Archivio del Tag ‘Ulivo’
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Magaldi: gli apprendisti stregoni del Covid hanno già perso
«Gli apprendisti stregoni che hanno provato a usare il Covid come cavallo di Troia per cinesizzare l’Occidente possono rassegnarsi: hanno già perso, anche nel caso in cui il loro nemico numero uno, Donald Trump, non dovesse essere rieletto». Se lo dice Gioele Magaldi, sostenitore di Trump nel 2016 – quando si trattava di fermare Hillary Clinton – c’è da drizzare le antenne: significa che l’establishment Usa, anche quello anti-trumpiano, ha varcato il Rubicone. Ovvero: indietro non si torna. Fine dell’accondiscendenza illimitata verso lo strapotere di Pechino, “drogato” dal decisivo aiuto (occidentale, americano) fornito a suo tempo dai massoni reazionari della “Three Eyes”, in primis il fuoriclasse Kissinger, decisi a fare della Cina post-maoista una specie di Frankenstein, un mix di turbo-capitalismo di Stato in mano a un regime dittatoriale. Modello perfetto, per gli amanti dell’horror: il paradiso degli oligarchi, ideale per rimpiazzare la democrazia occidentale. Fino a ieri, c’erano riusciti truccando le regole: la Cina fu ammessa nel Wto senza obblighi democratici, senza sindacati, senza leggi a tutela dell’ambiente e con clamorosi aiuti in termini di know-how industriale. Il piano: farne la manifattura del mondo, mettendo in crisi i lavoratori occidentali e i loro diritti. Dumping spietato: concorrenza sleale, grazie a prodotti a bassissimo costo. Poi è arrivato Trump, con il suo “America First”. Cocente, l’umiliazione inflitta Xi Jinping con l’imposizione dei dazi. Un minuto dopo, è esploso il coronavirus a Wuhan. La notizia? Ormai l’hanno capito tutti, a cosa doveva servire il Covid.Chi crede ancora alla Befana e ai giochini per la prima infanzia – Trump il puzzone, cattivo e razzista, combattuto da legioni di eroici paladini della giustizia – può a fare a meno di seguire le esternazioni di Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt nonché frontman italiano del circuito massonico progressista sovranazionale. Nel saggio “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere sulla scorta di 6.000 pagine di documenti riservati, ha chiarito qual è il campo di gioco: a tirare le fila sono una quarantina di superlogge mondiali, da cui discendono – a valle – le tante entità paramassoniche (dal Bilderberg alla Trilaterale, dalla Chatham House al Council on Foreign Relations) erroneamente considerate onnipotenti. Ancora più sotto stanno governi, partiti, singoli leader. I loro margini operativi sono minimi: destra o sinistra, le decisioni che contano vengono prese a monte. Tra i grandi centri del potere visibile, aperto e contendibile con le elezioni, il più importante resta la Casa Bianca. «Trump è un “cavallo pazzo”, e siede a Washington grazie alla massoneria progressista che lo appoggiò perché, a differenza di Hillary, poteva sparigliare le carte, mettere fine all’ipocrisia finto-progressista dei democratici e tutelare i lavoratori americani massacrati da questa globalizzazione taroccata». Missione compiuta: ha tagliato le tasse, aumentato il deficit e realizzato la piena occupazione. Restava la mossa finale, fermare Pechino. Detto fatto: ed ecco il freno all’export cinese. Una dichiarazione di guerra, a cui gli oligarchi – dietro il paravento dell’Oms – hanno riposto con il virus e la sua gestione “terroristica”.«La prima vittima dell’operazione-Covid – dice Magaldi, in web-streaming su YouTube – doveva essere proprio Trump, “colpevole” di aver fermato l’avanzata neo-imperiale della Cina. Nel mirino però c’era l’intero Occidente, dove si sperava di ridurre stabilmente la libertà con la scusa della sicurezza sanitaria». Magaldi però annuncia che ora il peggio è passato: «L’establishment Usa, non solo quello trumpiano, ha ormai compreso che non è possibile rassegnarsi all’egemonia politico-economica della Cina di Xi Jinping, dove non c’è ombra di democrazia». Un obiettivo storico: creare un “mostro” di efficienza economica che fungesse da modello per un Occidente non più democratico. «Di fronte allo “stop” imposto finalmente da Trump – accusa Magaldi – un minuto dopo è scattata la pandemia a Wuhan, sotto gli occhi dell’Oms: e ormai, nel potere americano, tutti si sono accorti di questa clamorosa sincronicità». Magaldi è ottimista: «Indietro non si tornerà, neppure nel caso dovesse finire alla Casa Bianca l’evanescente Joe Biden: non rivivremo più la situazione pre-Covid, in cui alla Cina si consentiva di invadere impunemente i nostri mercati grazie al poderoso sostegno delle banche statali di Pechino».Nella sua analisi, Magaldi ribadisce che Trump era (e resta) il primo obiettivo del “partito del Covid”: «Si erano illusi – dice – che bastasse abbattere l’attuale presidente, per ripristinare lo strapotere del network, anche occidentale e statunitense, che conta sulla Cina come modello alternativo al nostro, verso una società meno libera e dominata da una durissima disciplina sociale». Insiste il leader “rooseveltiano”: «Questi nemici di Trump, che sono massoni “neoaristocratici”, hanno già perso in partenza, anche qualora Trump dovesse mancare l’obiettivo della rielezione alla Casa Bianca». Certo, ci sarà comunque da ballare parecchio: «Prepariamoci a vivere un’estate ricca di colpi di scena, a livello mondiale ma anche europeo e italiano». A proprosito di Belpaese: a Giuseppe Conte, nelle prossime ore il Movimento Roosevelt presenterà il suo “ultimatum”, lungamente annunciato: in pratica, si tratta di una serie di misure salva-Italia, applicabili subito. Il pacchetto di proposte sarà presentato «non appena sarà terminata questa grottesca messinscena dell’ultimo vertice Ue, che servirà solo a propiziare “botte da orbi” per il governo italiano». Magaldi boccia Conte senza riserve: «E’ un personaggio stucchevole, un narcisista che vive di superficialità assoluta e tradisce la sua imbarazzante insipienza. Oggi poi in Europa fa una voce grossa che non ha, ed è seduto su un ramo che gli stanno già segando».In sintesi: «L’umiliazione non è di Conte ma dell’Italia, che ha un premier a cui non affiderei nemmeno un condominio». Scontato che torni a Roma con in mano un pugno di mosche, mentre nelle retrovie del grande potere – quello che conta – si segnala «l’altissimo profilo che sta tenendo Mario Draghi, candidato naturale alla successione a Mattarella». Non a caso, Papa Bergoglio ha appena inserito Draghi nella Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, prestigiosa consulta vaticana «retta da un prodiano», il bolognese Stefano Zamagni. Per Magaldi, il messaggio di Bergoglio è esplicito: «Promuovendo Draghi, il pontefice chiede a Romano Prodi – che brama il Quirinale, e per questo è pronto a “riabilitare” persino Berlusconi, sperando di procacciarsene i voti – di dimostrarsi all’altezza dell’ex presidente della Bce, che nell’ultimo anno è stato capace di ammettere i suoi gravi errori, mettendosi a disposizione di un progetto di rinascita nazionale, socio-economica e democratica». Lo storico liquidatore dell’Iri resta ben lontano dalle vette toccate da Draghi: «Romano Prodi è un massone conservatore e oligarchico, quindi un contro-iniziato di lusso», afferma il presidente “rooseveltiano”, Gran Maestro del Grande Oriente Democratico.«Come Draghi, l’ex leader dell’Ulivo ha partecipato alla disastrosa privatizzazione dell’Italia e all’instaurazione dell’ordoliberismo eurocratico fondato sull’austerity, ma a differenza di Draghi – che se n’è emendato, giungendo a cambiare a casacca impegnandosi con la massoneria progressista – Prodi non ha mostrato la capacità di ammettere i suoi errori: anzi, nel suo ambire al Quirinale (per la terza volta) dimostra solo di essere dominato dal desiderio, che in termini esoterici è la base della cattiva stregoneria». Per Magaldi, «Prodi resta un nemico di abbattere, a meno che non si arrenda e compia una conversione come quella di cui è stata capace Christine Lagarde, altra esponente della massoneria reazionaria passata al fronte progressista». Quanto a Conte, pesce piccolissimo nell’acquario del potere visto che «si limita a eseguire ordini», nelle prossime ore riceverà “l’ultimatum” del Movimento Roosevelt. «Conterrà indicazioni precise su come agire, in modo immediato, per evitare in autunno il disastro socio-economico della nazione. Qualora non ci ascoltasse – avverte Magaldi – Conte se la vedrà con la Milizia Rooseveltiana, nelle piazze: se gli “apprendisti stregoni” del Covid e la loro “polizia sanitaria” speravano di trasformare gli italiani in pecore ubbidienti, si accorgeranno di dover fare i conti con lupi gagliardi e determinati».Chi crede alla Befana può anche continuare a credere che Giuseppe Conte sia una specie di leader, anziché un cameriere destinato a sparire dalla scena senza lasciare traccia. Può pensarlo chi è così cieco da immaginare che sia un semplice incidente, l’enormità del lockdown mondiale: un cortocircuito epocale, senza precedenti nella storia, con ripercussioni mostruose sugli equilibri economici, sociali e geopolitici del pianeta. E sono ancora le famose fette di prosciutto davanti agli occhi a suggerire, ai non vedenti, l’idea che il premier olandese Mark Rutte, «massone reazionario», sia davvero frenato in qualche modo dalla collega e “sorella” Angela Merkel, che finge di mediare tra falchi e colombe con l’unico obiettivo di inguaiare l’Italia, cioè l’unico peso massimo europeo rimasto senza aiuti, con imprese alla canna del gas e un governo-fantasma, agli ordini delle direttive “cinesi” dell’Oms. Uno spettacolo penoso, dal finale scontato: il disastro economico. «Proprio per questo – chiosa Magaldi – c’è chi sogna una “seconda ondata” per poter imporre in autunno un nuovo lockdown». Ma ha fatto male i suoi conti, avverte il leader “rooseveltiano”: ogni mossa, in questa recita drammatica, avrà un prezzo carissimo. E in ogni caso, “lassù”, la decisione è presa: Trump o non Trump, il “partito del rigore” (ieri finanziario, oggi psico-sanitario) non riuscirà a trasformarci in neo-sudditi orwelliani.«Gli apprendisti stregoni che hanno provato a usare il Covid come cavallo di Troia per cinesizzare l’Occidente possono rassegnarsi: hanno già perso, anche nel caso in cui il loro nemico numero uno, Donald Trump, non dovesse essere rieletto». Se lo dice Gioele Magaldi, sostenitore di Trump nel 2016 – quando si trattava di fermare Hillary Clinton – c’è da drizzare le antenne: significa che l’establishment Usa, anche quello anti-trumpiano, ha varcato il Rubicone. Ovvero: indietro non si torna. Fine dell’accondiscendenza illimitata verso lo strapotere di Pechino, “drogato” dal decisivo aiuto (occidentale, americano) fornito a suo tempo dai massoni reazionari della “Three Eyes”, in primis il fuoriclasse Kissinger, decisi a fare della Cina post-maoista una specie di Frankenstein, un mix di turbo-capitalismo di Stato in mano a un regime dittatoriale. Modello perfetto, per gli amanti dell’horror: il paradiso degli oligarchi, ideale per rimpiazzare la democrazia occidentale. Fino a ieri, c’erano riusciti truccando le regole: la Cina fu ammessa nel Wto senza obblighi democratici, senza sindacati, senza leggi a tutela dell’ambiente e con clamorosi aiuti in termini di know-how industriale. Il piano: farne la manifattura del mondo, mettendo in crisi i lavoratori occidentali e i loro diritti. Dumping spietato: concorrenza sleale, grazie a prodotti a bassissimo costo. Poi è arrivato Trump, con il suo “America First”. Cocente, l’umiliazione inflitta Xi Jinping con l’imposizione dei dazi. Un minuto dopo, è esploso il coronavirus a Wuhan. La notizia? Ormai l’hanno capito tutti, a cosa doveva servire il Covid.
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Dopo le Sardine, le Zucchine: se il potere si tinge di verde
Dopo le Sardine verranno le Zucchine. La sinistra cerca un nuovo travestimento per le competizioni elettorali e si converte alla Verdura perché tira, dopo il Covid, Greta e l’amazzonico Bergoglio. Vede che in molte parti d’Europa, dalla Spagna alla Francia, dalla Germania al Nord Europa, il consenso perduto nelle competizioni coi populisti può essere arginato fabbricandosi un populismo eco-compatibile, manipolabile, suggestivo. E così il verde diventa l’ausiliario per le battaglie politico-elettorali, il vaccino populista per battere i populismi sovranisti. Lo hanno capito perfino i due Bismarck dell’alleanza grillo-sinistra: l’esimio Fico dei 5 Stelle, che come dice il suo cognome è un frutto della natura e sta appeso all’albero di Montecitorio; e l’odontotecnico che guida il Pd, Nicola Zingaretti, che per darsi un ruolo oltre quello di filo interdentale della coalizione, si è accorto che per curare gli ascessi politici funzionano bene gli impacchi di verdura cotta sulle gengive arrossate. Entrambi hanno così, in una corrispondenza di amorosi sensi che però apre anche una concorrenza di spietati sensi, esortato all’unisono a buttarsi sul Verde. Tra poco vedrete che anche Conte, in uno dei suoi travestimenti, si trasformerà nel Conte Verde, scriverà nel suo curriculum di avere un passato di verdura, indirà gli Stati Vegetali e farà spuntare dal taschino una foglia di lattuga per dimostrare la sua conversione verde. Intorno voleranno finocchi e cetrioli.I Verdi furono negli anni Settanta la risposta alla crisi energetica, al modello di sviluppo industrialista e all’inquinamento. Ci furono esperienze importanti intorno ai Grünen, sorti dal ’68, superando le ideologie storiciste. Da noi un verde che merita di essere ricordato fu Alex Langer, morto prematuramente; interessanti furono i movimenti comunitari verdi, come quello toscano con Giannozzo Pucci. Nell’ambientalismo diventato giardino pubblico della sinistra radicale e nell’ecologismo che è invece la ruota di scorta e la copertura verde del capitalismo global-progressista (magari in funzione antiTrump), la parola Natura scompare: natura evoca madre natura, il diritto naturale, l’ordine naturale, la gravidanza, la vita secondo natura. Meglio usare un’espressione neutra, paradossalmente asettica, plastificata, come Ambiente, che può funzionare in tutti i campi e in tutti i sensi. Così l’ecologia diventa un ramo fiorito dell’ideologia e la parola ambiente indica tutto, persino l’ambiente di lavoro, le fabbriche e ambienti in cui di natura non c’è neanche l’ombra. La forza dei movimenti verdi è invece nella loro autonomia dalle categorie politiche del Novecento, dalla storia ideologica e dallo schema progressista.Curioso osservare che il fenomeno dei Verdi attecchisce in modo particolare in Germania, dove il primo ministro ecologista fu durante il nazismo, si chiamava Walter Darrè (Hitler era un ecologista rispetto a Lenin, Stalin e Roosevelt…). In realtà l’ecologia è nata conservatrice, patriottica e rurale, mentre le sinistre erano per definizione industrialiste, urbane, internazionaliste e operaiste. Solo con i figli dei fiori si aprì una breccia naturalistica che germogliò poi tra i contestatori innamorati di società preindustriali (la Cina, il Vietnam, il Terzo Mondo). I primi ecologisti della modernità furono i nazionalconservatori noti come Wandervogel, Uccelli migratori. E in Italia le prime leggi a tutela dell’ambiente le fece il fascismo con Giuseppe Bottai. Alla fine degli anni Settanta sorsero movimenti ecologisti anche a destra, soprattutto in ambiente rautiano. Alcune tematiche dell’ambiente degradato incontrano naturaliter la sensibilità di un conservatore, di un patriota, di un cattolico e di un tradizionalista: il rispetto per il creato e per la natura, l’evocazione del mondo incontaminato e genuino di una volta, l’amore per le cose sane e antiche, i borghi d’origine e le tracce del passato, la predilezione per l’agricoltura, per i prodotti chilometro zero e per le attività legate alla natura, il legame con la terra e con le radici, il senso del limite e il realismo. E in negativo la critica alle metropoli invivibili, al progresso senza freni; il rifiuto di cibi manipolati o geneticamente manipolati, il rifiuto dell’inquinamento acustico, l’aria inquinata, il mare sporco, la terra desertificata.Si sa poi che i cittadini a maggior contatto con la natura (dagli agricoltori agli allevatori e ai cacciatori) hanno tradizionalmente espresso preferenze politiche non certo progressiste. Perché regalare la sensibilità verde al grillo-sinistrismo che la usa come foglia di fico e tisana per far digerire bocconi inquinanti della società euro-global? In passato si sono già rubati le querce, gli ulivi, i cespugli e le margherite; perché regalare loro l’intera natura? In difesa della natura, del paesaggio e dell’ambiente hanno scritto diversi autori tra la nuova destra e il pensiero conservatore, da Alain de Benoist a Roger Scruton. Un giovane editore, Francesco Giubilei, ha pubblicato ora un libro, “Conservare la natura”, cercando di riscoprire il legame tra pensiero conservatore e difesa della natura. Trent’anni fa scrissi sui «verdi sentieri dell’ecologia» in “Processo all’Occidente” (1990), sostenendo la necessità di un’alleanza trasversale e comunitaria alternativa alla società global che si profilava. Insomma, il tema verde è molto più serio e profondo di un travestimento elettorale o di una battaglia anti-Trump; e non appartiene certo a una cultura progressista e mao-capitalista. Ma va praticato con realismo, con amore della natura e delle sue leggi, in armonia e non in conflitto con la civiltà e con l’umanesimo. E ricordate: l’amore per la natura è incompatibile con chi vuole modificare geneticamente la natura umana.(Marcello Veneziani, “Per non fermarsi col rosso passano col verde”, da “La Verità” del 1° luglio 2020).Dopo le Sardine verranno le Zucchine. La sinistra cerca un nuovo travestimento per le competizioni elettorali e si converte alla Verdura perché tira, dopo il Covid, Greta e l’amazzonico Bergoglio. Vede che in molte parti d’Europa, dalla Spagna alla Francia, dalla Germania al Nord Europa, il consenso perduto nelle competizioni coi populisti può essere arginato fabbricandosi un populismo eco-compatibile, manipolabile, suggestivo. E così il verde diventa l’ausiliario per le battaglie politico-elettorali, il vaccino populista per battere i populismi sovranisti. Lo hanno capito perfino i due Bismarck dell’alleanza grillo-sinistra: l’esimio Fico dei 5 Stelle, che come dice il suo cognome è un frutto della natura e sta appeso all’albero di Montecitorio; e l’odontotecnico che guida il Pd, Nicola Zingaretti, che per darsi un ruolo oltre quello di filo interdentale della coalizione, si è accorto che per curare gli ascessi politici funzionano bene gli impacchi di verdura cotta sulle gengive arrossate. Entrambi hanno così, in una corrispondenza di amorosi sensi che però apre anche una concorrenza di spietati sensi, esortato all’unisono a buttarsi sul Verde. Tra poco vedrete che anche Conte, in uno dei suoi travestimenti, si trasformerà nel Conte Verde, scriverà nel suo curriculum di avere un passato di verdura, indirà gli Stati Vegetali e farà spuntare dal taschino una foglia di lattuga per dimostrare la sua conversione verde. Intorno voleranno finocchi e cetrioli.
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Prodi al Quirinale con l’aiuto di Grillo, Pd, Cina (e Sardine)
Dietro i vaffa di Grillo c’è una strategia? Sembrerebbe di sì, scrive Federico Ferraù sul “Sussidiario”: «L’Elevato vuole rinsaldare l’alleanza col Pd, renderla organica, perfino con un nuovo contratto di governo». Un accordo che andrebbe ben oltre le regionali in Emilia e Calabria, per avere come orizzonte l’elezione del successore di Mattarella. E non solo. Guardano al “Quirinale 2022” anche le ormai numerose scelte filo-cinesi dei 5 Stelle. Quasi ogni mossa dei pentastellati «sembra tutelare gli interessi della Cina in Italia» dice a Ferraù, che l’ha intervistato, il giornalista Mauro Suttora, già collaboratore di “Newsweek” e “New York Observer”, oggi nella scuderia di “Libero”. Ma attenzione; «Se il Pd perde in Emilia-Romagna, il governo cade», dunque niente è già scritto. La tesi di Suttora: Grillo vuole Prodi al Quirinale e conta di riuscire nell’impresa grazie alla Cina, cui l’ex leader dell’Ulivo è legatissimo. Il padre-padrone dei 5 Stelle, premette Suttora, ha capito che tenere in piedi questo governo e rimandare le elezioni è l’unico modo per non ridurre i 5 Stelle ai minimi termini. Poi naturalmente ci sono i piccoli tatticismi di giornata: «I grillini devono far vedere che sono sempre in tensione permanente con il Pd, perché se appaiono remissivi perdono ancora più voti». Fattibile, l’accordo M5S-Pd su Emilia e Calabria? «Sì, perché in Calabria il Pd non ha niente da perdere nel sostenere il M5S».Il voto su Rousseau che ha sconfessato Di Maio? Un incidente: «Hanno indetto il voto pensando di legittimare una decisione già presa, quella di non presentarsi alle regionali, come chiedeva Di Maio», e invece «gli attivisti hanno decretato l’opposto». Qual è stato l’errore di Casaleggio e Di Maio? «Hanno sottovalutato il fatto che nel M5S sono rimasti solo quelli che non vedono l’ora di agguantare uno stipendio», dice Suttora. «E così tra gli attivisti prevale la volontà di presentarsi, anche sapendo di arrivare molto lontani dalle percentuali di un anno fa». Rousseau non è trasparente, osserva Ferraù: è la piattaforma di una società privata. Il sospetto sull’imparzialità resta, ma stavolta Suttora ritiene che il voto sia stato onesto. Tuttavia, aggiunge, questo non basta a fare del Movimento 5 Stelle un partito normale, «perché non si è mai visto che un capo politico rimanga al suo posto dopo aver perduto la metà dei voti». Di Maio, peraltro, «se ne sarebbe già dovuto andare dopo le europee». E invece è rimasto, sottolinea Ferraù, e l’ha fatto «con la benedizione di Grillo e il sì di Casaleggio».Per Suttora, però, la cosa più grave è la recentissima cena di Grillo con l’ambasciatore cinese Li Junhua e la sua successiva permanenza nell’ambasciata di Pechino (per due ore e mezza) senza che si sappia nulla di quello che si sono detti: «Pensiamo a cosa sarebbe successo se Salvini si fosse intrattenuto a cena con l’ambasciatore russo a Roma». Ferraù prova a mettere insieme il ruolo dei 5 Stelle nella firma del memorandum con la Cina, la presenza di Di Maio a Shangai per il Ciie e la sua assenza al G20 dei ministri degli esteri in Giappone, ma anche il ritiro dello scudo penale sull’Ilva e l’assordante silenzio sulla rivolta e la repressione a Hong Kong. Domanda: i 5 Stelle sono stupidi o furbi? «Anche Macron fa gli affari con la Cina, ma da posizioni di forza e tutelando i suoi interessi», risponde Suttora. I grillini, invece, «sembrano fare l’opposto: tutelano gli interessi strategici della Cina in Italia». Qualcuno, in tutto questo, intravede un disegno prodiano. «Prodi è da tempo in rapporti con la Cina e potrebbe essere un buon candidato al Colle di M5S e Pd», conferma Suttora. «Si tratta però di un disegno che ha bisogno di due anni per realizzarsi», aggiunge: «E due anni, in politica sono un’era geologica».Intanto, resta da vedere cosa succede a Bologna il 26 gennaio. «Se il Pd perde, il governo cade», pronostica Suttora. Addio Conte-bis, a maggior ragione se il partito di Zingaretti dovesse perdere con anche il supporto dei 5 Stelle: «Sarebbe una bocciatura dell’intera coalizione di governo». Di Maio dice che i grillini porterebbero via voti alla Lega? Improbabile: ormai, al nord il Movimento 5 Stelle è sotto il 10%, ragiona Suttora. In Emilia, «un accordo di desistenza aiuterebbe il Pd», ma senza l’accordo il M5S finirebbe per «togliere a Bonaccini quei 4 punti che potrebbero essere decisivi in una sfida combattuta sul filo di lana». E le Sardine, intanto? Sono più grilline o più piddine? «Sono sceme», taglia corto Suttora. «E in questo superano anche i grillini, che almeno nel 2008 raccoglievano le firme per tre referendum sull’editoria». Chiosa il giornalista: «Quando ho letto il manifesto “Benvenuti in mare aperto” mi è sembrato una via di mezzo tra i pensieri new age di Coelho e i propositi degli alcolisti anonimi. Nondimeno lo scopo è chiaro: andare contro Salvini».Dietro i vaffa di Grillo c’è una strategia? Sembrerebbe di sì, scrive Federico Ferraù sul “Sussidiario”: «L’Elevato vuole rinsaldare l’alleanza col Pd, renderla organica, perfino con un nuovo contratto di governo». Un accordo che andrebbe ben oltre le regionali in Emilia e Calabria, per avere come orizzonte l’elezione del successore di Mattarella. E non solo. Guardano al “Quirinale 2022” anche le ormai numerose scelte filo-cinesi dei 5 Stelle. Quasi ogni mossa dei pentastellati «sembra tutelare gli interessi della Cina in Italia» dice a Ferraù, che l’ha intervistato, il giornalista Mauro Suttora, già collaboratore di “Newsweek” e “New York Observer”, oggi nella scuderia di “Libero”. Ma attenzione; «Se il Pd perde in Emilia-Romagna, il governo cade», dunque niente è già scritto. La tesi di Suttora: Grillo vuole Prodi al Quirinale e conta di riuscire nell’impresa grazie alla Cina, cui l’ex leader dell’Ulivo è legatissimo. Il padre-padrone dei 5 Stelle, premette Suttora, ha capito che tenere in piedi questo governo e rimandare le elezioni è l’unico modo per non ridurre i 5 Stelle ai minimi termini. Poi naturalmente ci sono i piccoli tatticismi di giornata: «I grillini devono far vedere che sono sempre in tensione permanente con il Pd, perché se appaiono remissivi perdono ancora più voti». Fattibile, l’accordo M5S-Pd su Emilia e Calabria? «Sì, perché in Calabria il Pd non ha niente da perdere nel sostenere il M5S».
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La Gruber a Salvini: chi è intelligente la verità non la dice
«Nessun politico intelligente direbbe mai quello che pensa davvero: sarebbe un’ingenuità imperdonabile». A dirlo non è Giulio Andreotti, ma Lilli Gruber, che rinfaccia a Matteo Salvini la sua sincerità. Lo scontro va in onda a “Otto e mezzo”, su La7. Bersaglio, il capo della Lega. In studio, Massimo Franco del “Corriere della Sera” concede all’ex ministro dell’interno l’onore delle armi: almeno, ha costretto l’Europa ad affrontare in modo collegiale il problema dei migranti che sbarcano in Italia. La conduttrice – Dietlinde Gruber (Bolzano, classe 1957) – usa invece la clava: se rivendica la sincerità come virtù, Salvini è politicamente un cretino. La Lilli nazionale lo dice dall’alto della sua carriera: mezzobusto del Tg2 craxiano, poi parlamentare europea nel 2004 con l’Ulivo di Prodi, quindi mattatrice dell’intrattenimento giornalistico di Urbano Cairo e ospite fissa del Gruppo Bilderberg. Machiavelli docet: “golpe e lione”, ha da essere il principe – non allocco. E se invece il presunto ingenuo piacesse, nel 2019? Salvini ereditò la Lega di Bossi al 4%. In sei anni, l’ha portata al 34%: primo partito italiano alle europee, con consensi – stando ai sondaggi – che tendono al 40%. Questo, semmai, è veramente imperdonabile, per i fan del governicchio-horror abborracciato da Grillo e Renzi per evitare le elezioni anticipate e restituire l’Italia ai padroncini franco-tedeschi dell’Unione Europea.Salvini è l’unico politico che abbia sfidato Bruxelles, almeno a parole: sui migranti, le tasse, le pensioni. Un vero contestatore del rigore Ue. Andava espulso a tutti i costi dal governo, con la manovra di palazzo del Conte-bis varata dai due azionisti del nuovo carrozzone italiano, l’ex comico genovese e l’ex rottamatore fiorentino. La verità è sotto gli occhi di tutti, anche se Gruber e soci evitano di ricordarla: a Salvini, che è riuscito a pensionare 200.000 anziani con “Quota 100”, aggirando i vincoli-capestro dell’odiosa legge Fornero, l’establishment non ha perdonato l’intransigenza contro gli sbarchi facili, l’ostilità verso l’austerity di Bruxelles (deficit negato all’Italia) e soprattutto il progetto di riforma fiscale (Flat Tax) per abbattere la tassazione, far respirare le aziende e creare lavoro, risollevando il Pil. L’oscuro Giovanni Tria, piazzato al ministero dell’economia al posto di Paolo Savona, ha sistematicamente frenato Salvini, d’intesa con Conte. Il leader della Lega ha staccato la spina dal governo gialloverde quando ha capito che Conte e Tria l’avrebbero costretto a presentare agli elettori un risultato deludente, con la manovra d’autunno ancora una volta risicata e inefficace, attorcigliata sui bizantinismi dell’Iva e di altre pietose gabelle più o meno occulte. E allora vedetevela voi, ha concluso Salvini togliendo il disturbo (chiamatelo scemo).Ma non l’aveva capito, nei mesi precedenti, con che razza di imbroglioni s’era messo, il capo della Lega? «Mi fidavo di Di Maio e di Conte», ha detto alla Gruber. Apriti cielo: «Lei allora non sa valutare le persone che ha di fronte», le ha risposto – ruggendo – la conduttrice di “Otto e mezzo”. Più che giornalismo, pugilato. Puro linciaggio, in cui vale tutto: persino l’irrisione della festa leghista del Papeete. Per ragioni «di forma e stile», un ministro dell’interno non dovrebbe mostrarsi tra gli ombrelloni, per giunta in costume. «Mi scusi – si stupisce Salvini – ma lei come ci va, in spiaggia?». Lilli: «In costume, ma non quando sono ministro». Accipicchia. «Guardi», ribatte Salvini: «Quando tornerò ministro, e accadrà presto, le garantisco che tornerò in spiaggia in costume: si rassegni». Finita? Nemmeno per idea. La Gruber, scatenata, estrae dal cilindro la bassezza più clamorosa: «Comunque, dato che è finita l’estate, è contento che non dovrà più girare in mutande per le strade? Magari senza pancia… sa, per gli occhi delle donne». Salvini, sbigottito, se la ride: cos’altro replicare? E’ semmai la Gruber a restare senza parole, di fronte all’analisi tattica di Salvini. Aveva sottovalutato Conte? Certo, sì: «Ho sottovalutato la vanagloria, la voglia di poltrona di Conte. Quante volte aveva detto che, se il governo fosse finito, sarebbe tornato a fare l’avvocato?». Il governo è finito, ma lui è ancora lì: ha solo cambiato programma e compagni di viaggio.Velenosamente, la conduttrice è riuscita a dire a Salvini: «E’ stato lei a chiedere di essere ospitato, stasera». Vendetta legittima: mesi fa, in un comizio, il leghista s’era divertito a recitare il ruolo del martire, fingendo sofferenza per la serata che lo attendeva nello studio di “Otto e mezzo” («mi tocca andare dalla Gruber: simpatia, portami via»). Perché Salvini insiste per tornare da Lilli, dopo due mesi di assenza? Numeri: la signora del centrosinistra televisivo è la regina incontrastanata del “prime time”, con oltre 2 milioni di telespettatori a sera (e uno “share” che supera l’8%). E’ al pubblico della Gruber, che Salvini vuole continuare a parlare, specie ora che è passato dall’onnipresenza mediatica al limbo punitivo riservato a chi sta all’opposizione. Un ostracismo tanto più necessario, per tentare di proteggere il governo-fantasma del debolissimo professor-avvocato Conte, sostenuto da Renzi e Grillo, puntellato da Bruxelles (Gualteri, Gentiloni, Sassoli) e guardato a vista da Mattarella e da Bankitalia. Quando a far paura erano i grillini, toccò a loro l’esilio televisivo (peraltro, da essi stessi voluto e rivendicato per anni). Ma quando poi Di Maio e Di Battista divennero ospiti fissi di Lilli Gruber, tutti capirono che qualcosa era cambiato: almeno una parte dell’establishment puntava sui 5 Stelle come specchietti per allodole, nella speranza (come poi è stato) che “riportassero a casa” il bottino elettorale populista, accettando di diventare establishment a loro volta, o almeno docili esecutori.Con Salvini è diverso, sembrerebbe, a giudicare dal livore – non esattamente “british” – dell’anomala conduttrice di “Otto e mezzo”, cavallo di razza del post-giornalismo italiano che alle notizie preferisce lo spettacolo, il derby, la rissa. Specialità in cui Salvini resta un fuoriclasse, con una differenza: non fa il giornalista, ma il politico. Come in tribunale l’avvocato, rappresenta (legittimamente) una parte, la sua. Eppure – almeno, il 1° ottobre 2019, dalla Gruber – rivendica la sincerità come valore, dichiarando di essere pronto a perdonarsi eventualmente anche l’ingenuità – meglio essere onesti, piuttosto che bugiardi. «Io almeno sono fatto così», dice Salvini. E la cosa manda in bestia la sua antagonista, che in teoria (essendo una giornalista) dovrebbe avere a cuore proprio la verità. Per Lilli Gruber, invece, a quanto pare la sincerità politica è inammissibile: è indice di dabbenaggine, addirittura di imbecillità. Ma davvero? Ve lo vedete, Gandhi, negare di voler sfrattare gli inglesi dall’India? E Yitzhak Rabin si sarebbe mai espresso contro il diritto dei palestinesi di avere un proprio Stato? Ve lo figurate Nelson Mandela che giudica con indulgenza l’apartheid? Al netto dei tatticismi di prammatica, nei momenti che contano vince sempre la chiarezza. Certo non è il caso di scomodare grandi nomi, se in Italia il menù di giornata propone il match “Gruber contro Salvini”. Ma, sia pure in piccolo, il tema è centrale. Sicuri che il mitico italiano medio non la apprezzi, un po’ di sincerità, dopo tante frottole dispensate a reti unificate? Non sarebbe un bel passo in avanti se, a parte i politici, fossero almeno i giornalisti, ogni tanto, a dire almeno un po’ di verità?«Nessun politico intelligente direbbe mai quello che pensa davvero: sarebbe un’ingenuità imperdonabile». A dirlo non è Giulio Andreotti, ma Lilli Gruber, che rinfaccia a Matteo Salvini la sua sincerità. Lo scontro va in onda a “Otto e mezzo”, su La7. Bersaglio, il capo della Lega. In studio, Massimo Franco del “Corriere della Sera” concede all’ex ministro dell’interno l’onore delle armi: almeno, ha costretto l’Europa ad affrontare in modo collegiale il problema dei migranti che sbarcano in Italia. La conduttrice – Dietlinde Gruber (Bolzano, classe 1957) – usa invece la clava: se rivendica la sincerità come virtù, Salvini è politicamente un cretino. La Lilli nazionale lo dice dall’alto della sua carriera: mezzobusto del Tg2 craxiano, poi parlamentare europea nel 2004 con l’Ulivo di Prodi, quindi mattatrice dell’intrattenimento giornalistico di Urbano Cairo e ospite fissa del Gruppo Bilderberg. Machiavelli docet: “golpe e lione”, ha da essere il principe – non allocco. E se invece il presunto ingenuo piacesse, nel 2019? Salvini ereditò la Lega di Bossi al 4%. In sei anni, l’ha portata al 34%: primo partito italiano alle europee, con consensi – stando ai sondaggi – che tendono al 40%. Questo, semmai, è veramente imperdonabile, per i fan del governicchio-horror abborracciato da Grillo e Renzi per evitare le elezioni anticipate e restituire l’Italia ai padroncini franco-tedeschi dell’Unione Europea.
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Decrescita senza giustizia e ’sviluppo’ mortale per la Terra
Il male è in noi, si potrebbe pensare, nel momento in cui accettiamo come un fenomeno fisiologico il fatto che i giovani africani scappino dall’Africa, anziché restare nella loro terra ricchissima e vergognosamente saccheggiata. Accoglierli o respingerli, poi, è decisivo solo per l’umanità migrante, per i singoli, ma non cambia di una virgola il problema (ne cambia solo le conseguenze a casa nostra, non le cause a casa loro, dove di questo passo le cose andranno di male in peggio). C’è un oceano in movimento – domani saranno mezzo miliardo di persone ad abbandonare l’emisfero Sud, secondo l’Onu – ma l’Italia, avamposto mediterraneo dell’Europa, si lascia incantare dalle baruffe tra le cosiddette Ong e un ministro dell’interno. Il Sud del mondo starebbe scappando dall’emergenza planetaria del cambiamento climatico, e l’Occidente dà credito a una ragazzina svedese che racconta che l’impazzimento del clima sarebbe endogeno: come se non sapesse che ai tempi dell’Impero Romano la temperatura media era più alta, e che nel medioevo – dopo la mini-glaciazione che fece gelare la Senna e il Tamigi – si coltivava l’ulivo in tutto il Nord Italia, data la straordinaria mitezza delle temperature in un mondo ancora senza industria, in cui non esistevano neppure i treni a vapore.L’emergenza climatica è una catastrofe, ma perché ostinarsi a ripetere che sarebbe indotta dall’umanità? Greta e soci, in fondo, distraggono il pubblico dall’altra calamità – quella sì, interamente terrestre: la devastazione dell’ecosistema, sfruttato in modo pericoloso e inquinato a morte dal modello economico della crescita cieca, della quantità-spazzatura misurata dal Pil. Nulla di tutto ciò rientra, neppure per sbaglio, nell’ordinaria narrazione di un travaglio politico-parlamentare come quello italiano, dove uno solo degli attori in campo, Matteo Salvini, osa ribellarsi all’ingiustizia distributiva adottata – per decreto feudale – dalla sedicente Unione Europea, apparato burocratico di tipo carolingio, più rigido e stolido dei marmorei ministeri sovietici del tempo che fu. Lo stesso Salvini, tuttavia, maneggia soltanto vocaboli logori come “sviluppo”, che suonavano intelligenti ai tempi di Enrico Mattei, scomparso nel 1962. Ha buon gioco, Salvini, nel citare in modo irridente la “decrescita felice” teorizzata da Maurizio Pallante, un tempo ospite degli show di Beppe Grillo quando l’ex comico batteva le piazze italiane per costruire, all’insaputa del pubblico, la base di consenso del futuro Movimento 5 Stelle. Nella teoria della decrescita, la catastrofe non ha padri: tutti colpevoli, quindi nessuno.La ricetta: decrescere, con tagli orizzontali, per ridurre i consumi e quindi l’inqinamento. Se questo comporta spaventose diseguaglianze tra ricchi e poveri, che diverrebbero gli uni un po’ meno ricchi e gli altri miserabili, pazienza. Se poi l’unica decrescita tuttora praticata è imposta dal regime Ue calpestando qualsiasi dinamica democratica, ai teorici decrescisti pare non interessi: la giustizia sociale non sembra rientrare fra le preoccupazioni degli ideologi della decrescita, così come lo spaventoso problema dell’impatto ambientale non figura nell’agenda dei pochissimi politici che, come Salvini, cercano giustamente di risollevare l’economia nazionale. Lo stesso Pallante, per contro, pur indicando la crescita del Pil come il nostro maggiore nemico, confida in una possibile soluzione tecnologica, convinto che l’ingegno umano, come già in passato, possa produrre tecnologie a impatto zero. Nulla, comunque, che compaia nell’agenda politica dei partiti italiani. Sfilano piccoli politici, palesemente schiacciati da poteri molto più forti: poteri economici, che non risponderanno mai dei danni che dovessero provocare le loro attività. Morta la politica, restano Greta e le Ong. L’Africa può attendere, insieme alla rigenerazione dell’ecosistema terrestre. Nel frattempo si corre a tutto gas abbattendo la foresta amazzonica e conquistando le rotte artiche della Groenlandia. Destra e sinistra schiamazzano, là in basso, mentre il nostro aereo continua a volare senza pilota.Il male è in noi, si potrebbe pensare, nel momento in cui accettiamo come un fenomeno fisiologico il fatto che i giovani africani scappino dall’Africa, anziché restare nella loro terra ricchissima e vergognosamente saccheggiata. Accoglierli o respingerli, poi, è decisivo solo per l’umanità migrante, per i singoli, ma non cambia di una virgola il problema (ne cambia solo le conseguenze a casa nostra, non le cause a casa loro, dove di questo passo le cose andranno di male in peggio). C’è un oceano in movimento – domani saranno mezzo miliardo di persone ad abbandonare l’emisfero Sud, secondo l’Onu – ma l’Italia, avamposto mediterraneo dell’Europa, si lascia incantare dalle baruffe tra le cosiddette Ong e un ministro dell’interno. Il Sud del mondo starebbe scappando dall’emergenza planetaria del cambiamento climatico, e l’Occidente dà credito a una ragazzina svedese che racconta che l’impazzimento del clima sarebbe endogeno: come se non sapesse che ai tempi dell’Impero Romano la temperatura media era più alta, e che nel medioevo – dopo la mini-glaciazione che fece gelare la Senna e il Tamigi – si coltivava l’ulivo in tutto il Nord Italia, data la straordinaria mitezza delle temperature in un mondo ancora senza industria, in cui non esistevano neppure i treni a vapore.
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Salvini ringrazia il suo maggiore alleato involontario: Renzi
Un governicchio solo in chiave anti-Lega? Così i renziani aiutano il ritorno di Salvini al governo, sostiene Giuseppe Pennisi in un’analisi sul “Sussidiario”. Corsi e ricorsi storici: nel 1996 venne formato L’Ulivo e nel 2006 l’Unione, sempre contro il percepito pericolo che la coalizione di centrodestra guidata da Berlusconi preludesse a una “svolta autoritaria”. Nel giro di cinque anni, ricorda Pennisi, l’Ulivo dovette formare ben quattro differenti governi a causa delle litigiosità interne, e l’Unione si liquefece appena due anni dopo essersi insediata a Palazzo Chigi. E oggi? Il Pd «è un coacervo di partiti con differenti visioni del mondo», Liberi e Uguali e Sinistra e Libertà «sono coesi ma piccoli». In più, il tentativo di ricostruire un assetto politico bipolare, con un centrosinistra più e meno unito, «mal si concilia con +Europa, per anni di casa nel centrodestra, e soprattutto con il Movimento 5 Stelle, che specificatamente si considera, a ragione, come espressione di una politica in cui il bipolarismo è finito e i temi sono differenti da quelli del passato». In questo quadro «è azzardato pensare a una coalizione di lunga durata, anche se il potere è un collante tale che il M5S sta rinunciando a uno dei cardini del suo Statuto (il limite di due mandati per le cariche elettive)».E qui entra in ballo, prepotentemente, l’economia: si sta avvicinando una recessione e frena anche la Germania, essenziale per l’export del “made in Italy”. Il 15 agosto è stato diramato un rapporto allarmante del Wto: «I nuvoloni sono tanti che il temporale è vicino», scrive Pennisi. E in questa situazione, «i volenterosi collaboratori» di Matteo Renzi stanno facendo sì che «l’edizione rinnovata (e ristretta) dell’Ulivo e dell’Unione si trovino, con i parlamentari M5S che paiono temere le elezioni come la peste bubbonica, a gestire la legge di bilancio per l’anno prossimo». Per quanto possano essere “simpatici” ad alcuni alti dirigenti della Commissione Europea, «dovranno trovare l’equilibrio tra stabilizzazione di finanza pubblica e risposta alla recessione». Operazione possibile solo dolorosamente, cioè «con una profonda ristrutturazione della spesa», il cui disegno però «non è ancora iniziato». Se l’operazione-tagli scattasse, «toccherebbe mostri sacri e clientes tanto del nuovo Ulivo/Unione, quanto del M5S», fino a «causare profonde fratture». Secondo Pennisi, è verosimile che, per evitare di essere commissariato dalla Bce, dal Fmi e dalla Commissione Ue, l’eventuale governo sponsorizzato da Renzi «sia costretto ad aumenti delle imposte indirette (Iva) e dal posporre investimenti».Di fatto non si combatterebbe la recessione, ma si intonerebbe un coretto sul tema “siamo arrivati troppo tardi”: «Proprio ciò che gli italiani non amano ascoltare». Si aggraverebbero le ineguaglianze. Da Bankitalia, Emanuele Ciani e Roberto Torrini confermano: si stanno acuendo le diseguaglianze «all’interno di aree, e non tra aree», e a livello nazionale «il differenziale si ridurrebbe del 15% se la distribuzione delle ore di lavoro per famiglia nel Sud fosse simile a quella del Centro-Nord». Quindi, osserva Pennisi, «misure come il reddito di cittadinanza, tanto care al M5S ma poco apprezzate dal Pd, se non valutate e ritarate potrebbero, nel contesto di una recessione, aggravare la diseguaglianze». La pressione anche europea è tale, comunque, che il “governo Renzi” «riuscirebbe a togliere alcune castagne dal fuoco al futuro governo di Matteo Salvini», che verrebbe «aiutato anche da una linea maggiormente “buonista” nei confronti dei migranti che sono (a torto o ragione) anatema per il suo elettorato». Quindi, conclude Pennisi, «chi crede di lavorare per un Matteo, lavora sostanzialmente per l’altro. O fa il doppio gioco».Un governicchio solo in chiave anti-Lega? Così i renziani aiutano il ritorno di Salvini al governo, sostiene Giuseppe Pennisi in un’analisi sul “Sussidiario”. Corsi e ricorsi storici: nel 1996 venne formato L’Ulivo e nel 2006 l’Unione, sempre contro il percepito pericolo che la coalizione di centrodestra guidata da Berlusconi preludesse a una “svolta autoritaria”. Nel giro di cinque anni, ricorda Pennisi, l’Ulivo dovette formare ben quattro differenti governi a causa delle litigiosità interne, e l’Unione si liquefece appena due anni dopo essersi insediata a Palazzo Chigi. E oggi? Il Pd «è un coacervo di partiti con differenti visioni del mondo», Liberi e Uguali e Sinistra e Libertà «sono coesi ma piccoli». In più, il tentativo di ricostruire un assetto politico bipolare, con un centrosinistra più e meno unito, «mal si concilia con +Europa, per anni di casa nel centrodestra, e soprattutto con il Movimento 5 Stelle, che specificatamente si considera, a ragione, come espressione di una politica in cui il bipolarismo è finito e i temi sono differenti da quelli del passato». In questo quadro «è azzardato pensare a una coalizione di lunga durata, anche se il potere è un collante tale che il M5S sta rinunciando a uno dei cardini del suo Statuto (il limite di due mandati per le cariche elettive)».
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L’inverno nucleare che attende il Pd, con o senza Renzi
«Pensano di essersi liberati di me, ma hanno sbagliato» (Matteo Renzi). Come ha dimostrato chiaramente la reazione del Pd alla strage del ponte Morandi, dopo Renzi è ancora Renzi a dettare la linea. E come al solito punta dritta contro un muro. Se il Pd vuole scampare alla meritatissima estinzione, deve liberarsi immediatamente del Bomba. Speriamo che non lo faccia. Il Pd non è migliore di Renzi. Il Cazzaro non è mai stato, come molti raccontavano, un usurpatore, una metastasi berlusconiana. Renzi è un frutto dell’Ulivo. È la logica conseguenza della deriva strutturale che ha portato il Pci, da sempre verticista, opportunista, settario e securitario, a tradire tutti gli ideali e le speranze dei lavoratori e dei movimenti, inseguire il potere lungo la Terza Via globalista, fondersi coi resti della Democrazia Cristiana – un destino manifesto fin dal Compromesso Storico – e diventare il principale garante dell’establishment, e del capitale.L’Ulivo di Prodi ha svenduto agli squali le aziende di Stato, e col pacchetto Treu ha legalizzato il nuovo schiavismo del precariato. La “ditta” di Bersani, coi governi tecnici, ha smantellato lo Stato Sociale, e lo Statuto dei Lavoratori. Renzi ha finito il lavoro col Jobs Act e la Buona Scuola, mentre cercava di rottamare anche la Costituzione. “Liberi e Ipocriti”, in fuga da Renzi, si sono scelti come padri fondatori Bersani, e il boia di Belgrado. Il “sobrio” Gentiloni ha controfirmato la dottrina Minniti che finanzia i campi di concentramento libici. Tutto il cosiddetto centrosinistra condivide questa marcescenza, di cui il renzismo è solo lo stadio terminale. In Renzi però si vede più che in chiunque altro. Renzi è uno sprezzante, grassoccio principino che ancora si rifiuta di vedere quanta rabbia giustificata susciti il semplice apparire del suo stolido faccione in tutti quelli che la sua classe parassitaria ha depredato.Renzi è la pingue, querula personificazione stessa dell’arroganza del potere ereditario; e il cosiddetto centrosinistra, per avere qualche possibilità di sopravvivere al meritatissimo inverno nucleare che l’aspetta, dovrebbe liberarsi immediatamente di lui e dell’Esercito delle Dodici Sceme, le sue fedelissime che ancora infestano talk e social come uniche portavoce. Speriamo che non lo faccia. Renzi si ripete «il futuro prima o poi torna», o qualche altra stronzata motivazionale da meme di Facebook. Sogna di fondare un partito tutto suo. Che prenderebbe meno voti della Lorenzin. Pensa: «Sull’onda del prossimo spread, tornerà il mio momento». Si sbaglia. Non tornerà, come non è tornato quello del suo Yoda, Rutelli. O quello di Claudio Martelli. Era giovane, rampante e in camicia anche lui. Il Bomba è scoppiato. Per sopravvivere al fallout, il Pci/Pd tenterà l’ennesima mutazione. Facciamo che non gli riesca.(Alessandra Daniele, “Cronache del dopo Bomba”, da “Carmilla” del 23 settembre 2018).«Pensano di essersi liberati di me, ma hanno sbagliato» (Matteo Renzi). Come ha dimostrato chiaramente la reazione del Pd alla strage del ponte Morandi, dopo Renzi è ancora Renzi a dettare la linea. E come al solito punta dritta contro un muro. Se il Pd vuole scampare alla meritatissima estinzione, deve liberarsi immediatamente del Bomba. Speriamo che non lo faccia. Il Pd non è migliore di Renzi. Il Cazzaro non è mai stato, come molti raccontavano, un usurpatore, una metastasi berlusconiana. Renzi è un frutto dell’Ulivo. È la logica conseguenza della deriva strutturale che ha portato il Pci, da sempre verticista, opportunista, settario e securitario, a tradire tutti gli ideali e le speranze dei lavoratori e dei movimenti, inseguire il potere lungo la Terza Via globalista, fondersi coi resti della Democrazia Cristiana – un destino manifesto fin dal Compromesso Storico – e diventare il principale garante dell’establishment, e del capitale.
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Finta rivoluzione, voluta dal potere che ha sdoganato Silvio
«Chiedetevi come mai, dopo anni di interdizione assoluta, Berlusconi viene improvvisamente riabilitato, un minuto dopo aver concesso a Salvini il via libera per fare il governo con Di Maio». Traduzione: è proprio l’establishment a volere quel governo, nonostante le apparenze. Se le cose stanno così, è praticamente impossibile aspettarsi qualcosa di veramente buono, per gli italiani. Analisi firmata da Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Io alle coincidenze non credo affatto», premette Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” ha sviluppato il tema della “sovragestione” dei grandi poteri finanziari, spesso massonici, che pilotano le vicende politiche nazionali. Ma se il presunto “crimine” politico sarebbe la manovra dietro le quinte – il premio al Cavaliere, nuovamente candidabile – per aver consentito il varo dell’esecutivo retto da Salvini e Di Maio, quale sarebbe l’altrettanto ipotetico “movente”? Semplice, per Carpeoro: «Prendere tempo, dando modo al Pd di riprendersi e tornare a essere il vero “braccio armato” di questa inguardabile Unione Europea», cioè del regime fondato sul rigore e diretto dall’élite finanziaria.Carpeoro non crede alle promesse “sovraniste” del futuro governo “gialloverde”, rispetto al quale Mattarella ha già calato pesantissime ipoteche: guai a uscire dai binari (deprimenti) di Bruxelles, ha avvertito il capo dello Stato, autorevole rappresentante italiano del club eurocratico. Il “contratto” tra Salvini e Di Maio prevede, almeno sulla carta, i punti principali del programma elettorale della Lega e quello dei 5 Stelle: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero (cioè dei tagli alle pensioni). «Onestamente: per attuare queste scelte servono davvero tanti soldi, troppi, e non di capisce dove li possano trovare, Salvini e Di Maio». Risultato: «Probabilmente non riusciranno a combinare niente di sostanziale, magari annunceranno misure importanti ma poi scopriranno di non poterle applicare davvero». Nel frattempo, però, l’Italia avrà un governo pienamente operativo, in grado per esempio di varare il Def, il documento di programmazione economica e finanziaria. «Sarà un governo per prendere tempo», insiste Carpeoro: un esecutivo che nasce per consentire al paese di andare comunque avanti, e soprattutto per permettere al Pd di riprendersi dalla déblacle elettorale, tornando ad essere il garante affidabile dell’austerity europea da infliggere all’Italia.Carpeoro interpreta come un evento non casuale (e addirittura sinistro) la sconcertante sincronicità che lega il “perdono” del Cavaliere all’ok dato a Salvini per l’alleanza tattica con Di Maio, ennesimo indizio della “giustizia a orologeria” che, per Carpeoro, resta una delle grandi piaghe politiche del nostro paese. Un passaggio che dimostra, una volta di più, il potere reale della “sovragestione”, ben al di sopra della “volontà degli elettori”: costretto a mettere in pista Di Maio e Salvini, turandosi il naso, l’establishment comunque sistemerà nei posti giusti i suoi “frenatori” (cominciando dal Quirinale, che demonizza la sovranità chiamandola “sovranismo”), preparandosi a veder fallire le riforme più rivoluzionarie in arrivo, dal taglio delle tasse al reddito garantito. Finale già scritto: seguirà la classica restaurazione di potere «affidata come sempre ad ex comunisti ed ex democristiani», cioè le correnti consociative e iper-eurocratiche incarnate dal Pd, l’erede dell’Ulivo fondato da Romano Prodi, l’uomo dei poteri forti che ha azzoppato l’Italia amputando l’Iri, vero motore del sistema industriale del made in Italy. Riusciranno Di Maio e Salvini a sfuggire a un deludente destino che sembra già scritto? Difficile, sostiene Carpeoro, visto che è proprio il super-potere (grazie a Berlusconi) a dare il via a questa rivoluzione solo apparente.«Chiedetevi come mai, dopo anni di interdizione assoluta, Berlusconi viene improvvisamente riabilitato, un minuto dopo aver concesso a Salvini il via libera per fare il governo con Di Maio». Traduzione: è proprio l’establishment a volere quel governo, nonostante le apparenze. Se le cose stanno così, è praticamente impossibile aspettarsi qualcosa di veramente buono, per gli italiani. Analisi firmata da Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Io alle coincidenze non credo affatto», premette Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” ha sviluppato il tema della “sovragestione” dei grandi poteri finanziari, spesso massonici, che pilotano le vicende politiche nazionali. Ma se il presunto “crimine” politico sarebbe la manovra dietro le quinte – il premio al Cavaliere, nuovamente candidabile – per aver consentito il varo dell’esecutivo retto da Salvini e Di Maio, quale sarebbe l’altrettanto ipotetico “movente”? Semplice, per Carpeoro: «Prendere tempo, dando modo al Pd di riprendersi e tornare a essere il vero “braccio armato” di questa inguardabile Unione Europea», cioè del regime fondato sul rigore e diretto dall’élite finanziaria.
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Dezzani: Draghi punta sui 5 Stelle, scommette contro di noi
Mario Draghi e l’élite economica italiana puntano ormai sui 5 Stelle e scommettono contro l’Italia, per ultimare la svendita dell’industria: il nostro futuro si fa sempre più minaccioso man mano che il 2018 si avvicina. All’incertezza elettorale si somma un quadro europeo ostile: la Germania non ha alcuna intenzione di concederci sconti. Forse Berlino è disposta a sobbarcarsi la Francia per ragioni geopolitiche, mentre dell’Italia le interessa solo il Veneto. Si avvicina «un commissariamento esplicito o subdolo, sulla falsariga del governo Monti», scrive Federico Dezzani. E se in Germania dovesse prevalere una linea ancora più rigorista, «non si potrebbe neanche escludere l’imposizione di un “default ordinato”». Di fronte a questo scenario, sostiene l’analista, l’Italia sarà costretta a scegliere: capitolazione o uscita dall’euro. Un soccorso, per sottrarsi all’attacco della Germania, «può venire soltanto dalle potenze emergenti». I prossimi 12-18 mesi saranno cruciali per il futuro del nostro paese e della stessa Europa, insiste Dezzani: il “nuovo sacco di Roma” è stato già preparato da Germania e Francia. L’Italia deve quindi «stringere una serie di alleanze internazionali per evitare un tristissimo epilogo». Anche perché gli “Stati Uniti d’Europa”, ammesso che qualcuno li abbia mai davvero presi in considerazione, «sono stati ormai scartati da anni».Il vertice a Deauville dell’ottobre 2010, cui parteciparono Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, secondo Dezzani può essere considerato lo spartiacque che separa il progetto dell’Europa allargata da quello dell’Europa franco-tedesca, moderna riproposizione dell’Impero Carolingio. È un disegno che non soddisfa pienamente gli Usa (Dezzani lo deduce dagli attacchi al sistema-Germania, come Volkswagen e Deutsche Bank), ma ha il probabile assenso della Gran Bretagna (da cui il tentativo di fondere Lse-Deutsche Boerse e l’uscita dall’Unione Europea per facilitare i piani federativi di Angela Merkel e Macron). All’interno della coppia franco-tedesca, la posizione dominante spetta ovviamente alla Germania, la cui prestazioni economiche e finanziarie surclassano quelle della Francia. Probabilmente Berlino, se ragionasse in termini meramente egoistici – continua Dezzani – procederebbe con l’integrazione politica della sola area euro-marco (Austria, Olanda, Slovenia, Lussemburgo, Slovacchia, Estonia, Finlandia). «Ma ragioni di natura geopolitica la inducono a sobbarcarsi anche la storica rivale: la Francia dispone ancora di un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, è dotata di testate atomiche e, se abbandonata a se stessa, rischia di scivolare verso pericolose posizioni revanchiste-nazionaliste».In ogni caso, qualsiasi proposta di ulteriore integrazione europea, come l’introduzione di eurobond, è ormai circoscritta all’asse franco-tedesco. «E gli ultimi sviluppi politici in Germania, dove la destra nazionalista è in forte crescita, chiudono la porta a qualsiasi integrazione a 27 (complicando persino la convergenza tra Emmanuel Macron e Angela Merkel)», continua Dezzani. Il “resto” dell’Europa, invece, nell’ottica franco-tedesca ha un valore modesto: «Non dispiacerebbe, se possibile, annettere al neo-impero carolingio la Catalogna, regione sviluppata e contigua alla Francia. Farebbe gola anche quella “Padania” che Gianfranco Miglio sognava di federare alla Germania: il Triveneto, in particolare, è il naturale sbocco della Germania sul Mar Adriatico». E non è un caso se Luca Zaia, esponente della vecchia Lega Nord, «abbia presentato il recente referendum sull’autonomia come “una risposta al plebiscito del 18662”, che separò Venezia ed il suo retroterra all’orbita germanica». La penisola italiana nel suo complesso, però – aggiunge l’analista – non è nei desideri di Berlino. E l’improvvisa ricomparsa dei secessionismi “insulari”, in primis quello sardo, testimonia che altre cancellerie europee (Londra in testa) sono interessate allo “spezzatino” dell’Italia.«Se la Germania non ha intenzione di spendere un centesimo perché Roma rimanga agganciata all’Eurozona – ragiona Dezzani – è solo questione di tempo prima che la situazione dell’Italia, sottoposta a letali dosi di austerità (perché “smetta di vivere al di sopra dei propri mezzi”), si faccia insostenibile». In prossimità del 2018, a distanza di sette anni dall’imposizione delle ricette della Troika, l’Italia è allo stremo: «Il rapporto debito pubblico/Pil ha raggiunto livelli record», mentre «la caduta verticale dell’attività economica ha gonfiato i bilanci delle banche di crediti inesigibili». Gli indicatori occupazionali e demografici, poi, sono drammatici: «Il Sud Italia e alcune aree del Nord stanno sperimentando un vero processo di desertificazione». Se la Germania avesse interesse a tenere la penisola nell’euro, continua Dezzani, dovrebbe immediatamente invertire marcia. «Invece, tutti i segnali che provengono dal Nord vanno nella direzione di un ulteriore inasprimento dell’austerità: il testamento politico di Wolfgang Schäuble, lasciato al prossimo ministro delle finanze (un liberale ultra-rigorista?), contempla apertamente il “default ordinato” per i membri dell’Eurozona». E pesa anche il recente “ammonimento” del vicepresidente della Commissione Europea, il finlandese Jyrki Katainen, sulla «necessità di varare una manovra-bis subito dopo le elezioni». Una conferma: «Berlino non intende fare alcuno sconto all’Italia in materia di riduzione/contenimento del debito».Nel 2018, quindi, per Dezzani l’Italia avrà di fronte due strade: «La capitolazione di fronte all’asse franco-tedesco o l’uscita dall’Eurozona». La prima soluzione equivarrebbe ad inasprire ulteriormente le politiche sul lato dell’offerta (tagli alla sanità e pensioni, licenziamenti). Vorrebbe dire «taglieggiare il risparmio privato (prelievo sui conti o patrimoniale), saccheggiare quel che rimane del patrimonio pubblico (riserve di Bankitalia, immobili e partecipate) e lasciare che le ultime medie-grandi imprese italiane passino in mano straniera». Secondo Dezzani, a premere per questa soluzione è il “partito Draghi” (o “partito Bilderberg”) «che annovera, oltre al governatore della Bce, Ignazio Visco, Giorgio Napolitano, Eugenio Scalfari, Ferruccio De Bortoli, Carlo De Benedetti, Paolo Mieli, Mario Monti, Romano Prodi, gli Agnelli-Elkann». Sempre secondo Dezzani, in viste delle politiche 2016 il “partito Draghi” «punta sulla vittoria elettorale del Movimento 5 Stelle, cui andrebbe sommata in Parlamento la sinistra “prodiana”: il reddito di cittadinanza o provvedimenti analoghi sarebbero ottimi paraventi per completare con discrezione la definitiva spoliazione dell’Italia».La seconda opzione, invece, prevede l’abbandono dell’Eurozona di fronte ai diktat franco-tedeschi sempre più gravosi e umilianti. «L’uscita dalla moneta unica sarebbe emergenziale, dettata dal semplice istinto di sopravvivenza del nostro paese: non esiste al momento “un partito dell’uscita dall’euro” analogo a quello che preme per il commissariamento», osserva Dezzani: «Formazioni come la Lega Nord si sono appropriate della causa anti-euro per meri fini elettorali, senza possedere né prevedere alcun programma concreto per l’Italexit». Se non altro, «la vittoria della destra alle politiche del 2018 favorirebbe senza dubbio questa strada», secondo l’analista, che fa notare che «l’unico “boiardo di Stato” ad aver apertamente contemplato un “piano B” è stato l’economista Paolo Savona, ex-ministro del governo Ciampi». Eppure, nonostante il “partito dell’uscita dall’euro” sia ancora in gestazione, «c’è da scommettere che cresca in fretta nel corso del 2018 e, entro la fine dell’anno, prenda il sopravvento».Il progetto federativo europeo «è ormai morto», ribadisce Dezzani. E quindi, «arrendersi al commissariamento franco-tedesco significherebbe soltanto abbandonare l’Eurozona con 2-3 anni di ritardo, spogliati di ogni ricchezza residua (proprio come i governi Monti-Letta-Renzi hanno favorito il saccheggio del paese, anziché risanare le finanze)». Gli squilibri sul mercato interbancario europeo (ben visibili dai saldi dal sistema Target 2), secondo l’analista «lasciano pensare che nel mondo della finanza continentale ci si stia preparando per una Italexit nel corso dei prossimi dodici mesi». Osserva Dezzani: «Mai le banche tedesche hanno accumulato così tanto denaro presso la Bundesbank e mai, specularmente, le banche italiane si sono indebitate in maniera così alta presso Bankitalia». Un’imminente uscita dall’euro, quindi, per non essere schiacciati: contando su quali alleanze internazionali? «Evaporate in fretta le speranze riposte in Donald Trump, totalmente paralizzato dagli intrighi di Washington, solo le potenze emergenti hanno interesse a sostenere la svolta italiana: un terremoto finanziario, quindi, e geopolitico».Mario Draghi e l’élite economica italiana puntano ormai sui 5 Stelle e scommettono contro l’Italia, per ultimare la svendita dell’industria: il nostro futuro si fa sempre più minaccioso man mano che il 2018 si avvicina. All’incertezza elettorale si somma un quadro europeo ostile: la Germania non ha alcuna intenzione di concederci sconti. Forse Berlino è disposta a sobbarcarsi la Francia per ragioni geopolitiche, mentre dell’Italia le interessa solo il Veneto. Si avvicina «un commissariamento esplicito o subdolo, sulla falsariga del governo Monti», scrive Federico Dezzani. E se in Germania dovesse prevalere una linea ancora più rigorista, «non si potrebbe neanche escludere l’imposizione di un “default ordinato”». Di fronte a questo scenario, sostiene l’analista, l’Italia sarà costretta a scegliere: capitolazione o uscita dall’euro. Un soccorso, per sottrarsi all’attacco della Germania, «può venire soltanto dalle potenze emergenti». I prossimi 12-18 mesi saranno cruciali per il futuro del nostro paese e della stessa Europa, insiste Dezzani: il “nuovo sacco di Roma” è stato già preparato da Germania e Francia. L’Italia deve quindi «stringere una serie di alleanze internazionali per evitare un tristissimo epilogo». Anche perché gli “Stati Uniti d’Europa”, ammesso che qualcuno li abbia mai davvero presi in considerazione, «sono stati ormai scartati da anni».
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Bufera su Visco, ma silenzio sul retroscena (supermassonico)
Si può anche chiamarla massoneria, ma la definizione è imprecisa: perché non tutti gli affiliati alle superlogge internazionali sono stati iniziati all’obbedienza massonica. Forse non ha mai indossato il grembiulino neppure l’uomo attualmente nella bufera, Ignazio Visco, in quota alla Ur-Lodge reazionaria “Edmund Burke”, difeso da Giorgio Napolitano (superloggia “Three Eyes”, come il ministro Padoan) e attaccato da Matteo Renzi, «che non è massone ma ha ripetutamente bussato – invano, finora – alle stesse reti: quelle della aristocrazia supermassonica neo-conservatrice, attraverso entità paramassoniche come il potentissimo Council on Foreign Relations, di Washington». L’autore di queste indicazioni sulla presunta identità supermassonica del vero potere è Gioele Magaldi, già gran maestro del Goi e poi affiliato alla Ur-Lodge progressista “Thomas Paine”. Nel 2014 Magaldi ha dato alle stampe “Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere e trasformatosi in bestseller-fantasma: solo il “Fatto Quotidiano” l’ha adeguatamente recensito, nel silenzio assordante dei grandi media. Che peraltro continunano a ignorare Magaldi, anche quando parla di massoneria italiana e di casi scottanti come l’affare Mps, su cui pesa tra l’altro anche lo strano “suicidio” di David Rossi.«Anziché attaccare il Grande Oriente per le vicende provinciali di Banca Etruria – afferma Magaldi, oggi presidente del Movimento Roosevelt – giornali e televisioni farebbero meglio a interrogarsi sul ruolo di Mario Draghi e Anna Maria Tarantola, poi ministra di Monti: erano al vertice di Bankitalia quando la banca centrale avrebbe dovuto vigilare sull’operato del Montepaschi». Analoga polemica con Ferruccio De Bortoli, già direttore del “Corriere della Sera”: «Si parla genericamente di massoneria, in relazione a piccole vicende locali, mentre si continua a ignorare il ruolo supermassonico di primo piano rivestito in Italia, per conto di reti internazionali, da personalità come Monti, Draghi, la stessa Tarantola, l’ex presidente Napolitano e l’attuale ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan». Sotto il fuoco renziano è ora finito Ignazio Visco? Non una parola, dal mainstream, sul possibile retroterra comune dei contendenti, legati a influenti “salotti” non italiani. Silenzio anche sul ruolo della banca centrale, a cui un altro supermassone, l’eurocrate Carlo Azeglio Ciampi, “staccò la spina” nel 1980, facendo in modo che Bankitalia cessasse di fungere da “bancomat del governo”, a costo zero, costringendo lo Stato – per finanziare il debito pubblico – a rivolgersi all’esosa finanza internazionale, mettendo all’asta i propri bond. Risultato: una falla rovinosa nel debito italiano, perfetta per indebolire il paese di fronte all’eurocrazia.«La messa alla berlina del governatore Visco ad opera della maggioranza piddina rappresenta un patetico scaricabarile politico», scrive Alberto Bagnai sul blog “Goofynomics”, che parla di «modus paraculandi». Bankitalia non vigilava adeguatamente sulla crisi delle banche italiane? Consob neppure? Chi, onestamente, può dire il contrario? «Ma pensiamo davvero che Visco e Fazio fossero degli incompetenti, dei dilettanti? Se così fosse – aggiunge Bagnai – la loro nomina ad opera della classe dirigente che ancora oggi si ripropone come insostituibile oligarchia dovrebbe suscitare alcune domande anche nell’elettore più superficiale». Forse, continua Bagnai, la causa di tante “sviste” ad opera degli organismi di controllo esterni e interni alle banche italiane «era imputabile non all’umana pochezza ma ad un’altra causa: ad un vincolo esterno». Più precisamente «a un chiaro e inequivocabile ordine di scuderia», emanato in sede europea. «Un ordine al quale tutti, ma proprio tutti, dai vertici Bce fin al più passivo sindaco e revisore della più piccola banca territoriale», dovevano sottostare. Ovvero: «Non intralciare l’enorme arbitraggio finanziario reso possibile dal Trattato di Maastricht e dall’unione monetaria».Arbitraggio? «Così si chiama il prendere a prestito nel nucleo e prestare con spread ai mal-investitori della periferia senza subire rischi di cambio e senza alcun controllo sui movimenti dei capitali», spiega l’economista. «Una colossale macchina da soldi, la cui già enorme potenza era ulteriormente amplificata dal mercato dei derivati, grazie al quale si diluivano i rischi di credito nell’oceano degli ignari e polverizzati investitori globali». In pratica, una droga: «Come nel narcotraffico fisico, nel narcotraffico finanziario tutti si sono sporcati le mani: i coltivatori (ingegneri e top manager finanziari), i cartelli dei trafficanti (le grandi banche del nucleo, cresciute in “Germagna” sino a diventare uno Stato nello Stato), i cartelli degli spacciatori e la loro rete di “down the line dealers” (le grandi banche commerciali periferiche e le numerose banchette che le contornano)». E poi anche «i governi, i responsabili dei controlli a tutti i livelli: pubblici e privati, nazionali e internazionali, i partiti e le forze politiche, tutti pro-Maastricht e pro-euro (ricordo che la “Costituzione europea” da noi fu votata all’unanimità e il Fiscal Compact con dibattito praticamente zero»).E’ stato questo il “miracolo” dell’euro, sintetizza Bagnai con sarcasmo: «È stata questa la fonte di accumulo di capitale finanziario che ora permette la fase due: sfruttare la mobilità incontrollata del lavoro». Quindi, «cari moralisti falliti e vigliacchi – chiosa l’economista – chi di voi è senza Maastricht scagli la prima pietra». Se è difficile leggere analisi di questo tenore sulla grande stampa, o tantomeno ascoltarle in televisione, è addirittura impensabile imbattersi in spiegazioni dettagliate su quello che Bagnai chiama “vincolo esterno”. La piaga del neoliberismo finanziario in versione europea ha drasticamente impoverito centinaia di milioni di persone? Certamente, osserva Magaldi, ma bisogna pur sapere che ogni piano – compreso questo – cammina sulle gambe di individui precisi, accuratamente selezionati da un’élite occulta per occupare posti-chiave. Rarissimo che l’oligarchia si dichiari: è accaduto di recente in Francia, quando il supermassone reazionario Jacques Attali ha rivendicato la partenità del progetto che ha portato all’Eliseo la sua creatura, Emmanuel Macron, già dirigente della Banca Rothschild. In Italia, invece, si sorvola regolarmente anche su un altro difensore di Ignazio Visco: Romano Prodi. «Ne parlerò nel sequel di “Massoni”, di prossima uscita», annuncia Magaldi.«Pessimo interprete di questa globalizzazione privatizzatrice», l’ex premier ulivista, ex presidente della Commissione Europea nonché advisor di Goldman Sachs: benché ufficialmente “progressista” sarebbe anch’esso «affiliato a quelle potenti reti supermassoniche internazionali che hanno progettato la grande crisi, in termini di svuotamento della democrazia e colossale trasferimento della ricchezza dal basso verso l’alto», sostiene Magaldi. La stampa ne coglie sempre e solo gli effetti terminali – la disoccupazione, la crisi dei risparmiatori colpiti dai crack bancari – evitando però sempre di inquadrare il disegno, i suoi architetti occulti e i relativi interpreti locali. Non stupisce che giornali e televisioni continuino a ignorare le rivelazioni di Magaldi, che forniscono un’inedita geografia del vero potere. Tra le 36 superlogge mondiali, da cui dipendono entità paramassoniche come il Bilderberg e la stessa Trilaterale, spicca il ruolo nefasto svolto negli ultimi decenni dalle Ur-Lodges neoaristocratiche e oligarchiche, come la “Edmund Burke”, la “Compass Star-Rose”, la “Leviathan”, la “White Eagle”, senza contare la potentissima “Three Eyes” (Kissinger, Rockefeller, Rothschild) e la “Hathor Pentalpha” fondata dai Bush, secondo Magaldi con intenti addirittura terroristici (11 Settembre, Al-Qaeda, Isis).A valle, la mappa del back-office del potere si rifletterebbe in Italia – come in ogni altro paese, non solo occidentale – nel reticolo dei leader locali: Magaldi ha ripetutamente indicato l’appartenenza di Giorgio Napolitano alla “Three Eyes” (la stessa di Attali). Della “Three Eyes” farebbero parte anche Padoan e Draghi, Gianfelice Rocca (Techint) e Giuseppe Recchi (costruzioni), Marta Dassù (Finmeccanica), Enrico Tommaso Cucchiani (banchiere, già a capo di Intesa Sanpaolo) e l’ex ministra renziana Federica Guidi. Altri circuiti della stessa supermassoneria neo-conservatrice sarebbero rappresentati da uomini affiliati a Ur-Lodges come la “Babel Tower” (Mario Monti), la “Compass Star-Rose” (Fabrizio Saccomanni, Massimo D’Alema, Vittorio Grilli), la “Atlantis-Aletheia” (Corrado Passera), la “Pan-Europa” (Alfredo Ambrosetti, Emma Marcegaglia). Ignazio Visco, l’attuale governatore di Bankitalia, sarebbe invece legato alla “Edmund Burke” (insieme all’ex ministro dell’economia Domenico Siniscalco). Ma non c’è caso che ne si faccia cenno, nelle cronache: tutto finirà, come sempre, attorno alle chiacchiere di Renzi, più quelle su Renzi e quelle contro Renzi, senza spiegare verso quali scogli sta andando la nave, e per ordine di chi.Si può anche chiamarla massoneria, ma la definizione è imprecisa: perché non tutti gli affiliati alle superlogge internazionali sono stati iniziati all’obbedienza massonica. Forse non ha mai indossato il grembiulino neppure l’uomo attualmente nella bufera, Ignazio Visco, in quota alla Ur-Lodge reazionaria “Edmund Burke”, difeso da Giorgio Napolitano (superloggia “Three Eyes”, come il ministro Padoan) e attaccato da Matteo Renzi, «che non è massone ma ha ripetutamente bussato – invano, finora – alle stesse reti: quelle della aristocrazia supermassonica neo-conservatrice, attraverso entità paramassoniche come il potentissimo Council on Foreign Relations, di Washington». L’autore di queste indicazioni sulla presunta identità supermassonica del vero potere è Gioele Magaldi, già gran maestro del Goi e poi affiliato alla Ur-Lodge progressista “Thomas Paine”. Nel 2014 Magaldi ha dato alle stampe “Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere e trasformatosi in bestseller-fantasma: solo il “Fatto Quotidiano” l’ha adeguatamente recensito, nel silenzio assordante dei grandi media. Che peraltro continunano a ignorare Magaldi, anche quando parla di massoneria italiana e di casi scottanti come l’affare Mps, su cui pesa tra l’altro lo strano “suicidio” di David Rossi.
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Sogni d’oro, Italia: il superpotere Ue festeggia il Rosatellum
Aveva ben presente, l’allora giovane rottamatore Renzi, quale fosse il cuore del problema: metter fine alla sciatteria di una farsa, recitata da partiti impresentabili. Un acquario virtuale, dentro cui c’erano mille sigle ma mancava la bandiera fondamentale, quella dell’Italia: il calpestato popolo italiano, non più sovrano né decentemente rappresentato nelle sue istanze fondamentali. Solo che il Matteo ne ha organizzata un’altra, di farsa – la sua – limitandosi a fingere di rottamare un sistema ingessato, perfettamente funzionale alla grande oligarchia affaristica internazionale, con i suoi terminali nella piccola oligarchia nazionale. E’ stato ferocemente boicottato, Renzi, e poi si è auto-affondato con un referendum sbilenco. Ma intanto gli era già caduta la maschera: il suo dirompente potenziale comunicativo l’aveva sprecato scagliandolo appositamente fuori bersaglio, contro ipotetici mulini a vento (le “auto blu” grillesche, la “casta”, gli “sprechi”), sparacchiando a casaccio contro l’antropologia partitocratica, per poi affrettarsi a svendere gioielli di famiglia (Poste Italiane) mettendosi in coda: ecco, sono io il nuovo feudatario, è con me che dovete parlare per continuare il grande saccheggio. “Sburocratizzare”, è stata la sua parola d’ordine, perfettamente adatta a evitare di sfiorare l’unica vera burocrazia nefasta, quella di Buxelles, da cui l’Italia è intrappolata.Oggi si indignano, i dinosauri dell’Ulivo, di fronte allo spettacolo dell’ultima legge elettorale imposta con la forza, manu militari, arrivando a rimpiangere il Berlusconi del Porcellum, avversato con autentico odio per vent’anni, salvo poi spalancare le porte a Mario Monti, al pareggio di bilancio, al Fiscal Compact, alla legge Fornero sulle pensioni. Non una parola di autocritica dalla sfinge Prodi – demolitore dell’Iri, fanatico supporter dell’euro e del Trattato di Maastricht, presidente della Commissione Europea, super-privatizzatore, advisor europeo di Goldman Sachs. Contro Renzi si agita D’Alema, che vantò il record europeo delle privatizzazioni all’epoca in cui aveva trasformato Palazzo Chigi in una merchant bank. E sul già famerigerato Rosatellum si abbattono i fulmini dei grillini, ben decisi anche loro – esattamente come Renzi – a non sfiorare nemmeno lo zerbino di Bruxelles, astenendosi da qualsiasi proposta per contrastare la super-oligarchia Ue-Nato, i diktat di Juncker e Merkel, le sanzioni alla Russia, l’infame euro-sistema, le regole intoccabili dell’austerity. Inservibili, anche loro: buoni solo a drenare rabbia, illudendo un elettore su tre di poter votare per il meno peggio. Alla freschezza spontanea di una base di militanti e attivisti è stato imposto un regime di caserma, con ordini impartiti dall’alto ed eseguiti a comando da figure debolissime, come l’avatar Di Maio.Piangono un po’ tutti, per la nuova super-schifezza elettorale, perché sanno di dover recitare – per un riflesso di decenza – almeno l’avanspettacolo del pianto. Ma sono ben contenti di aver rinnovato l’abbonamento a vita alla palude, l’acquitrino dove ciascun nuotatore sa perfettamente che non deciderà nulla, dovendo limitarsi a ratificare scelte adottate fuori dall’Italia. Il nuovo concorso-poltrone, progettato per un potere piccolo e senza idee (quello dei Letta, dei Gentiloni) dimostra solo che l’Italia continuerà a restare innocua e sottomessa, inoffensiva, di fronte ai grandi poteri che si trincerano dietro la Merkel e Macron. Un’Italia inerte, alla deriva nel Mediterraneo, in balia di un equipaggio inaffidabile, mediocre, mercenario. Non uno straccio di idea, di progetto per il paese. Meno tasse e più servizi? Investimenti strategici per uscire dalla cosiddetta crisi? Servono soldi, ma per metterli a bilancio bisogna litigare coi signori dell’Europa. Troppa fatica, troppi rischi. Meglio restare a guardare la nave che lentamente affonda, tenendosi stretti alla poltrona riconquistata con il sotterfugio di una legge elettorale che imbarazza persino chi l’ha imposta. Grasse risate, come al solito, da Parigi a Berlino: sogni d’oro, Italia. Nessuno disturberà il manovratore.Aveva ben presente, l’allora giovane rottamatore Renzi, quale fosse il cuore del problema: metter fine alla sciatteria di una farsa, recitata da partiti impresentabili. Un acquario virtuale, dentro cui c’erano mille sigle ma mancava la bandiera fondamentale, quella dell’Italia: il calpestato popolo italiano, non più sovrano né decentemente rappresentato nelle sue istanze fondamentali. Solo che il Matteo ne ha organizzata un’altra, di farsa – la sua – limitandosi a fingere di rottamare un sistema ingessato, perfettamente funzionale alla grande oligarchia affaristica internazionale, con i suoi terminali nella piccola oligarchia nazionale. E’ stato ferocemente boicottato, Renzi, e poi si è auto-affondato con un referendum sbilenco. Ma intanto gli era già caduta la maschera: il suo dirompente potenziale comunicativo l’aveva sprecato scagliandolo appositamente fuori bersaglio, contro ipotetici mulini a vento (le “auto blu” grillesche, la “casta”, gli “sprechi”), sparacchiando a casaccio contro l’antropologia partitocratica, per poi affrettarsi a svendere gioielli di famiglia (Poste Italiane) mettendosi in coda: ecco, sono io il nuovo feudatario, è con me che dovete parlare per continuare il grande saccheggio. “Sburocratizzare”, è stata la sua parola d’ordine, perfettamente adatta a evitare di impensierire l’unica vera burocrazia nefasta, quella di Bruxelles, da cui l’Italia è intrappolata.
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Rancore, odiografia dei sinistrati: D’Alema, Prodi, Bersani
Perché a sinistra ci si odia così tanto? Intanto non è una cosa di adesso, ma antica. E ha anche un’origine nobile, quasi prometeica. Essendo nata la sinistra come una forza che voleva cambiare il mondo, ogni dirigente si è sentito sempre interprete di una missione salvifica dell’umanità. Come si arriva dal desiderio di cambiare il mondo alla lotta fratricida? Perché chi sta più vicino a te e non la pensa come te diventa un traditore di questa causa, per cui ti senti più in dovere di combattere chi sta vicino a te, che non chi sta più lontano. E così, da un’origine nobile, ne scaturisce una pratica devastante. Nella sinistra è così fin all’inizio. Il movimento operaio, dalla fine dell’800 in poi, è sempre stato una storia di scissioni, lotte intestine e odi personali. A destra la politica è sempre stata vista in maniera più limitata, non come qualcosa che potesse cambiare la storia delle persone. Mentre nell’utopia folle della sinistra si è pensato che si potesse intervenire dall’alto per cambiare l’umanità. Tentativo sconfitto nel secolo breve, con la tragedia della fine del comunismo. Si è dimostrato che la politica non può cambiare l’uomo.La rivalità più feroce? Nella vicenda che porta dal Pci al Pd, gli odi più forti ci sono stati dentro il Pci. Il rapporto tra Veltroni e D’Alema è esemplare. Anche se devo dire che la rivalità più aspra è stata tra Occhetto e D’Alema. Poi si è trasferita tra D’Alema e Veltroni, perché Occhetto voleva Veltroni come suo successore. Anche se poi D’Alema e Veltroni hanno sempre mantenuto un filo. C’è chi dice che ora vadano d’accordo. Non so. Ma pur nel rapporto conflittuale, hanno sempre conservato una misura, anche per ragioni familiari: le figlie si conoscevano. Poi è arrivato l’Ulivo. Ma l’odio non è passato, anzi. È aumentato. Quando nella storia del Pci-Pds-Ds sono arrivati gli ex Dc, tutto è esploso. D’Alema parlò di “amalgama mal riuscito”. Se tu in un corpaccione così strutturato come quello dell’ex Pci ne innesti un altro, quello democristiano, altrettanto strutturato, è chiaro che non può nascere nulla di buono. Mentre Veltroni e D’Alema avevano una storia comune, con gli ex Dc questo non c’era.Una fusione fredda. Ma c’è un altro elemento che ha pesato. La parte ex comunista era fatta da funzionari di partito, che non hanno altro mestiere. Questo sono D’Alema, Bersani e Veltroni, anche se poi Walter un lavoro se l’è inventato. Mentre tra gli ex Dc c’erano più persone con una professione. Prodi, per dire, non solo ha un mestiere, ma è riverito in mezzo mondo. Non rimane a piedi quando viene emarginato nello scontro politico. Pure Renzi non ha un lavoro, ma ha quarant’anni. È un politico moderno e, come ha detto lui stesso, se smette con la politica può andarsene in giro per il mondo a fare il conferenziere. Prodi e Renzi, in questo senso sono simili: hanno attirato livori profondi. Sono simili, ma diversi. Prodi e Renzi sono di sicuro i leader più importanti della parte ex Dc, quelli che prima hanno egemonizzato poi fagocitato gli ex Pci. Vent’anni fa i comunisti non potevano andare al governo in prima persona, per cui si ritrovarono sotto l’egemonia di Prodi che, però, riuscì a tenere il rapporto con gli ex Pci.Prodi non aveva occupato militarmente il partito. Cosa che ha fatto Renzi, facendoli sbroccare anche dal punto di vista personale. Per questo lo odiano tanto. Renzi è stato ed è ancora considerato un corpo estraneo non perché parla di rottamazione o non nomina D’ Alema commissario, ma perché ha occupato il partito. Tutto ciò ha creato una deriva di rancori personali molto forti. Chi è il più livoroso? La risposta scontata è D’Alema, perché il suo livore è esplicito, ha qualcosa finanche di ingenuo. In Prodi il livore è più sofisticato, gestito in maniera più pretesca: si ammanta di bonomia, ma è più acuminato. Poi è fortissimo anche in Bersani: gli emiliani hanno questa apparente bonomia ma che nasconde un fondo sospettoso, che non lascia prigionieri.(Claudio Velardi, dichiarazioni rilasciate a Elisa Calessi di “Libero” per l’intervista “Odiografia dei sinistrati”, ripresa da “Dagospia” il 3 luglio 2017. Già consigliere politico di D’Alema a Palazzo Chigi, Velardi è il creatore di “Reti” e della Fondazione “Ottimisti e razionali”).Perché a sinistra ci si odia così tanto? Intanto non è una cosa di adesso, ma antica. E ha anche un’origine nobile, quasi prometeica. Essendo nata la sinistra come una forza che voleva cambiare il mondo, ogni dirigente si è sentito sempre interprete di una missione salvifica dell’umanità. Come si arriva dal desiderio di cambiare il mondo alla lotta fratricida? Perché chi sta più vicino a te e non la pensa come te diventa un traditore di questa causa, per cui ti senti più in dovere di combattere chi sta vicino a te, che non chi sta più lontano. E così, da un’origine nobile, ne scaturisce una pratica devastante. Nella sinistra è così fin all’inizio. Il movimento operaio, dalla fine dell’800 in poi, è sempre stato una storia di scissioni, lotte intestine e odi personali. A destra la politica è sempre stata vista in maniera più limitata, non come qualcosa che potesse cambiare la storia delle persone. Mentre nell’utopia folle della sinistra si è pensato che si potesse intervenire dall’alto per cambiare l’umanità. Tentativo sconfitto nel secolo breve, con la tragedia della fine del comunismo. Si è dimostrato che la politica non può cambiare l’uomo.