «Il territorio è frazionato, e le periferie si sentono trascurate: noi istituiremo una Consulta permanente delle borgate, in modo che tutti possano segnalare puntualmente le loro necessità». La capacità di ascolto resta la prima virtù: del medico, e a maggior ragione del politico. E le prime note che al candidato tocca ascoltare, anche a Varmo, oggi sono dolenti: «Tutti sanno che la vera emergenza è quella economica: la drammatica eredità del Covid. Molte attività non riusciranno a riprendersi, molte famiglie faticheranno a vivere». Sarà proprio questa la prima linea nella quale si impegnerà il Comune: «Abbiamo risorse limitate, ma le useremo per dare ossigeno a chi non ce la fa: è una priorità assoluta».A Massimo Della Siega ha fatto piacere ascoltare il sermone di Mario Draghi al Meeting di Rimini, con la netta distinzione tra “debito buono” e “debito cattivo”. «L’ho sempre pensato anch’io, nel mio piccolo: non bisogna aver paura di fare deficit per sostenere iniziative destinate a creare lavoro, e al tempo stesso occorre evitare gli sprechi, cioè le spese improduttive». La comunità di Varmo è la prima a saperlo: gente abituata a utilizzare in modo oculato gli investimenti. L’industria è di taglio artigianale: chimica, tessile, alimentare, legno, profumi, lavorazione dei metalli. Solida agricoltura: foraggi, cereali e zootecnia. Le campagne – le Grave Fiuliane – producono fantastici vini, grazie ai terreni di origine alluvionale: nei millenni, il Tagliamento ha trascinato a valle i ciottoli dolomitici delle Alpi Carniche, arricchendo il suolo di mineralità marina che poi, nei calici, si traduce in profumi ed eccellenza vinicola. Non è che l’ennesima pagina del riscatto nazionale, di cui proprio il vino è diventato un ambasciatore importante, anche in termini di export.La parola d’ordine, oggi, è proprio questa: risollevarsi. «E’ un impegno, la partecipazione civica, che dovrebbe coinvolgere moltissimi italiani», dice Gioele Magaldi, che del Movimento Roosevelt è il fondatore: «L’esempio di Massimo Della Siega testimonia benissimo la capacità di interpretare il presente: oggi più che mai, è necessario scendere in campo in prima persona». Il Comune, peraltro, rappresenta una dimensione ideale: gli eletti sono direttamente controllabili, in piena trasparenza, dagli elettori che li hanno democraticamente scelti. Non è poco, in un mondo in cui il potere è diventato lontanissimo e post-democratico, quasi invisibile, affidato a vertici pressoché irraggiungibili (nazionali, europei, planetari). Candidarsi a casa propria, innanzitutto, significa accettare una scommessa: dimostrare che è possibilissimo, malgrado tutto, fare qualcosa di buono, e lo si può fare partendo proprio dal paese in cui si vive. “Dal particulare all’universale”, era un motto del grande Rinascimento italiano. Oggi lo si potrebbe tradurre con un altro termine: “glocal”. «Pensare globalmente, e agire localmente», sintetizzava Alex Langer, ideologo dei primissimi Verdi italiani.«L’importante è restare connessi, uniti, ascoltando le ragioni di tutti», dice Massimo Della Siega, pensando a Varmo e al Medio Friuli nel quale il paese è collocato: se i Comuni scontano i tempi di vacche magre accelerati dal Patto di Stabilità e dalla continua diminuzione di risorse statali, è giunto il momento di fare rete. «Nel nostro caso, l’idea è quella di aprire canali di comunicazione coi paesi vicini, per mettere in piedi servizi migliori». In altre parole, l’unione fa la forza. «La crisi economica indotta dall’emergenza Covid avrà conseguenze pesantissime: chi ancora non se ne fosse accorto, lo scoprirà nei prossimi mesi». La prima arma è la consapevolezza: essere lucidi, saper valutare la situazione. Serve a mettere in campo una strategia vincente per uscire dal tunnel. Quasi mezzo secolo fa, a schiantare il Friuli fu il sisma. Oggi, un terremoto di altro genere – ancora peggiore – sta frustando l’Italia, tutta quanta. I friulani non si lasciarono abbattere, allora. E non hanno l’aria di volersi arrendere nemmeno stavolta. E chissà che anche Varmo, nel suo piccolo, non possa fare storia.Il Varmo, piccolo affluente del Tagliamento, dà il titolo all’omonima novella di Ippolito Nievo: gli intrecci dell’umanità minuta (fine Ottocento) vivono di vita propria, grazie alla magia del paesaggio a cui ciascuno sente di appartenere. Sempre a Varmo sono ambientati due romanzi, “La casa a nord-est” e “La stazione di Varmo”, di Sergio Maldini, amico del giovane Pasolini e poi di Dino Buzzati. Il terzo romanzo potrebbe scriverlo, delibera su delibera, lo stesso Massimo Della Siega, rubando un po’ di tempo ai suoi pazienti all’ospedale. L’impegno degli italiani – oggi, in piena Era del Covid – ha un sapore inevitabilmente diverso: il paese intero è finito in terapia intensiva insieme alla sua economia, e la politica non sta certo meglio. Proprio il Comune resta la prima trincea, immediata, in cui è possibile incidere: non contro qualcuno, ma per ottenere qualcosa che faccia bene a tutti. E’ il dono più prezioso, in fondo: la consapevolezza di essere una comunità pienamente democratica, dove nessuno deve restare indietro. Le regole generali sono da riscrivere? Certo, ma occorre tempo. In municipio, invece, l’impresa è a portata di mano: si può cominciare da subito. Basta guardarsi negli occhi, per capire – insieme – da dove ripartire.(Giorgio Cattaneo, 5 settembre 2020).«La notizia peggiore forse è questa: molte famiglie, qui in paese, quest’anno non avranno i soldi per iscrivere i figli all’università. E questo significa una sola cosa: tagliare il futuro, e dire addio a quel che resta dell’ascensore sociale». Il paese in questione è Varmo, nella piana friulana a meno di venti chilometri dal mare, sulla riva sinistra del Tagliamento, a metà strada tra Udine e Pordenone. Un borgo duramente colpito dal terremoto del 1976 e poi rifiorito, come molti altri, grazie alla proverbiale, silenziosa tenacia dei friulani. E’ di poche parole anche l’uomo che potrebbe diventarne il sindaco: Massimo Della Siega, 56 anni, odontoiatra e medico ospedaliero (in prima linea – durante il lockdown – tra i malati di Covid). Un evento rovinoso, destinato a cambiare la storia. Ma non per sempre: «Pur mantenendo la doverosa prudenza che la situazione impone – dice il medico – oggi abbiamo il dovere di osservare la realtà attuale: clinicamente il virus non è più la minaccia di qualche mese fa. Quindi è ora di rimboccarci le maniche e ricominciare a vivere, senza più stare ad ascoltare chi vorrebbe prolungare all’infinito il clima di emergenza e di paura, che poi è quello che ha prodotto il disastro economico che ora l’Italia intera dovrà affrontare».
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La prima regola: mai lasciarsi imporre l’agenda del nemico
La prima regola per difendere la propria libertà, probabilmente, sta nel cercare di non farsi imporre l’altrui agenda. Nel libro-capolavoro “La guerra dei poveri” (Einaudi), Nuto Revelli traduce il concetto declinandolo nel contesto storico dell’estrema precarietà della guerra partigiana: mai accettare lo scontro, men che meno in campo aperto. Al rastrellamento non ci si oppone: ci si sottrae, dileguandosi sui monti. Per colpirla, una soverchiante forza di occupazione, non c’è che una strada: tendere agguati, con iniziative inattese e rapidissime, senza lasciare all’avversario il tempo di reagire. La tattica della guerriglia non pretende certo di ottenere la sconfitta militare del nemico; però contribuisce a innervosirlo, destabilizzarlo e infine fiaccarlo. Presuppone una strategia lucidamente pianificata, e il concorso sincronizzato di svariate unità, ben addestrate e distribuite sul territorio. Armi leggere, o leggerissime, contro carri armati e obici: ha senso? La risposta è sì, conferma lo storico Alessandro Barbero: i comandi alleati si complimentarono con il comandante Revelli per essere riuscito a rallentare per 10 lunghissimi giorni l’avanzata, sulle Alpi cuneesi, di una potente divisione corazzata nazista, diretta in Provenza attraverso il Colle della Maddalena per ostacolare gli angloamericani appena sbarcati fra Tolone e Cannes.La chiave di quel successo tattico? Rinunciare alle artigliere partigiane schierate in linea e optare per agili azioni di commando sui fianchi della vallata, con solo qualche mortaio e poche mitragliatrici. In altre parole: sfuggire all’agenda imposta del nemico. Ora, occorre un discreto “salto quantico” per lasciare di colpo l’agosto del 1944 e piombare nella fatale primavera 2020. Domanda a bruciapelo: quand’è l’ultima volta che abbiamo rifiutato l’agenda altrui, cioè la logica dello scontro? Certo, fortunatamente oggi non siamo in guerra; ma l’inaudito stato d’assedio “cinese” imposto all’Italia in nome del coronavirus, il quasi-coprifuoco dello stato d’emergenza, ha fatto sobbalzare più d’un costituzionalista. Come se il maledetto Covid-19, tuttora ampiamente misterioso, avesse finito per rendere drammaticamente evidente, esplosivo (e pure luttuoso) un male che in realtà si era insinuato da lunghissimo tempo, nella nostra società: l’eterodirezione, palese e occulta, degli stati d’animo connessi con la vita sociale e politica. Vecchia storia, probabilmente, cominciata in tempo di guerra con l’infernale propaganda hitleriana (”tutta colpa degli ebrei”) e proseguita in tempo di pace coi giochetti del mago Edward Bernays, nipote di Freud, per lanciare anche tra le donne il consumo di sigarette. Psicologia, innanzitutto: è l’arma vincente di qualsiasi agenda ostile, pericolosa per la salute della democrazia.Magie: il complottismo (quello vero, affidato ai Travaglio, agli Scanzi) oggi difende a spada tratta l’increscioso Conte, l’ex Signor Nessuno che – da semplice comparsa – è riuscito a diventare protagonista assoluto, primattore della più grave catastrofe socio-economica che abbia travolto l’Italia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il complottismo di regime aveva frastornato il pubblico, per decenni, elencando i presunti grandi mali nazionali, in quest’ordine: Berlusconi, corruzione, evasione fiscale, mafia. Erano gli anni d’oro di Di Pietro e dei girotondi, poi di Grillo. Non una parola – mai – sulla natura pericolosamente oligarchica della governance europea, sempre sorretta dall’establishment nazionale che vede nel Pd il suo stabile riferimento strumentale operativo. La consegna è sempre la stessa: lasciare in mano alla finanza speculativa le grandi decisioni, semplicemente ratificate dalla politica. Stesero il tappeto rosso, i cantori del rigore, ai piedi del commissario Monti che provvide immediatamente a disabilitare l’economia italiana e neutralizzare (col pareggio di bilancio in Costituzione) le residue possibilità finanziarie, ancorché virtuali, di uno Stato comunque intrappolato da Maastricht e Lisbona, reso incapace di intervenire in modo immediato (oggi lo si vede benissimo) persino se si tratta di salvare vite umane e famiglie ridotte sul lastrico. La barzelletta dei 600 euro a scoppio ritardato, con tanto di default del server dell’Inps, ha fatto il giro del mondo, in paesi che invece hanno subito accreditato mensilità direttamente sui conti correnti dei cittadini costretti a restare a casa.La politica come semplice paravento pubblico dell’establishment privatistico ha assunto toni ulteriormente spettacolari con la meteora Renzi e il suo vaniloquio immaginifico, per poi cedere il testimone al suo alter ego populista, il grillismo (che oggi infatti è al governo proprio con Renzi). Specularità assoluta: abissale distanza tra le parole e i fatti, e senza mai affrontare il vero problema – quello che oggi il funesto Covid mette in mostra impietosamente: a causa dell’euro-sistema non si mette mano al denaro, centinaia di miliardi, indispensabile per fronteggiare la catastrofe. Altra presenza poco più che meteorica, lo stesso Salvini: per oltre un anno, dopo aver incassato il “niet” dell’Ue sul deficit, il leader della Lega ha raccontato agli italiani che il loro vero problema erano gli sbarchi dei migranti. Salvini però – prima di venir costretto a gettare la spugna – è stato letteralmente surclassato dal chiasso degli avversari: sono riusciti a dargli persino del nazista, raccontando a loro volta agli italiani l’ennesima fiaba, e cioè che il vero problema nazionale fosse proprio lui, la Bestia. Tutto questo, mentre la narrazione della tragedia del surriscaldamento climatico terrestre era affidata alla sedicenne Greta, e mentre le eroiche Sardine prodiane formulavano la loro ricetta per la democrazia italiana: impedire ai ministri di esprimersi liberamente, sui social.Questa nuova moda della censura, in realtà antichissima, sta letteralmente tracimando: l’Agcom raccomanda di diffondere solo notizie “accreditate” (non si sa da chi), e lo stesso governo addirittura mette in campo una task force per imbavagliare il web (istituita da Andrea Martella – Pd, ovviamente), mentre si continua a dare la parola, a reti unificate, a un signore come il virologo Roberto Burioni, che si è permesso – nell’Italia nel 2020 – di chiedere alla magistratura di spegnere “ByoBlu”, il video-blog più seguito dagli italiani, cioè il popolo che Conte non ha protetto tempestivamente dalla pandemia, salvo poi chiuderlo in casa (e senza neppure uno straccio di assistenza economica). Tutto questo è semplicemente esorbitante, anomalo, mostruoso quanto le previsioni di economisti e sociologi: il paese rischia letteralmente di crollare, con conseguenze incalcolabili, anche grazie all’inerzia del suo non-governo scandaloso, imbelle ma improvvisamente autoritario. Nel frattempo, il cielo è scosso dal rombo di temporali vicini e lontani: Trump taglia i fondi all’Oms, accusandola di essere complice della diffusione del virus, mentre il figlio di Bob Kennedy accusa Bill Gates (grande sponsor della stessa Oms) di voler imporre il suo vaccino anti-coronavirus, probabilmente inutile e forse rischioso.Alla stragrande maggioranza degli italiani, stanchi di cantare l’inno nazionale dai balconi, sempre il coronavirus oggi consente finalmente di vedere di che pasta è fatta questa sedicente Unione Europea, convalidata pochi mesi fa dal solito Pd con l’aggiunta dell’ormai altrettanto impresentabile Movimento 5 Stelle, recentissimo interprete (con la sua sub-agenda locale) della grande agenda neoliberista, quella che dal 1971 con il Memorandum Powell si diede una vera e propria road map per la riduzione progressiva della democrazia. Tappa fondamentale, il golpe cileno del 1973 che segnò l’avvento del neoliberismo al potere. Due anni dopo, il manifesto “La crisi della democrazia” (commissionato dalla Trilaterale) preparò la capitolazione dell’economia sociale europea, sinistramente sigillata nel sangue nel 1986 con l’omicidio del premier socialista svedese Olof Palme, campione del welfare, fino poi all’estinzione della sinistra italiana. L’agenda ostile ha lavorato in modo perfetto per destrutturare minuziosamente qualsiasi difesa, usando i media come armi letali e riducendo l’offerta politica a puro folkore. Se si scorrono i nomi dei cosiddetti leader a disposizione degli italiani, si capisce al volo il boom storico dell’astensionismo (che lascia comunque campo libero ai veri decisori, quelli che scelgono chi farà il ministro e con quali compiti).Pur nel devastante caos planetario che ha causato, incrinando le certezze commerciali della globalizzazione, il micidiale Covid mette a fuoco un altro punto cardinale dell’agenda ostile: la scelta, dolorosa, tra sicurezza e libertà. Da una parte svetta il modulo-Wuhan raccomandato dall’Oms e prontamente adottato dall’Italia, dall’altra si registra l’insofferenza della Casa Bianca (che, tra le righe, sospetta l’Oms di essere il vero strumento dell’agenda-Covid, interpretata come piano di dominazione, affidato alla nuovissima polizia sanitaria capace di dettare lo stato d’emergenza sostituendosi ai governi). Niente sarà più come prima, ripetono tutti, ripiegando sull’incerta protezione delle mascherine. Una certezza negativa riguarda l’Italia: il nostro paese – crocevia strategico tra Usa e Cina, Mediterraneo e Ue – sta subendo danni incalcolabili, da cui non si sa come potrà risollevarsi, in che tempi e con quali costi sociali. Gli ottimisti invitano a riflettere sulle opportunità che il coprifuoco starebbe offrendo: cioè la riscoperta dell’autenticità dei valori umani. Per la riscoperta dei valori politici, invece, quanto ancora bisognerà attendere? O meglio: quali vettori impiegare, per tradurre sul piano pubblico le migliori istanze individuali?In un regime come l’attuale, sostanzialmente post-democratico e sempre meno libero, la domanda non è oziosa. La drammatica criticità della situazione sociale ripropone in modo automatico la consueta logica, perdente, dello scontro frontale. E’ forse il massimo risultato dell’agenda ostile: coltivare l’odio per il presunto nemico di turno. E’ il modo migliore per cancellare la buona politica, senza che nessuno se ne accorga, se il pubblico è impegnato a tifare solo e sempre “contro”, a fischiare qualcuno, a maledire qualcosa. Tutte battaglie di carta, fuochi di paglia. Cade il nemico apparente, ma ce n’è già pronto un altro. L’avversario vero – non altrettanto visibile – pare si diverta, a far combattere i suoi galletti, senza che nessuno di loro abbia mai la minima possibilità di cambiare veramente qualcosa. Se non teme i leader di cartone (promossi e bocciati a comando) cosa teme, davvero, l’agenda ostile? Il pensiero? La libertà? La capacità di strutturare proposte serie? A questo è servito, l’effimero leaderismo mediatico degli ultimi decenni: a far sparire i programmi, rottamati insieme ai diritti sociali, a partire dalla grande privatizzazione universale degli anni Novanta, affidata in Italia a Romano Prodi, Mario Draghi, Massimo D’Alema. A seguire, vent’anni di stupidaggini assordanti, fino alla demolizione di Berlusconi via gossip a mano armata, con tanto di spread.Una delle qualità che alla Resistenza gli storici riconobbero in modo unanime fu la sua capacità sinergica, trasversale, di unire forze eterogenee: comunisti, socialisti, azionisti, cattolici, liberali, persino monarchici. Le lezione: smettere di ragionare per schemi, in modo etnico, e ridiventare laici, riconoscendo pari dignità a chiunque (qualunque errore possa aver commesso, in passato). Ieri, il patto era basato sull’opposizione patriottica di fronte alla spaventosa calamità dell’occupazione nazista, esito finale di una dittatura che aveva risolto subito, a modo suo, la dicotomia sicurezza-libertà, e senza nemmeno bisogno di mascherine. Nel 1943, sul piano militare, il nemico era pressoché inaffrontabile. Lo si poteva solo infastidire seriamente, in attesa dell’arrivo decisivo degli alleati (che esistono sempre, e hanno sempre bisogno di partigiani intelligenti). Nell’agosto del 1944, Nuto Revelli cominciò la sua battaglia in Valle Stura rimuovendo i suoi cannoni controcarro schierati a Vinadio, in campo aperto: non sarebbero mai riusciti a fermare i panzer. Fucile in spalla, diresse i suoi verso le alture. Seguirono giorni difficilissimi, nei quali però la divisione tedesca rimaste ferma, imbottigliata nel fondovalle a fare da bersaglio.Gli alleati di allora, intanto, stavano finendo di sbarcare in Costa Azzurra. Quelli di oggi dove sono? Meglio: chi sono? Si nascondono dietro al ciuffo di Trump, che ha promesso di impedire il collasso socio-economico dell’Italia, contrastando sia l’Europa “matrigna” che il “partito cinese” che collega Wuhan a personaggi come Bill Gates, attraverso network opachi come l’Oms? Anche fosse, dove sarebbero i “partigiani” italiani? Forse affilano le armi ultraleggere del web, non a caso preso di mira dai nuovi censori? Domina il caos, in ogni caso: alle gravissime reticenze del mainstream, i social rispondono con un festival parossistico in cui si può leggere di tutto, solenni verità e bufale spaziali, grandi quanto quelle dei virologi televisivi. Servirebbe una piattaforma autorevole e plurale, inclusiva, per coordinare idee traducibili e spendibili. Primo passo: costruire finalmente un’agenda autonoma, alternativa a quella ostile, a disposizione della politica (nessuno escluso). Secondo step, appunto: smettere di spararsi addosso a vicenda, mettere da parte il tifo e imporsi un pensiero costruttivo. Volendo, l’occasione è ghiotta: mai, prima d’ora, la governance eurocratica (vera responsabile del declino italiano, ben prima dell’esplosione pandemica) aveva mostrato il suo vero volto.In frangenti come quello presente, forse, l’autentico eroismo consiste nella capacità di cambiare idea, riconoscendo i propri errori. E’ spesso citato ad esempio il caso, più unico che raro, del Sudafrica. Rovesciato l’apartheid, anziché procedere con operazioni di giustizia sommaria, Nelson Mandela preferì offrire agli ex aguzzini bianchi una possibilità di riabilitazione, consentendo anche ai peggiori di chiedere perdono ai familiari delle loro vittime. Tanti anni prima, fu capace di cambiare idea lo stesso Nuto Revelli, ufficiale degli alpini imbevuto di militarismo fascista. Spettacolare, la sua trasformazione – lacerante, dolorosissima – cominciata proprio sul fronte russo, in prima linea. Non difettava di coraggio, Nuto Revelli: fu l’ultimo uomo a chiudere la sterminata colonna in ritirata, nel ‘43. Dietro di lui, c’era solo il Don. E oltre il Don, l’Armata Rossa. Una volta a Udine, attraversato l’inferno bianco dello sfacelo dell’Armir, si spedì a casa i suoi mitra: sentiva che, di lì a poco, gli sarebbero serviti. Dopo aver fatto a pezzi il suo fascismo giovanile, si sarebbe deciso a sparare direttamente ai fascisti. Quanto è difficile, oggi, saper cambiare idea? Quanto è tenace, l’invisibile “psico-dittatura” del neoliberismo? Se a imporsi sarà sempre il consueto tifo contrapposto e televisivo, tra opzioni irrisorie, allora addio: ancora una volta, a vincere sarà l’agenda ostile.(Giorgio Cattaneo, “Prima regola, mai farsi imporre l’agenda del nemico”, dal blog del Movimento Roosevelt del 18 aprile 2020).La prima regola per difendere la propria libertà, probabilmente, sta nel cercare di non farsi imporre l’altrui agenda. Nel libro-capolavoro “La guerra dei poveri” (Einaudi), Nuto Revelli traduce il concetto declinandolo nel contesto storico dell’estrema precarietà della guerra partigiana: mai accettare lo scontro, men che meno in campo aperto. Al rastrellamento non ci si oppone: ci si sottrae, dileguandosi sui monti. Per colpirla, una soverchiante forza di occupazione, non c’è che una strada: tendere agguati, con iniziative inattese e rapidissime, senza lasciare all’avversario il tempo di reagire. La tattica della guerriglia non pretende certo di ottenere la sconfitta militare del nemico; però contribuisce a innervosirlo, destabilizzarlo e infine fiaccarlo. Presuppone una strategia lucidamente pianificata, e il concorso sincronizzato di svariate unità, ben addestrate e distribuite sul territorio. Armi leggere, o leggerissime, contro carri armati e obici: ha senso? La risposta è sì, conferma lo storico Alessandro Barbero: i comandi alleati si complimentarono con il comandante Revelli per essere riuscito a rallentare per 10 lunghissimi giorni l’avanzata, sulle Alpi cuneesi, di una potente divisione corazzata nazista, diretta in Provenza attraverso il Colle della Maddalena per ostacolare gli angloamericani appena sbarcati fra Tolone e Cannes.
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Subdolo 5G: infame strage di alberi in tutte le città italiane
Da quando ho iniziato a interessarmi del 5G, ho scoperto che vi sono non uno, ma due aspetti preoccupanti, di questa nuova tecnologia. Il primo è quello che riguarda la salute: mentre si sta procedendo con grande fretta alla commercializzazione della nuova “Rete dei miracoli”, infatti, nessun serio studio scientifico è stato fatto sulle conseguenze che potrebbe comportare quest’irradiazione, ormai onnipresente, sugli esseri umani. Fra poco ci troveremo letteralmente sommersi da un mare di microonde, con antenne piazzate ogni 500 metri nelle grandi città, e magari solo fra dieci o vent’anni potremo sapere quali saranno state le reali conseguenze sulla nostra salute. Ma di questo argomento ci occuperemo in un altro video, che sto preparando. Nel frattempo, vorrei portare alla vostra attenzione un secondo problema, che non è da meno: riguarda la distruzione selvaggia e sistematica dei nostri alberi. A quanto pare, infatti, gli alberi – soprattutto quelli più alti – impediscono una buona irradiazione del segnale 5G. E quindi li stanno togliendo di mezzo, in tutta Italia, con delle giustificazioni decisamente ridicole. Un paio di mesi fa mi ero accorto che, dalle mie parti, avevano tagliato in modo abominevole dei bellissimi viali alberati, e ho cominciato a chiedere in giro quale fosse il motivo. Ma nessuno mi sapeva dare una risposta, al punto che ho iniziato a sospettare che ci fosse di mezzo il 5G.Allora ho chiesto agli ascoltatori di “Border Nights” di segnalarmi se anche dalle loro parti si fossero registrati degli abbattimenti ingiustificati di alberi: e mi è arrivata, letteralmente, una caterva di segnalazioni. Nel frattempo, però, i “debunker” hanno già messo le mani avanti, cercando di smentire quest’idea che gli alberi vengano tagliati per fare strada al 5G. “Butac”, uno dei siti classici di “debunking”, ha pubblicato un articolo nel quale cerca di smentire questa ipotesi. A questo giro – scrive “Butac” – si parla di alberi abbattuti perché, secondo la tesi di “TerraRealTime” (il sito che per primo ha denunciato il taglio indiscriminato degli alberi) sarebbero un problema per la diffusione del segnale. «Ma si tratta dell’ennesima sciocchezza antiscientifica sostenuta solo e unicamente per spaventarvi, e magari convincervi a comperare un cappellino contro l’elettrosmog». Ora, “Butac”: a parte che qui nessuno vende cappellini (stiamo solo cercando di proteggere la nostra ricchezza naturale, casomai), ma il fatto che gli alberi rappresentino un ostacolo praticamente insormontabile, per il 5G, ormai è un dato accertato. Lo confermano, ad esempio, due documenti ufficiali del governo inglese: li ha pubblicati l’Ordnance Survey, l’ufficio che si occupa della mappatura del territorio. Uno si intitola “Pianificazione 5G, considerazioni geo-spaziali – una guida per i pianificatori e le autorità locali”. L’altro si intitola: “L’effetto delle costruzioni e dell’ambiente naturale sulle onde radio millimetriche”, ovvero il 5G.Da questi documenti leggiamo: «Vegetazione e edifici: i risultati presentati in questo rapporto dimostrano che gli oggetti della vegetazione, ovvero alberi e arbusti con un denso fogliame, provocano un disturbo nella propagazione del segnale oltre i 6 Ghz». Ci sono delle considerazioni generali: gli alberi di oltre 3 metri sono messi nel gruppo che “andrebbe” preso in considerazione (“should do”), mentre gli alberi oltre i 5 metri sono nel gruppo del “must do”, ovvero quelli che “bisogna” prendere in considerazione. Più sotto, c’è la spiegazione: “should do” sono «oggetti che vale la pena considerare durante le rilevazioni»; “must do” significa invece che questi oggetti «avranno un impatto significativo nella propagazione del segnale delle microonde millimetriche», e che quindi «vanno assolutamente presi in considerazione durante i rilevamenti». Il documento, poi, presenta diversi esempi pratici, illustrati con fotografie. Indicando uno stadio, dice: «Questa zona ha due aspetti interessanti, che dovrebbero essere presi in considerazione come ostacoli potenziali per le trasmissioni». Il primo: «Le torri di supporto all’esterno dello stadio, che sono fatte con una complessa struttura di acciaio». Il secondo: «La passeggiata sulla sinistra, che è adornata di alberi che possono bloccare i segnali in partenza dalla struttura dello stadio».Un altro esempio, sempre in foto, dice: «Qui viene mostrata una zona a intenso traffico pedonale, vicina ad un lampione candidato all’utilizzo del 5G». Due aspetti sono la prendere in considerazione: «Gli alberi caduchi, che possono causare un degrado limitato del segnale nei mesi invernali, mentre in estate – con le foglie – potrebbero avere un effetto significativo» (il secondo ostacolo è il viadotto che sovrasta l’area pedonale). Poi il rapporto mostra invece una situazione positiva, per loro: «La vista aerea del grande centro commerciale mostra grandi spazi aperti, con pochissimi elementi in grado di bloccare il segnale 5G: c’è soltanto un piccolo numero di alberi accanto al parcheggio». Quindi, evviva le zone con pochi alberi: per noi vanno molto meglio, dice il documento. Altro esempio, viale alberato: «In questa strada residenziale c’è una grande quantità di alberi, che bloccano chiaramente il percorso per le antenne che potrebbero venir collocate sui lampioni». Quindi, cosa si fa? Si buttano giù gli alberi, semplice.Guardate ora gli articoli che mi sono stati mandati dagli ascoltatori di “Border Nights”:poi decidete voi se c’entrano qualcosa, oppure no. Vi dico solo una cosa: sono quasi tutti articoli del 2018-2019, quindi molto recenti. E quasi sempre viene data una spiegazione risibile, per il taglio degli alberi. Ovvero: risultano di colpo tutti malati; oppure ti dicono che ne pianteranno degli altri, più bassi; oppure ti dicono che sono diventati, improvvisamente, tutti pericolosi. Cioè: alberi secolari, che sono lì da più di cento anni, di colpo diventano una minaccia per la popolazione. Di fatto, mi ha scritto una persona che si occupa di installazioni 5G. E mi ha detto che, in effetti, moltissimi sindaci e amministratori locali vengono spaventati, con l’idea di poter essere ritenuti responsabili per eventuali danni causati dalla caduta degli alberi, e quindi – non appena gli si suggerisce di tagliarli – accettano subito (spesso senza il nulla-osta delle autorità che dovrebbero salvaguardare il verde pubblico).Guardate quello che sta succedendo, in Italia. Palermo: “Il Comune si prepara ad abbattere 200 alberi di pino, decisione folle”. Montesilvano, provincia di Pescara: “Taglio indiscriminato degli alberi sani”. Pescara: “La guerra degli alberi tagliati in nome della sicurezza”. Poggibonsi, provincia di Siena: “Scempi chiamati riqualificazioni”. Prato, viale Montegrappa: “Polemiche sugli alberi tagliati”, Ravenna: “Pini abbattuti in via Maggiore”. Roma: “Dal 2016 abbattuti 9.111 alberi – mille spariti in centro, è polemica”. Rovereto: “Abbattuti gli alberi fra le proteste”. Ancora Roma: “Abbattuti 450 alberi malati, ma i nuovi saranno alti solo 3 metri”. Guarda che coincidenza: ricordate il “should do” e il “must do”? Salerno, Nocera Inferiore: “Cosa si cela dietro l’abbattimento dei pini?”. Ancora Salerno: “Abbattimento degli alberi in via Rebecca Guarna”. San Terenzo, provincia di La Spezia: “Piazza Brusacà saluta i suoi pini”. Provincia di Teramo: “Nuove proteste contro l’abbattimento degli alberi della strada provinciale 259”. Terni: “Repulisti di pini, scattata l’operazione per l’abbattimento di 44 alberi”. Trapani: “Taglio alberi a Paceco, il comitato Pro-Eritrine protesta col sindaco”. Trevignano, sul Lago di Bracciano: “Abbattuti pini sani di 70 anni per rifare le strade”. Treviso: “Tagliati altri 87 alberi perché sono malati”. Certo, perché gli alberi si ammalano tutti insieme, 87 per volta.Ancora Treviso: “Non tagliate gli alberi, i residenti insorgono”. Udine: “Via Pieri, iniziato l’abbattimento degli alberi”. Verona: “Centinaia di alberi da abbattere per realizzare il nuovo filobus”. Giustamente, dice il commento: «Il trasporto pubblico e la mobilità sono essenziali, ma non a qualsiasi prezzo, e non con questi metodi». Sempre a Verona: “Nuovo taglio di alberi a Verona Sud: a chi giova?”. Ancora Verona: “Lungoadige San Giorgio, tagliati 21 alberi”. Viareggio: “Abbattimento alberi, presidio al cavalcavia”. Regione Abruzzo, Parco Sirente: “Il pasticcio degli alberi tagliati”. Agrigento: “Taglio degli alberi alla Villa Bonfiglio, la Soprintendenza vuole chiarezza”. Sempre ad Agrigento: “Alberi capitozzati, l’assessore sospetta che sia stato iniettato veleno in alcuni pini”. Anagni: “Potatura fuori stagione, inervento drastico di capitozzatura in piena germogliazione, che lascia perplessi”. Ancona: “Abbattuti gli alberi sul viale, giù i frassini fra le proteste”. Avezzano, in Abruzzo: “Taglio degli alberi a piazza Torlonia, più della metà erano pericolosi”. Ovviamente, gli alberi sono diventati – di colpo – il pericolo pubblico numero uno, in Italia.Provincia di Bari: “Scempio sugli alberi a Pane e Pomodoro”, che è la famosa spiaggia barese. Benevento: “Taglio dei pini, piante a rischio caduta estremo”. Biella: “Alberi abbattuti, Legambiente contro le amministrazioni comunali”. Sempre in provincia di Biella: “Deturpata la strada dei pellegrini, è caos dopo il taglio di 200 alberi”. Marina di Carrara, Vittorio Sgarbi difende i pini: “Barbarie, denuncio tutto”. Catania: “Proteggere l’ambiente, scatta la protesta per gli alberi capitozzati”. A me, più che capitozzati, questi sembrano segati alla base. Marina di Cerveteri: “Gli alberi ostacolano il 5G”. Chiaravalle, nelle Marche: “Abbattono i pini storici, proteste e manifestazioni in largo Oberdan”. Crema: “Il caso degli alberi tagliati in via Bacchetta”. Si veda il prima e il dopo: che squallore. Provincia di Faenza: “Brisighella, 513 alberi abbattuti”. Sempre a Faenza: “Via all’abbattimento di 520 alberi in città”. Lido Scacchi, in provincia di Ferrara: “Forza Italia chiede spiegazioni sugli alberi tagliati”. Firenze: “Proseguono gli abbattimenti, alberi tagliati in piazza Indipendenza”. Sempre a Firenze: “Strage di alberi a Porta al Prato, ma erano tutti sani. Il Comune dice: una ditta ha danneggiato le radici”. Certo, ha danneggiato le radici non di uno, ma di tutti gli alberi in un colpo solo, come no…Ancora a Firenze: “Tagliati tutti i pini in viale Guidoni, idem in viale Morgagni: de profundis per gli alberi abbattuti”. Piana Fiorentina: “Il taglio dei tigli, una decisione del Comune”. Foggia: “In via Napoli uno scempio, presentato esposto contro il taglio di 101 pini”. Provincia di Grosseto: “Tagliati 30 ettari di bosco nella Riserva del Farma, l’esperto: è un disastro”. Sempre a Grosseto: “Taglio degli alberi in città, 1.640 cittadini protestano”. Ancora a Grosseto: “Stop al taglio degli alberi, è uno scempio”. Provincia dell’Aquila: “Tagliati gli storici alberi dell’Altopiano delle 5 Miglia”. Molfetta: “Quartiere San Domenico sotto shock: tagliato l’Albero della Vita, ancora ignote le motivazioni”. Napoli, quartiere del Virgiliano: “Strage di pini, oltre 100 saranno abbattuti”. Novara: “Via libera all’abbattimento di 32 aceri”. Como: “Faggi abbattuti al liceo Giovio, sale la protesta; la Provincia dice: ragioni di sicurezza”. Certo, come no: alberi che sono lì da cento anni e, adesso che arriva il 5G, diventano di colpo pericolosi.E’ sempre la stessa scusa, fra l’altro. Guardate: “Garbagnate, Natale senza pini: verranno abbattuti; potrebbero diventare pericolosi, col passare del tempo, per la cittadinanza”. Quindi siamo addirittura al taglio preventivo, precauzionale. Campoformido, provincia di Udine: “Proteste per il taglio dei pini marittimi in piazza a Basaldella; procede la riqualificazione del centro”. Certo, perché adesso “distruggere” si dice “riqualificare” (la neolingua imperversa). Lecco: “Alberi abbattuti sul lungolago, le piante possono rigenerarsi”. Certo, magari fra vent’anni ricrescono anche; nel frattempo tu hai piazzato le tue belle antennine 5G da tutte le parti. Este, in provincia di Padova: “Alberi tagliati senza motivo, delitto contro la natura”. Piacenza: “Alberi tagliati senza motivo, uno scempio”. Ancora a Roma, al Salario: “Alberi tagliati senza motivo”. Ferrara: “Continua il massacro degli alberi lungo la statale 16”.Ragazzi, è pazzesco quello che stanno facendo. Due o tre di questi casi potrebbero anche essere situazioni in cui davvero gli alberi vanno tagliati, ma qui stanno facendo una carneficina: qui siamo di fronte a un abbattimento sistematico degli alberi in tutto il paese. E il fatto è che sono molto furbi, perché lo fanno a livello locale, senza fare rumore. Lo fanno cittadina per cittadina, contando sul fatto che una comunità non sa quello che succede in quella accanto. Se non ci fosse stato questo contributo, da parte degli ascoltatori di “Border Nights”, ciascuno avrebbe continuato a pensare che magari era solo un problema loro. E nel frattempo, questa gente sta devastando le risorse naturali dell’intero paese. Io non so cosa dirvi, ragazzi. Mi auguro però che vogliate organizzarvi, sia a livello locale che regionale, perché qui vanno presi i sindaci, uno per uno, con nomi e cognomi, e vanno messi di fronte alle loro responsabilità. Non è possibile che il nostro paese venga devastato in questo modo, senza che nessuno faccia niente. E se aspettiamo che intervengano i nostri politici da Roma stiamo freschi: quelli son troppo impegnati a conservare il proprio stipendio, la loro poltroncina, per preoccuparsi dei problemi reali. E anche tu, “Butac”, e tutti gli altri “debunker”: invece di scrivere scemenze, datevi da fare. Qui non c’entrano le questioni ideologiche: la natura è di tutti, anche vostra.(Massimo Mazzucco, “G5, la strage degli alberi”, video pubblicato su “Luogo Comune” l’8 luglio 2019. L’autore, al termine del filmato, annuncia che a questa prima indagine sul taglio degli alberi seguirà uno studio per vedere più da vicino quelli che possono essere i rischi effettivi dell’impatto della rete 5G sulla nostra salute).Da quando ho iniziato a interessarmi del 5G, ho scoperto che vi sono non uno, ma due aspetti preoccupanti, di questa nuova tecnologia. Il primo è quello che riguarda la salute: mentre si sta procedendo con grande fretta alla commercializzazione della nuova “Rete dei miracoli”, infatti, nessun serio studio scientifico è stato fatto sulle conseguenze che potrebbe comportare quest’irradiazione, ormai onnipresente, sugli esseri umani. Fra poco ci troveremo letteralmente sommersi da un mare di microonde, con antenne piazzate ogni 500 metri nelle grandi città, e magari solo fra dieci o vent’anni potremo sapere quali saranno state le reali conseguenze sulla nostra salute. Ma di questo argomento ci occuperemo in un altro video, che sto preparando. Nel frattempo, vorrei portare alla vostra attenzione un secondo problema, che non è da meno: riguarda la distruzione selvaggia e sistematica dei nostri alberi. A quanto pare, infatti, gli alberi – soprattutto quelli più alti – impediscono una buona irradiazione del segnale 5G. E quindi li stanno togliendo di mezzo, in tutta Italia, con delle giustificazioni decisamente ridicole. Un paio di mesi fa mi ero accorto che, dalle mie parti, avevano tagliato in modo abominevole dei bellissimi viali alberati, e ho cominciato a chiedere in giro quale fosse il motivo. Ma nessuno mi sapeva dare una risposta, al punto che ho iniziato a sospettare che ci fosse di mezzo il 5G.
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Battisti ammette: commise gli omicidi. Protetto da Parigi?
Cesare Battisti, l’ex terrorista dei Pac arrestato a gennaio dopo quasi 40 anni di latitanza, ha ammesso per la prima volta, davanti al Pm di Milano Alberto Nobili, di essere responsabile dei 4 omicidi per cui è stato condannato. Battisti è stato arrestato in Bolivia e quindi estradato in Italia: era scomparso dal Brasile, dove il nuovo governo di Jair Bolsonaro aveva annunciato che avrebbe posto fine al regime di protezione di cui godeva. All’ex leader dei Pac, Proletari Armati per il Comunismo, era stata inflitta una condanna in via definitiva per quattro omicidi, due commessi materialmente e due in concorso: quello del maresciallo degli agenti di custodia Antonio Santoro, ucciso a Udine il 6 giugno 1978, quello del gioielliere Pierluigi Torregiani e del commerciante Lino Sabbadin, che militava nel Msi, uccisi entrambi dai Pac il 16 febbraio 1979, il primo a Milano e il secondo a Mestre; e quello dell’agente della Digos Andrea Campagna, assassinato a Milano il 19 aprile 1978. Battisti si era finora sempre dichiarato innocente. Ora ha invece ammesso per la prima volta le proprie responsabilità di fronte ai Pm milanesi. Secondo Gianfranco Carpeoro, saggista, è verosimile che Battisti fosse stato infiltrato in Italia, all’epoca degli anni di piombo, dai servizi segreti francesi.
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Salvare il mondo: la Macchina di Majorana (vivo, nel 2006)
“Smontare” la materia e ricostruirla ovunque, azzerando lo spazio-tempo. Primo obiettivo: medicare l’atmosfera, per riparare il clima e salvare la Terra. E ancora: creare energia infinita a costo zero, senza più petrolio e carbone. «So come si fa», direbbe il protagonista del film. «E chi ti credi di essere, Dio?». Non proprio, ma quasi: «Io sono Ettore Majorana, lo scienziato ufficialmente scomparso nel 1938». Immaginatevi la faccia dell’ingegner Rolando Pelizza, industriale bresciano, il giorno che si sentì rispondere in quel modo, nel lontano 1959, da quell’uomo giovanile dall’età indefinibile. Majorana? Il baby-genio che sbalordiva i suoi maestri Fermi, Amaldi e Pontecorvo, scappati negli Usa e in Urss per sottrarre a Hitler la ricerca sull’atomica. Lui, Majorana: il giovanissimo fenomeno venuto dalla Sicilia a incantare i “ragazzi di via Panisperna”, cioè i migliori cervelli del mondo, all’epoca, nel campo della fisica. «Ho capito cos’è la materia e come funziona. E tu, Rolando, devi aiutarmi a costruire un dispositivo sperimentale». La Macchina: la scatola “magica” che fa sparire le cose, qualsiasi cosa, e ne cambia la natura fisica. Possibile? Eccome: Giulio Andreotti prese molto sul serio la faccenda, passando il dossier a Kissinger.Da allora, gli invadenti servizi segreti di mezzo mondo vegliarono sulla Macchina e sul suo costruttore, l’ingegner Pelizza, proteggendo il silenzio che avvolgeva il genio ispiratore. Ettore Majorana era ancora vivo nel 2006. Aveva cent’anni. E ancora aspettava di vedere la Macchina in azione, nella missione suprema per la quale era stata concepita: salvare il mondo. Bellissima fiaba, ricorda la storia del Graal. Peccato sia la pura verità. Con un finale rimasto in sospeso: la Macchina non risponde agli ordini della Cia. Ha bisogno di un codice segreto, matematico. In più serve un “pin” aggiuntivo, spirituale: un comando “mentale”. Lo custodice Rolando Pelizza, che oggi ha ottant’anni. Per decenni – prima che la notizia fosse passata ai servizi segreti – è stato l’unico a sapere, insieme ai monaci che lo ospitavano in Calabria, che non era un frate qualsiasi quel taciturno Ettore, rifugiatosi in convento nel 1938, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. L’aveva indovinato Leonardo Sciascia, quando nel ‘75 scrisse “La scomparsa di Majorana”, varcando la porta dei cistercensi di Serra San Bruno. Ci mise vent’anni, lo Scomparso, a incontrare Pelizza. E attese altri dodici mesi prima di rivelargli la sua vera identità.Majorana, il genio. Lo scopritore di una nuova matematica, di nuova fisica in cui il tempo non esiste, dove la materia è “ricostruibile” liberamente. Come? Accedendo alla “matrice invisibile” di ogni cosa. Sembra il rebus dei Sigilli Ermetici di Giordano Bruno. Il Mondo delle Idee immaginato da Platone, tradotto in numeri dopo due millenni e mezzo. Pazzesco? Sì, ma vero. Parola di Rolando Pelizza, uomo pratico e imprenditore a sua volta geniale, capace di inventare una spugna speciale che assorbe il petrolio sversato in mare, neutralizzando i disastri ambientali causati dalle petroliere. Ne parlano a “Border Nights”, con commossa devozione, l’ingegner Francesco Alessandrini, docente dell’università di Udine, e la paleografa Roberta Rio, “visiting professor” negli atenei di mezza Europa. “La Macchina”, ovvero “il ponte tra la scienza e l’oltre”, è il libro in cui svelano la storia, segreta e meravigliosa, di quel singolare sodalizio. Ettore e Rolando, nomi suggestivi: l’eroe omerico, il paladino coraggioso. Francesco Alessandrini è un geotecnico, progetta grandi opere ma conosce anche le cosiddette “energie sottili”. Roberta Rio ha elaborato una teoria sulla “scienza storica del terzo millennio” e pubblicato saggi come “La Fisica del Terzo Millennio”, ovvero “scienza e spiritualità di nuovo unite”, edito da Bautz.Nella favolosa Macchina di Pelizza ispirata da Majorana, Francesco e Roberta sono “inciampati” leggendo i libri di Alfredo Ravelli (“Il dito di Dio”, “Il segreto di Majorana” e “2006: Majorana era vivo!”). Si sono entusiasmati: hanno intuito che “l’impossibile” era a portata di mano. Così hanno contatto Rolando, il paladino, e ne hanno conquistato la fiducia. «Non sappiamo nemmeno se Majorana sia ancora vivo o, nel caso, quando sia morto: su questo punto – dicono – Rolando glissa sempre». Le ultime tracce del genio siciliano sono due: la famosa lettera del 2006 e una foto scattata il 5 agosto 1996: Majorana è ritratto con Pelizza nel giorno del novantesimo compleanno di Ettore, nato a Catania nel 1906. L’immagine è stata periziata dall’ingegner Giovanni Vitiello. «La perizia antropometrica dimostra che si tratta proprio di Majorana», racconta Roberta Rio. «I parametri corrispondono con le foto di Ettore prima della scomparsa – zigomi, impronta del padiglione auricolare, altri dettagli. Ettore e Rolando sono accanto, ma Ettore sembra più giovane di Rolando (che adesso ha 80 anni)». Eppure è lui, conferma il geriatra Claudio Castoldi: uno splendido novantenne in ottima salute, nonostante i capelli bianchi e qualche ruga.Il loro fatale incontro avviene il 1° maggio del 1958, nella Certosa di Serra San Bruno, sulle alture di Vibo Valentia. Rolando Pelizza – uomo pio, dedito a opere caritative – ha raggiunto il convento per consegnare scarpe ai monaci. Finisce, subito, nel mirino di Majorana. Quello strano frate gli passa un foglietto, un problema con dei numeri: «Risolvi questa cosa, non far passare troppo tempo e fammi avere la soluzione». Così, racconta Roberta, Pelizza capisce che quello è l’uomo che stava cercando. Ettore gli propone un apprendistato: gli avrebbe insegnato i principi di una nuova fisica e di una nuova matematica. Un anno dopo, nel ‘59, gli rivela finalmente la sua identità. Majorana è un fisico teorico, sul piano pratico ha bisogno di Pelizza. L’apprendistato dura 6 anni, fino al ‘64. In una lettera, poi, Majorana si congratula con Rolando. E gli propone una nuova fase: costruire la Macchina. Con un’unica raccomandazione: fare presto, perché la Terra potrebbe autodistruggersi. Il cambiamento climatico non è uno scherzo: una minaccia esiziale, che Majorana considera imminente già negli anni ‘70. Era infatti il 1976, rivela Roberta Rio, quando il grande fisico indicò date precise: il 2022, al massimo il 2024. Letteralmente: «Sarà a rischio la sopravvivenza della specie umana sulla Terra, scossa da sconvolgimenti sempre più visibili. Un cambiamento in atto dal 2000 e percepibile a partire dal 2010. In arrivo eventi così sconvolgenti da costituire un punto di non ritorno per il nostro clima».Il primo esemplare funzionante della Macchina, racconta Francesco Alessandrini, vede la luce nel 1963: «Produceva una “annichilazione controllata” della materia». Ovvero: «Si può far sparire qualcosa, in modo controllato. Posso scegliere io cosa distruggere, in modo selettivo: un razzo, ad esempio. O le parti murarie di una casa, ma non le parti in legno». Miglioramenti progressivi, verso la seconda fase: riscaldamento della materia. «Con un raggio posso portare qualsiasi cosa a fusione, anche facendo sì che l’oggetto ceda temperatura all’esterno. Vuol dire: s’è trovato il modo di produrre energia in modo non inquinante, a costo irrisorio. Energia infinita, pressoché gratuita». Addio petrolio e carbone, ma anche solare, eolico, idroelettrico. Terza fase, decisamente alchemica: «Trasmutazione della materia, pur mantenendo forma e posizione». Esistono svariati video che comprovano il successo degli esperimenti: «Un oggetto di gomma o di plastica viene trasferito in un oggetto metallico, mantenendo quasi perfettamente la forma iniziale».Sembra fantascienza, ma è tutto documentato. E’ talmente vero, che il problema principale – per l’intelligence di mezzo mondo – diventa l’impiego della Macchina, della cui potenza i suoi creatori sono perfettamente consapevoli: «Si possono “annichilire” carri armati e missili, o invece si può cancellare una montagna di immondizia inquinante», dice Francesco. «Dipende da chi possiede la Macchina, dall’uso che intende farne». C’è un patto di ferro, tra Majorana e Pelizza: mai utilizzare quella macchina contro il bene dell’umanità. «Quando a Rolando è stato chiesto di usarla per distruggere carri armati o satelliti, si è rifiutato», racconta sempre Francesco Alessandrini. «E, con un trucchetto che aveva predisposto nel dispositivo, faceva sì che la Macchina non funzionasse – sparisse, si distruggesse». Proprio per questo, Pelizza «ha eseguito molti esperimenti, ma senza mai un contenuto distruttivo o bellico, come quelli richiesti dai padroni della Terra». Vere e proprie complicazioni: un’attrezzatura come quelle darebbe un vantaggio esponenziale alla potenza militare che la possedesse.Per questo, spiegano Roberta e Francesco, non si è ancora riusciti a presentare ufficialmente la macchina, per metterla a disposizione dell’umanità. Impiego immediato: produrre energia “pulita” a costo zero. Enorme interesse, da parte di diplomazie e governi. L’implicazione più straordinaria? La capacità di risolvere, in un colpo solo, il problema climatico. Come? Intervenendo direttamente nell’atmosfera. Sembra un sogno. Ma non lo è, dice Francesco: «C’è un gruppo, su questa Terra, che ormai ha un po’ tutte le conoscenze che servono, per costruire la Macchina. E sa anche come risolvere il problema climatico. Il problema nasce dal fatto che questo gruppo non ha finora messo a disposizione di Rolando le macchine che ha, per farle funzionare da Rolando». Pelizza è ancora l’unico (per fortuna) a conoscere «un trucchetto particolare, in grado di far funzionare la Macchina nel modo corretto». Aggiunge l’ingegner Alessandrini: «Finché questo gruppo non lascerà Rolando libero di agire come crede, di fatto non si farà nulla. Se invece questo gruppo decide di coinvolgere Rolando nell’esecuzione di qualche esperimento, e nel trattamento che immaginiamo debba venir eseguito sull’atmosfera, allora le cose potrebbero radicalmente cambiare».Stiamo parlando di qualcosa di rivoluzionario, inimmaginabile: agire sull’invisibile, per condizionare la realtà visibile. «La Macchina dimostra che la scienza, così come si è sviluppata fino ad oggi, è sulla strada sbagliata», conferma Roberta Rio. «Soprattutto, la scienza non ha compreso la natura. E questo è l’approccio meraviglioso che ci propone Majorana, assieme a Rolando: una fisica, una matematica che lavorino in armonia con la natura, avendone compreso le leggi. Quindi non c’è bisogno di manipolare la natura, o addirittura di farle violenza; basta saper interagire con essa. Ma serve un approccio scientifico radicalmente nuovo». E’ il grande insegnamento di questa storia, che per Roberta Rio e Francesco Alessandrini ha aperto sviluppi prima impensabili, come «il ruolo del pensiero nei processi di creazione, che ci portano a una comprensione diversa del ruolo dell’uomo nell’ambito dell’evoluzione e della creazione stessa». Decisamente sconvolgente: «Non siamo più vittime o semplicemente passivi, ma siamo co-creatori, siamo responsabilizzati: la realtà discende proprio dai nostri pensieri e da come ci poniamo nei confronti delle cose», aggiunge Roberta.Ed è proprio un pensiero, infatti, a bloccare misteriosamente la Macchina quando non è nelle mani giuste. A proposito, come è fatta? «E’ un semplice cubo, ultimamente in alluminio, che nella sua versione più piccola ha una cinquantina di centimetri di lato. All’interno – spiega Francesco – ci sono altre “scatole”, via via più interne, che creano un ambiente isolato rispetto all’esteno, per arrivare poi alla parte centrale dove ci sono una serie di motorini e dispositivi in grado di creare, contemporaneamente, per lo meno due campi elettrici, due campi magnetici e un campo anti-gravitazionale, che riescono tutti insieme a lavorare per produrre uno stato, nel centro della macchina, in cui ci si connette con quello che io chiamo “l’oltremateria”, cioè uno stato del nostro universo in cui c’è qualcosa, ma non è più qualcosa di materiale». Secondo l’ingegner Alessandrini «ci si connette, sostanzialmente, agli schemi della materia che stanno dietro alla materia». E attenzione: «Quando si riesce a raggiungere quello stato lì, si può andare a cambiare qualche informazione nello schema; dopo, come conseguenza, questo cambiamento viene riportato nella materia, nel mondo fisico che noi conosciamo così bene».Tutto questo, grazie a Majorana. «Ettore era considerato un genio silenzioso, aveva scritto pochissimo», ricorda Roberta Rio. «Iniziò a insegnare all’università per un periodo brevissimo, il 13 gennaio dello stesso anno in cui scomparve. Era una persona molto schiva, gli interessava andare al sodo e scoprire l’essenza delle cose». I suoi scritti? «Cominciano solo ora a essere compresi». Con basi matematiche diverse, «Majorana è riuscito a calcolare quella che sarebbe stata la direzione evolutiva dell’essere umano». Scomparve per non partecipare alla realizzazione della bomba atomica? «C’era molto di più, in gioco: mettere a disposizione dell’umanità una macchina in grado di produrre energia a costo zero, risolvendo il problema economico delle risorse e il problema sociale delle guerre per il petrolio o per l’acqua». Dedizione infinita alla causa: «Lungimiranza, saggezza e umiltà l’hanno portato a dedicare l’intera vita alla possibilità odierna di risolvere il problema climatico, che all’epoca della sua scomparsa non era ancora così evidente. Se l’uomo avesse preso la strada della “free energy”, aggiunge Francesco, questi ulteriori sviluppi della Macchina non sarebbero stati necessari». Sono stati comunque raggiunti, grazie a Pelizza e al genio siciliano, capace di lavorare in incognito per decenni.Quanti sapevano dove fosse, Majorana? Tante persone: quelle che contano. «C’è una storia ufficiale – quella della scomparsa – e una storia più ampia, non ufficiale, dove avvengono i fatti veri e propri. Poi – dice Francesco – si racconta una storia che viene condivisa e che passa sui manuali di storia». Ma se Majorana ha lasciato credere di essere sparito per sempre, diventando l’Uomo Invisibile, anche per Pelizza non è stato facile lavorare alla causa: «Rolando stesso ha vissuto una vita terribile, i servizi segreti gli hanno reso la vita molto difficile». Pelizza è stato in contatto coi governanti italiani fin dalla prima presentazione pubblica della sua macchina. «Governanti molto interessati, all’inizio – famosi politici, che hanno avuto a che fare con lui: Andreotti diede mandato a un professore, allora a capo dell’energia nucleare italiana, di studiare la Macchina di Rolando. Indagini, esperimenti, quindi una relazione: disse che ciò che faceva la Macchina era frutto di una tecnologia assolutamente al di fuori di tutte quelle allora conosciute».«Da quel momento, non si sa perché, gli italiani hanno ceduto la cosa ad altri governi, soprattutto Belgio e Usa, che hanno preso in mano la situazione», continua Francesco. «Abbiamo dei cablo di Wikileaks con la chiara testimonianza di documenti segreti che evidenziano come Kissinger, allora segretario di Stato del governo Ford, diede l’ok per seguire da vicino la vicenda di Rolando, ritenuta di estremo interesse per il governo americano». Per un po’ l’hanno lasciato fare, aggiunge Alessandrini, «ma ogni volta che Rolando si costruiva una macchina in grado di fare quegli esperimenti, gli veniva confiscata – e lui doveva ricominciare da zero a costruirla». Ne avrà fabbricate 300, in questi anni – tutte regolarmente portate via non appena messe in funzione. «Gli impedivano di fare quello che lui voleva veramente fare». E cioè: preservare l’umanità dall’autodistruzione. Le varie vicissitudini di Rolando, dice Roberta Rio, sono state raccolte (con documenti periziati e catalogati) da Alfredo Ravelli, cugino di Rolando e autore di tre libri su questa vicenda, che ha aspetti anche molto intricati.Il nome di Ettore Majorana apparve relativamente tardi, nella periodizzazione di questa collaborazione con Rolando, che venne a sapere l’identità di questo frate già nel ‘59. Ma solo il 7 dicembre 2001, attraverso una lettera, Ettore diede il permesso a Rolando di divulgare finalmente l’informazione che dietro alla Macchina e a queste sue nuove conoscenze c’era lui. Prima, Rolando parlò sempre di “un gruppo internazionale di studiosi”, che stava rappresentando e con i quali collaborava. «In quella lettera, però, Ettore chiese a Rolando di mantenere il segreto su due punti: il convento dov’era nascosto e i principi di questa nuova fisica, di questa nuova matematica – che, se divulgati, potrebbero far fare un salto di qualità straordinario all’umanità, ma se messi nelle mani sbagliate ci potrebbero portare alla distruzione in un battibaleno». Ettore Majorana? «Un uomo di una fede enorme, se pensiamo che si è ritirato dal mondo per dedicarsi solo a questo: aveva visto l’immensa possibilità e l’enorme pericolo».Francesco Alessandrini ammette che non è facile spiegare cosa può fare, questa fisica rivoluzionaria. Il primo concetto base è sconvolgente: «Dietro questo nostro mondo fisico c’è una specie di immagine, di schema di ciò che si realizza nel mondo fisico – che non è fisico, ma ha la capacità di organizzare e far funzionare il mondo fisico in un certo modo. Per cui, nel momento in cui riusciamo a capire come intervenire su questo schema, il cambiamento che provochiamo nello schema si ripercuote automaticamente nel mondo fisico». Attenzione: «Significa che abbiamo una possibilità di trasformazione della realtà fisica praticamente infinita». Problema immediato: «Questo concetto è di una grandiosità tale che non può venire accettato dalla fisica attuale, che invece parte dalla fisica stessa, dal mondo materiale, analizzandolo dal di dentro. Finché non si fa il salto, e si va al di fuori del mondo fisico per capire cosa c’è dietro, non riusciremo mai a comprendere pienamente ciò che si fa nel mondo fisico», aggiunge Francesco. «La visione prospettica di questa fisica è talmente al di là di ciò che si sfa facendo attualmente, da aprire prospettive assolutamente incredibili su ciò che può essere la vita umana, e su come si può interagire con la vita del mondo fisico nel suo complesso».In primissimo piano, la forza (segreta) del pensiero: «Il pensiero è il veicolo – lo strumento, il mezzo – che permette di andare a modificare lo schema, non fisico, che c’è dietro alla realtà fisica», spiega l’ingegner Alessandrini. «Con un certo tipo di pensiero (ben costruito, ben focalizzato, ben indirizzato e ben strutturato) si è di fatto in grado di modificare – e di creare, proprio – la realtà fisica, la nostra vita nel mondo fisico». Aggiunge Roberta Rio: «La cosa affascinante, di questi principi – che appartengono ad una fisica per il futuro, potremmo dire – in realtà sono già apparsi sulla Terra migliaia di anni fa in antichi scritti come i Veda, che solo ora riusciamo a interpretare in questa direzione». Mentre per alcuni i Veda sono soltanto racconti mitologici della tradizione induista, «per altri – noi compresi – sono veri e propri manuali di fisica». Sono libri scritti in sanscito, migliaia di anni fa. Ebbene, sì: rappresentano «un viaggio affascinante nella conoscenza, e proprio alcuni passi dei Veda parlano della qualità del “pensiero che crea”, che deve avere determinate caratteristiche per avere la capacità di creare, o meglio di manifestare, di portare sulla Terra, nella materia, quell’immagine corrispondente che esiste in un mondo oltre la materia, in una dimensione – uno spazio – oltre la materia».In questo senso, aggiunge Roberta, le indicazioni sono straordinarie, per l’uomo, in termini di responsabilità: l’idea che noi siamo i co-creatori della realtà nella quale viviamo. «E’ una fisica che si intreccia anche con la spiritualità: è questa la novità, o comunque l’intuizione. Un docente della John Hopkins University diceva che l’universo non è materiale, ma mentale e spirituale. Questa è la nuova frontiera della conoscenza, e anche dello sviluppo dell’umanità». Finalmente, dice Francesco, grazie a queste scoperte di Ettore Majorana «si torna a collegare la ragione con l’intuizione, la materia con l’oltremateria, la scienza con lo spirito, l’uomo con Dio. Il grande passo che stiamo facendo – rivela – è quello di tornare a unire scienza e spiritualità, come gli uomini del passato facevano, sapendo che era la vera completezza della vita nella quale ci troviamo a vivere». Pensieri che azionano la materia? «Esattamente». La Macchina? Un’invenzione prodigiosa: non solo per quello che può fare, ma per la rivoluzionaria conoscenza da cui proviene.«Quando si riesce, con la Macchina, ad andare in questo “oltremateria”, si entra in un ambito in cui, di fatto, il tempo scompare. O meglio: scompare il tempo come lo pensiamo noi», spiega Francesco. Normalmente, infatti, pensiamo il tempo come una successione di istanti, e nel mondo fisico visibile viviamo solo l’attimo presente: il passato e il futuro esistono, ma non appartengono all’attimo presente. «Quando ti trasferisci invece in quest’ambito “oltremateria”, lì non c’è più discontinuità tra passato, presente e futuro. E’ come se fosse un ambiente unico, in cui puoi andare, istantaneamente, in un punto del tempo che corrisponde a un punto del nostro passato». Una prospettiva vertiginosa, capace di rivoluzionare – in modo definitivo – la stessa concezione della vita sulla Terra. Ad una condizione: che si agisca rapidamente, senza più perdere tempo. «Ettore ha delineato il 2022-24 come data-limite per la vita sul pianeta, ma gli altri scienziati climatologi non sono lontani, le previsioni più pessimistiche parlano del 2030-2040», insistono Roberta e Francesco. «Ne resta poca, di vita sulla Terra, se non si fa qualcosa subito. E non lo dice solo Majorana, ma altri grandi scienziati come ad esempio Steven Hawking, che a gennaio 2017 disse: sbrigatevi ad andare ad abitare su Marte, perché la vita sulla Terra sta per finire».Oggi, l’ottantenne Rolando Pelizza – il custode del codice segreto della Macchina – invecchia con pazienza. «Mostra i primi segni di affaticamento, ma la sua immensa bontà è intatta», assicurano Roberta e Francesco. «Finché avrà fiato continuerà a fare queste cose, a cui ha dedicato 50-60 anni della sua vita». E Majorana? «Rolando dice che Ettore è sempre stato un tipo giovanile. L’ha visto un po’ invecchiare, ma dimostrando sempre molti meno anni». Ha usato la Macchina su di sé, per restare giovane? «Può darsi che abbia scoperto qualche utilizzo del pensiero per mantenersi in buona forma», dice Francesco. E’ ancora vivo? Oggi avrebbe 112 anni. «Non lo sappiamo», ammettono i due ricercatori: Rolando Pelizza si rifiuta di dare notizie precise. L’ultima traccia certa risale al 2006, quando Majorana aveva 100 anni. La Macchina, invece, non è più un mistero: sul web ci sono i progetti completi. Quello che manca è la formula per farla funzionare: il segreto di Pelizza. Che fare? «Il nostro obiettivo è chiaro: convincere chi possiede la Macchina a entrare finalmente in rapporto con Rolando e permettergli di fare quell’aggiustamento del clima che ci auguriamo venga fatto», tramite il favoloso dispositivo “dettato” da Majorana. «Anche se non ce ne rendiamo conto – concludono Roberta Rio e Francesco Alessandrini – siamo veramente in un momento critico per la sopravvivenza dell’uomo sulla Terra». Non lo accettiamo, eppure ci stiamo avvicinando alla nostra fine: «Se non c’è un intervento immediato – e l’unico che conosciamo è quello attraverso questa Macchina – saltiamo tutti quanti».(Il libro: Francesco Alessandrini e Roberta Rio, “La Macchina. Il ponte tra la scienza e l’oltre”, edito in self-publishing da “Il Mio Libro”, 160 pagine, euro 15,50 – oppure 4,99 in versione digitale, formato ePub. Su “Border Nights” la trasmissione integrale dell’intervista, in onda l’8 maggio 2018).“Smontare” la materia e ricostruirla ovunque, azzerando lo spazio-tempo. Primo obiettivo: medicare l’atmosfera, per riparare il clima e salvare la Terra. E ancora: creare energia infinita a costo zero, senza più petrolio e carbone. «So come si fa», direbbe il protagonista del film. «E chi ti credi di essere, Dio?». Non proprio, ma quasi: «Io sono Ettore Majorana, lo scienziato ufficialmente scomparso nel 1938». Immaginatevi la faccia dell’ingegner Rolando Pelizza, industriale bresciano, il giorno che si sentì rispondere in quel modo, nel lontano 1959, da quell’uomo giovanile dall’età indefinibile. Majorana? Il baby-genio che sbalordiva i suoi maestri Fermi, Amaldi e Pontecorvo, scappati negli Usa e in Urss per sottrarre a Hitler la ricerca sull’atomica. Lui, Majorana: il giovanissimo fenomeno venuto dalla Sicilia a incantare i “ragazzi di via Panisperna”, cioè i migliori cervelli del mondo, all’epoca, nel campo della fisica. «Ho capito cos’è la materia e come funziona. E tu, Rolando, devi aiutarmi a costruire un dispositivo sperimentale». La Macchina: la scatola “magica” che fa sparire le cose, qualsiasi cosa, e ne cambia la natura fisica. Possibile? Eccome: Giulio Andreotti prese molto sul serio la faccenda, passando il dossier a Kissinger.
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5 Stelle (e strisce), come la Lega: oggi Grillo, ieri Bossi
Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.«Non si muove foglia che Washington non voglia: anche in Padania». In politica, sostiene Dezzani nel suo blog, ogni segmento della domanda deve essere coperto, come in ogni altro settore di mercato: l’offerta deve essere costantemente rinnovata e nuovi prodotti possono essere lanciati grazie a un’adeguata campagna pubblicitaria. Basta considerare i partiti alla stregua di ogni altro prodotto di consumo. «L’abilità di chi tira i fili della democrazia consiste nel rifornire gli scaffali dalla politica dei partiti giusti, al momento giusto: ad ogni tornata elettorale, i votanti acquisteranno i loro prodotti preferiti, con grande soddisfazione di chi controlla il grande supermercato della democrazia». Negli ultimi anni, va crescendo la “specialità” dei partiti di protesta. Ma la loro origine non è recente, ricorda Dezzani: «Risale agli albori della Repubblica Italiana, quando Washington e Londra foggiarono per l’Italia una singolare democrazia, dove la seconda forza politica del paese, il Pci, era esclusa “de iure” dal governo», ovviamente per ragioni geopolitiche (la sua contiguità con l’Urss, avversaria della Nato).«Per ovviare a questo opprimente immobilismo, che un po’ stona con le logiche del mercato», in 70 anni sono state immesse diverse sigle per intercettare il malcontento dell’elettorato e la domanda di cambiamento: «Si comincia, prima delle elezioni del 1948, con l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini e si termina oggi con il Movimento 5 Stelle di Davide Casaleggio». Annota Dezzani: «Sia Giannini che Casaleggio sono, incidentalmente, inglesi da parte materna». Tra i due estremi, l’analista annovera anche il Partito Radicale di Marco Pannella, «che prestò non pochi servigi all’establishment atlantico: la campagna per le dimissioni del presidente Giovanni Leone, quella per l’aborto e il divorzio, i referendum del 1993 contro “la partitocrazia” e “lo Stato-Padrone”». E poi c’è anche il caso della Lega Nord, nata e cresciuta nei travagliati primi anni ‘90, nutrendosi dei voti in uscita dal Psi e soprattutto dalla Dc. Ma come? Anche il folkloristico Carroccio, i raduni di Pontida, il “dio Po” e il leggendario Alberto da Giussano, sarebbero un prodotto dell’establishment atlantico? Ebbene sì, scrive Dezzani: «È una verità che probabilmente spiazzerà molti leghisti della prima ora», ma è indispensabile per capire, ad esempio, «perché Umberto Bossi, padre-padrone della primigenia Lega Nord, contesti la recente svolta nazionalista, anti-euro e filorussa di Matteo Salvini».Salvini appare deciso a trasformare (con esiti incerti) il Carroccio nella versione italiana del Front National? Non a caso, il redivivo Bossi oggi gli si oppone, chiedendo un congresso. «Bruxelles è sempre stata ed è tuttora il faro di Umberto Bossi, sebbene il suo obiettivo fosse agganciarsi all’Unione Europea non attraverso l’Italia, ma tramite la “Padania”, in ossequio a quella “Europa della macroregioni” tanto cara all’establishment atlantico», sostiene Dezzani. Il progetto: «Smembrare gli Stati nazionali per sostituirli, al vertice, con un governo sovranazionale e, alla base, con una costellazione di cantoni, regioni e feudi: l’oligarchia libera di comandare indisturbata su 500 milioni di persone ed i paesani appagati delle loro effimere autonomie». La storia della Lega Nord, continua l’analista, è indissolubilmente legata al crollo del Pentapartito. Cioè alle manovre, iniziate con la firma del Trattato di Maastricht, per traghettare l’Italia verso la nascente Unione Europea a qualsiasi costo: vergognose privatizzazioni, saccheggi del risparmio privato, attentati terroristici e giustizialismo spiccio. «Studiare l’origine della Lega Nord significa quindi completare l’analisi dell’infamante biennio 1992-1993 che travolse la Prima Repubblica e forgiò la Seconda, dove Umberto Bossi ha giocato un ruolo di primo piano».La Lega Nord nasce ufficialmente nel febbraio del 1991, come federazione della Lega Lombarda, della Liga Veneta, di Piemont Autonomista e dell’Union Ligure: «Chi volesse indagare sul periodo proto-leghista, scoprirebbe quasi certamente che anche questi movimenti autonomisti nascono nel medesimo humus massonico-atlantista da cui germoglierà poi il Carroccio». La Liga Veneta, quella più radicata e “antica”, compie i primi passi presso l’istituto privato linguistico Bertrand Russell di Padova, dove nel 1978 è istituito un corso di storia, lingua e civiltà veneta. «Chi volesse scavare più indietro ancora – ipotizza Dezzani – potrebbe riallacciarsi alla lunga serie di attentati destabilizzanti, di matrice autonomista e secessionista, che colpiscono tra gli anni ‘50 e ‘60 il Nord-Est dove, è bene ricordarlo, la concentrazione delle forze armante angloamericane è più alta che in qualsiasi altra parte dell’Italia continentale», come nel caso della caserma Ederle di Vicenza e della base di Aviano, fuori Udine. «L’idea di superare le leghe su base “etnica” e di federarle in un’unica Lega allargata all’intero Nord, ribattezzato all’occorrenza come “Padania”, è comunque ufficialmente attribuita ad Umberto Bossi». Ma il “senatur” ne è stato l’unico padre o è stato “aiutato” da una regia più ampia, «sofisticata e altolocata», come quella che starebbe dietro ai 5 Stelle?«Diversi elementi fanno propendere per la seconda ipotesi», continua Dezzani, «declassando Umberto Bossi al ruolo di capo carismatico di facciata, di semplice tribuno e di arringatore: la stessa funzione, per intendersi, svolta da Beppe Grillo nel M5S». Siamo infatti nel febbraio 1991, il Muro di Berlino è crollato da due anni e l’Unione Sovietica collasserà entro pochi mesi: «L’oligarchia atlantica ha già stilato i suoi piani per il “Nuovo Ordine Mondiale” che, calati nella realtà italiana, significano l’abbattimento della Prima Repubblica, l’archiviazione della Dc e del Psi, lo smantellamento dell’economia mista e, se possibile, anche un nuovo assetto geopolitico per la penisola», da attuare attraverso i movimenti indipendentisti. Segnale importante: «L’accoglienza che la grande stampa anglosassone riserva al neonato Carroccio, simile a quella che il Movimento 5 Stelle riceverà a distanza di 15 anni, non lascia adito a dubbi circa l’interessamento che Londra e Washington nutrono per la neonata formazione nordista: il 4 ottobre 1991 il “Wall Street Journal” definisce la formazione di Umberto Bossi come “il più influente agente di cambiamento della scena politica italiana”».Poco dopo, nel gennaio 1992, il settimanale statunitense “Time” definisce Bossi come il leader più popolare e temuto della politica italiana. E il 28 marzo, il settimanale inglese “The Economist”, megafono della City, accomuna la Lega Nord al Partito Repubblicano di Ugo La Malfa, definendolo come «l’unico fattore di rinnovamento nel decadente panorama politico italiano». Sono le stesse settimane in cui Mario Chiesa, esponente socialista e presidente del Pio Albergo Trivulzio, è arrestato a Milano per aver intascato una bustarella: è il primo atto di quell’inchiesta giudiziaria, Mani Pulite, destinata a travolgere il Pentapartito e la Prima Repubblica. «Non c’è dubbio che la Lega Nord debba “completare”, nei piani angloamericani, l’inchiesta di Tangentopoli», sostiene Dezzani: «Il pool di Mani Pulite è incaricato di smantellare la Dc ed il Psi, mentre il Carroccio ha lo scopo di intercettare i voti in fuga dai vecchi partiti prossimi al collasso». E il trait d’union tra il palazzo di giustizia milanese e la Lega Nord, sempre secondo Dezzani, è fisicamente incarnato dal console americano Peter Semler, cioè il funzionario statunitense che, alla fine del 1991, un paio di mesi prima dell’arresto di Mario Chiesa, “incontra” Antonio Di Pietro nei suoi uffici per discutere delle imminenti inchieste giudiziarie. E’ lo stesso funzionario che, «quasi contemporaneamente, “incontra” i dirigenti della Lega Nord».In una recente intervista a “La Stampa”, Semler ammette di aver pranzato con due dirigenti leghisti il 1° gennaio 1992: «Quello che mi colpì di più era un ex poliziotto, ex militare. Giocammo al golf club di Milano e mi dissero: “Cambierà tutto”». Rileva Dezzani: «C’è da scommettere che non siano stati i due leader della Lega Nord ad avvertire il console americano che tutto sarebbe cambiato, bensì l’opposto». Il Carroccio, infatti, all’epoca «è parte integrante della manovra angloamericana per smantellare il Psi e la Dc», con la sua corrosiva e talvolta violenta retorica contro la partitocrazia della Prima Repubblica, lo Stato clientelare ed assistenzialista (indimenticabile il cappio sventolato nel 1993 a Montecitorio, per “appendervi” i politici corrotti). Ma perché mai, continua Dezzani, l’attacco è sferrato “su base regionale”, attraverso una formazione che inneggia alla Padania onesta e laboriosa, contro la Roma corrotta e la ladrona, sede di “un Parlamento infetto”? Ovvero: perché la stessa funzione non è assolta da un partito di protesta “nazionale”, come è oggi il Movimento 5 Stelle?«Compito della Lega Nord – riprende Dezzani, parlano al presente storico – è anche quello di attuare il piano geopolitico che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia in questa drammatica fase della vita nazionale: passare dall’Italia unita all’unione, o confederazione, di tre macroregioni», ovvero la Repubblica del Nord (o Padania), una repubblica del Centro e una del Sud: «E’ il periodo, infatti, delle “stragi mafiose” e Cosa Nostra ed il Carroccio sembrano lavorare all’unisono (d’altronde, la regia a monte è comune) per ritagliarsi ognuno il proprio feudo, cannibalizzando lo Stato nazionale». Da qui, Dezzani mette in luce l’entrata in scena di una figura-chiave del leghismo delle origini, il personaggio politico che avrebbe dovuto essere “la mente” del processo di secessione della Repubblica dal Nord: Gianfranco Miglio, classe 1918 (scomparso poi nel 2001). Allievo del filosofo liberale Alessandro Passerin d’Entrèves (a lungo docente all’Università di Oxford e quella di Yale) e del giurista Giorgio Balladore Pallieri (primo giudice italiano alla Corte europea dei diritti dell’uomo).Docente all’Università Cattolica di Milano, teorizzatore del decisionismo, studioso del federalismo e ascoltato consulente in materia di riforme costituzionali, vero e proprio “giacobino di destra”, Gianfranco Miglio è un intellettuale molto gettonato dai politici e dagli alti manager della Prima Repubblica in cerca di consigli. Miglio comincia coll’assistere l’uomo più potente d’Italia, Eugenio Cefis: presidente dell’Eni dal 1967, dopo la morte di Enrico Mattei, fino al 1971, e poi numero uno della Montedison dal 1971 al 1977. Secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016, Cefis è stato il capo della Loggia P1, vero dominus delle strategie coperte per la manipolazione occulta dell’Italia. Carpeoro la chiama “sovragestione”: un intreccio di poteri fortissimi eterodiretti dagli Usa, reti massoniche e servizi segreti deviati. Un livello di potere assai più alto e protetto di quello rappresentato dalla P2 di Gelli, che infatti all’occorrenza fu sacrificato sull’altare dell’opinione pubblica, a differenza del potentissimo Cefis, che è anche l’uomo-ombra di “Petrolio”, il romanzo incompiuto sulla fine di Mattei che forse è costato la vita a Pasolini. Tornando alla ricostruzione di Dezzani sulle mosse di Miglio: dopo aver collaborato con Cefis, l’ideologo della Padania ha fatto anche da consulente al primo ministro Bettino Craxi.Nei tumultuosi anni che seguono la caduta del Muro di Berlino – scrive Dezzani – il professor Miglio compie una spettacolare e singolare metamorfosi: nel giugno del 1989, constata la precarietà delle finanze pubbliche e del panorama politico italiani, suggerisce nientemeno che «sospendere le prove elettorali per un certo periodo, dar vita a un lungo Parlamento, bloccare il ricambio parlamentare, che so, per 8-10 anni», affidando quindi poteri speciali al Pentapartito per fronteggiare le emergenze. Dopo nemmeno due anni, Miglio è invece diventato “l’ideologo” della costituenda Lega Nord, nonché il più severo e spietato censore della partitocrazia, dello Stato parassitario e della deriva mafiosa del Meridione: «E’ difficile spiegare questo repentino cambiamento e il suo “affiancamento” a Umberto Bossi, se non come un’operazione studiata a tavolino, concepita da quegli “ambienti liberali ed anglofoni” che Miglio frequenta sin dalla gioventù».Gianfranco Miglio, annota Dezzani, è l’architetto di quelle riforme costituzionali che dovrebbero scardinare l’assetto geopolitico dell’Italia, servendosi della Lega Nord e di Umberto Bossi come semplici grimaldelli. Esisterebbero, secondo il professore, due Italie: una europea, da agganciare alla nascente Unione Europea, e una mediterranea, da abbandonare alla deriva verso il Levante e il Nord Africa. Lo Stato unitario ha fatto il suo tempo e sulle sue macerie bisogna edificare uno Stato federale, o meglio ancora confederale, costruito da tre entità separate: una Repubblica del Nord, una del Centro e una del Sud. Al governo centrale della neo-costituita Unione Italiana, spetterebbero soltanto la difesa e parte della politica estera. «Il disegno sottostante alle ricette di Miglio è chiaro: sfruttare l’inchiesta di Tangentopoli che sta sconquassando la politica, il crollo del Pentapartito, la strategia della tensione e l’emergenza finanziaria, per cancellare l’Italia unitaria come soggetto geopolitico. Un’Italia che, con Enrico Mattei, Aldo Moro e le politiche filo-arabe di Bettino Craxi e Giulio Andreotti, ha dimostrato di poter infastidire gli angloamericani nello strategico bacino mediterraneo».Le elezioni politiche del 5 aprile 1992 vedono la Lega Nord raccogliere una discreta percentuale dei voti in uscita dalla Dc e dal Psi: in Lombardia il Carroccio raccoglie il 23% delle preferenze, ad un solo punto dai democristiani, ma si ferma all’8,65% a scala nazionale, mentre le varie leghe del Sud non decollano. «Non è andata così bene, dovevamo essere determinanti», ammette Bossi, ben sapendo che la secessione del Nord dal resto d’Italia implicherebbe una forza elettorale che la Lega dimostra di non avere. Bottino elettorale: 55 deputati e 25 senatori. Sono abbastanza, «per portare a compimento la demolizione della Prima Repubblica e il rapido smantellamento dell’economia mista, come auspicato dai croceristi del Britannia». Ecco il punto, per Dezzani: «Non c’è una singola mossa del Carroccio, infatti, che si discosti dall’agenda che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia: la Lega è decisiva per bloccare l’elezione di Giulio Andreotti al Quirinale, si schiera contro l’ipotesi di una presidenza del Consiglio affidata a Bettino Craxi, è favorevole ad un aggressivo piano di privatizzazioni».«Gli economisti di Bossi credono nella Thatcher», titola la “Repubblica”, riportando che la Lega vuole «privatizzare tutte le imprese di Stato, dall’Iri all’Eni, all’Efim. Senza risparmiare le banche pubbliche come Bnl, Comit, Credito italiano, San Paolo di Torino. Largo ai privati anche per le Ferrovie, l’Enel e le Poste». La Lega di Bossi, aggiunge Dezzani, è fautrice di un “liberismo spinto” contrapposto allo Stato-padrone, definito ovviamente come «parassitario, bizantino, romano-centrico, corrotto, ladrone». Non solo, il Carroccio «gioca di sponda con le “menti raffinatissime” che stanno attuando una spietata strategia di destabilizzazione per meglio saccheggiare i risparmi degli italiani e l’industria pubblica: mentre i servizi segreti “deviati” piazzano bombe in tutt’Italia e gli squali dell’alta finanza si accaniscono sui Btp, la Lega Nord getta altra benzina sul fuoco, incitando allo sciopero fiscale, sconsigliando di comprare i titoli di Stato, evocando la separazione del Sud mafioso dal resto dell’Italia, gridando all’imminente secessione della Padania».«Ma se la casa crolla, il Nord deve andarsene», è un sintomatico titolo della “Repubblica” del 31 dicembre 1992. Nell’articolo, il professor Miglio dipinge un futuro a tinte fosche per l’Italia. E pronostica un imminente, drammatico peggioramento della situazione economica, anticamera della secessione della Repubblica del Nord: «Se si arrivasse a non riuscire a controllare più niente, se non si riuscisse più ad avere i servizi, se la sicurezza e le garanzie crollassero, è evidente che ciascuno penserebbe a se stesso. Probabilmente anche il Sud se ne andrebbe per conto suo». Bingo: per Dezzani, «le parole dell’ideologo del Carroccio sono musica per chi, a Washington e Londra, lavora per tenere l’Italia in costante fibrillazione». Poco dopo, nel 1993, l’inchiesta di Mani Pulite ha sortito gli effetti sperati: Dc e Psi, che l’analista definisce «i vincitori morali della Guerra Fredda», sono stati spazzati via dal pool di Milano. «L’unico grande partito risparmiato dalle inchieste giudiziarie è stato il Pci, riverniciato ora come Pds, cui gli angloamericani contano di affidare il governo facendo affidamento sulla sua ricattabilità», dato che «nella Russia allo sfascio si comprano gli archivi del Kgb a prezzo di saldo».Se dalle successive elezioni uscisse un Nord saldamente in mano al Carroccio e un Centro-Sud in mano alla sinistra, «si concretizzerebbe lo scenario di una secessione “de facto” della Padania dal resto dell’Italia». Per la Lega Nord non che resta, a questo punto, che «ricevere la benedizione “ufficiale” da parte dell’establishment atlantico, dopo lunghi rapporti reconditi ed opachi». Così, il 18 ottobre 1993 una delegazione del Carroccio si reca in visita al quartier generale della Nato a Bruxelles. E il 23 ottobre è la volta degli Stati Uniti: una prima tappa a New York, per incontrare il milieu dell’alta finanza e di Wall Street, e una seconda tappa a Washington, dove sono in programma pranzi di lavoro con deputati e senatori repubblicani ed esponenti della National Italian American Foundation. Ma ecco che accade qualcosa di inatteso: «La “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, annunciata nell’autunno del 1993, è un evento non previsto dall’establishment atlantico», che secondo Dezzani puntava sulla bipartizione Lega (Nord) e sinistra (Centro-Sud). In più, il Cavaliere vince: «La neonata Forza Italia si impone alle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994, drenando buona parte dei voti in uscita dal Psi e dalla Dc e imponendosi come primo partito del Nord Italia».La Lega, ferma all’8% delle preferenze su scala nazionale, dimostra ancora di non avere una forza sufficiente per strappare la secessione della Padania e attuare gli ambiziosi cambiamenti costituzionali sognati da Gianfranco Miglio. Forte di 122 deputati e 59 senatori, il Carroccio dispone però di un manipolo di parlamentari sufficienti per staccare la spina al primo governo Berlusconi, di cui è entrata a far parte nella cornice del Popolo della Libertà. Per Dezzani, riemerge quindi la vera natura della Lega Nord «come strumento politico nelle mani di Londra e Washington». E quando Berlusconi, durante la conferenza mondiale dell’Onu contro la criminalità organizzata, riceve un invito a comparire dal pool di Milano, Umberto Bossi «completa l’operazione per disarcionare il Cavaliere, togliendogli la fiducia e avvallando il “ribaltone” che insedia l’ex-Bankitalia Lamberto Dini a Palazzo Chigi». Si marcia così rapidamente verso nuove elezioni, e «ancora una volta il Carroccio agisce in perfetta sintonia con l’establishment atlantico: scegliendo di correre da solo e di non rinnovare l’alleanza col Popolo della Libertà, spiana la strada ai governi di Romano Prodi e Massimo D’Alema: seguirà “il contributo straordinario per l’Europa”, la scandalosa privatizzazione della Telecom, “la marchant bank” di Palazzo Chigi, la liquidazione finale dell’Iri, il vergognoso cambio di 2.000 lire per ogni nuovo euro, l’avvallo alle operazioni militari della Nato contro la Serbia».E così, mentre «quel che rimane dell’economia mista è smantellato a prezzi di saldo e i risparmi degli italiani sono immolati sull’altare della moneta unica», Umberto Bossi continua a blaterare di secessione, di camice verdi, di milizie armate del Nord, di rivolta fiscale. Dezzani lo definisce «utile idiota manovrato dall’oligarchia atlantica». La Lega tornerà al governo solo dopo le elezioni del 2001, quando i giochi “europei” saranno ormai fatti. Morale: «Le vicende della Lega Nord, di Gianfranco Miglio e di Umberto Bossi sono legate a doppio filo alla nascita Seconda Repubblica, alla perdita di qualsiasi sovranità nazionale e all’avvento della moneta unica». Secondo Dezzani, il Senatùr ne è perfettamente cosciente. Intervistato recentemente dal “Corriere della Sera”, dichiara: «Se venisse giù l’euro, verrebbe giù tutto, una situazione che nessuno saprebbe gestire. Tra l’altro, pagheremmo di più le materie prime, cosa che per un paese di trasformazione come l’Italia sarebbe un disastro. Berlusconi parla di doppia moneta, il che è una presa per il culo. Ma non è che Berlusconi non sia in grado di capire le cose». Per Dezzani, «sono le ultime battute dell’ennesima “stampella del potere”», sia pure in camicia verde.Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.
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Friaul, il nazi-Stato dei Cosacchi a insaputa dei friulani
Il Friuli si sarebbe chiamato Pfufferstaats Friaul, uno Stato-cuscinetto inserito nella “Grande Austria” per contribuire a isolare l’Unione Sovietica. A insaputa dei friulani, durante la Seconda Guerra Mondiale i nazisti spedirono 40.000 cosacchi tra i monti della Carnia: sarebbero stati il nerbo della nuova ipotetica nazione de-italianizzata, come ricorda Gaetano Dato rievocando l’epopea friulana dei cavalieri russi anti-sovietici. «Erano soldati e profughi arrivati in Friuli dal Don, dal Kuban, dall’Astrakahn, dalla Siberia, dal Caucaso e da tutte le altre terre cosacche. In rotta, insieme all’armata hitleriana, nel maggio del ‘45. «Oltre Timau, quando la salita verso il Plöckenpass comincia a stringersi e a fare tornanti sempre più stretti, i cadaveri dei cavalli, e pure di qualche cammello, punteggiavano la scarpata». Sul lago di Wörth, in Austria, speravano di ricevere un ordine che avrebbe potuto dar loro un nuovo incarico a guerra finita. «Ma innanzitutto dovevano sopravvivere agli agguati dei partigiani e comunque dovevano incontrarsi prima dell’arrivo degli inglesi, sempre che questi ultimi avessero preceduto gli jugoslavi in Carinzia».Il 7 maggio del ‘45, al castello di Hornstein, luogo dell’appuntamento, il “leiter” Franz Hradetzky parlò per l’ultima volta del Pfufferstaats Friaul, lo Stato che, se l’Asse avesse vinto la guerra, avrebbe dovuto proteggere i confini sud-occidentali dell’ex impero asburgico. La disposizione, ricorda Dato sul blog di Aldo Giannuli, era arrivata da Himmler. Dopo l’8 settembre del ‘43 e la costituzione del protettorato dell’Ozak (litorale adriatico), il capo delle SS aveva affidato a Hradetzky e ai suoi propagandisti del “Kommando Adria” un’operazione speciale: ridestare i «sentimenti nazionali nel popolo friulano», come premessa per l’istituzione del Friaul. Stretti i contatti tra le curie del Litorale e i funzionari agli ordini del comando nazista, decisivi per i rapporti coi sarcedoti sloveni e l’arruolamento forzoso della popolazione per costruire opere pubbliche per la difesa terrestre e antiaerea. Inoltre, «alcuni settori della Chiesa vedevano di buon occhio il progetto della Grande Austria», dopo che l’Armata Rossa «aveva ripreso controllo del mondo ortodosso e i soldati di Stalin e di Tito dilagavano negli Stati cattolici dell’Europa orientale e balcanica».Il principe arcivescovo di Salisburgo, Andreas Rohracher, insieme ad altri esponenti del Vaticano come Alois Hudal, tentò una disperata mediazione nell’aprile del ‘45, fra nazisti austriaci e servizi segreti inglesi e americani: «La Grande Austria – spiega Gaetano Dato – doveva comprendere anche la Slovenia, la Croazia, l’Ungheria e la Romania. Si trattava di un progetto con qualche saldatura col più vasto tentativo vaticano dell’Intermarium, una lega di Stati cattolici fra i mari Adriatico e Baltico capace di contenere il mondo sovietico». Vi guardavano con particolare attenzione il generale polacco Wladyslaw Anders e i suoi 100.000 soldati sparsi per l’Italia, in attesa di rientrare in patria e vendicare il massacro sovietico di Katyn. Naturalmente, né la Grande Austria né l’Intermarium poterono mai realizzarsi: «Il 1945 non era un tempo di restaurazioni. Il dominio dell’Europa era finito e il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Usa e Urss avevano già spartito il pianeta in sfere di influenza, e al massimo potevano lasciare agli inglesi la patata bollente della guerriglia greca», guidata dal comunista Markos Vafiadis.Gli americani, continua Dato, si erano inoltre presi la briga, coi britannici, di sostenere ustaša e cetnici, per tenere sulle spine Tito in Jugoslavia, ma forse solo perché erano a loro volta rimasti impantanati a Trieste per via del Territorio Libero. «Ma questo era tutto. Non c’era spazio per il terzaforzismo cattolico, che riuscì soltanto a mettere in salvo alcuni capi e gerarchi nazifascisti». L’offerta che Hradetzky aveva pensato di fare ai sopravvissuti del “Kommando Adria”, al momento dell’incontro in quel 7 maggio, non si era dunque ancora concretizzata nei modi opportuni. «La speranza era che in tempi brevissimi la mobilitazione per la nuova Grande Austria potesse salvare ciascuno dalla prigionia. Nulla di più sbagliato. Poco tempo dopo, lo stesso “leiter” dei corrispondenti di guerra fu arrestato dagli jugoslavi, e processato a Lubiana», insieme a molti altri responsabili dell’Ozak. Tuttavia scampò alla pena capitale e, dopo 16 anni di lavori forzati, riuscì a tornare in Austria: «Così, le sue testimonianze a Pier Arrigo Carrier negli anni Settanta hanno riportato alla luce la breve storia dei tentati preparativi per la costituzione del Friaul», in quella “Grande Austria” che nei sogni del “partito degli austriaci” avrebbe dovuto prendere il sopravvento sui tedeschi del nord, assorbendo anche la Boemia e persino la Baviera.Sarebbero state concesse ampie autonomie a croati e sloveni, attraverso la costituzione di Stati autonomi, ma federati al Reich. Agli sloveni in particolare sarebbe stata tolta la regione della Stiria slovena, da germanizzarsi completamente, e sarebbe stato ricostituito il ducato di Carniola, che era tramontato con la fine degli Asburgo. Il Pfufferstaats Friaul sarebbe stato un altro degli Stati autonomi federati, uno Stato cuscinetto con lo scopo di isolare ogni possibile “infezione” dal lato italiano, specialmente in direzione delle terre giuliane, dalmate e del Quarnero, in cui il sentimento irredentista aveva una certa presa. A tale scopo il Pfufferstaats Friaul avrebbe tagliato ogni continuità territoriale tra queste aree e la penisola italiana. Il “ribaltone” italiano dell’8 settembre 1943 aveva spinto Himmler a includere il Friuli nei piani di ingegneria etnica che avrebbero dovuto rettificare l’Europa del Nuovo Ordine. In Friuli, per l’Ozak, gli italiani erano «una minoranza», cioè appena 100.000 su una popolazione di 700.000 persone, di cui 200.000 «sloveni» e il resto, la maggioranza, erano friulani, «appartenenti al gruppo retoromanzo», lo stesso che abita «i Grigioni in Svizzera» e che in Tirolo «costituisce il gruppo dei Ladini».Era dunque opportuno agire per tempo e far sorgere la voglia di indipendenza ai friulani ben prima della fine della guerra. Il capo delle SS contattò quindi Hradetzky nell’autunno del 1943. «Fu redatto un piano che prevedeva la forzata nazionalizzazione delle masse friulane, previa la distillazione delle loro tradizioni popolari, per essere loro riproposte attraverso mass media ed eventi pubblici». Un modello di nazionalizzazione congeniale ai nazisti, basato sul meccanismo della “invenzione della tradizione” secondo lo schema classico analizzato da Eric Hobsbawm. Così, Hradetzky mise in piedi un gruppo di studio sulle tradizioni popolari, in cerca di un “eroe nazionale” friulano. Ercole Carletti, segretario della Filologica Friulana, società culturale perseguitata dal fascismo, rifiutò di collaborare: la Filologica si ispirava a Graziadio Isaia Ascoli, linguista ebreo e patriota del Risorgimento che nella seconda metà dell’800 studiò estensivamente il friulano. I nazisti ripiegarono su Ermes Cavassori, giornalista de “Il Popolo del Friuli”, il quotidiano fascista di Udine, e su altri soggetti coinvolti dallo stesso Cavassori, a cominciare dallo zio, il maestro Luigi Garzoni.Fabbricare una narrazione nazionale: sul fronte degli studiosi austriaci fu reclutato Karl Felix Wolff, già membro della commissione culturale dell’Alpenvorland, il protettorato che occupava il Trentino Alto Adige. Insieme ai suoi collaboratori, scrive Dato, Wolff aveva lavorato soprattutto a una raccolta di fiabe friulane, che però non giunse mai alla stampa, a causa del precipitare degli eventi. Alcuni dei “racconti friulani” fecero in tempo a uscire su “La Voce di Furlania”, periodico fondato da Cavassori e Garzoni. Temi prevalenti del giornale: tradizioni popolari, lotta all’internazionalità e inviti alla popolazione a collaborare con i tedeschi. Il titolo della testata dava anche il nome a una rivista teatrale messa in scena settimanalmente a Udine. Furono inoltre fondati oltre 40 gruppi corali, mentre altre associazioni provvedevano alla riscoperta delle tradizioni folcloristiche, a cominciare dagli abiti tradizionali. «Pare che, secondo Hradetzky, la popolazione avesse entusiasticamente aderito a queste iniziative, mostrando così un certo consenso nei confronti dell’amministrazione nazista. Naturalmente queste notizie venivano accolte con apprensione dal governo della Repubblica di Salò, ma ormai Mussolini e i fascisti non potevano fare molto per opporsi ai progetti di Berlino per il Nuovo Ordine». Ma l’operazione restava debole: «Fu impossibile riuscire a individuare, nella storia friulana, dei precedenti storici la cui strumentalizzazione potesse veicolare la trasformazione di un movimento per il risveglio culturale, in un movimento indipendentista».Dopo la fine del patriarcato di Aquileia, nel 1492, e la conseguente fine dell’indipendenza dell’area della ladinità, non esisteva alcun episodio in cui la popolazione locale avesse cercato di riacquistare una qualche precedente e mitizzata autonomia. I friulani, scrive Dato, erano sempre stati sottomessi, prima a Venezia prima e poi agli austriaci. Accolti solo nel 1866 nella giovane nazione italiana, «mai i friulani si erano interessati a una propria questione nazionale». Spiazzati, i nazisti, anche dall’assenza di un eroe “nazionale” friulano, l’equivalente di uno Skanderbeg per l’Albania. «Il massimo che riuscirono a recuperare fu la vicenda di Padre d’Aviano, diplomatico presso gli Absburgo e molto conosciuto per la sua lotta contro l’invasione turca». Ma il tutto «non andò oltre alla cerimonia di deposizione di una lapide ad Aviano». E il progetto di Himmler e Hradetzky, come molti altri, fu interrotto dalla guerra. «Rimane il dubbio su cosa pensassero al riguardo i cosacchi, che insieme ai caucasici, in 40.000 avevano occupato la Carnia nell’estate del 1944. “La Voce di Furlania” aveva parlato dei cosacchi solo una volta, per pubblicizzarne, manco a dirlo, uno spettacolo folcloristico, che pare stesse riscuotendo un grande successo in tutto il Kűnstenland».Il progetto della Grande Austria, nei piani del Nuovo Ordine, andava integrato con quello di un cordone di sicurezza che avrebbe dovuto circondare e isolare la Russia. Hitler voleva promuovere una schiera di Stati sottomessi alla sovranità tedesca, grazie anche a un’attenta alchimia fra le varie minoranze, che un calcolato piano di deportazioni avrebbe messo in atto. I paesi coinvolti sarebbero stati Estonia, Lituania, Lettonia, Ucraina, la Nazione Tartara del bacino del Volga, una federazione di nazioni caucasiche, il Turkestan e infine uno Stato cosacco. Coinvolti da subito nell’invasione dell’Urss e pieni di speranze nel riuscire a vendicare le sconfitte della controrivoluzione del 1917-21, gli atamani cosacchi firmarono nel novembre del ‘43 un accordo col Reich che prevedeva una serie di garanzie. In primo luogo, l’affidamento di un vasto territorio da amministrare, oltre a un ruolo di primo piano nel governo della Russia. Tuttavia nell’accordo era prevista l’eventualità che, se l’andamento della guerra avesse impedito anche temporaneamente la consegna dei territori al governo cosacco (provvisoriamente insediato a Berlino), al “popolo della steppa” sarebbe stata riservata una regione in Europa occidentale.Nella primavera del 1944, poiché i partigiani friulani stavano rischiando di tagliare le comunicazioni fra i Balcani e il Reich, fu stabilito che quel territorio sarebbe stato proprio il Friuli. «Pertanto, nell’estate del 1944 un vasto contingente di soldati cosacchi, con le loro famiglie e i pope dalla lunga barba, si insediò a Tolmezzo e nel resto della Carnia». I tedeschi, ricorda Dato, presero a chiamare la zona “Kozakenland”, mentre per i nuovi arrivati la Carnia friulana era ormai “Cossackia”. Cominciarono persino a cambiare i nomi dei paesi e delle strade: Alesso, pressoché evacuato della sua popolazione autoctona, divenne Novočerkassk, come la città al cuore della controrivoluzione del Don, cosparsa di sangue dai massacri del 1920. «Ai friulani, intanto, non fu mai detto nulla di quell’accordo, che rimase a lungo segreto, anche se i cosacchi dicevano apertamente nei villaggi che quella terra era ormai diventata loro, almeno finché avessero potuto andarsene per tornare a invadere la Russia dei senzadio». Cosa sarebbe stato del Friuli, se avesse vinto l’Asse? «Forse – conclude Dato – sarebbe sorto un nuovo processo di etnogenesi, che avrebbe trasformato friulani e cosacchi in un nuovo popolo, in modo simile a quanto avvenuto in Europa con l’arrivo dei guerrieri della steppa nella tarda antichità. E del resto così li vedevano i friulani: come Unni giunti da lontano sul dorso dei cavalli, con i colbacchi pelosi e il pugnale sempre in vista».Il Friuli si sarebbe chiamato Pfufferstaats Friaul, uno Stato-cuscinetto inserito nella “Grande Austria” per contribuire a isolare l’Unione Sovietica. A insaputa dei friulani, durante la Seconda Guerra Mondiale i nazisti spedirono 40.000 cosacchi tra i monti della Carnia: sarebbero stati il nerbo della nuova ipotetica nazione de-italianizzata, come ricorda Gaetano Dato rievocando l’epopea friulana dei cavalieri russi anti-sovietici. «Erano soldati e profughi arrivati in Friuli dal Don, dal Kuban, dall’Astrakahn, dalla Siberia, dal Caucaso e da tutte le altre terre cosacche. In rotta, insieme all’armata hitleriana, nel maggio del ‘45. «Oltre Timau, quando la salita verso il Plöckenpass comincia a stringersi e a fare tornanti sempre più stretti, i cadaveri dei cavalli, e pure di qualche cammello, punteggiavano la scarpata». Sul lago di Wörth, in Austria, speravano di ricevere un ordine che avrebbe potuto dar loro un nuovo incarico a guerra finita. «Ma innanzitutto dovevano sopravvivere agli agguati dei partigiani e comunque dovevano incontrarsi prima dell’arrivo degli inglesi, sempre che questi ultimi avessero preceduto gli jugoslavi in Carinzia».